Spaventoso rombo e notturna devastazione nella grande città di Parigi 1808

Con questo racconto, non si insegue la fantasia ma si segue la storia. Il protagonista è un notaio reale, vissuto e operante tra il Settecento e l’Ottocento; prima bibliofilo innamorato poi incallito raccoglitore di libri; infine, afferrato da un invasamento bibliomaniacale cosmico, cacciatore inseguitore Rambo di qualsivoglia fascicoletto che palpitasse di caratteri a stampa. Alla sua morte, è cronaca risaputa, lasciò più di ottocentomila volumi. Alcuni, non contraddetti, dissero perfino un milione.

 

 

 

Il titolo si chiarirà più avanti ma intanto il notaio Boulard; meglio, il notaio Antonio Maria Enrico Boulard, nome importante, professionista importante, è seduto alla scrivania nel suo studio, vicino alla finestra.

Si guarda le mani. La polvere sulle mani. Sui polpastrelli delle dita. Un velo leggero, un bianco sospiro impallidito, una cipria che sembra soffiata da un angelo.

Ogni tanto l’annusa quasi estasiato e chiude gli occhi. Vuole solo odorare, abbassando adagio la testa verso le mani, che sono appoggiate sulla scrivania, ferme, rovesciate, come due calchi in gesso.

Ha la cautela, e il garbo, di uno a cui sia volata sulle dita una farfalla, e tema che possa andarsene se disturbata da una piccola violenza, da un leggerissimo suono.

Sospira anche, ogni tanto.

Parigi è sotto il tramonto, in questa estate senza fuoco del 1808. La polvere gli è volata sulle dita, attraverso la luce, sollevandosi da un tomo in 4°, rilegato in pergamena spessa, ingiallita, che è lì quasi sul bordo del tavolo.

Boulard è tutto preso da questo pianto celeste che gli è caduto sulle dita e teme, muovendosi, di disperderlo. Appunto, come se fosse una farfalla.

Passano i minuti, con il moto lento della faccia verso le mani sempre ripetuto, mentre il cielo sopra Parigi si arrossa, rabbrividendo un poco per l’annuncio della sera.

Adesso, oltre la porta, si sentono le voci di alcuni visitatori che cercano il notaio, e quella del segretario indaffarato a inventare le solite bugie.

Boulard si scuote. Striscia, con una lentezza da filmare, le mani verso il volume (una Istoria Universale dei Concili, del 1686), allunga il mignolo della mano destra per sollevare il piatto del volume, sfoglia sempre con il mignolo alcune pagine, allunga la testa e sbircia: continuarono nel progresso dell’infelice Secolo decimo gli sfortunevoli avvenimenti, poi, scuotendo i polpastrelli, lascia cadere la polvere, con garbo, sul bordo interno della pagina ma in quel preciso momento un grido, una imprecazione, un tramestio prima una guerra poi, un rovesciamento d’oggetti, un frangersi di piatti, un miagolare di gatti martirizzati, un uggiolare di cani calpestati, un pregare, un piangere, un bestemmiare, un sabba di streghe o il tafferuglio di diavoli divaganti, infine una lotta furiosa di corpi recalcitranti e un chiedere pietà.

Boulard, col naso affondato sulla pagina percepisce più alta di tutte e infervorata nel dare battaglia, la voce della moglie, che sembra arrotata al maglio e che sopraffà il segretario ormai sbalzato di sella. Uno straccio esausto, e inzuppato.

Si apre con violenza la porta. Lì c’è Amalia.

A questo punto è detta e ripetuta la ballata delle crepe sul muro, così come è stata urlata dalla moglie del nostro Boulard in quella occasione, e recepita auricolarmente dal segretario per quanto disteso ancora in terra, quindi trascritta fedelmente basandosi sulla memoria:

Notaio maledetto te e i libri

Il muro della casa si è incrinato all’improvviso

si è inclinato il pavimento del salotto

si è rotto il marmo del nostro lavandino

l’appartamento dall’ingresso al balcone si è ingobbito come se l’avesse derelitto un colpo di libeccio o una maledizione

dal soffitto piove intonaco come grandine

gemono i muri scricchiolano le ossa dell’intero palazzo che sembra tremare perché ha paura di precipitare.

Anzi marito sai che ti dico?

Che sembra proprio sul punto di scoppiare perché hai riempito la casa di carta che odora di cantina.

Di libri pesanti come sacchi grossi come cavalli così precipiteremo domattina seminando rovina.

Io ancora a letto e tu strizzato fra i libri e maledetto…

Boulard sorride quieto quieto. È abituato. Neanche ascolta, continua a leggere. Quando la moglie ha finito, risponde amabilmente e senza scomporsi che dopotutto è meglio morire in mezzo a una bomba di libri che per una bomba di guerra.

Fuori sulla strada, attraverso la finestra aperta, si sentono passare i granatieri con fanfara.

