Opere sussurranti che sanno danzare. Il parere di Roberto Roversi sui lavori di Costerbosa

Sculture da camera sono dette, sul frontespizio del catalogo, dallo stesso autore, le opere che Gabriel (Gabriele Lalatta Costerbosa) si è disposto ad offrire con vigile indipendenza e ansiosa generosa vitalità. E come osservatore molto curioso, posso dire che queste sculture sono disposte (come frammenti di cose sollevati da venti sottili) a muoversi o a indugiare straordinariamente armoniche e leggere nell’aria; meglio, nello spazio. Lì dove possono essere non solo ben guardate ma anche sfiorate dalle mani.

Quello che intimamente coinvolge, almeno me coinvolge, è come queste sculture da camera possano, anzi sappiano percepire e raccogliere ogni vibrazione, ogni respiro, quasi ogni gesto sia pure lievissimo intorno, e mettersi essa stessa a sussurrare, quasi danzare e cantare non per fragilità ma come rianimate da una ebbrezza di nascita; è questo, definendo un’azione completa di comunicazione, che tende a diventare spettacolo corale.

Disponendosi defilato contro l’ossessionante impetuosità Spettacolare di buona parte dell’arte dei nostri giorni, Gabriel riesce a raccogliere e raccontare, dalle minuzie del nostro destino, memorie del passato e intuizioni del futuro; e le raccoglie e le raduna e le riordina quasi sulle mani, come orme vive tuttora da fare alzare in volo più che da collocare, definite e silenti, nella galleria di raccolta.

Ogni sua opera, in effetti, è la conclusione di un percorso di pensiero, o di pensieri.

Ed è inoltre il contrassegno di una davvero notevole indipendenza – direi intraprendenza – nei riguardi degli obblighi ufficiali e istituzionali dell’arte in movimento – che, si sa, può fare tutto ma che quasi sempre, se vuole uscire allo scoperto deve fare i conti con tutto il peso dei poteri in atto.

Ecco perché, a me spettatore, queste «sculture» danno l’avvio a due ordini di riflessioni. La prima è sulla assoluta indipendenza nella collocazione della sua opera; nella decisione e convinzione di avviare e preservare un luogo vivo e attivo; non piccolo museo, non grande galleria ma, come dire?, casa paterna, luogo in cui anche di notte si può ritornare, accendere la luce, e riordinare, toccare, sfiorare, parlare.

Quasi da lucida bottega artigiana dei tempi antichi.

La seconda riflessione, o più particolare e specifica mi induce a prendere atto che questa riduzione all’essenziale riporta ancora una volta a protagonisti della nostra vita e dei nostri sentimenti e dei nostri pensieri – contro, ripeto, la globalità imperante e frastornante – gli attimi brevi e vibranti, le voci che sembravano dimenticate o sperdute. Tanto è vero che l’apparente rugginosa modestia delle opere in oggetto, se appena sfiorate da una luce, splendono.

«Questi strani oggetti», come li definisce con sapiente e scrupolosa e affettuosa ironia Munari. Così è, da spettatore; che invita altri spettatori eventuali a visitare questa «proposta d’arte», sembra davvero non debba lasciare delusi.

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: articoli su quotidiani, settimanali e mensili
  • Testata: la Repubblica
  • Anno di pubblicazione: 16 novembre 2000
Letto 1702 volte Ultima modifica il Mercoledì, 05 Dicembre 2018 15:39