Ai Tempi di Re Gioacchino – Un brigante

14 luglio 1810

Sulle montagne di S. Giorgio la Molara. È notte; il cielo schiarisce.

La coscia destra duole per un colpo d’ascia ricevuto ier l’altro nello spaccar legna.

 

15 luglio 1810

Dicono che s’avvicinano. Tra questi boschi il silenzio è così grande che non si ha più paura. Guardo gli altri, negli occhi. È il nostro modo di parlare. La voce serve solo per bestemmiare. Qua, nostri nemici sono i preti e i soldati di re Gioacchino.

È un francese venuto dall’alpe, e la sua donna è bella. Come l’ultima che presi a Paternopoli. Dirò di questa, se mi serve il tempo.

C’era una casa ai piedi di un picco, e la nostra masnada passava in silenzio; se tacciamo, la paura è maggiore per gli altri. La casa è prima del paese: quattro passi poi le altre, fitte fitte, scure umide.

Sputai a terra, per il disgusto; meglio – pensavo – l’erba del bosco o il sasso della montagna. Chi vive in questo marciume? Perché non si fanno briganti? o forse re Gioacchino li paga – pensavo – la rabbia mi cresceva. Alzo gli occhi; vedo dietro le asse di una finestra – in quella casa a picco – un viso di ragazza, che mi mette il brivido. Ma taccio, perché gli altri non sappiano; una coltellata val bene una donna.

Cammino con la gola secca e il corpo che mi pesava: e volevo voltarmi. Appena si rientrava in paese sapevo bene che fare. Gli altri su nelle case a frugar per il vino e per le donne, e io indietro per quella; mi pareva non averne mai toccate, tanto il corpo e il petto mi prudeva. E non appena vidi i compagni correre alla ventura, ritornai anche io alla mia, che mi sembrava mill’anni.

Anche un brigante sa fingere, se conviene. E mi leggerete in seguito se questa arte serve.

Ma ora ho sonno e tronco.

 

16 luglio 1810

Oggi c’è stata battaglia: dura, come da mesi non si combatteva. Dei nostri, trenta sono distesi lungo il fosso di Montefalcone, morti di moschetto; dieci, forse, pendono dai rami scarsi della discesa. Ma non ci siamo ancor contati.

Segno i nomi dei capi avversi, venduti al francese: nomi da ricordare. Lebrun, capo squadrone della gendarmeria, e Luoni, tenente.

Si persero nella mischia molti cavalli; e questo è male.

 

18 luglio 1810

Siamo a Lapis, ora. Camminammo per l’intero giorno, con una grande stanchezza in corpo.

Predammo il cibo; lasciammo a mezza via uno dei nostri, preso un manutengolo fidato; ferito a un braccio dolorava e minacciava la cancrena.

Molti imprecano e con ragione. Nel passato era assai meglio. Ricordiamo i nostri ozi a Tricarico, presso il fiume Busento, nella nostra Calabria. Qui che si resta a fare?

Le strade e il cielo sono cupi e l’aria pesa. Che si resta a fare?

 

20 luglio 1810

Dicono che posdomani c’incontreremo con l’Antonelli. Chieti è città sua e dell’Abruzzo egli è signore. Vigoroso e spietato, ha radunato gran copia di ricchezze e la regione trema tutta ai suoi piedi.

Il re borbonico lo fece colonnello e i suoi generali gli portarono la divisa, con spalline d’oro come il grano nel solleone.

Sul cavallo baio, per le vie di Chieti, egli era il re.

Ora è di nuovo alla montagna; il re Gioacchino ha messo una taglia su di lui.

Domani l’incontreremo.

 

21 luglio 1810

Dicevo dunque che ritornai indietro e infilai l’uscio e via per le scale. Mi s’incontra una vecchia che scosto col braccio; sulla tavola era un bicchiere mezzo di vino; o bevo e cerco con gli occhi nella stanza; c’era accanto un camerino con un pertugio e anche lì guardo. Già maledivo, quando la scorgo sotto il letto e quasi non la vedevo. La strappo fuori ridendo; lei impaurita e rossa con certi occhi da giovedì santo; la getto sul letto e faccio a piacere mio.