In questo secondo punto è detta e ripetuta la continuazione della ballata della moglie, che è in piedi davanti allo scrittoio, con ombrellino e cuffia plissettata, e continua a guardare inviperita il marito:

Se porti un altro dei tuoi libroni in casa io esco per sempre e rivoglio la dote poi per mia vendetta principale porto via tutti gli incunaboli che hai avuto in aggiunta da mio padre e perché tu non li possa ricomprare non li regalo ai frati ma li farò uno per uno e pagina per pagina bruciare…

Boulard ha un brivido. Anche il solo pensierolo fa sudare freddo. Bruciare un incunabolo è come bruciare un figlio sul rogo. L’inquisizione. Ivandali a Vienna. La distruzione di Alessandria.La fine di ogni passione, ogni voglia di vivere, delfuturo. Ogni riga che brucia, mentre brucia, è ungrido, un urlo, una invocazione. Boulard, Boulard,muoio, soffoco, salvami. Salvami.

Dice: «Amalia, te lo giuro, questo è l’ultimo, sarà l’ultimo, è per essere l’ultimo. L’ultimo per sempre, con definitiva chiusura bibliografica dal mondo, per l’eternità». E indica il Bellarmini disteso sul tavolo, nella sua serratura in pergamena, come un gattone sulle ginocchia del padrone, accanto al fuoco, nelle serate d’inverno.

«Non voglio quell’immondezzaio in casa, neanche per sogno e neanche per una volta» strilla Amalia, picchiando con l’ombrellino sul tavolo.

«Ebbene, per amor tuo lo giuro» promette Boulard melodrammaticamente.

Ma Amalia sa che finge. È ben convinta che Boulard sta strisciando come un lupo all’addiaccio. E allora lo guarda con occhi di fuoco. Occhi implacabili e ubiqui, che tiran fuori l’ombra anche da sotto il tavolo. Occhi di gatto che vedono al buio.

Amalia ascolta la rabbia che si sgranocchia dentro al cuore del marito.

Come farà, allora, il notaio Boulard; meglio, il notaio Antonio Maria Enrico Boulard, a contrabbandare il Bellarmini in casa, la sera di quel giorno d’estate, a Parigi, nell’anno 1808? Sarà una gara epica.

Amalia intanto con l’ombrello dà un’altra botta sul tavolo e con quel gesto il cappellino le va di traverso. È, per un momento, un po’ buffa, anche se si riassetta dandosi un rapido colpetto con la mano.

Per chiarire sopra e sotto i singoli personaggi di questa storia fuor del comune (è come perseguire un autentico viaggio in mare, alla ricerca di un tesoro nascosto in isole tropicali) occorre precisare che Amalia è una gradevole persona; una personcina piacevole nonostante l’età non più giovane anche se non ancora canuta; che, per istintiva gentilezza, se non è troppo a lungo sfrugugliata, riesce perfino a richiamare uccelli e piccioni per via di un pispiglio fresco e persuasivo, quando si affaccia all’unico pertugio sotto tetto ancora lasciato aperto perché filtri un residuo filo d’aria in casa; dato che le finestre in tutti i piani sono intasate sbarrate inzeppate dai libri… Ma ne parleremo fra poco.

Dicevamo che Amalia è una moglie dopotutto ancora amabile e premurosa se potesse in qualche modo liberarsi dall’incubo, è ormai una ossessione, dei libroni che come schiere di topi le entrano in casa di notte e di giorno. I suoi nemici sono in modo particolare i tomi in 4° grande e in folio; cioè quelli del Seicento e del Settecento, prevalentemente. Enormi, grossi, duri, indistruttibili, polverosi, tarmati, bucati, morsicati, lordati e in ogni caso implacabili a non smuoversi più dal posto conquistato sul pavimento o contro il muro.

«È come mettersi ogni volta in casa non un gatto ma un leone o un asino, per di più con le zecche» dice e ripete Amalia, quando tarocca e sbraita con il notaio solo e soltanto a causa di questa sua mania. «Saremmo altrimenti così felici» gli sospira sul naso ogni qualvolta lui, per rabbonirla, con il suo faccione simpatico le promette, giurando e spergiurando, di limitare gli acquisti, anzi, di abolirli.

Ma vedo che anch’io, come il buon notaio, perdo il filo, volendo seguire troppo da vicino gli umori dei due protagonisti.

Riprendo a dire subito che Amalia, prima di andarsene infuriata dallo studio del marito, gli scarica un altro colpo sul tavolo; e Boulard, con il tremore incontrollabile che lo afferra ogni volta di fronte a simile violenza, si accorge che dal Bergamini, ancora lì disposto con le pagine aperte si solleva un filo di polvere, quasi fosse peluria d’oro che fuoriesce da un forziere segreto.

È la stessa polvere che aveva fatto colare in precedenza dalle proprie mani, perché neanche un fruscolo andasse perduto.

Ma non c’è tempo per i dettagli dei sentimenti. Amalia è infuriata; forse sarebbe meglio dire disperata, per l’occasione. Dopo il colpo con l’ombrello fa seguire, sotto il naso del marito, il lancio di un rotolo di carta tenuto insieme da un legaccio rosa, segno di autorità costituita. Boulard riconosce il legaccio ma non sa, sul momento, spiegarsi il contenuto. Intanto lei esce impettita, come uscivano tutte le mogli adirate, in quel periodo, denso di fatti, della storia dell’uomo.

