La settima zavorra
La settima zavorra1
I. [Gnomica]
Non amo il mio tempo, «questo» tempo; e non lo amo così come lo vedo, da noi, qua mentre presume di aver raggiunto forme perfezionate di civiltà propagandare invece le (logore) parole del linguaggio politico-burocratico occidentale: libertà, democrazia, regime parlamentare; che secoli di storia hanno definitivamente usurato, coprendole di sangue, di una polvere fitta, di ricordi di dolore, di perfide contraddizioni. Nazionalismo, metafisica, misticismo.
Non mi interessa vivere in questo paese; le vicende d’Europa, naufraga e perente, tuttavia ridondante di pretesti e di alibi, annoiano per disperazione o irritano per la loro periodica «inutilità». Così qualcuno può scrivere: la rabbia di… Sia pure con ragione; se divergendo da: rabbia in corpore litterae, nella fattispecie per opere cattive e patetiche per colpa dell’autore indicasse: per la, o per una realtà autentica che, anziché opprimere, e dunque costringere all’azione, offende, e dunque addormenta e isterilisce – anche i propositi migliori. Rabbia politica, che è o dovrebbe essere sana e giustificata. Non so (non vedo interno) se molti concordino; pare alle volte d’essere pellegrini di sventura e di lamentare a sé stessi, avendo scordato il passato, le proprie vicende come se il futuro fosse annichilito; di aggirarsi in un paesaggio spettrale; di percorrere e ripercorrere un circolo concluso in sé, senza sfogo, senza articolazioni organiche. Può accadere; mentre gli altri si allontanano. (Invece ecco lì, sotto gli occhi, tutto ciò che si dovrebbe fare, che è possibile fare – se, come in questi giorni vediamo, la saggezza del governo sovietico, e del popolo sovietico, riuscirà a conservare pace al mondo; ciò che potremo fare, nonostante tutto, negli anni a venire; sporchi, magari resi tetri propria dalla fatica di fare. «Lo splendido futuro»). La premessa è legittima; l’autobiografia in nuce qualche volta è permessa, oltre che ai damerini dell’istoria, anche ai protestatari in solitudine. Non par dunque un atto di presunzione.
Perché si contraddice all’ottimismo «intelligente», un po’ scettico, per nulla rozzo, dell’ufficialità? perché si fa parlare la rabbia anziché far muovere il cuore (un muscolo) o usare gli enigmi pieni di sale (industriale) dei fogli d’avanguardia? perché preferire la speranza della non speranza, con tutta la violenza possibile; un crepuscolo acceso; un rimuginamento continuo – al procedere, all’accoglienza delle proposte dei gruppi organizzati, dei nuovi moduli espressivi? Dicono: non siete letterati, alla fine? che cosa cercate? perché quel civettare «continuo» con le delusioni della storia, con la politique sale, anziché badare alle opere? chi vi conosce? lavorate così poco! Certo, ritornando su argomenti che dieci anni di vacui dibattimenti hanno svuotato (così pare) di interesse e di attualità – di un motivato interesse – sembra di vivere sulla cenere, di cibarsi di ossa.
Procediamo con ordine. Non possediamo (più) colonie, ma è come le avessimo ancora. Le vie spicce del colonialismo non ci sono ignote. Costruire i ponti dopo aste contraffatte (vecchia abitudine del colonialismo anche indigeno); guadagnare sul cemento, sulla calcina, sulla carne degli uomini2. Il negro era tuttavia contento. Conserviamo il gusto d’arricchire in fretta (che scambiamo nel mostro misticismo manierato e ipocrita, per miracolo). Tutto accompagnato da una buona coscienza.