Sulla soglia la vecchia era secca, e pareva un albero, con quelle braccia a parte che quasi sembrava che ruzzolasse abbasso.

La giovane mugugnava, con un suo lamento di cuore che mi rinfocolava l’estro sicché indugiai lungo, fin verso sera.

 

22 luglio 1810

L’Antonelli ha raccontato del tempo trascorso. Sotto un albero, e noi d’attorno carichi di vino e arrosti che quasi non ci si moveva.

Indicando un paese al fondo di valle, raccontava che vi assalirono la casa di Angelo Soriano – un maledetto – fracassando ogni cosa e portando via, tra l’altro, la moglie Maddalena Russo, che tennero per venticinque giorni, su per i boschi, finché non ne ottennero il riscatto. E disse che l’aveva cavalcata, più volte.

Chiedendogli uno, qual modo tenesse per sollecitare il riscatto, affermò che con la richiesta mandava spesso un orecchio del sequestrato – o di ognuno dei sequestrati – sicché il pensiero del ricevente si muovesse sollecitamente alla borsa e allo scrigno.

E salutandoci, coi suoi uomini che cavalcavano i muli, lodò l’Abruzzo e la Calabria, alla quale ritorniamo.

Saremo così presso i Borboni che ci pagano, e agli inglesi.

 

25 luglio 1810

Procediamo ora lungo la costa e ci guardiamo dai presidi della guardia civica che sono assai numerosi.

La terra è arida e poco abitata. La sete ci travaglia.

 

26 luglio 1810

Riposando in un bosco, scorgemmo di lontano, sul mare, un legno inglese attaccare con moschetteria e cannoni una barca francese. Questa dirottò veloce e si sottrasse ma inclinava troppo sul lato mancino per non aver subito danno; sicché cercò un approdo. Doveva essere carica di generi vari; buon pascolo per noi se non fosse accorsa numerosa la guardia civica e un distaccamento di cavalleggeri che aperse il fuoco verso il mare. La buona sorte ci sfuggì.

 

29 luglio 1810

Nel golfo di Vallo attendemmo una notte e sul far dell’alba quando l’onda rinfresca, un legno siciliano ci raccolse e ci sbarcò nel golfo di S. Eufemia. Ebbimo anche armi e munizioni e buoni cavalli.

Ci inoltrammo verso Sila.

Il 3 e il 4 agosto toccammo Feroleto e Serrastretta e, infine, dopo essere saliti sul Montenero, giungemmo a S. Giovanni in Fiore, nella Sila selvosa, dimora sognata da troppi mesi.

Sul Neto ci bagnammo.

 

30 agosto 1810

Attacchiamo le guardie del re Gioacchino. Costringiamo i contadini a proteggerci.

Tutti credono che i francesi siano nemici di Dio e che il re Ferdinando tornerà presto. I preti parlano nelle chiese contro i francesi e poi fuggono all’arrivo delle guardie. Essi dicono che i francesi agognano alle donne e alle robe, i contadini odiano i francesi per questo; e noi ci prendiamo le robe e le donne.

Qua in Calabria il governo del re Gioacchino non ha altri paesi che quelli occupati militarmente.

 

31 agosto 1810

Ci comanda il Parafante.

Si dice che domani attaccheremo un battaglione di linea, il luogo scelto è buono, e anche il tempo.

Dopo, forse, scenderemo a Cosenza.

 

1 settembre 1810

Tutto è fatto e vi ricorderò come.

Il battaglione era di Charron, un ufficiale orbo di un occhio superbissimo, già altre volte incontrato dal Parafante, in scaramucce improvvise.

Dovendo da Cosenza portarsi a Rogliano, scendemmo dal monte e ci appostammo in località Lago.

Il Parafante fece sapere all’ufficiale che ivi l’aspettava. Costui se ne rise, sprezzante.

Ma giunto il battaglione a certe strette, nel luogo sopradetto, dalle cime dei monti cominciammo a buttar massi che scendevano a precipizio tuonando e sfranando. Un grande nembo di polvere coperse le gole; certo i soldati, per essa, accecarono. Noi li attaccammo senza indugio, all’impazzata; i colpi dei nemici andavano senza bersaglio.