Esce, ancora ben decisa a non lasciarsi sopraffare, e certa di una cosa: che lo stramaledetto Bergamini, con dentro tutti i suoi concili, in casa non entrerà mai. Si giuoca matrimonio e futuro.

Appena ha chiuso la porta con un tonfo, nell’anticamera, tutta stretta intorno al silenzio acido e vibrante che precede ogni battaglia, si ricominciano a percepire le grida, i suoni di botte e di schiaffi, i soliti rumori luciferini e perfino qualche bassa imprecazione laica, sorprendente in quell’ambiente dedicato al diritto e gestito da un uomo in fama di devozione. Non è altro che Amalia la quale, transitando fra le due porte – quella del notaio e quella d’uscita – usa l’ombrellino al modo di una clava, scaricando colpi su panche e tavoli, nonché sulle spalle del segretario, colpevole evidente e manutengolo nei sotterfugi biblioerotomani del marito. Un gemito prolungato del poveretto, seguito dal tonfo di una porta, conclude il breve ma increscioso episodio.

Boulard, sempre appiccicato alla sua scrivania, percepisce poco per volta ricomporsi l’ordine nelle stanze (sarei per dire, nel mondo); sente il passo cauto e miracoloso del silenzio rientrare senza affanno dalla finestra per prendere posto contro i muri, sotto le sedie, fra le pile di libri che sostano sul piancito come una nave sulla fresca onda prima di potere entrare fischiando in un porto.

Un silenzio insinuante, uguale alla zampa di un giovane gatto pieno d’amicizia che ti passa sul petto.

Solleva la testa, per speculare nell’incavo delle pagine spalancate se la polvere ha ripreso il suo posto, depositandosi come in un letto naturale; e ha la conferma che il buon silenzio fluttuante – pari pari all’antico respiro degli dei assorti o dormenti – così propizio, dopo essere stato mortificato da un ombrellino ruotante, ha fatto ritorno. A confortare la saggezza dei libri dai capelli canuti; anzi, dalle pagine canute.

Ma Boulard ha anche sotto il naso – a parte il sacrosanto e concupito silenzio – il rotolo lanciatogli da Amalia prima di uscire. Lo annusa, come fa il pollo con la gallina prima del salto. Non si capacita, perché teme un inghippo, per via del nastrone rosato. È una citazione del tribunale che gli impone il divorzio? La diffida di un concorrente bibliomane a cui ha sottratto in un’asta, con cento raggiri, l’incunabolo umbro? O è un libraio a cui ha svuotato la bottega e che lo supplica di rivendergli almeno i doppioni? Bisogna dirlo, in questo momento nonostante l’amabile carattere e la sagacia professionale, il notaio per un attimo vacilla.

Vorrebbe buttare il rotolo nel cestino, senza neanche guardare, ma sa che la malizia di Amalia, quando lo affronta per i libri libroni, è tanta che in quel rotolo di carta potrebbe annidarsi tutto.

Anche che lei, uscendo di casa, abbia afferrata la prima grande stampa capitatale fra le mani, l’abbia arrotolata in un amen e serrata con il legaccio notarile che lui custodisce in un cassetto, per poterla poi usare come una ramazza sulla schiena del segretario e sventolarla sotto il naso del marito. Il notaio tituba, rigirandosi il plico fra le mani. Lo soppesa, è leggero. Non può essere che una stampa… ah, sì, santo cielo, forse la grande pianta del Vaticano che mancava al volume del Costaguti, scovata giorni addietro fra la carta da imballo da un salumiere. O forse è una citazione del tribunale. Lo butto o lo sfilo?

Seduto, guarda il cielo innevato dalle stelle dentro a un mare d’aria nero e lucido, entusiasmante. Quant’è bella Parigi, pensa Boulard che, ormai vecchio e pacioso, è suscettibile di qualche estrema emozione del cuore – a parte i libri. Poi, all’improvviso pensa, potrei ucciderla, e ha un brivido d’orrore. Amalia! Quanti pensieri! Per la verità non è la prima volta, l’ha immaginato ancora ma si è sempre arreso, con un po’ di vergogna. Eppure! Come si potrebbe fare? Strozzarla? Buttarla dalla finestra è impossibile, dato che in casa, a parte il piccolo pertugio degli uccelli, non c’è un buco aperto. Tanto che si spengono perfino le candele.

Avvelenarla? Il veleno? Ho l’Ardoynus, Opus de venesis, nell’edizione del ’62; ho… ma dov’è, in cantina?… ho il Fontana, Trattato del veleno della vipera, nell’edizione dell’87. Bisogna trafficare troppo, coi veleni; meglio spararla. Sparare a una moglie? E il botto? Il cadavere lì per terra, con il sangue. Il sangue scivola sul piancito, potrebbe sporcare un libro, anche solo una legatura, una pagina. No! E poi, gli stessi problemi che si riferiscono alla difficoltà di trascinare il corpo di Amalia dopo averla 1) strozzata; 2) defenestrata; 3) avvelenata; 4) sparata, sussistono anche per far filtrare in casa il librone del Bergamini. Gonfio di pagine come un otre d’acqua, non è occultabile e deve viaggiare a cielo aperto. Il Bergamini è tale e quale il cadavere di Amalia, dunque un problema da sbertucciare prima di notte, se si vuole ottenere qualche risultato; cioè, far coesistere Bergamini con Amalia. Amalia con Bergamini. La moglie con la cuffietta e il canonico infervorato dentro ai suoi concili.