Non abbiamo il fascismo (o così pare), ma è come ci sopravanzasse ancora. ha lasciato di sé una nostalgia equivoca, malata; una eredità biologica. Il bisogno di un prestigio internazionale entro cui annegare la mediocrità della vita provinciale; i treni in orario – secondo il leggendario slogan pubblicitario; magari un prete – il prete accanto al letto. Infine un gusto mai scaduto per le celebrazioni, le inaugurazioni ufficiali – con sfoggio di porpore. [Preso da Kuby: aveva ragione Mann quando predisse che il fascismo sarebbe stato importato in America e riesportato col nome di libertà]. Noi viviamo infatti in un clima di «falsa» libertà, di provvisorietà paternalistica, di liberismo condizionato; prosperiamo a circoli chiusi, per gruppi definiti; la facciata è intonsa ma le palafitte del nostro apparato sociale sono logore; la conduzione della cosa pubblica progredisce lentamente attraverso il gusto dell’intrigo, per piccole congiure di corridoio. Gli incunaboli della nostra storia si svelano a una lettura appena attenta come regesti del tempo fascista. [Insistere su questo]. Non fosse bastato il giuoco nel giuoco, l’ultimo ritrovato di una classe politica solo pensosa di dio (e tifosa di calcio), è stato l’accettazione (a cui ha accondisceso anche il partito socialista, per tattica «governativa» su posizioni non solo riformiste ma addirittura «ministeriali». Il vecchio trasformismo già in atto, ammorbidito dal caldo sorriso plebeo dell’on. Nenni); l’accettazione, si diceva, anche se con qualche riserva e qualche transfuga dal gruppo dei preopinanti – di una politica di centro sinistra; che, mentre finge di predisporne altre cento nel suo immobilismo svolge soltanto le proposte più ambigue; una politica di compromesso, vale a dire senza alternative; col progetto di «alcune» nazionalizzazioni non già subite ma ormai volute dalle stesse forze conservatrici. Politica smorta ed equivoca, senza «fantasia», tollerante e ancora, ancora atlantistica. La classe politica che contro il nostro volere ci amministra è dello stesso stampo (salvo casi specifici) della classe prefascista; questi personaggi di oggi si confermano ancora una volta figli o tutt’al più nipoti di quei valentuomini che cedettero il paese al caos e alla dittatura.
L’alchimia del centro sinistra pare una «figura» della vecchia sofistica. Si è accennato a come sembri impossibile sperare (non dico credere) nella effettiva possibilità di un «dialogo» fra socialisti e cattolici; impossibilità che da tempo la pubblicista più seria ha individuato e indicato in motivi prima che ideologici, «costituzionali». Ovvio: il cattolico «operante» deve espugnare da sé, come un male, tutto ciò che è in contrasto con una fede che ne uniforma totalmente il modo di intendere la vita e l’operare in essa; ha la necessità di conoscere, in un certo modo, e soltanto per aporie e per tropi «consacrati»; con prospettive precostruite e condizionate, oltre che condizionanti. Il socialismo sia pure quello dell’on. Nenni, anche se non rappresenta davvero un’ideologia contrastante e avversa patisce ancora le riserve (e i vecchi pregiudizi) del clericalismo ortodosso, «ufficiale»; perciò la provocazione che ad ogni «rapporto» è suscitata nel contesto della praxis democristiana si traduce sempre (si badi alle dichiarazioni dei leaders) in un tentativo poco generoso di «assimilazione», o quando è rifiutata in una contestazione. L’ammonimento e il richiamo all’ordine interferiscono a ogni contatto, puntualizzano le giornate di lavoro, chiosano quasi in una pubblica confessione a parte subiecti le dichiarazioni dei politici e degli uomini di governo. Come liberato da una inibizione ancestrale, il cattolico «politicizzato» ha una spinta a combattere il socialismo da una posizione di potenza, senza (più) il pudore della paura o le remore di un atteggiamento pubblico mal definito (o poco definito); a combatterlo anziché discuterlo; o a discuterlo per combatterlo; ad appropriarsene per «distruggerlo». Non dunque il bisogno di promuovere il dialogo, ma di togliere ogni valore, ogni efficacia a dialoghi possibili o comunque avviati; un peregrinare continuo alla ricerca delle fonti; un richiamarsi ai patti, sospettosamente. Ammonizioni che condiscono le caute, limitate concessioni. Un interessato invito al torpore; per rendere con l’atteggiamento di rassegnata resistenza nel subire il contatto, sempre meno «grave» e prolungato il tempo della collaborazione. Si pensa ai possibili benefici che si possono subito ricavare; d’altra parte si teme, si contratta, si discute ogni concessione; si ha paura di «scoprirsi»; l’irrigidimento è una arma sovrapposta alle pause delle conversazioni. Il cattolico sta a sé (si è detto giustamente). Non subisce: interroga, non domanda: esige. È insito nel suo atteggiamento dogmatico credere senza «inchieste» e l’ossequio senza turbamento. Abituato a dare in una certa misura (il paternalismo, la carità) e soprattutto a ricevere senza perplessità, con naturalezza ragionata codificata da secoli. Da un partito così poco problematico e con prospettive monolitiche (il suo atlantismo incondizionato dura senza alcuna perplessità e senza verifiche da diciassette anni) è illusione chiedere o aspettarsi, atteggiamenti che confermino una «liberalità» a cui esso è disabituato o negato. Può, per tattica, rassegnarsi; ma essendo forte subisce sollecitazioni che lo inducono più che mai a considerare soltanto il particulare; ed essendo composito, una varietà di situazioni sociali, non può d’altra parte, e ciò corrisponde al suo volere, permettersi di assumere impegni univoci, che lo smembrerebbero. Deve accontentarsi di rivolgersi a più d’uno e di operare con prospettive multiple; dunque procedendo alla giornata, con un paternalismo solenne, un po’ chiesastico, paludato, beneficamente rivolto al «bene pubblico», e nelle realizzazioni pratiche pubblicitariamente ostentato, indicato, sottoscritto. Ha una carica di teatralità mai intiepidita; scorie fascistiche che lo lievitano al fondo. Considerando un po’ tutti come propri elettori (possibili elettori), condiziona l’articolarsi della politica attiva ai risultati presso un elettorato contradditorio nelle sue articolazioni e difficilmente «qualificabile». In questa situazione è ovvio che molti (ma non tutti) prosperano: mercanti del tempio, giudici, i magnati e i manutengoli, i ruffiani, gli scribi, i giovani arrivisti coi capelli scomposti.