Questo durò mezz’ora, poi ci fu silenzio. Dileguato il nembo e avvicinandoci guardinghi, forse venti ne scorgemmo ancora in vita, quasi forsennati dalla sorpresa. Inviati con urla, si arresero.

Trascinati davanti al Parafante che si ristorava sotto un albero, pareano inebetiti. Immobili, stracciati nelle vesti e le braccia rilassate; giovini tutti, gli ufficiali non si distinguevano dai soldati.

Negli occhi del Parafante andava un lampo che noi conoscevamo: sotto vi covava malizia. Attendevamo, muti.

Ed essi pure, in silenzio, aspettavano. Il luogo, riarso, all’intorno avvampava.

Così parlo il Parafante: «Della vostra sorte assai mi pesa, o soldati, e volentieri vi libererei se non avessi fatto voto a S. Antonio di non risparmiare nessuno di voi. Pure, considerando che guerreggiate non per volontà vostra, ma per la legge inesorabile della coscrizione, io mi sentirei piegato a misericordia. Ma ad ottenerla, è necessario mi diate una prova di ravvedimento, ed è che mettiamo a morte queste due carogne di ufficiali. Se lo fate, giuro all’Immacolata – e si toccò il petto – di salvarvi; se no, morirete tutti di mala morte».

E attese. Ghiacci di orrore i soldati guardarono i due ufficiali e costoro, con un cenno, li radunarono attorno. Parlarono a lungo, e pareva che i due infelici tentassero di convincerli e gli altri rifuggissero. Ma infine si indussero, per scansar la morte, a fucilare i due condannati.

Prese le armi, con i colpi contati, e appostatili contro un masso, furono ben presto morti. Ancora non s’erano voltati gli sciagurati soldati, che a un cenno del capo la banda si gettò sui rimasti e li uccise turpemente, dopo averli denudati.

Io m’astenni, fingendo un altro lavoro, ché mi tedia il massacro se non dà lucro o piacere.

E vidi il Parafante dormire al rezzo di un masso.

 

3 settembre 1810

Quasi alle porte di Cosenza ci incontrammo col principe di Canosa, giovane molto, venuto di Sicilia per conto del re Ferdinando. Parlò brevi parole e diede a ciascuno di noi del denaro, altro mettendone per il futuro. Poi se ne andò: un legno lo aspettava, alla notte.

Ma il futuro si oscura.

 

5 settembre 1810

Il generale Manhes è giunto in Calabria.

L’autunno è piovoso.

Ier sera – ma ancora non era buio – sorpresi una contadina che tornava dal campo al paese, con un suo figlioletto. Tenendo la donna per il braccio, con un verso feci continuare il cammino al ragazzetto, il quale si volse più volte a guardarci. La donna, sapendo ciò che volevo, s’acconciò senza lagni. Era burrosa e ancora non sfatta. Non ci dicemmo parole. La lasciai andare ed essa si avviò di corsa: ma era già sera.

Altri le uccidono, per tema che li denuncino alla guardia civica; non io, e me ne ritornai ai compagni. I fuochi erano accesi e mangiammo fino a tardi.

Durante il giorno sapemmo che il villaggio di Parenti era stato arso dal generale, per l’imboscata ai volteggiatori francesi che dovevano recarsi a Scigliano e invece tutti perirono.

Ciò che facevamo noi fa il generale, ora.

 

8 settembre 1810

Antonelli fu preso e impiccato il mese scorso. Impiccato a Fossacieca, il suo paese, dopo aver traversato Chieti in ludibrio; e che gli siano state mozzate le orecchie e le mani, dicono.

Il generale ha sede a Monteleone.

Ha emesso proclami e intende che i preti – birbanti dei Borboni – li leggano in chiesa; e a questo essi si acconciano.

Gli ordini recano: che siano pubblicate le liste dei briganti e che i cittadini – conoscendoli – hanno obbligo di prenderli o ucciderli; che gli atti alle armi debbono correre al servizio dello stato; che chiunque ha commercio con noi sia punito di morte; che le greggi siano radunate in luoghi stabiliti e sospesi i lavori di campagna.