Ecco che le campane suonano le otto di sera; la battaglia deve essere preparata, prima di cominciarla. Affrettarsi. Scegliere il campo e scegliere il nemico. Impostare di nuovo il problema: contrabbandare in casa un tomo quando la moglie non vuole, e se ne sta lì all’erta per frugarti e annusarti, appena entri in casa, come se fossi reduce da chissà quali scontri d’amore. Una cosa, intanto: non lo posso nascondere in saccoccia o sul petto o dietro la schiena fingendomi ingobbito o infilandomelo nella cintura dei pantaloni per via, e Dio mi perdoni, che potrebbe schiacciarmi le vergogne. Ma perché? Un libro in 4°, concili o non concili, dovrebbe essere portato sempre coram populo; o addirittura esibito come un trofeo, una preda di guerra. Senza uccidere Amalia, pensa ancora Boulard, potrei lasciarlo in giardino, sotto la finestrella dei piccioni e dall’alto, con una corda o un gancio, lo ripescherei nottetempo quasi fosse il luccio dalle ali azzurre di cui favoleggia Esopo. Ma poi se mi cade? Se il gancio si stacca? Il Bergamini casca giù come una bomba e sveglia tutto il quartiere; soprattutto sveglierebbe Amalia. Ho deciso. No, non ho deciso. Forse. Ecco, potrei squinternare il volume e portarlo in casa a pezzi, sedicesimo, anzi ottavo, anzi quartino per quartino, nascosto sul petto al posto della maglia. Con venti viaggi al giorno, in dieci giorni mi cavo il pensiero. Ma Amalia non si accorge di questo mio andare e venire, suonare e chiamare?

Il notaio sbuffa e sospira. Soprappensiero ha reciso intanto il legaccio rosa e ha cominciato adagio a srotolare il plico. Sbircia, come un giocatore di tarocchi che voglia rubare una mossa al nemico. Ahi, oh madonne e santi devotissimi, doveva immaginarlo, prevederlo, temerlo, scongiurarlo, impedirlo; soprattutto doveva aspettarselo: «rilevamento e perizia catastale…».

Ah, santi devoti e Vergine castissima! L’occhio adusato alle rapide e furtive letture del notaio ha già carpito il senso complessivo di quel testo che si erge minaccioso, desumendolo dalle primissime righe. Non è infatti una ingiunzione, qualcosa di ultimativo che non lascia fiato ma un capzioso fastidioso minuzioso rilevamento catastale, tuttavia con finalità più perigliose di qualsiasi operazione giudiziaria. Disteso il fogliaccio coperto di minutissima scrittura e irto di cifre e grafici; fissatolo sul tavolo con quattro puntine; adesso il notaio percorre con gli occhi quel percorso di guerra e sembra un’ombra che voglia districarsi, che cerchi di districarsi da un labirinto d’erba e di fiori.

Avendolo lì sotto il naso, lo sente abbastanza odoroso di inchiostro da poco stilato; quindi è fresca fresca come un pulcino quella inesorabile condanna al capestro, quella prigione delle più liete speranze, arengo smobilitato delle sue intrepide battaglie. Tutte queste sono mormorate o sillabate perorazioni, perché il notaio ha già afferrato con il suo sguardo viperino il codicillo a conclusione, steso a fine pagina; dove è sancita la sua morte culturale, appunto, la sua relegazione alla prigione a vita, l’astinenza conventuale, la coartata privazione di ogni naturale quotidiana necessaria nutrizione, sussunzione, fruizione di fogli a stampa. Come il pane. Come l’acqua. Come l’aria.

A noi compete l’obbligo, a beneficio del probabile lettore, della esatta trascrizione della intera scrittura. La quale dunque iniziava procedeva e si concludeva in questo modo: mappa catastale, riverificata e riperiziata a seguito di regolare domanda (rubricata al cartiglio 879/A dello scaffale RT, Libro datato a partire dal 7 agosto 1808) della qui nominata Amalia Lamartine, coniugata Boulard, di anni 56, abitante in rue des Latins al civico palazzo fissato col numero 3. Compiuta e distesa da me, Joseph De Rolland, perito geometra d’archivio, fra le date del 27 giugno, 28 luglio e 2 agosto di detto anno dell’Imperial nostro Imperatore e Signore Napoleone Buonaparte re de’ Francesi. Certificazione aggiuntiva: con richiesta da parte della richiedente di una procedura d’urgenza.