Non occorre dire altro; se non che motivi di soddisfazione, per gli uomini onesti e i giovani sinceri, a considerare lo stato delle cose in Italia, ce ne sono pochi. È scarsa comunque la volontà, e l’eccitazione dell’intelligenza, per un’avventura politica il cui risultato è purtroppo scontato. Ancora una volta il socialismo, messo dalle circostanze e dalla congiuntura storica nella condizione di potere operare sulla (e non soltanto nella) situazione italiana; di influire in maniera discriminata, con tempestività e col decoro della fermezza, è mancato all’impegno, o lo ha deluso. Ha preferito mimetizzarsi, indossare non si sa bene quale abito dell’uomo civile, coprirsi il volto con la maschera, moderare l’operosità aggressiva per mettersi al passo con le schiere cattoliche; anziché restituire colpo a colpo, serrandosi nelle proprie file. Incerto e lacerato nel procedere, si accontenta di lusinghe; crede alle promesse e si fa battere sul tempo. Per questi errori, già propostisi e sperimentati negli anni, c’era Saragat ad ammonirci di una brutta fine. Ma da cinquant’anni il partito socialista in Italia non colleziona che brutte figure. Rassegnamoci.
II. [Lorianismo]
D’altra parte il laicismo molto, o poco, ortodosso si è combusto in una disputa di «belle intelligenze» e di personalismi mondani; troppo affascinati di sé, i personaggi della haute radicale, o laica nella misura dell’«Espresso», senza più alcuna possibilità di condizionare una politica, hanno abdicato anche al ruolo, gustoso per un momento, di direttori di coscienza (a cui si prestava la vecchia provincia italiana, in arretrato cogli anni e smaniosa di apprendere), per ripiegare in quello giornalisticamente più redditizio, credo, e meno «complicato» di informatori. Accreditandosi di un tipo d’informazione tempestiva e chiara, condita dal gusto dell’aneddoto mal noto o inedito. Un giornalismo di buona lega – entro un panorama di conformismi politici scontati o di malafede capitalistica.
Di questo côté tuttavia è tipico un risentito conservatorismo letterario, non privo di venature d’autentica cattiveria (se si espunge l’ossequio naturale per alcuni nomi troppo noti per discuterli, o la curiosità per alcune opere troppo acclamate per ignorarle). In fondo è uno scetticismo da «toscanina dell’ottocento» a condizionare culturalmente questo ambiente e i suoi personaggi ufficiali o ufficiosi. Non dico neppure il gusto per un conservatorismo pregiudiziale, irto di punte, provocatorio e, in un certo senso, «liberatore» (alla Etiemble, per fare un nome). Uomini sulla cinquantina, conservano le ra; ne riescono, sopraffatti dal nuovo lavoro, a riacquistare il tempo perduto, a concludere le pagine bianche (delle opere di fantasia), ritrovandosi nel lavoro che esige «una forte speranza», e quasi una forza intatta (almeno nel senso di «volere».) Perciò non intendono più credere nella possibilità di fare e giudicano gli altri alla stessa stregua delle proprie delusioni: usano l’ironia e il frizzo, spesso l’indifferenza, per mascherare il moto sollecito dell’invidia, della curiosità e del rancore; si buttano al passato per mortificare le opere contemporanee; tentano di riproporre come una novità la letteratura comparata, attingono all’estero esibendo testi in contraddizione con la povertà da essi conclamata della patria letteratura. Conservano inediti nel cassetto e affermano morta la letteratura, seguono le mode godendo dell’eccitazione momentanea, e proprio di quel tanto d’effimero che a queste è concesso, affidano ai pretesti. Direttori magari di settimanali o di riviste «autorevoli», quanto sono esigenti nel chiedere ordine e chiarezza per ogni argomento, dalla politica all’architettura, tanto tollerano nella