Due righe, tre righe per un tempo ca(la)mitoso. Magari anche quattro righe, specifiche
1. Di sicuro risponderò fuori tema, o male, al quesito propostomi; ma mi voglio dedicare lo stesso premettendo che posso proporre solo alcune considerazioni del tutto personali (per quel che valgono) in ordine a un pacchetto di problemi che sono invece molto impegnativi (L’ascoltare – I giovani – La poesia come un linguaggio – La diversità di questa poesia dai tempi di “Officina” ecc.). Mi valga almeno in piccola parte l’attenzione non di un solo giorno e una pratica diretta sia pure marginale e artigiana in merito ad alcuni aspetti (o momenti) dei problemi suddetti. I quali, è ovvio ma è meglio insistere, meriterebbero e spero che meritino ospitalità e dibattito continuato sulle pagine di questa rivista. Perciò, senza aprire la strada mi azzardo come so ad avviare intanto il discorso. Le mie considerazioni richiedono alcune esemplificazioni preliminari che mi adatto a fare anche se molti potranno scansarle. Infatti è vero che viviamo in tempi tali che un po’ di chiarezza (di sana chiarezza) dentro alla semplicità e un po’ di pazienza dentro all’insistenza non possono fare male; e anche in questo caso, dunque, male non faranno.
2. I maghi ufficiali tendono con ogni mezzo (coercitivo) a far rinculare la situazione della cultura (quindi delle idee) nel recinto in cui devono stare già marchiati i cavalli danzanti; lì, dove il gioco della destrezza spiaccicata sostituisce la voglia integra di fare, di buttarsi nel reale senza tenere conto troppo dei consigli interessati. Tanto più che quella voglia (di fare) è ritenuta tutt’ora abbastanza pericolosa. Da un’altra parte i moralisti in servizio effettivo, demandati anch’essi ufficialmente ad illustrare le coscienze, sono homini ben rodati dall’uso e dall’abuso delle parole distribuite (con) insistenza opprimente; e ben lucidati dentro alle idee, quasi ogni sera battono direttamente a macchina con due dita i fogli di ventidue righe da 55 battute degli exempla quotidiani; mentre i centri accademici ci hanno ormai riferito tutte le definizioni e tutte le conclusioni delle loro scelte che conducono questo e quello diritto all’immortalità, suggerendoci nello stesso tempo di essere soddisfatti dei risultati da essi autorevolmente sottoscritti. Bisogna poi aggiungere, come prima postilla, che questo è anche il tempo dei quarantenni bravini intelligentini scatenati, col borsello pieno di inviti e di articoli, allestitori di giostre serali e di scadenze museografiche; in generale più spietati o insensibili di parecchi loro predecessori (esemplati fino a pochi anni fa come una razza in estinzione). E con una seconda postilla sarebbe opportuno ricordare ancora una volta che le comunicazioni ufficiali ci intrecciano addosso una infinità di girandole decorate per renderci di volta in volta o tranquilli o ammirati o impauriti sia pure dentro a un’angoscia inquieta che non ha precisi legami, e in un mondo che è gestito tempestosamente per fini determinati (il primo dei quali è di privilegiare, comunque, la forza del denaro). Se ne conclude che le nostre curiosità sono non solo pilotate ma educate e sollecitate, secondo schemi che proliferano ambiguamente; e che la sorpresa è sconquassata da una seconda sorpresa sopravveniente, la meraviglia da un’altra meraviglia che esplode nel minuto successivo, il capolavoro da un nuovo capolavoro individuato nel giro della (una) giornata. Perciò a chi è solo spettatore diligente toccherebbe, se non ci si muovesse, subire aspettare beccare; comportandosi con rassegnazione come i polli nei capannoni infuocati maleodoranti degli allevamenti della nostra pianura. Chi si azzarda in qualche modo a contrastare esibendo obiezioni e dimostrandosi addirittura riottoso a lasciarsi inghiottire dalla “grande bocca aspirante”, non può mettere neanche il naso nella sala in cui si svolgono i festini (calibrati) dei consumi intellettuali.