Io Joseph De Rolland esibisco l’obbligo di esordire con la seguente affermazione, che non è conclusiva ma premessiva, da stabilirsi come preliminare commento a questa operazione tecnica che è risultata fuor del comune e, si può dire, sbalorditiva e opprimente quando, messo il punto finale, a me è stato possibile vederla nell’insieme quale l’annuncio di una qualche imminente tempesta, composta di grandine, lampi, saette, alluvioni e notevoli crolli di cose. Perché: la ruina, il traffico feroce dei libri, il disperato amore. La ruina consegue all’amore, il quale soggiace al traffico solo se gli dispone la vittoria. E il traffico è dei libri e la vittoria è dei libri. In questa storia il solo libro è sovrano. Anche il nostro amato Imperatore Napoleone Buonaparte, re de’ Francesi, in questa storia sottostà ai libri. E anch’io. De Rolland Joseph, dopo aver bene perscrutato e calcolato e misurato, mi dichiaro schiavo e servo dei libri. Assassinato dai libri. E qua mi sottoscrivo.

Inizio dunque le referenze del minuto rilevamento cominciando dal piano terra e ponendomi di fronte al portone d’ingresso del palazzo ubicato al civico numero 3 della rue sopraindicata e che da ora in avanti, in codesto papier, verrà sempre da me indicata col semplice nome di rue. Rue e nient’altro. Soltanto rue. Questo ho inteso precisare a scanso di equivoci. Il portone del palazzo è alto e di legno grosso; una volta doveva ben odorare di buon legno. Oggi neanche si apre. Ho suonato, nessuno ha risposto. Ho chiamato a voce alta, nessuna risposta. Ho picchiato e tempestato perfino con calci, ingiungendo; il silenzio era totale e i miei colpi non producevano all’interno neanche un rimbombo. Cadevano a terra davanti ai miei piedi. Finalmente è sopraggiunta la già citata signora Amalia Lamartine coniugata Boulard la quale, cominciando dapprima a inveire e poi a singhiozzare, mi avvertiva che nel palazzo, interamente inzeppato di libri, non si poteva entrare; che contro il portone d’ingresso premevano accatastati uno sopra l’altro tutti i volumi della biblioteca del fu architetto Vigneron di Nantes, circa cinquemila; tutti i volumi della biblioteca del fu medico internista Rouart, valutata intorno ai dodicimila volumi e, infine, l’intera parte dei doppioni dell’abbazia di Nostro Signore conteggiata, in perizia valutativa, di ventitremilaottocentosessantadue volumi. Tutti, appoggiati al muro perimetrale, diceva la signora, dell’ingresso; quello della porta. Perciò l’entrata possibile, l’unica entrata possibile e a lei consentita, era permessa dalla cortesia, grande cortesia dei vicini abitanti del palazzo ubicato al numero civico 1; i quali consentivano alla signora di salire all’ultimo piano, con una scaletta aggiuntiva approdare sopra il tetto e da lì attraverso un ponticello di legno disposto con l’attiguo palazzo, trapassare sul proprio tetto e indi scomparire come nella caverna della sibilla. A tale percorso, per necessità d’ufficio, mi acconciai anch’io.

Una spaventosa muraglia di orribili mostri spiaccicati e accatastati, oppure occhieggianti da scaffali di legno inclinati come alberi di una nave che affonda e gementi come sette anime di peccatori all’inferno, si è presentata di fronte a me, rendendo il mio cammino improponibile. Se non mi avesse soccorso l’esperienza della detta signora, la quale si moveva come un corsaro nel momento dell’arrembaggio. Strisciando di fianco lungo uno strettissimo cunicolo pervenimmo nella una volta camera nuziale dei coniugi Boulard, pericolosamente ingobbita verso il basso per la quantità di volumi disposti in una sovrapposizione di piani che arrivano al soffitto.

La predetta signora ha il suo giaciglio sulla cima di una pila di libroni, e questo è composto da un telo e una candela che, appena accesa, subito si spegne per la penuria dell’aria. Per arrivare in cima, la signora risale, aggrappandosi, ai dorsi dei libri sporgenti. Dettagliata in modo esemplare la situazione, specifico ora quanto segue: tutte le stanze del palazzo, in ogni ordine di piani, si possono ritenere in analoga situazione. Ogni piancito è ingobbito e non è a tutt’oggi franato perché il volume compatto dei libroni ammassati nella stanza sottostante lo trattiene. Tutti i muri sono pericolanti, crepati, imberlati. Le travi gemono e sembrano o sofferenti o impazzite. Tutte le finestre sono occluse dalle opere. I libri sono perfino dentro la gabbia dei piccioni e tre elzeviri in 32° sono stivati nella scodella del gatto. Lo stabile in questione, pertanto, è da ritenersi in un degrado irreversibile e prossimo a un definitivo franamento. Valga a conferma di ciò, da parte del sottoscritto, la seguente notula finale: nel cortile intorno trovansi due alberi, fra i rami dei quali ho rinvenuto sei grossi pacchi di libri ancora da scartocciare; e sulla parte destra è pure disposta la scuderia. Ebbene, una testa di cavallo, con parte del collo, fuoriesce dalla porta; tutto il resto è ricoperto da grossi volumi di pergamena, che non lasciano neanche un buco aperto. Il cavallo, tuttora in vita è, secondo le informazioni della signora, ancora attaccato con i finimenti alla carrozza. È stato rapidamente ricoperto, fino a non potersi più smuovere, il giorno in cui, avendo acquistato la intera biblioteca del visconte di Baltimora, il notaio si trovò durante il trasloco sotto l’incubo di un imminente temporale. Scaricò lì dentro in fretta tutte le opere, non badando al cavallo. Quel cavallo, sostiene la signora Lamartine coniugata Boulard, stabilisce e sancisce il degrado della nostra famiglia, la follia bibliografica del suo povero marito.