critica letteraria, ad esempio, l’eccletismo, una forma di disdegno spesso irto di dichiarazioni assiomatiche e sempre diseducativo. Giornalisti brillanti, commentatori acuti cedono queste pagine a personaggi che sembrano d’altri tempi, affetti da mania di persecuzione. «Ma la poesia oggi non è in crisi: non esiste. Pure se molti continuano ad allineare versi, s’è dissolta. Conviene domandarsi in che modo. A ciò non rispondono i convenuti. Non prendono coscienza dell’artificio manieristico della poesia moderna». Per finire, usando guizzi parenetici, che «per una via di classico rigore, non per questa del caso e della dismisura, tratta di ricominciare». La presunzione è simile a quella tenuta dai vecchi «vescovi» dei licei (che si fermano a d’Annunzio), o dai frettolosi antologisti delle opere scolastiche (che arrestano «la diligenza» a Montale e usano, nei commenti, un tono di rassegnata oggettivazione critica). In effetti e proprio lo sperpero dell’indifferenza trasandata da una parte della genericità qualunquistica dall’altra che, usato da queste tribune, distrae e distorce ogni curiosità sui «fatti» letterari specifici da parte di un pubblico più ampio. Occorre forse aggiungere che quasi tutti i personaggi di cui sopra punti tali posizioni di prestigio, hanno un’ascendenza ermetica? Formatisi fra le due guerre, dispersi dagli eventi della nostra tristissima storia, distratti, infine un poco calpestati, dopo la rapida invasatura comunistica, nell’ultimo semestre del ’45 (ad alcuni continuò per il primo semestre dell’anno seguente) si ridussero a un generico sinistrismo, liberaleggiante e oscillante, reso dunque efficace da un contrasto religioso ma poi aggiornato solo in superficie al lume della problematica più recente e diversamente tragica; dove il fato religioso è soltanto una componente «mediata» e registrabile – in una situazione internazionale, qualche si svolge negli anni che viviamo, sempre al limite del disastro. Mancano di tragicità; il loro moralismo è da «libertini». Sicché la funzione di questi fogli, a vasta tiratura presso un pubblico qualificato, si riduce alla trascrizione di una summa di «piccoli» errori: o meglio, di contraddizioni; nella fattispecie, divulgando un genere di letteratura non scelta a caso ma con precise prospettive «riformistiche»: generica e salottiera, di tipo edonistico; piuttosto pretesto al critico per dar saggio di sé, che per proporre la discussione di un testo. Mancano le stroncature, cioè le recensioni à rebours; i contrasti, i dissensi «motivati». Tutto è avvolto dal sonno dogmatico, o racchiuso in un grazioso imballo di cellophan spirituale. Partecipi, se non succubi, di una industria culturale che s’è fatta sempre più invadente ed «aperta», questi critici patiscono la propria indifferenza (e in definitiva la mancanza di idee) non come un male ma come l’assenza di provocazioni alternative, di «nuove» proposte. Neppure si potrebbe dire che, in ultima istanza, siano bene informati. L’eccletismo sembra diventato la loro musa discreta; la tolleranza la misura critica della loro presenza. Naturalmente una tolleranza calcolata, predisposta, in certo modo interessata.
A mio parere non si sbaglia a stabilire un nesso preciso fra l’assunzione del centro-sinistra a formula (sia pure contradditoria) di governo e la «liberazione» dei fermenti informali, neofuturistici ed ermetizzanti dell’avanguardia al livello dell’ufficialità. Sicché oggi non è facile contraddire l’affermazione dei donabbondi di ritenersi, di essere addirittura, sulla cresta dell’onda (ma noi sappiamo che sull’onda, oltre la schiuma, così labile e innocua, c’è sbrodolo di nafta, ci sono pezzi di legno, qualche animale morto. Alle volte solo un cadavere).
