Stampa questa pagina

Un cittadino di Bologna al suo sindaco

Le cose da dire premono e sono le seguenti.

È fuori dubbio che c’è in questo momento in Italia, nonostante le ferie, un polverone tremendo, un vociare sovrapposto; l’unica legge che conta sembra quella del fuoco, anche nelle parole. Sono dunque in atto una violenza esplicita e un’altra implicita, che non solo si sovrappongono ma di volta in volta sembrano manifestarsi come la faccia dello stesso peccato. Tutto questo non tanto come opposizione o contrapposizione agli atti del potere istituito ma avendo come obiettivo quel che si definisce “un potere che si sta costituendo”, vale a dire il nuovo potere del compromesso storico, che ha il suo sostegno e la sua nuova immagine nel P.C.I. per tanto il polverone tremendo e il vociare sovrapposto si accaniscono contro questo P.C.I. Da tale esplose di violenza argomentativa e problematica l’autentica responsabile del trentennale sfascio nazionale sembra, e in effetti è, defilata lontana emarginata; quando non appare, come ad esempio nelle incongrue situazioni torinesi, romane e napoletane seduta sulla carega di una opposizione moralistica, ammonitrice, sibilante. Sicché dentro all’occhio del tifone c’è ancora tutto intero il P.C.I., che potrebbe sembrare il vaso di molte contraddizioni, dunque fragile e immenso nello stesso tempo, forte e tuttavia sempre prossimo a incrinarsi perché buttato dentro ad acque profonde.

Se questo polverone c’è, e se davvero si ascolta (perché sale da varie parti) il vociare sovrapposto, penso che sia impegno urgente e meditato di ogni galantuomo (senza secondi fini che non siano quelli di ricercare la verità dei fatti e le conseguenze della storia) di intervenire come può e sa, non tanto perché il polverone si plachi – anche se vuole questo – ma almeno perché ogni discorso si svolga con la necessaria fermezza e con chiarezza per arrivare a un qualche risultato; cioè a una conclusione utile, che possa aiutarci a capire e a farci uscire dal presente marasma; soprattutto rimettendo in moto un dialogo e un nuovo rapporto coi giovani che si vedono e si sentono emarginati e offesi come i nuovi lebbrosi. E dico utile nel senso della chiarezza, secondo un computo di realismo politico: chiarezza sulle cose appena accadute o che stanno accadendo o che si presume debbano accadere. Perché le cose accadono sempre in qualche modo, e nel modo più orribile, se non sono prevenute o prevedute o capite.

Oggetto della mia lettera-intervento è lo stato della città di Bologna, capoluogo della regione Emilia-Romagna, città universitaria, con 498.000 abitanti e con 60.000 studenti per lo più di fuorivia (di questi circa seimila sono stranieri). Bologna, da trent’anni amministrata da giunte di sinistra e da un sindaco comunista. Bologna, diventata esempio di buon governo in un mare di nequizie. Bologna, infine, dove sono accaduti i fatti di marzo. Quattro giorni che hanno lasciato nella città un trauma che non si è ancora composto; anzi, direi che mentre il dibattito polemico si è frastagliato in molti rivoli senza sollevarsi da una certa rozzezza greve o pigra, il clima politico si è fatto di giorno in giorno, nel rapporto coi giovani, con l’università, con la dissidenza, più rissoso e più contrapposto; quasi che una regia muovesse uomini, cose, dati, incidenti, e stravolgesse i particolari disponendoli in un immediato antagonismo, quale che sia. Lo stesso accade, quasi sempre, negli interventi a voce o a stampa che in questi giorni proliferano avendo per oggetto questa città che, ripeto, è certamente nell’occhio di un tifone.

E arrivo alle domande-risposte che riassumo per procedere con un ordine composto; domande-risposte che cercano di riepilogare i nodi di scontro che hanno costellato questi ultimi mesi ricevendo solo giudizi sommario o definitivi una volta per tutte. Mentre il recupero di una nuova problematicità critica e disinteressata, nel senso della ricerca, consentirebbe di sdipanarli con più rigore, con più verità e con utilità pubblica, per raggiungere una chiarezza che alimenterebbe un dialogo necessario; e per accantonare finalmente la rabbia viscida dei sentimenti offesi. Questi i punti:

  1. A Bologna, nei giorni di marzo, c’è stato un complotto? Contro chi? Da parte di chi?
  2. A Bologna, dopo i fatti di marzo, c’è stata repressione? Una repressione? Da parte di chi? Contro chi?
  3. Se non c’è stato complotto e se non c’è stata repressione, come giudicare quei giorni di violenza, lo schieramento delle polizie armate e la lacerazione che la città ha consumato contro se stessa?
  4. Oppure, se una repressione c’è stata, è servita soltanto a fermare e a isolare i provocatori e si è subito placata o al contrario ha allargato il tiro approfittando tatticamente del favore del vento?
  5. La città di Bologna oggi è di nuovo rassicurata dentro alle sue certezze e alle sue opere sociali oppure è ancora scrutata e sorvegliata, ancora inquieta incerta a causa di questi eventi che l’hanno segnata?
  6. In tutte le vicende seguenti ai fatti, quale il ruolo del Comune? Quale il ruolo dei militanti? Quale il ruolo della stampa locale del Partito?

Zangheri altre volte ha riposto, con decisione, di non avere mai parlato di un complotto ma di una provocazione calcolata e inserita dentro al moto violento degli studenti. Se questa è la risposta si può senz’altro condividere. Infatti c’è stata una provocazione da tempo in frenetica attesa, molto attenta e pronta a manifestarsi, che si è inserita dentro a fatti che furono “improvvisi”, dolorosi, violenti. Però come conseguenza a un tale giudizio si dovrebbe e si vorrebbe subito isolare dal movimento degli studenti in generale gli uomini di questa provocazione, mai identificati (anche se si conoscono legami, ascendenze, finanziatori). Non solo, ma si dovrebbe isolarli anche dai così detti capi studenteschi, sempre in evidenza, che hanno lottato a viso aperto, con errori certo, magari con rabbia – ma che non è mai stata vile. Invece la repressione indiscriminata è cominciata da loro e su loro, perseguendoli e inquisendo con una aggressività “globale” assolutamente deformante.

Non complotto ma provocazione, dunque. Una provocazione calcolata, sovrapposta a un moto più vasto in cui confluivano ragioni obiettive (quindi da esaminare e non da giudicare a quattr’occhi; da capire approfondendo l’analisi). Contro chi, e da parte di chi, questa provocazione? Ripeto anch’io: contro la città perché era questa città e perché da anni rappresentava un obiettivo primario per la criminalizzazione. Tanto più in un momento in cui si stava incalzando e colpendo il movimento operaio, politicamente vigile e impegnato, contrattaccandolo attraverso i meandri di una crisi economica manovrata e gestita. Ne segue una prima conclusione, a mio parere: neppure si sfiorano le cose accadute o correnti a Bologna in questi mesi se non si legano al contesto nazionale e agli avvenimenti in corso. Il P.C.I. che si avvicina all’area governativa presidiata fino a ieri da molossi in agguato; la necessità “ufficiale” di provarlo esigendo garanzie istituzionali in una situazione generale di emergenza (quindi, in loco, l’intera operazione di tutela dell’ordine pubblico affidata ai Corpi del potere centrale); contemporaneamente, in questa straordinaria occasione, cercando di conseguire il risultato atteso e preparato da tanti anni, quello cioè di corrodere la maschera pubblica di una città “nemica”.

All’altra domanda, che fa riferimento alla repressione conseguente alla violenza, rispondo che fin dal principio al mio giudizio si sono manifestate contraddizioni esplicite in ordine alla lettura corretta dei fatti. La repressione c’è stata; anzi, c’è stata una repressione che proprio per essere esercitata a Bologna ha assunto, in pubblico, rilievi macroscopici – e anche questo aspetto è stato poco o male considerato nel corso delle analisi. E invece è da considerare, per allargare il discorso e non per restringersi in una pungolosa difesa. Forse che la repressione di oggi è stata diversa dai tanti momenti repressivi degli anni cinquanta o sessanta? Stavolta la vendetta ufficiale si è esercitata soprattutto contro giovani studenti (e qualche povero anziano), centinaia dei quali furono arrestati con accuse vane, subito scadute; ma dopo settimane o mesi di prevenzione.

Quindi Bologna, per un proposito programmato, questa volta ha subito una repressione doppiamente iniqua: in quanto esercitata coinvolgendola col proposito di inquinarla e isolarla e in quanto si è in qualche modo riusciti a deteriorare il rapporto della città e del suo Comune con la popolazione studentesca. Questo mi sembra il problema più urgente da chiarire; e da chiarire seguendo una prospettiva più approfondita, se si vuole mettere riparo alla spirale di sospetto e anche di rancore residuo che scorre sotto la pelle della città, dividendola.