Pare che il nostro tempo non si ancora venuto e che il generale, prima di muoversi a battaglia, aspetti che la campagna si spogli di frutta e di fronde e che la Sila si cuopra di neve.

Nel Cilento e nell’Abruzzo fu spietato e vittorioso.

Attendiamo legni di Sicilia, ma le coste son ben guardate, ora.

 

15 settembre 1810

Undici della città di Stilo, donne e bambini, recandosi a cogliere olive in un podere, colti con del pane addosso – e ciò contrasta con i proclami – per ristorarsi a mezzogiorno, vi lasciarono la vita, fucilati.

Scendiamo più di rado al piano.

Mi torna spesso in mente la morbida vergine di Paternopoli.

 

17 settembre 1810

La gente è impaurita. Riesce più difficile scendere nei paesi; e sui dorsi della montagna l’aria comincia a rendersi fredda.

 

20 settembre 1810

Il generale si avvicina. Sono cominciate le piogge.

Il Bizzarro è stato ucciso.

Taccone, catturato dopo furibonda battaglia, trascinato a Potenza su di un mulo, con un cartello in fronte, a ludibrio, poi impiccato.

Anche Quagliarella è morto, ucciso a Rincigliano; sul capo aveva una taglia di mille ducati.

 

20 settembre 1810

Il generale è tra i boschi della Sila. Troppi sono morti e le bande non sussistono più. Col Parafante a capo cerchiamo di renderci alla costa. La gente s’è voltata al più forte e ci è ostile.

 

25 settembre 1810

Il generale è vicino; a volte sentiamo il suono delle trombe. La Sila è gelida e silenziosa. Abbiamo fame: non ci resta che tentare verso la costa.

…Mangiamo i cavalli e abbandoniamo i cadaveri nel cammino. Molti di noi sono morti combattendo, altri di fame, altri ancora – maledetti – si sono venduti al nemico. Ci contiamo: quindici, con la compagna del Parafante che è smagrita fino all’osso.

Svegliandoci, mentre scrosciava tra i rami cupi del bosco, altri sette mancavano. Non accendiamo più il fuoco: la fame ci arde. Il silenzio fa rabbrividire. Dove saranno i soldati?

Addio mare! non ci resta che salire alle cime della Sila, coperte di neve. Abbiamo abbandonati i cavalli. Uno di noi geme, con un braccio spezzato.

La terra è fradicia; il Parafante maledice con una voce che fa raggelare.

Sentiamo dei rumori.

Siamo in cinque: altri due morti. Saliamo per la strada di questa montagna verso l’inferno, tra la nebbia, a volte, scorgiamo il mare. È ormai troppo lontano.

Udiamo voci e spari che arrivano dalla valle.

Mi cresce l’odio addosso: vorrei uccidere e soffro; il sangue mi calmerebbe.

La compagna di Parafante s’è accasciata per terra ed egli voleva ucciderla, poi l’ha sollevata e l’ha costretta a proseguire. Giunti a quel masso daremo termine al cammino: non ci sarebbe altra strada, se non scendere all’altro versante per cui sale, invece, il generale.

Il tempo s’è schiarito ma l’aria è gelida e il vento soffia.

La compagna di… Con un balzo il capo la strappa dal sentiero e si gettano a precipizio per la discesa, Prima ancora di capire, sentiamo un rimbombo violento e palle di moschetto fischiare sopra la nostra testa. Ci gettiamo a terra, al riparo di alcuni macigni e rispondiamo al fuoco. Uno di noi, steso nel mezzo del viottolo, col viso tra i sassi, sussulta gorgogliando. Il Parafante è ormai lontano.

Sacr…! Affiorano le divise dei soldati di re Gioacchino, altre salgono, altre ancora appaiono sull’opposto cucuzzolo.

Ci hanno presi in un’imboscata; e così doveva finire.

Il Parafante è lontano, oramai.

Non ci arrenderemo e tra poco saremo morti. E il generale avrà vinto.

 

 

 

L’Indicatore Partigiano, anno II, n. 2, marzo-aprile 1949.

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: racconti
  • Testata: L’Indicatore Partigiano
  • Anno di pubblicazione: anno II, n. 2, marzo-aprile 1949
Letto 6668 volte