Poiché queste pseudo-avanguardie sono mosse innanzi tutto dalla vecchia convinzione (che si credeva affossata) che la politica sia da tenersi distaccata dalla letteratura; e che si fa politica nella misura in cui si fa letteratura; che il fatto letterario si misura dal di dentro, nella sua tensione linguistica e non affatto nel grado, nella misura della sua politicità, cioè della sua aderenza alla realtà «immediata», sociale, ecc. ecc. È, come si vede, in fondo, il riproponimento di un nuovo ontologismo, di una metafisica mimetizzata, che apre la strada a interpretazioni plurivalenti ed ermetiche, del fatto letterario; una specie di fenomenologismo estemporaneo, svilito di ogni rigore. Tuttavia, un ulteriore invito alla «confusione». Tanto è vero che è possibile ascoltare uomini illustri o giovani allievi dichiararsi «anche» marxisti tout- court, o «prossimi» al marxismo, oppure in combinazione dinamica e non contrastante col marxismo ecc. Tutto ciò offre la misura della serietà scientifica entro cui si articola e prospera molta parte della cultura italiana, nei suoi aspetti ufficiali, spesso accademici e in quelli dell’avanguardia sovvenzionata (naturalmente c’è anche altro, in uomini e in problemi). Per toccare tuttavia alcuni dati reali, che possono offrire qualche sollecitazione, si consideri:
a) l’assunzione di Arbasino, sulle pagine de Il giorno, al rango di moralista ufficiale; una specie di fustigator ad alto livello, con un certo humor, buona informazione e materiale inedito;
b) il dirottamento della nave del Menabò 5 dal percorso normale e l’approdo, nella fattispecie, a una compartecipazione di responsabilità avanguardistica col manipolo del «Verri», il quale ha fatto in questi ultimi tempi altri e «utili» adepti (ci pare di leggere, anche il nostro amico Leonetti);
c) la definizione che Carlo Bo concorre a dare di sé, sempre con interessato vigore (se non con altrettanto rigore) oltre che di autentico resistente («letteratura di stadio d’assedio», «noi appartenevamo al numero delle vittime) – tanto da stendere, unus inter pares, la relazione «L’ide logia del fascismo» pubblicata poi da Feltrinelli nel due volumi di lezioni e testimonianze «Fascismo e antifascismo» (1918-1948) – come critico della situazione odierna; dalle prospettive, cioè, di un cattolicesimo avanzato, alla «francese», non conformista democratica, à la page;
d) l’assenza quasi totale della critica letteraria marxista dal terreno della lotta ideologica e la sua partecipazione, in atteggiamenti «equivoci», a tutti gli «incontri mondani», con interventi non producenti o addirittura reazionari – in una esibizione spesso di un crocianesimo «infetto» e approssimativo; pertinace a perseguire la inutile e dondolante politica delle alleanze che pareva definitivamente finita per necessità storica e al lume dei fatti; senza alcuna programmazione specifica. Critica perfino affidata in una verbosità piagnucolosa e invadente, a vecchi tromboni che parevano già squalificati da perpetue crisi spirituali, a giovinotti scipiti, a giornalisti spesso sprovveduti e qualche volta ignoranti.
Per Arbasino mi pare di intendere che la borghesia ricca, da cui proviene e che lo nutre, l’alleva come il possibile e probabile Montanelli degli anni 70. Enfant prodige, dalla faccia liscia e bella, pasticheur brillante, con rapporti distesi, entrature mondane, egli è un esempio tipico e il prototipo di ciò che una buona educazione e una normale intelligenza bene esercitata possono concedere a un giovane se sa amministrarsi. Priva di moralità, o con un moralismo «speso» a ragion veduta, la borghesia ricca gode che qualcuno riesca a colpirla di tanto in tanto, ammiccando nel momento stesso in cui la lezione è largita; di sentirsi raccontare i propri vizi, di esorcizzarli; di sapersi e sentirsi malvagia ed equivoca, perché è proprio in questo soddisfacimento che essa si compiace di «ritrovarsi», senza perdere alcuno dei propri vizi. Tollerante con se stessa, nella vivacità degli atteggiamenti degli scrittori borghesi riesce a «intendere» un ritratto di sé, della propria gioventù, della propria condizione; un richiamo a certi «sogni» inappagati.
Da essa il moralismo di Arbasino è quindi inteso, accettato, applaudito; come una rivalsa alla propria ignoranza, alla accettazione, nella costrizione, di certi tabù culturali. Il fenomenologismo estetizzante e fondamentalmente arcaico di Antonioni, sopportato nella sua genericità senza averne inteso alcune delle contraddizioni, viene interpretato da Arbasino ad uso di un salotto di dame; il problema è aperto come una noce, le diacronie indicate con grafici rapidi, le belle donne possono scoprire i buoni motivi di una autentica leggibilità dell’opera in questione e sussurrarne le relative giustificazioni. Arbasino rappresenta dunque il Riders Digest indigeno, una sorta di Della Casa in sedicesimo per un pubblico composito; perché tutto è ridotto a proporzioni rispettabili, minuscole; ogni problema diluito e pianificato; Wilson, von Webern, Miller, Goddard, Gadda ecc. Uniformità che si traduce in una indifferenza non turbata né disturbata da rigori letterari; la scrittura è gonfia, con mescolanze di gergo e di haute; c’è una piattificazione semantica che produce una uniformità ideologica deprimente; un sonno della mente. È forse ciò che vuole lo scrittore, che ottiene in tal modo di farsi ascoltare in una sorta di soporifera disattenzione che lo assolve da ogni sbaglio, che lo fa apprezzare perfino nella sua prolissità angariante. Già Testori, sotto prospettive diverse, aveva dato saggio di un tipo di scrittura che partiva da una decisa insofferenza formale (così pareva); cioè di una non partecipazione o disattenzione stilistica al racconto; la scrittura si srotolava come un tappeto persiano continuamente svolto e sempre più assottigliato, dopo che fin dal principio erano state tipizzate alcune figure umane entro un ambiente esautorato da ogni efficienza politica, da ogni validità pragmatica.