3. Tuttavia bisogna cercare di riproporre, non dico di imporre, qualche segno magari ripetitivo, magari iterativo, d’insofferenza non solo formale ma articolata e motivata. Insofferenza e attenzione; per esempio quelle che possono riservarsi al prato particolare della poesia nostrana: grezza, itinerante, ridondante, spesso spocchiosa, farneticante, pretestuosa, ingenua, sentimentale, interessante, lacerata, viva con furore o un poco abbandonata ai venti eppure interessata a carpire i rumori che girano; mica rassegnata comunque; neanche simile, dopotutto (come alcuni vorrebbero) a una flottiglia di carta che si può affondare con un ramoscello. Noi, dico noi tutti, lasciando di interessarci dei geni, dei maestri, dei sommi poeti del nostro tempo (di questi anni) vediamo piuttosto di interessarci con una serietà legata alla pazienza alla poesia non ancora battezzata dalle gazzette e dai baroni; alla poesia dei molto giovani o dei molto soli e isolati, che non è poi detto che si debba fare per le strade, nei ghetti, nei viali; ma anche per le strade, nei ghetti, nei viali e, aggiungo, nelle fabbriche, negli androni delle case di periferia o delle case “occupate”, oppure dentro a piccole officine personali. Per chi comunica a questo livello di isolamento e di abbandono o comunque con questa discrezione, i tempi sono certamente duri; li paragonerei agli operai oggi in cassa integrazione a zero ore, quindi senza più un futuro e con un presente parecchio disperato (o disperante). Lo vediamo in giro che stanno scomparendo, infatti, le ultime riviste che servivano con decoro e con una certa continuità questa utenza non ufficiale; e non per mancanza di attenzione ma perché è una utenza povera scompaginata frastornata, che andrebbe “incentivata” o ricuperata con mezzi più elaborati, più rapidi, più stimolanti, più puntuali e anche più nuovi (più liberi?) di comunicazione – mentre non sembra più possibile elargire un tal servizio fuori dalle strutture, a causa dei costi tipografici. D’altra parte o – se si vuole – come una conseguenza di ciò, stentano a formarsi e a definirsi nuovi progetti (che comunque sono pochi); non ci sono collane aperte sia pure dentro al rigore, se non quelle beatificanti delle case editrici canoniche. In proprio poco o nulla si può fare; anzi si fa niente (a meno di non inserirsi in un qualche modo nella pista di go-kart in cui svettano molte dive culturali del momento). Sembrerebbe di doversi accontentare a leggere solo le pagine proposteci, tramite i canali ufficiali, dal genio di turno (magari ripescato nei più svariati cantoni al seguito di una politica degli scambi e delle opzioni controllata in modo che anche un modesto autore diventa folgore di guerra nei risvolti stilati dagli uffici stampa). E con questa maschera è presentato; la conferma verrà poi dal crocchiare delle gazze appollaiate sui rami della critica.
