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Il linguaggio del Festival

1) È un atto di forza (ripetuto annualmente).

2) È una manifestazione, vale a dire uno spettacolo. Una manifestazione propagandistica.

3) Un alto (unico) esempio di tecnologia socio-politica a tutti i livelli (dall’uso della gastronomia a quello tecnico-divulgativo-comunicativo).

4) È un semplice folklore (abbastanza movimentato o varieggiato).

5) È soltanto una fiera paesana dilatata con astuzia e con gusto del Kolossal (quindi commentata e illustrata da mille lampadine).

6) Non è niente o è solo un luogo in cui si mangia – in queste domeniche di settembre.

Domande, risposte, commenti. Al Festival non ci vanno soltanto comunisti; ma anche gli altri, e sono molti; magari con la voglia di far commenti generici o di trovare i peli, tutti i peli nell’uovo (come è anche giusto, d’altra parte). Molti sono giovani, e per questo li seguiamo.

È vero che appena ci entri sei dentro a un gran fumo d’arrosto. In queste notti bolognesi, tutte o quasi splendide, con una luna grassa come strutto, il fumo del castrato e della braciola resta spesso basso e denso a coprire teste e voci come la nebbia nel mese di novembre. Lo mastichi fra i denti. Poi là in fondo, a destra e a sinistra, si vedono subito il ristorante coreano, il ristorante ungherese, quello rumeno, la Fattoria (carni ai ferri e tortellini), il ristorante del Comprensorio (forse cinquecento-seicento posti comodi) con pappardelle alla lepre e con il cervo, il maiale, il coniglio in ogni salsa. Certamente si mangia – e si beve. Certamente si comprano bottiglie di vodka, e di vino rumeno che ha un profumo dolcissimo, a buon prezzo. E via con le sporte. E qualche volantino fra le mani. E sul petto alcune targhette come i polli Arena.

Ma lì pronti ci sono i bambini, diciamo di Ozzano dell’Emilia, che hanno preparato il loro giornale al Centro ragazzi del Festival; e lo distribuiscono; e sono i bambini che hanno fatto le interviste: D. Ti piace il festival? R. Sì, tantissimo. D. Perché sei venuta? R. Perché sono a lavorare allo stand dell’Udi, perché mi interesso dell’emancipazione della donna.

Oppure: D. Che cos hai fatto? R. Io ho solo mangiato, anche se non splendidamente; forse alla sera si mangia meglio. D. Cosa ne pensi del Festival? R. Mi piace perché ci sono molti cartelli e mostre, come allo stand della Regione Emilia-Romagna; credo che siano le cose più utili, più che fare cose che assomigliano al Luna park.

Oppure: alcuni del gruppo (di Ferrara) dicono che il Festival è troppo commercializzato; troppi ristoranti e spettacoli, però c’è da dire che non siamo andati ancora a vedere le mostre che ci sono.

I ragazzi hanno anche illustrato il ciclostilato con un disegno a piena pagina intitolato «Festival dell’Unità»; in alto a destra il sole (un bel sole vivo, di campagna); a metà una lunga riga che segna la strada (il viale d’accesso) e un Manarini a sinistra – alcuni chiamano così gli autobus dell’Atam dal nome del carrozzaio – e una macchina a destra; sotto alla strada quattro alberi; in primo piano un bar con macchina da caffè e il compagno addetto, a braccia spalancate (un bellissimo gesto d’invito); un alberone tondo al centro; tre tavoli e tre seggiole per mangiare. Mentre leggevo, un altoparlante quasi sopra la testa scandiva: «Il compagno Malossi di Minerbio, in cucina per favore».