In Arbasino, che ha natura più morbida, tutto si traduce con più mitezza; ma al nostro discorso interessa accennare le ragioni dell’assunzione a un posto «ufficiale». È un ambiente sociale determinato a usufruire di uno scrittore che si «presta» per natura ad assumere incarichi prestigiosi; tanto più che tutto avviene senza pericoli, ogni scambio di ingiurie si traduce alla fine in vigorose strette di mano. Il fastidio di Arbasino per Antonioni, ad esempio, è il risultato di un equivoco che si può identificare non già nel gusto della contraddizione, come potrebbe essere giusto, o almeno naturale, ma nella prospettiva che il «critico» assegna ai propri interventi: di esibizione, come si è detto, di perplessità altrui (e in questo consisterebbe il moralismo); di chiosatore in pubblico; poiché la sua autosufficienza scarsamente critica lo potrebbe tutt’al più portare a «discutere» (non a contraddire) un autore di cui partecipa in toto di tutti i difetti. Entrambi appartengono ad una «casta» e sono condizionati da una struttura che essi riconoscono autentica e dei cui favori partecipano; sicché l’uno può produrre gli stilemi della propria angoscia con la raffinatezza tecnica più evoluta (al modo che si producono oggi i televisori con la linea più calda, più sessualmente opprimente nell’orchestrazione delle curve e dei vuoti, quasi un corpo nudo sotto gli occhi, appena intravvisto) e divulgarla con l’accompagnamento orchestrato degli applausi del pubblico; il secondo esibirsi dal palco più alto in rapidi e volanti esercizi di equilibrio verbali (ma con la rete ben stesa sotto). Arbasino appartiene alla generazione che non ha visto il fascismo: può ben gridarlo; e dopo adagiarsi, contento, i piedi al fuoco, per leggere i suoi sette giornali e scrivere il suo libro all’anno: mediocre, inzeppato, senza sorprese. Ma sempre «omaggiato», letto, diffuso; in modo che cresce la sua piccola autorità e presto sarà caldo per il salto. L’abbiamo detto; il Montanelli degli anni ’70. Per allora Arbasino sarà rodato; ci saranno inoltre altri «cambi della guardia»; nella critica ad esempio. Il nome è già sulla bocca di tutti.
Poco ci importerebbe di parlare di Carlo Bo, o soltanto, di alludere a un personaggio ormai mitico nel panorama spento e bruciato delle nostre lettere; ma poiché lo vediamo e patiamo oramai come un «maestro», converrà riportare anche quest’ultima cresimazione (un’assunzione al regno), e questa settimanale sgargiante esibizione della propria anima, alla situazione politica; che invoglia ai ripensamenti non pericolosi e alle pubbliche obiezioni che non disturbino la quiete. Ciò che riesce tipico in questo caso, a mio parere, è la esibizione di una democraticità che non costa nulla, di una fede democratica «nella» tranquillità; e la drammatizzazione egoistica, in ogni modo, e in ogni momento, dentro a una situazione statica. In altre parole: questi personaggi sono dentro al sistema, e così situati possono muoversi pendolarmente, senza scompensi; tutt’al più possono essere benevolmente tollerati o qualche volta ammoniti; ma non rischiano, fingendo gli atteggiamenti sdegnati ad occasioni fissate. Questa mancanza calcolata di rischio rappresenta il lato più deprimente degli interventi pubblici, degli elzeviri di questi uomini, i quali poi, chiamati parte in causa, fingono sdegnosa riluttanza o annoiato disinteresse per il riproponimento degli incunaboli della loro attività, o per un invito a ritornare, col libro di casa, agli anni dell’êra. Perciò proviene sempre da loro, in indirizzo anonimo (naturalmente), l’invito alla non violenza verbale, la celebrazione della inefficacia o della inattualità della polemica retrodatata. Ma ciò non per una spinta morale, per amore degli altri, per rigore di sé; per ritrovato rispetto di sé; per patimento di ciò che è stato; per critico ripensamento. Non per una fiducia razionale nell’ordine industrioso, nella verità «controllata». Questa esaltazione della non violenza (magari enunciata sulle colonne dei rotocalchi miliardari) è esibita (contro «gli untori» che chiamano alla resa dei conti – una resa ideologica, si intende) non perché fatti esperti o ancora doloranti di piaghe recenti o antiche, o ammaestrati comunque e alla resa dei conti nuovi, in certo modo; non perché hanno capito, hanno voluto capire: non perché si è finalmente inteso che ciò che è stato è accaduto contro la propria volontà, oppure li ha toccati per debolezza incolpevole (è possibile anche