4. Le cose dette fin qui (con sussurri e grida) potrebbero riferirsi a uno sfogo personale – voglio sperare non moralistico, perché in questo caso toccherebbe soltanto i sentimenti e non le occasioni; mentre credo che il discorso debba essere portato con urgenza, con insistenza, su alcune necessità di fondo che sovrastano a questi problemi. La prima di queste necessità è di tracciare finalmente un rilevamento delle pubblicazioni periodiche o episodiche, per lo più ciclostilate, che girano come piccoli pesci dentro al mare della cultura “comunata” a braccio. La seconda è di ricavare da questo rilevamento innanzitutto una mappa poi un metodo efficace per organizzare la rete di distribuzione di questo eclettico nevrotico sistema di comunicazione che, è una mia convinzione, dovrebbe puntare sempre più sulla distribuzione locale, legata alla città, alla provincia o alla regione. Uscire da questi limiti riporterebbe il problema dentro alle contraddizioni tradizionali, che lo sappiamo sono oramai invalicabili. A questo modo diverso di organizzarsi dovrebbe sottostare un rapporto in atto, quindi organico e collaudato, fra i vari centri della comunicazione al fine di garantire sul serio una circolarità di rapporti continuati; di rapporti e di segnali. Con lo scambio degli indirizzari; oppure, meglio ancora, con la creazione di una piccola banca centralizzata dei dati e degli indirizzi, a cui liberamente attingere secondo le necessità. Questo indirizzario comune, da alimentarsi senza interruzione, dovrebbe essere “lavorato” con scrupolo, cioè suddiviso per regione, per città, per gruppi di interesse e di periodicità. Inoltre si potrebbero identificare, selezionandoli fra quelli che operano, alcuni centri editoriali (piccole tipografie, cooperative, rotoprint ecc.) disponibili a un lavoro continuato ma competitivo, quasi militante. Oppure, altra ipotesi, si potrebbe allestire, avviare un unico luogo per tutti, sia per la stampa che per il ciclostile. Questa scelta molto più impegnativa richiederebbe di bandire presto una sottoscrizione e di scegliere la località in cui fissarsi (Pesaro, Bologna, Bergamo, Napoli?).
5. Stendo queste piccole note perché gli interessati, a mio parere, non si districheranno dalle maglie di queste “deficenze”, anzi ne resteranno impigliati finendo sul piatto di porcellana delle buone intenzioni e delle profferte ufficiali, se non si renderanno conto che non si può rimandare neanche di un giorno la soluzione di questo manipoletto sincrono di problemi; e quindi se non si affretteranno a rendersi autonomi; non più costretti dalla necessità (o dalle necessità) a un continuo mendicare e peregrinare fra piccole e grandi istituzioni, fra piccoli o grandi centri di potere. Altrimenti finiranno come sempre, dopo una selezione; cioè pelati sconvolti assimilati vezzeggiati scoraggiati usati pagati stravolti distrutti – oppure scalciati brutalmente fuori dal branco. Perché non è in atto alcun genere di pietà, sia pure tattica o dedicata ad accettare i tempi lunghi. Dato che il potere reale è trattenuto da chi ha dovuto sputare le sette camicie per sedere al tavolo col principe. Le cose poi che dovrebbero essere impresse a penna, al ciclostile o a stampa, sulla carta così disposta e pronta a essere distribuita, è problema i cui termini si possono solo esemplificare o strumentalmente definire – lasciando agli strateghi della morte di Marx, agli esegeti del rimpianto facile e del sospiro lungo, l’incarico di tracciarne i diagrammi ma in negativo. Per me, posso ripetere che i giudizi le proposte e i progetti più stimolanti nella loro apparente tumultuosità partono (o provengono) – in ordine a tutti i problemi di fondo del nostro tempo – prevalentemente non dai messaggi ufficiali ma si annidano nelle lettere, nei fogli, nei messaggi, nei segnali dei non integrati; di coloro che non si accontentano del mondo che è (che c’è) e lo vorrebbero fare, contribuendo a farlo. Sono lettere segni messaggi che provengono dai “buchi neri” più remoti o marginali o sconsolati o infiammati – senza stanchezza; e portano il soffio profondo della realtà che non si quieta, anzi che avanza sia pure stridendo. Ho scritto più del dovuto senza adempiere al mio mandato – come temevo. Della lingua, del linguaggio di questi giovanissimi estensori di testi non ancora catturati o non ancora dannati parlerò un’altra volta, in questa sede, se sarò accettato. Oggi mi sono preoccupato preliminarmente del vuoto attraverso il quale la loro voce e i loro segnali andrebbero a perdersi. Ripeto: è urgente allestire i muri contro il vento. E gli steccati contro il leone.
Lengua, n. 0, 1982.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: articoli su riviste
- Testata: Lengua
- Editore: Editrice Flaminia
- Anno di pubblicazione: n. 0, 1982