Una dedizione disperata e mostruosa

Il titolo è una definizione, direi meglio, una conclusione di Leonardo Sinisgalli reperibile in quelle due paginette davvero esemplari premesse, nell’aprile del 1961, alla pubblicazione de «Le poesie di Villa Nuccia» su L’Europa Letteraria. Quando Lorenzo Calogero era morto suicida, da appena un mese. Morto solitario e triste; morto veramente infelice; a Melicuccà, il 24 marzo.

Ma questo eccezionale gruppetto di testi doveva essere pubblicato già prima, il mese precedente («Calogero, così colpito da sventure, senza credito e senza speranze, come sempre fu, ne attendeva la pubblicazione quasi con ansia; le sue lettere sono commoventi al riguardo»), con 18 righe di una annotazione bio-bibliografica che si concludeva con un altro esatto, molto esatto e stimolante, riferimento critico: «Sinisgalli, che è convinto della sua scoperta, ne ripropone qui su L’Europa Letteraria il «caso», non soltanto letterario, che sembra inscriversi tra quelli eccelsi di Campana e di Artaud».

Splendida indicazione, che mi è sempre confermata ad ogni incontro di lettura; ma che può essere, intanto, immediatamente esemplificata dalla prima poesia proposta sulla rivista; e adesso inserita nel volume, a cura di Luigi Tassoni, pubblicato nell’86 da Rubbettino:

 

«Un cipresso, un corpo rettilineo,

una guancia tesa, la tua.

Per questo mi sei sempre in piedi

sempre pallida e vicina,

e poi che una strana superficie

di una meta avevi scorta.

 

Ma forse tu eri più di me di là dal vero

e più di me vicina e si scambiò la strana

superficie tesa con l’effigie di una morta

(ora che monta e rimonta su la luna)

con l’effigie di una morta,

 

che calma e stanca sul fianco con l’effigie sua riposa».

 

Si ascolti l’eccezionale tensione ritmica del testo e la straziata combattuta lacerazione, che non è mai definitiva; perché l’ultimo capo è sempre ripreso a tentare disperatamente un riordino nuovo.

«Ossessivo sperimentatore», appunto; ma non disperso a ricercare solo la forma; invece, in una specie di delirio ebbro, dedicato a esplorare, approfondire, talvolta a calpestare, con amara crudeltà se stesso. Una poesia «pia» e impietosa; lucida e crudele; smarrita nell’impossibile inseguimento di un ordine di vita e illuminata, intenerita – in maniera quasi imprevedibile – dall’attesa, sempre, di qualche evento; di qualche dispaccio; di una presenza alla porta (la donna / beatrice che si incontra a un bivio? su un ponte? quindi la donna / poesia? il fulgore del sentimento di una scoperta che si fissa nella memoria?).

Intorno a queste rapide esplosioni di fuoco, un fuoco pericoloso e difficile, il paesaggio è così poco mediterraneo, così poco coltivato. La luce tende a sperdersi, a smorzarsi in una opacità che riconduce sempre alla sera, cupo ricettacolo di una riflessione che non può avere testimoni. Il paesaggio intorno rimanda piuttosto a «un oceano ghiacciato»; ghiacciato di nulla. Piazza desolazione, perché privo di speranza.

Quindi è molto vero che l’opera di Calogero «è di lettura difficile». Non complicata ma complessa; stravolta sempre in una quantità di indispensabili, minuti, eccezionali dettagli; e dove gli eventi, gli accadimenti «sono allineati in un flusso inesauribile di parole».

È dunque un autore che non si legge, non si può leggere senza grande emozione. Con la decisa volontà, che è conquista esercitata dal testo, di rallentare al massimo il distacco dalla pagina; perché si è come risucchiati in un mitico labirinto (dove tutto è possibile), in cui il richiamo del testo che si disnoda via via sottraendosi a un proprio affannato e doloroso groviglio, scava con forza per compiere l’opera più alta e suggestiva di conquista, di convinzione. Certi testi, credo, sono assoluti.

In calce, è appena il caso di ricontrollare a tutt’oggi l’indifferenza della ufficialità contemporanea per questo autore; e non solo per questo autore. Ma per rintracciare Clemente Rebora, perso nei meandri delle grandi, assorte sale rosminiane a cercare dio con una intensità quasi medievale, e per ricollocarlo nel posto più alto che gli compete per la nostra giusta ammirazione e per la nostra necessità, sono occorsi cinquant’anni.

Calogero, nell’attesa prolungata ha consumato la vita, ma dopo la morte non ha ancora passato il mezzo secolo. Forse nelle terribili stravolgenti novità che sono in atto in questo tempo nella nostra società e naturalmente, in modo implicito ed esplicito, nella nostra cultura, è possibile che si dilaceri il cappio istituzionale retorico accademico che da secoli elargisce il benestare per la notorietà che dura; e che alla fine anche questo vero poeta («la cui operazione temeraria… ha proprio l’indeterminatezza di certe analisi portate sulle quantità sfuggenti, di certe indagini al limite della catastrofe») abbia il riconoscimento, costante e convinto, dovutogli. E che la sua tomba non sia più, foscoloniamente, illacrimata.

 

 

I Quaderni de Battello ebbro, n. 2, aprile 1989

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: articoli su riviste
  • Testata: I quaderni del Battello ebbro
  • Anno di pubblicazione: n 2, aprile 1989
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