Questi venti anni di Repubblica

L’Italia è grata; e l’Italia è ingrata. Dunque cedete Savoja e Nizza (per l’intelligenza del sillogismo si rimanda alla pagina del Cattaneo, autore che si spera molti avranno letto). Per trasposizione argomentativa potremmo affermare: la repubblica è buona, e la repubblica è cattiva; dunque rimandiamo tutto a domani. E sarebbe questa la maniera più ovvia per dichiarare che le cose sono come sono e conviene prenderne atto. Se la FIAT fabbricasse strumenti per la medicina invece di auto, tutti avremmo ancora la bici ma saremmo gli ammalati più fortunati del mondo, e i più assistiti. Questo è un punto: ciò che facemmo o stiamo facendo è accaduto nella maggior parte delle azioni per volontà altrui, e noi stiamo appena agitati o tesi in un regime di camarille, soloni e burocrati scaltri e dentro a un’economia di mercato.

Il denaro è ancora il grande signore del mondo. (Ci soccorre Russell, per un momento: «È impossibile convincere qualcuno a rinunciare a una parte della sua potenza. Questa è la più tremenda scoperta che ho fatto in questi ultimi anni: gli esseri umani possono venire convinti a fare molte cose, a credere in questo o in quello, a consumare certi tipi di alimenti e non altri, a vestire in un determinato modo, a servire questo o quel Dio, ma è assolutamente impossibile convincere qualcuno a rinunciare a una minima parte della propria forza. Qui sta la chiave di questa storia di lacrime che è il destino dell’uomo»).

Ogni celebrazione assume dunque l’aspetto equivoco di un banchetto in cui il vino si mescola alle lacrime, magari finte; uno spettacolo mimato, accademico e folkloristico. Vediamo come: da una parte si illustrano i meriti «ufficiali» che la prefica dalla tribuna del congresso racconta e numera con orgasmo: il benessere rattrappito e univoco, la pace sociale, la prosperità in campagna, il pieno impiego in città, la lotta contro i rumori, la pulizia delle strade, la costruzione di un ponte e l’esportazione di agrumi; dall’altra sta la realtà abbastanza cruda e monotona nella sua durezza irreversibile che costringe all’impegno della vita (o contro la vita) per ramazzare la capacità di sopravvivere soltanto, non dico di vivere. C’è uno scompenso profondo, che i teorici ufficiali dello Stato di diritto si limitano a ignorare; e che i burocrati dell’ideologia si ostinano a codificare in formule senza più peso. Ma il fatto è che la frattura fra cittadino e nazione, fra uomo e Stato si accentua e si fa micidiale; eliso ogni rapporto, le parti antagoniste si riducono immediatamente agli estremi, attenti al proprio particolare.

La contestazione è affidata a minoranze. È pur vero che esistono, o sopravvivono, queste oasi di autentico rigore (se ne è avuta prova anche recente), ma nella dialettica dei gruppi esercitano soltanto una tensione utopico-morale, che ne rende autentico l’impegno ma ne limita l’esercizio nella pratica della politica quotidiana. Questi «temporali d’opinione» spaventano solo in margine i politici e i detentori del potere economico, pronti a insinuarsi con forbita indifferenza in ogni manifestazione che possa essere illustrata in un’ampia iconografia ufficiale. Ma superando queste argomentazioni generali, che si riferiscono a una situazione presente abbastanza distratta e subdola nell’equivoco e nell’indifferenza conclamata dal di dentro di un pragmatismo soltanto verbale, si può cogliere l’occasione per ribadire la necessità di un pronto ricupero di impegno rivoluzionario «totalizzante», inteso questo come volontà (dopo meditato proposito) di stravolgere (conducendoli) in altro senso e ad altre fini le scadenze e i programmi di lavoro. Le circostanze inducono a ricercare con sempre più deciso rigore la strada non già di collusioni o di rapporti integrativi che si dimostrano sempre equivoci e ritardanti (autentici trabocchetti di cui godono soltanto i furbi) ma quella della diversificazione delle responsabilità comuni, dell’opposizione specifica e senza quartiere, codificata e quotidiana; della durezza che contrasti l’apparente bonomia che seduce; traducendo questo progetto in una opposizione che si impegni a spazzar via la bieca servitù economica, lo schiavismo mimetizzato, i pregiudizi religiosi, i misticismi fasulli, i personalismi ontologici, la vanità del singolo, la sua avidità di potenza.

Si impegni subito, e presto, a voler riformare prima l’uomo, a ripulirlo dalle vecchi incrostazioni che ancora lo seducono per prepararlo a una società nuova. Altrimenti continueremo in eterno a insistere (e persistere) in questa ipotesi di «mondo nuovo» per un uomo invece decrepito, irriducibilmente malato e inutile; autentico appestato; pieno di sconci umori. Perciò non mi sembra sia tempo, o il tempo, di giubilei. Eppure: in un momento di generico ottimismo dei potenti, di calcolo delle alleanze e di abbracciamenti universali (fra i lebbrosi), e al principio dei ludi agostani, una proposta di tal genere, me ne rendo conto da me stesso, quanto poco sia attuale. Persistendo in essa, ne chiedo scusa al lettore.

 

 

Rinascita, anno 23, n. 26, 25 giugno 1966.

 

(Questo contributo è stato pubblicato con la collaborazione di Eugenio Chemello e Giovanni Gheriglio)

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: articoli su quotidiani, settimanali e mensili
  • Testata: Rinascita
  • Anno di pubblicazione: anno 23, n. 26, 25 giugno 1966
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