La libertà di fischiare

È dunque la libertà

di volere. Di parlare.

di dormire

(con qualche sogno annesso).

di parlare

inveire fischiare

dissentire applaudire

osannare.

Di spellarsi le mani

 

 

«La libertà è difficile e fa soffrire». Tale affermazione l’ho ripetuta in una canzone intitolata «Passato e presente» di alcuni anni fa, che è stata anche ascoltata.

Sempre la libertà, una libertà – insistendo nel concetto – l’ho poi raccontata come posso e come so in un testo dell’anno ’80 che qua, poiché siamo in argomento, e solo per comodo, comincio a trascrivere:

 

Descrivo un libertà. Questa libertà. La nostra.

Ahi che la invento. La sento. La vedo, la bevo. La perdo.

La ritrovo sulla campagna, sul mare sulla montagna.

Il pastore la chiama. La cerca il cane.

La libertà grida «ritorno, ritorno; mi sono

allontanata per la città ma adesso ho fame» eccetera.

 

Perché dico si può avere della libertà un’idea che dalle cose ritorna alle cose (cioè alla realtà) attraverso i sentimenti.

Infatti, in entrambi i testi sopra citati, e a parte bontà o efficacia di parole, che sono quelle che sono, volevo concludere (pensandolo anche al presente) a un giudizio per niente sbrigativo o tutto zucchero sulla libertà, che va immunizzata da ogni bacillo retorico e che non è certo quel donnone con la fiamma in mano che sta lì bamba a strinare il culo del cielo; ma che al contrario, e secondo me, si presenta come un sofisticato sistema di fili spinati in movimento, che si intrecciano a ferire, ammonire, incidere, irritare ed esaltare i singoli che vogliono (o decidono di) non lasciarsi incantare. Insomma, per l’insieme degli elementi a mia disposizione, credo che la libertà sia un affare che brucia dentro i duri bisogni di ogni giorno e che non si accontenti (o non basti, per farla esistere) di un solo sguardo o di un’attenzione stanca.

 

Che sia, al contrario, una faccenda assai poco romantica e legata alla scansione fredda di giorni, e per questo insiste per essere accompagnata e difesa non in mille modi ma in un solo modo ripetuto, che è coinvolgente. E la possiamo insegnare ai più giovani, se abbiamo pazienza, umiltà e rispetto per la vita da non consumarla tutta intera per noi; con dentro la nostra libertà che disegna col fiato parole contro i vetri quasi fosse il diamante che segna stridendo il cristallo (e l’ultima di queste parole suona all’incirca proprio così: aspettami; ritorno; ritorno).

 

Mai ferma, piena di ombre e luci che si palpano e sentono, la libertà in cui credo non sta mai in un posto solo, ma è pronta a distendersi, disperarsi, infuriarsi, sostare, arrivare, ripartire; senza mai la voglia di quietarsi, senza mai perder il fiato. È dunque la libertà di volere. Di parlare. Di dormire (con qualche sogno annesso). Di parlare, inveire, fischiare, dissentire, applaudire, osannare. Di spellarsi le mani. Di cavarsi gli occhi per guardare bene bene e fino in fondo il mondo. O è anche la libertà che ci lascia sedere davanti alla porta mentre ascoltiamo il giorno passare, ma credo che ci sia una libertà ancora più vera, più amara, più giusta, più grande; la libertà che ci aspetta sempre: la libertà di ascoltare o, altrettanto travolgente, di poter parlare (se uno vuole farlo). La libertà di non dovere, di non potere tacere. Ho ripetuto più volte che per me la vera morte è il silenzio. È terribile, in molti casi, l’occlusione dei canali ufficiali di comunicazione, al fine di non far passare «la notizia». Una omissione a zero gradi, uno sparo a zero. Un vuoto pestifero, come la carestia. Non è il troppo dire, che fa il fascismo; ma il poco insegnare. Non la declamazione, ma la reticenza. Non l’aggressione verbale, che è sempre (o quasi) arrogante, ma la sottrazione indolore e attenta, cauta, dei segni. Poiché il nostro fine, invece, è di imparare dagli altri o agli altri chiedere o poter chiedere aiuto.

 

Ascoltare chi dice le cose per imparare da chi dice le cose. Senza impazienza. Perché la libertà così perseguita e difesa è faticosa come andare in salita. Ma può portarci a speculare dall’alto, aprendoci l’orizzonte dei pensieri. Se la vita è pazienza anche la libertà è pazienza. E non chiede (quando c’è) di essere trasferita; ma sopporta le ingiurie. Non chiede di differire. Sul suo piede cauto e non effimero si dondola come l’orso. Perché (quando c’è) ciascuno la sente sulla pelle, scivola addosso, lascia il segno.

 

Talvolta sembra poca cosa, o una cosa a cui siamo abituati; mentre è tutto. Questa libertà che non si stringe mai in mano ma si annida dentro di noi pronta a scattare. Che non si può più perdere – e non va perduta. Perché la libertà è. Ed è sempre indiretta, come le grandi ombre dei pensieri. Così è detta dalla voce di Alcide Cervi quando conclude il suo racconto esemplare: «Io vorrei farvi sentire che cos’è avere ottant’anni, aspettarsi la morte da un momento all’altro, e pensare che forse tanto sacrificio non è valso a niente, se ancora odio viene acceso tra gli italiani. Che il cielo si schiarisca, che sull’Italia torni la pace e la concordia, che i nostri motivi ispirino i vivi, che il loro sacrificio scavi profondo nel cuore della terra e degli uomini. Allora sì, mi sarò guadagnato la mia morte, e potrò dire alla madre dolce e affettuosa, alla sposa mia adorata: «la terra non è più come quando tu c’eri, sulla terra si può vivere, e non solo morire di crepacuore. E ai figli, dirò: l’Italia vostra è salva, riposate in pace, figli miei».

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: articoli su quotidiani, settimanali e mensili
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