Le annotazioni precedenti non vogliono essere solo colorite o marginali; ma credo che possano aggiungere qualcosa, e in modo esplicito, a una prima conclusione – abbastanza comune; che il Festival pare proporsi immediatamente due scopi: 1) sorprendere piacevolmente; 2)dare un senso di forza attraverso la quantità (in tutti i sensi, dicono alcuni: dalle persone alle cose). Io aggiungo: 3) dare un senso di funzionalità a tutti i livelli. Tali conclusioni uniscono individualmente conforto psicologico a una tensione politico-militante molto acuta anche se, e cercherò di spiegarmi, per lo più indirizzata nelle generali. Indirizzo «generico», quindi tracciato con motivazioni di presa immediata nella gente, non bisognoso perciò di particolari argomentazioni o di sostegni problematici, rivolto all’antifascismo come moto giustamente indignato della coscienza e alla Resistenza come richiamo a un fatto unitario che è tutt’ora proponibile. Poiché intendo riferirmi, per non cedere a una apologetica rituale, soprattutto alle impressioni, reazioni, critiche del pubblico giovane (il solo che può suggerire con necessaria novità o assolvere con un consenso molto argomentato, in entrambi i casi), si deve dire che l’offerta ufficiale al Festival non è ritenuta completamente esaustiva; l’insieme dei problemi che essa suscita non sempre è accompagnato in dettaglio da proposte alternative o nuove in un senso rigoroso. Nella sostanza, l’obiezione più comune è che il discorso, in ogni senso, è indirizzato contro piuttosto che per qualcosa.

Tutto l’apparato, dicono, dà un senso di forza globale; però questa sensazione è in gran parte suscitata da una ragione già codificata nel sentimento e nella memoria piuttosto che da una presa di coscienza di nuovi problemi che non siano esplicitamente politici; e ciò si può spiegare, dicono, anche con il vuoto che sottostava (sotto molti aspetti) e che da non molto si cerca di colmare, con interventi utili ma non ancora decisivi, al problema della comunicazione. Sembra anche a me questo il punto più importante per esaminare come e cosa comunichi questo Festival.

Per una prima esemplificazione, si potrebbe avvicinare l’operazione ormai annualmente acquisita del Festival a una delle grandi esposizioni industriali, magari anche solo italiane (e una per tutte si potrebbe scegliere, quella di Milano). A parte le diverse necessità e le opposte prospettive, imponenza e importanza sono uguali; entrambe sono connotate da rigore amministrativo, burocratico e tecnologico; entrambe radunano e presentano la gamma più ampia e perfezionata di prodotti; entrambe allargano di anno in anno l’area di intervento e di rapporti, in collegamento con altre economie e diverse ideologie.

Ora la domanda è questa (una delle domande): il Festival che ha scelto, e per me giustamente, di essere un luogo, non un tempio, di stimolo di consensi, di provocazioni, di verifiche anche soltanto esornative e strumentali ma in ogni caso spettacolari, ha subito anche una promozione e un allargamento linguistico (vorrei dire: da traduzione simultanea, in cuffia), oppure resta comunque dialettale e perciò ha un limite, accettato e consegnato, nella quantità e nella qualità dei suoi messaggi? Può arrischiare o addirittura proporsi di impostare discorsi metodologici e ideologici nuovi o diversi, rivolti al proprio pubblico di utenti, oppure deve limitarsi per le circostanze e le scelte precostituite a fare consuntivi vincenti, iconograficamente qualificanti ma immediatamente fruibili da un pubblico soddisfatto (a parte la naturale rabbia politica)? Ad esempio, l’uso del circuito interno televisivo resta limitato alle operazioni e alle manifestazioni programmate, oppure può considerarsi libero e alternativo nel senso di poter recepire le voci di un dissenso improvvisato oppure quelle di un contraddittorio non canonico? In altre parole: potrebbe il sistema di distribuzione della comunicazione del Festival accettare organicamente e uniformemente, vale a dire anche in modo capillare, una quantità di riverifica ideologica immediata, che sarebbe anche necessario promuovere e incanalare ma che può interrompere il fiume quieto e opulento del consenso o del discorso ufficiale? Il teatro, il cinema, considerati per lo più «spettacolo» da una parte del pubblico, sono appaiati abbastanza rapidamente al divertimento «gastronomico»; occorrerà operare in profondo per rompere questo rapporto grezzo e provinciale. D’altra parte i gruppi teatrali sono relegati in un luogo ridotto, e con un appoggio pubblicitario limitato, debbono contare sul solito conforto degli amatori. È necessario trovare e inventare un pubblico nuovo e diverso per questi spettacoli; o suscitare nuove e diverse voglie nel pubblico già attento. Secondo me questo è un problema di base su cui è urgente fermarsi e discutere.