Raccolte le prove e le voci, molte delle quali riassunte, qua mi dichiaro e sottoscrivo, oggi in Parigi, anno 1808, Napoleone imperatore, re de’ Francesi, ecc. ecc.

P.S. A ulteriore conferma, dichiara la signora con confessione giurata che il marito già nel corso dell’anno 1801 s’era fatto costruire da un maestro d’ascia un bastone di una tesa di lunghezza, con il quale si era abituato a misurare i singoli scaffali di volumi per acquistarli integri e neanche esaminati a lire cento ogni tesa cuba. È forse utile specificare a futura memoria che la tesa misura metri 1,949; talché il notaio, per le strade di Parigi, appariva ormai come un vescovo deambulante.

Ma siamo alla conclusione.

Il notaio è lì, ancora seduto nel suo studio, avvolto ormai dal buio quieto della sera, un nero profondo, e con il suo Bergamini accanto, a pagine aperte. Boulard guarda fuori dalla finestra, gettando lo sguardo verso un cielo pieno di piccole stelle lontane, farfalle impolverate e vaganti. Con una mano accarezza soprappensiero quel suo librone adorato che respira adagio e adagio si muove e adagio odora di rancido, di nuvole, di tetti, di polvere, di legno di scaffale quasi fosse un gatto.

Un gatto gattone.

Al buon notaio, mentre insegue i pensieri, i quali inseguono i sentimenti, viene da zufolare. Zufola inquieto e allegro, un poco sorpreso, al modo di un soldato che con zaino e fucile cammina in licenza verso casa, per un sentiero di campagna e, appunto, tale e quale, sotto un cielo tutto coperto di piccole stelle lontane. Zufola Boulard la canzoncina che dice: «Napoleone nelle sue battaglie / fa cadere gli alberi e le foglie / a furia di bombarde e di mitraglie». Oh Bergamini mio, aggiunge Boulard, a voce alta terminato lo zufolo, tu non sei il nostro amato re imperatore, sei solo un vescovo e parli di Concilj, solo di Concilj. Per te, Bergamini mio, zufolerei così: «Bergamini nei suoi varj capitoli / risuscita tanti vescovi e teologi / che stabiliscono in lemmi indiscutibili / l’obbligo che i libri siano accolti / in case notarili ed ospitali. / E quella di Boulard è preferibile / più della reggia dell’imperatore». Vedi, Bergamini mio, parla a voce alta il notaio, il tuo destino è segnato, la tua collocazione precisata dal destino. Anzi, sei tu stesso, Bergamini mio, che sancisci luogo e ora della tua degna sepoltura. Oh, piccolo Bergamini, oh grande Bergamini, distillatore di pagine di delizie, scrittore di frasi più brevi della coda del mio cavallo e più dolci dell’acqua di rose, è l’ora di muoverci pian piano, di tentare il destino.

Boulard si alza, chiude con un colpo deciso il volume, si avvicina alla finestra, si affaccia nel momento in cui dalla chiesa vicina la campana notturna segna le ore. Il battacchio arrocchito sembra sbattere contro un muro tanto il suono è secco, quasi rabbioso.

Ne conta dieci di picchi, e dieci sono. Parigi ha luci nelle case, ha voci nelle case, ha anche qualche grido nelle case ma le strade sono vuote, a parte una carrozza che transita veloce e gialla oro come nelle favole. Si sente il trotto allontanarsi fra i muri, come compresso in un ricordo che non lo lascia più perdere. È già dileguato nel buio. Via anche tu per la strada, Boulard, si incita il notaio.

E via va. Ma appena ha fatto cento passi ed è svoltato per via Agrippa d’Aubigné, vede al numero 18 bis che la bottega del libraio Caravan è ancora illuminata. Forse Caravan ha appena comperato un blocco di libri rari, forse Caravan li sta sistemando in scaffali, forse Caravan li sta già schedando, o forse Caravan sta già vendendo. Oh, è quasi sicuro che lì dentro alla bottega una ciurma di bibliofili, un plotone, un’armata, una legione, un drappello di cani del libro si sta azzannando per appropriarsi dell’osso più polputo, del libro più raro. Forse è già in bella mostra, aperto sul bancone, sotto gli occhi avidi di quei fiutatori di pagine, uno dei tre volumi del Cetti, La storia naturale di Sardegna, forse il volume del 1774 dedicato ai quadrupedi, una squisitezza editoriale, un autentico babà, una gioia da non lasciare perdere.

Boulard sta già correndo, è vicino alla bottega, è davanti alla bottega, è dentro alla bottega. Il buon Caravan, in una tenuta abbastanza libera dato il caldo e l’ora, lo guarda sorpreso. Boulard, che è corpulento come dicemmo, ansima, suda, è stralunato, ha appena il fiato di urlare: «È fatta, è deciso, il libro è mio» prima di cadere sul seggiolone quasi colpito da insulto apoplettico.