questo); per una ignoranza delle cose, per debolezza di uomini e di tradizione, di cui si fa, o si è fatta, pubblica ammenda. Ma è un invito che nasce da un moto di disdegno e di scandalo perché noi vogliamo, in sede di riesame critico e al fine di tirare finalmente, nel corso del nostro lavoro, alcune conclusioni fuori della norma, cioè fuori dell’agiografia ufficiale, chiamare i soloni dormienti a partecipi della passata vergogna, e della vergogna di oggi. Colpevoli di vanità e di avidità, di istrionismo letterario e mondano, di malanimo, di riluttanza, di opportunismo; colpevoli di non voler intendere né imparare, di continuare a vivere in una perenne arcadia [si veda la scheda allo Zangrandi]. Incapaci di una sincera presa di coscienza, sempre in bilico fra la piccola menzogna e la parziale verità ritrattata, opportunisti a livello giornaliero, essi hanno ancora una volta ricostruito nella legalità democratica Il circolo chiuso dei loro beni immobili e in esso si conducono ogni sera, magari riducendovi, con sottili fischi di richiamo, il proprio gregge, perché non al disperda alla notte. Che cosa è dunque cambiato d’allora? Tutto va bene, nel migliore dei modi. E come le donnecole di Pembroke3, anche i letterati vendono e vendono ancora; si cavano qualche voglia, non vegliano più al lume di candela. Le donne di Pembroke? ma queste donne hanno ragione! Come dicono: non si può sempre vivere col cuore in mano, o con il coltello spianato.
È nota la disputa erudita4 sul verso stupendo virgiliano, il tacitae per amica silentia lunae (Verg. Aen. II, 255) per cui gli interpreti sono portati a distinguersi in due schiere, quelli che ammettono la presenza della luna e quelli che la negano ecc. A voler metaforicamente riportare ai nostri giorni una siffatta querelle, si potrebbe insinuare che lo stesso dissenso intercorre fra coloro che non intendono più, o non hanno mai inteso sottostare, come scrittori, a pubblici impegni che non siano propositi di produrre opere accepibili e di successo, e coloro (ma sono oramai una piccola schiera) che persistono nel proposito di credere che non può darsi opera, comunque intesa, che non sia «affondata» entro una precisa problematica sociale ecc. ecc. Si potrà altrimenti dire, come anche noi affermiamo: arte come conoscenza. Troppo ripetuto. Molti sostengono, con ragioni sottili e una certa destrezza di argomentazioni, che siffatta posizione è del tutto scaduta e non ha più possibilità d’essere difesa e criticamente intesa; che la sua problematicità ormai inefficiente ecc. A questo punto dovrebbe intervenire e rispondere la critica marxista; la quale dorme il sonno dei cento anni. Ai frigidi e metaforici ingegni della belle epoque neo-avanguardistica essa, per bocca del diseredati nestori, non sa arraffare che risposte d’accatto (si vedano per questo, e su questo, la pagina «letteraria» dell’Unità – un esempio di stile; o le altre egualmente «pesanti» di Rinascita su cui parlano i morti).
Chi, come noi, si dichiara marxista, «dovrebbe» trovare qualche conforto dall’apertura ideologica degli uomini «incaricati» e sollecitazioni dai dibatti provocati e programmati. Che cosa accade, invece? Si resta soli a contrastare, in una solitudine spasmodica. Questa critica annega nell’indifferenza e in un lassismo sbiadito, commercialmente redditizio forse, ma scarsamente problematico. Evitando di rilanciare e approfondire certe formule gramsciane, ci si intestardisce ad esibire una disponibilità giornalisticamente pertinente ma culturalmente improduttiva e reazionaria. Incapace di contrastare, cerimoniosa e ufficiale, la critica (letteraria) di sinistra assume l’idolo del giorno a immagine da riverire, o da ribattere secondo i moduli di una convenienza statuaria ormai sottoscritta da tutte le parti; ed evita ogni indiscrezione, ogni sottile impegno, ogni ricerca in profondità. Protestaria nella legalità, si accontenta dei dati quotidiani e di un aggiornamento che sfiora l’improvvisazione; le pagine «d’ore» dei quotidiani serali, dedicati ai libri, rappresentano uno sforzo al livello della Fiera Letteraria, una sorta di gazzetta del compromesso, un abbraccio universale. La mescolanza livella e ammorbidisce, tutto rivoltolato, le conclusioni si riducono a un riassunto, a uno schema. Anche coloro che travisano le idee dei maestri per i propri bisogni corporali sono quasi assolti, o descritti con un sorriso allergico; ma nulla d’importante. E si chiude con un sospiro la porta di chiesa.