Anche se è vero che, a conforto di questo invito e di questa necessaria speranza che deve realizzarsi, sul viale d’ingresso c’è il padiglione della Cooperazione degli anni ’70, visitando il quale si deduce l’impegno, un nuovo impegno teso «a una proiezione culturale di massa producendo cultura e offrendo canali e strumenti per fare cultura».

Il Festival esaurisce in modo esaustivo gli impegni di sollecitazione politico-morale che gli competono; e, ad esempio, con struggente tenerezza e con la necessaria passione (dentro a un discorso politico rigoroso) muove la memoria nel ricordo fotografico di anni e anni di storia emiliana e italiana; sembra però che non abbia raggiunto ancora il rigore di un discorso nuovo e soprattutto completo, nel senso dell’utilizzazione di tutte le possibilità di comunicazione. Voglio dire che non ha ancora elaborato un discorso organico che possa – per esempio – coinvolgere, invece di interessare soltanto, i giovani. Mi riferisco alla canzone, usata per il tramite del personaggio (esclusivamente) e non per la sua possibile o probabile carica alternativa. Mi riferisco alle piccole compagnie teatrali militanti, costrette a vivere in una indigenza epica e a mortificare di continuo estro e umori (e la grande tensione di ricerca e di novità) nell’impatto contro dure situazioni burocratiche, mancanti di sollecitazioni autentiche e quindi non disponibili od ostiche.

Insomma questo Festival (come in altre occasioni, via via, i festival locali, che però possono essere più rapidamente esaminati in dettaglio) ha proposto in modo urgentissimo la necessità di una più pronta elaborazione della politica della comunicazione; e dell’unificazione di questa politica in un unico centro di ricerca e decisionale. Una politica della gestione della comunicazione. Il Festival insomma dovrebbe proporsi di diventare, anche in modo preminente o comunque nel suo settore specifico, un luogo di incontro e di scontro, di verifica e di programmazione dello spettacolo inteso come fondamentale veicolo comunicativo; e un centro di verifica della comunicazione generale. Tanto che non si potrà più proporre il folklore – per fare un esempio – al modo anomalo di un recupero, di un reperto scavato e salvato dal fiume della storia, dal rimbellimento economicistico o propagandistico di una cultura che si darà per morta. Sarà invece ancora un pezzo vivo di cultura, salvato con le unghie e i denti dall’assalto mortale e dalla violenza del nemico e riproposto come ammonizione e per servire ancora una volta alla lotta.

E per altre strade, ecco la funzione e il peso determinanti, e non complementari, del ciclostilato compilato dai ragazzi; del teatro sperimentale; delle canzoni di un cantautore o di un complesso che cercano solo di cantare; della riverifica di un linguaggio televisivo che non sia mimetico al sugo di Lasciaeraddoppia o del telegiornale. Tutti questi momenti e diversi atti possono diventare oggetto di una programmazione non saltuaria ma che trova nel Festival il coagulo per verifiche immediatamente pubbliche e generali; sciogliendosi anche dall’equivoco del personaggio che spesso condiziona affetti e scelte anche a sinistra, stravolgendo il discorso a un pubblico che potrebbe essere meglio servito in altro modo.

A una domanda dei ragazzi di Ozzano uno ha risposto: c’è molta collaborazione e questa è la nostra forza. Questi magnifici militanti devono proporsi di diventare i destinatari di tutte le necessarie novità della comunicazione; quelle che consentono oltre al numero degli iscritti una forza reale, una presenza reale e la capacità di rompere ogni accerchiamento e ogni isolamento anche nel modo di fare e distribuire le informazioni.

 

 

Rinascita, anno 31, n. 36, 13 settembre 1974.

 

(Questo contributo è stato pubblicato con la collaborazione di Eugenio Chemello e Giovanni Gheriglio)

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: articoli su quotidiani, settimanali e mensili
  • Testata: Rinascita
  • Anno di pubblicazione: anno 31, n. 36, 13 settembre 1974
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