Caravan grida: «Signor notaio si sente male?» ma Boulard ha di nuovo gli occhi aperti, la bocca aperta, si raddrizza come Lazzaro redivivo. La passione per i libri l’ha miracolato. Ripete: «Lo voglio, lo prendo, l’acquisto. Quanto costa?».

«Quale libro, signor mio?» mormora Caravan, abituato all’invadente stranezza del suo cliente, ma anche rapidamente rassegnato a passare attraverso un mare di guai prima di vederlo di nuovo sfilare fuori dall’uscio. «Voglio il mio Cetti» esordisce Boulard. «Voglio il Cetti che lei ha appena acquistato».

«Da chi?» chiede Caravan, che ha deciso di stare calmo ed essere riflessivo, e di non sudare. «Da qualcuno l’avrete acquistato, se lo avete sopra al bancone» ribadisce Boulard.

«Non c’è nessun Cetti sul bancone, come potete guardar; non ho acquistato oggi alcun Cetti, né ieri, né l’altro ieri. Ma se devo dire la verità in questa sera d’agosto, sotto il cielo di Parigi, un Cetti ce l’ho pure, ben nascosto e tutelato, rilegato in piena pelle con titoli in oro ai dorsi e le tavole che sembrano appena uscite dall’impressore. Una meraviglia in terra, un’occhiata gettata nel giardino delle delizie… Un Cetti ce l’ho, è lì dietro la porta».

«E io ripeto di volerlo subito acquistare. Voglio quello e nient’altro, prima di tornare a casa. Voglio fare assidere il Cetti alla stessa mensa del mio Bergamini, farli banchettare insieme, il vescovo e il matematico, in una conversazione a contrasto sulla scienza e sulla morte».

«Non voglio venderlo» ribatte deciso Caravan.

«Invece voi me lo cederete subito, perché anche voi siete uomo di scienza e d’onore… E perché io vi rilascio una carta di credito per mille napoleoni d’oro, pagabili domattina sull’unghia».

«L’opera è vostra, ve la incarto» mormora Caravan che comincia a sudare freddo. La cifra offerta è più di quanto lui pensasse mai di potere guadagnare in almeno vent’anni di continuo lavoro. Caravan si vede già fumare il sigaro, in vesti da nobile, in qualche palco di teatro accanto alla sua renitente Odette. Renitente fino ad ora ma in avanti soggetta e ubbidiente; deliziosamente servile.

«Non serve carta, dice Boulard, «ho fretta. Me li metto in saccoccia».

Caravan non si meraviglia più. In saccoccia può trasferire in casa l’intera biblioteca dei Padri Serviti. Come fa? E chi lo sa! Eppure, pensa Caravan, Boulard è capace di farlo. Boulard può traslocare sulla schiena, in un colpo solo, l’intera biblioteca nazionale. Boulard è una nave, un carro con buoi, una diligenza a cavallo, un reggimento della Guardia, e che altro? Boulard è Boulard.

Il quale ha rilasciata la ricevuta di pagamento sul bancone ed è di nuovo sulla strada, in cammino verso casa. Il Bergamini sotto il braccio, come se camminasse in compagnia di un vescovo, e i tre tomi del Cetti in saccoccia; ogni tanto li palpa come a rassicurarsi che ancora ci sono, che non sono volati, che riposano quieti.

È davanti al portone di casa. La notte fonda di Parigi. Da lontano arrivano i suoni di una musica.

Intorno al portone, sgranocchiati come un rosario, crepe e crepette e incavi profondi contrassegnano l’intonaco, al modo del volto di un uomo vecchio molto tormentato dalla vita. Ma non gli serve alzare lo sguardo; ha la percezione immediata, vibratile, irritante, commovente, gelida che i due occhi di serpente e di fuoco di Amalia lo stiano osservando. Meglio, lo stiano aspettando.

Amalia, Amaliuccia bedda, lasciami questa ultima avventura, questa estrema illusione, concedimi questa estrema fornicazione dell’anima – vorrebbe urlare il notaio col viso rivolto all’alto, al modo di un ubriaco che confabula con la luna.

Amaliuccia cara, salgo sui tetti, entro in casa, depongo vicino al letto i quattro volumi, saliamo le rampe delle pile, entriamo nel letto e magari celebriamo dopo tanti anni la nostra gioia e la nostra liberazione con un sacrificio d’amore. Non era così anche per gli antichi, di fronte alle novità o alle grandi gioie della vita? Eh, Amaliuccia bedda? Amaliuccia bella o brutta sporge la testa da un pertugio sotto il tetto e gli grida sul cranio: «Provati a inoltrare in casa quei tre o quattro cosi che ti scorgo addosso e questa volta non minaccio ma sparo» intanto brandisce un pistolone che appena si intravede nel buio della notte.