Come conseguenza delle cose dette, critico l’uso delle notizie specifiche fatto da «l’Unità» nella pagina locale; perché toccando il vivo di una situazione cittadina fortemente turbata, si vorrebbe un’informazione in merito meno polemica e più selettiva e più rigorosa. Basta una verifica delle intitolazioni. O, per esempio, l’avere trasformato un militante certamente scomodo e irrequieto ma cresciuto e conosciuto in città dove si muove e opera e studia con rigore da più di dieci anni in un rivoluzionario ossessivamente pericoloso e ubiquo alla Che Guevara. Farneticamento che non so definire se più tragico nella sua inconcludenza o più grottesco nei suoi risvolti rabelesiani. Lo stesso dico per Radio Alice in generale, raccontata come il fortilizio delle più terribili trame.

La repressione oggi è esaurita? Zangheri ha risposto che Bologna è la città più libera d’Europa. Era e lo è. Ma in questi giorni e dopo quei fatti la città non è più libera come prima, è sottilmente inquinata, irosa; soprattutto è confusa e tesa. Aiutarla a sciogliersi da queste contraddizioni è impegno richiesto a ciascun cittadino democratico, che può subito tradursi a sua volta in una richiesta d chiarezza finalmente esemplare nell’affrontare e selezionare i problemi. Tanto più che l’inquietudine di fondo e lo scollamento che divide almeno le due parti (la parte “ufficiale” e il popolo degli studenti) dipendono in gran parte da una scelta critica immediatamente compiuta dalla sinistra storica che si è proposta non come forza attenta e partecipante (che media e assimila) ma come forza che contraddice e subito si assesta da una parte segnata. Come forza di un potere e non come elemento che coordina una gestione unitaria dal basso. Ha ragione Stame, rimbeccato male in un pezzetto della cronaca locale, quando ci ricorda che il risultato polito più terrificante lo si è visto sulle pietre di piazza Maggiore, nella contrapposizione senza alcuna mediazione argomentativa e quindi senza voce, ma a braccia incrociate, fra operai e studenti.

Ecco perché credo che la situazione chieda di intervenire non con le parole affabili e ufficiali della politica ma con la qualità dei pensieri di nuovo pensati e dei sentimenti “rivisitati”; per dissociare i momenti di questa contraddizione e scomporre una volta per tutte la spirale che alimenta dissensi inveleniti. Tanto più che ottobre è vicino e sessantamila studenti arriveranno con la valigia a interrogare ancora una volta la città che un tempo amavano – e che amano ancora. Ma non saranno più quieti. Bisogna rassicurarli, coinvolgerli, interessarli, convincerli. Con altre parole, che non siano pietre.

Esemplarmente, a questo punto vorrei indicare due momenti storici di travolgente diversità “strutturale” vissuti a Bologna in tempi recenti: il giorno dei funerali dell’Italicus, che resterà memorabile come un momento irripetibile di celebrazione epico-politica senza alcuna mediazione; e il giorno dell’adunata dei duecentomila dopo le quattro giornate del marzo di quest’anno. Lì c’era un rancore trattenuto con forza, una inquietudine che era incertezza; e poi c’era la contrapposizione con ottomila studenti seduti per terra; una contrapposizione terribile e tetra. Voglio dire che oggi c’è bisogno, almeno fra noi, di ritrovare il ritmo e la tensione emotiva e mentale di quell’altro giorno indimenticabile.

Per la domanda sul ruolo assunto dal Comune, risponderei che è stato immediatamente istituzionale, previdente, prevedibile. Secondo me, senza una particolare emozione delle idee; che dovrebbe poi trasformarsi in una intuizione politica e quindi in una partecipazione immediata, che spinge a unire invece di selezionare e dividere, emarginando.

Con preoccupazione, io dico che bisogna compiere un’altra scelta e una svolta, per aggiornare sul modo dell’informazione e per ritrovare, anche solo in parte, un equilibrio che era stato intaccato. Dentro a ciascuno.

Si chiede un adattamento critico alla situazione. Solo così, a mio parere, la grande città di Bologna tornerà libera, come era.

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: articoli su fogli volanti
  • Anno di pubblicazione: inedito
Letto 2288 volte