Poi accade che per la nevrosi elettoralistica dei governanti occitanici, per l’intemperanza biologica di un popolo abituato all’impero (almeno a quello del soldo), il mondo precipita sull’orlo della nuova guerra. Che cosa possono dire o suggerire le nuove avanguardie? nei loro sistemi diacronici, nelle loro ricerche neo-dada, nel falso illuminismo delle loro scorribande estetiche? Dove finiscono le progettazioni che lusingano i maestri? le prove interessate che danno lustro ai circoli più raffinati e mettono in mostra i «nuovi» poeti? Quali parole offrono alle autentiche angoscie, alla nostra paura? Ma della povertà e miseria, della autentica inutilità di queste combriccole in un mondo arrocato ancora sull’orlo della guerra, si sapeva. E quando essi sorridevano, il riso stirato, e scambiavano le nostre voci per un’edulcorata esercitazione, potevano irritarci ma non farci sorridere. Pativamo anche la loro stoltezza, riconoscendoci soli. E non si dice per vanità, in momenti siffatti. Ma anche la cultura da cui vorremmo essere difesi e a cui vorremmo partecipare, la cultura marxista, non sa cavare altro dal fondo dei propri pensieri che i scialbi banali soliti manifesti, firmati e sottoscritti in una orgia di colori. Quel frastuono di sempre. Comitati e sottocomitati; mentre tutto pare svolgersi verso la morte. Nulla di nuovo, ancora; nulla di nuovo. Mentre i politici articolano secondo richieste sperimentate i momenti di un’azione che non può tollerare errori, la letteratura si rifugia ancora una volta nell’invocazione senza alternativa, e nella protesta. Un comizio, nel caldo di un teatro; poi si ritorna a casa. Parole a stampa; «preghiere cristiane»; come sempre. Torniamo mistici e mistagoghi, nella nostra rinnovata sete di «tranquillità». Non pensiamo ad altro; alla nostra buona pace che si può perdere. Altrimenti penseremmo a questo anche nei giorni di festa, quando la guerra sembra lontana – e invece adesso è ancora vicina; spietata, inutile, anacronistica. Perché siamo al punto: nella nostra presunzione scientista, nel nostro disarticolato ottimismo non abbiamo saputo scoprire una nuova soluzione «politica» alla guerra; essa rimane, ancora, come l’ultimo mezzo per risolvere i contrasti. L’alternativa al dialogo. Millenaria e primeva soluzione di morte. Così accade per tutto il resto; delle idee che ci circondano, delle parole che usiamo; delle nuove proposizioni neoavanguardistiche che sembrano scoprire il mondo e invece lo ricoprono con uno strato di polvere, un sottile velo mortuario. I giovanetti odierni sono appunto i nipoti di tanti untorelli futuristici; non redarguiti, né ammaestrati, da una critica ideologica severa e «continuamente» presente che vorremmo nuova a tutti i costi; se dobbiamo fare che il mondo – questo nostro, la terra – sopravviva alle nostre utopie, ai nostri rancori. Sostituiamo intanto agli ultimi resti della verità rivelata la verità che si conquista giorno per giorno col lavoro di ciascuno5, e non limitiamoci a gemere soltanto nei giorni in cui l’orrore fa magri. Non trasaliamo solo al fiato dei sepolcri, ma per carità lavoriamo ogni giorno; non possiamo né dobbiamo aspettare. Perché cercarci soltanto quando l’ora buia? È detto ai comunisti, e a noi tutti quanti siamo a contarci. Restiamo troppo soli e quando occorre neppure riconosciamo più il nostro viso. In questi giorni di Cuba, l’invito deve toccare tutti, essendo così vero da ferire. Se non è troppo tardi.
Note
1 Inferno, c. XXV, 142.
2 «L’Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo. Le ricchezze che la soffocano sono quelle che sono state rubate ai popoli sottosviluppati» (FANON).
3 «Ecco la base della guerra tra uomini e donne a Pembroke: i vantaggi economici dovuti alla presenza dei reparti tedeschi in addestramento sono notevoli, il commercio è decisamente rifiorito e se c’è qualcuno che si ricorda della guerra e dei bombardamenti, farebbe bene a non sofisticare tanto. Non è lasciando addestrare 400 Panzer per volta – dicono le concrete donne di Pembroke – che si scatena una nuova guerra. Stasera nella cittadina del Galles è tornata la calma. Gli “antiPanzer” sono partiti, e a Castlemartin, domattina, i cancelli verranno riaperti regolarmente».
4 A. PAGLIARO, Saggi di critica semantica, Messin 1961, p. 187.
5 P. GOBETTI, Energie Nove, Serie II, n. 1 (5 maggio 1919).
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: articoli su riviste
- Testata: Rendiconti
- Anno di pubblicazione: n. 4-6, 1962