Ma Boulard è ormai drogato dall’ansia, che lo solleva quasi da terra e gli mormora all’orecchio:

«Lascia perdere le voci, questa terra è tua, tuo lo spazio, tuoi i libri, tuo il convento. E gli scaffali sono pronti. Le crepe non sono altro che invenzioni, oppure fantasie del demonio. E lassù non è Amalia… Amalia dorme sicura e rassegnata sopra la pila dei libri. L’altra che si vede è Belzebù in veste di Amalia, che giuoca un suo torbido tiro per assatanare la tua vita e rendere tristi i tuoi giorni.

Se cedi questa volta, il tuo viaggio fra i libri è arrivato al porto. Non ci sarà più domani, ma neanche il tuo ieri resisterà al terremoto del tempo e degli inganni. Tu devi entrare».

Dunque entrerò, ribadisce il notaio quasi gridando e lanciandosi avanti. Suona i campanelli del palazzo accanto perché gli sia in qualche modo aperto il portone. E il portone gli è aperto mentre si illuminano, quasi contemporaneamente, le finestre e l’androne e qualcuno vestito, e qualcuno in camicia da notte, si affaccia sui pianerottoli a curiosare. Boulard non sale ma corre. Ansima come un bufalo eccitato a caricare. Sente il cuore che gli scoppia ma arriva alla fine. È sul tetto, attraversa il ponticello di legno che geme sotto il peso; è nella prima stanza del suo palazzo. Boulard si orienta benissimo al buio, conosce gli spazi, non si lascia ingannare dalle sporgenze; non ha il minimo impatto contro un dorso o una pila.

Arriva nella stanza da letto, sente precipitosi sfrigolii e movimenti di piedi; confida siano quelli di Amalia che tende ad avventarsi per incontrarlo. Depone il Bergamini ai piedi del letto; anzi, no, prima cava dalla saccoccia i tre tomi del Cetti poi lascia scivolare a terra il Bergamini. Lo depone adagio, quasi fosse il corpo sacrificato di un santo o di un compagno ferito in un combattimento. Gli fa una carezza sul piatto, gli mormora «domani ci vediamo» proprio mentre sopravviene Amalia che urla «ti ho sorpreso, vigliacco».

È la conclusione di tutto.

Dapprima un sussulto del palazzo, come se le pietre si mettessero a ballare; poi fu la volta dei libri, le cui pile cominciarono a dondolare ma senza precipitare, dato che le une si appoggiavano alle altre. Quindi l’aria cominciò ad arroventarsi, ad accendersi; i piccioni sui coppi si alzarono in volo, le pareti iniziarono un loro triste lamento che strisciava sull’intonaco screpolandolo mentre dal fondo delle scale un vortice di vento gelato andò a sbattere, risalendo e sibilando, contro il tetto. Infine accadde il botto, il rombo, il rimbombo o, per meglio dire, seguendo le intitolazioni delle gazzette dei giorni seguenti, l’apocalittica deflagrazione del palazzo del notaio Boulard, sito in Parigi in via ecc. ecc.

Lo scoppio di una polveriera, disse poi la gente. Lo scoppio di una polveriera di guerra, precisavano. Come se cento cannoni in contemporanea avessero sputato fuoco e fiamma; mentre in realtà il palazzo, sbriciolandosi, aveva rigettato fogli, libri, dorsi, rilegature, stampe contaminate dai calcinacci.

Volarono in cielo come i cavalli dell’Ariosto, questi libri robusti.

Altri andarono a smarrirsi sugli alberi delle foreste; o planarono dopo un lungo tragitto sull’acqua dei laghi e dei fiumi. Per una notte e un giorno il cielo della città di Parigi fu ricoperto di fogli aperti che sembravano ali troncate di angeli, e davano impressioni dolentissime o macabre oppure, a seconda dei casi, di sorpresa e letizia. Il cielo non si scorgeva più. Le strade sottostanti rigurgitavano di tomi sbriciolati, contorti, capovolti, imbrattati sbrecciati feriti disperati.

«È la fine della Francia» riuscì appena a mormorare a un amico Caravan, prima di chiudere la bottega e di partire per una vacanza al mare.

In quel massacro, che fece per un momento tremare per intero la città di Parigi, non ci furono morti in mezzo a così grande spavento.

Non Amalia, che ebbe l’intuizione lucida di fuggire nel palazzo accanto precipitandosi poi per le scale. Non il notaio Boulard, perché come scrisse il grande Diderot in una sua opera minore ma preziosa e deliziosa, è scritto lassù quel che capita quaggiù. E lassù fra le nuvole forse il Bergamini in carne e ossa aveva ottenuto che un così fedele amico, e tenace amico, salvasse ancora le ossa nel grande cimento della vita.

Perfino il cavallo, lì nel cortile. Ancora con la testa in fuori, tutto impolverato e coperto di calcinacci, sempre stretto fra le pile dei libri. Perfino un cavallo si salvò, dopo l’apocalittica deflagrazione. Segno che i libri, in ogni caso, rendono meno male delle mitraglie. E delle bombarde.

Questa è la storia. Anzi, la cronaca di una storia.

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: racconti
  • Editore: Zanetto editore (400 copie numerate)
  • Anno di pubblicazione: maggio 1998
Letto 9583 volte Ultima modifica il Lunedì, 11 Marzo 2013 10:49