L’Italia sepolta sotto la neve. L’esperienza poetica dell’ultimo Roversi

Università degli Studi di Roma, “La Sapienza”, Facoltà di lettere e filosofia

Tesi di laurea in Letteratura italiana moderna e contemporanea.

L’Italia sepolta sotto la neve. L’esperienza poetica dell’ultimo Roversi

Relatrice: Prof.ssa Biancamaria Frabotta

Correlatore: Prof. Giorgio Patrizi

Candidato: Carlo Ruggiero

Anno accademico 1999/2000

 

 

 

Indice

 

I. “Con le orecchie al vento come i cani”. Profilo di Roberto Roversi

Ritratto di Roberto Roversi da giovane

Il tempo di «Officina»

Quei “favolosi” anni Sessanta

Gli anni Settanta. Nuovi canali di comunicazione

Gli anni Ottanta-Novanta

 

II. Il caso Roversi. Fortuna e sfortuna di un poeta intellettuale

La poesia di Roversi, una scoperta tardiva

L’interesse per Dopo Campoformio

Il dibattito degli anni Sessanta

La scelta della clandestinità

Roversi nel “mercato delle lettere”

Un colpevole silenzio

 

III. L’Italia sepolta sotto la neve

Tra vecchie angosce e nuovi stimoli

L’Italia sepolta sotto la neve

Premessa: Il tempo getta le piastre nel Lete

Parte prima: Fuga dei sette re prigionieri

Parte seconda: La Natura, la Morte e il Tempo osservano le parche che giocano la partita

Parte terza: Astolfo trasforma i sassi in cavalli

 

IV. Bibliografie

Bibliografia

Bibliografia critica

 

***

 

 

I. “Con le orecchie al vento come i cani”. Profilo di Roberto Roversi

 

 

“Costituzionalmente si deve avere bisogno di imparare, di perdere le scorie, di tenere gli occhi aperti, di sentirsi ribaltare, di stare con le orecchie al vento come i cani”.

 

Roberto Roversi

 

 

“Lo scrittore? L’autore? Piglio l’uno e l’altro e dico così: non uno che scrive ma uno che fa. Scrivendo si sceglie scrivendo, facendo si sceglie facendo; magari in entrambi i casi si rischia l’osso del collo – quando non si è deciso altrimenti, cioè di passare alla cassa”.

 

Roberto Roversi

 

Ritratto di Roberto Roversi da giovane

 

Forse il profilo più suggestivo di Roversi l’ha tratteggiato Angelo Romanò, quando di lui sottolinea “il rovello lancinante, la disperata proterva integrità, il pervicace rifiuto del mondo, lo smisurato amore del passato, della virtù incarnata nel passato duro, rigido, manicheo, il senso dell’inafferrabilità del tempo, il voler essere puro, incorrotto, compatto dentro la storia che è impura, corrotta, dissoluta […]”1; “come uno che vuole vivere in quel tale tempo. E vuole viverci dentro…”2, aggiungiamo noi, per mezzo delle parole dello stesso poeta, protagonista di una costante e indignata registrazione degli eventi sociali e di una furiosa “contestazione globale” della società italiana contemporanea.

L’opera di Roberto Roversi, poeta, narratore, drammaturgo, critico e animatore culturale tra i più significativi (per vitalità, rigore morale e severo impegno nella formulazione di proposte metodologiche) di tutta la letteratura engagée italiana, appartiene quasi completamente al mezzo secolo successivo al secondo dopoguerra, periodo del quale vive in prima persona, sulla propria pelle, tutte le drammatiche lacerazioni ed i contrasti. C’è però una sua esperienza precedente che, in un profilo generale come quello che tentiamo di disegnare, merita quantomeno la registrazione, se non altro perché mette in luce alcuni tratti caratteristici che permarranno, necessariamente arricchendosi, nella personalità intellettuale roversiana.

Roversi nasce a Bologna nel 1923, da una famiglia che apparteneva “a una borghesia non ricca, appena benestante, ma provincialmente ambiziosa e con qualche dovere3. Un suo zio, uno di quei “personaggi della famiglia, i favolosi gentlemen, coloro che passano lasciando (ancora) tutti sbigottiti”4, fece pubblicare a proprie spese, prima di morire, il suo primo libretto di Poesie da Landi a Bologna, nel 1942; al quale fecero seguito l’anno successivo, e presso lo stesso editore, il volume delle Rime eil romanzo Umano, mentre Roversi era ancora un giovanissimo studente di filosofia. “La guerra”, racconta nel 1960, dalle pagine del numero 2 de «Il Menabò», “mi portò, rovinosamente, lontano. Ero senza idee e senza forze; solo, senza maestri e ignorante […]. Seguendo con rassegnazione i bandi dell’otto settembre fui in Germania con la Monterosa; poi, in Italia, finalmente, coi partigiani piemontesi. Non feci nulla; patii soltanto con tutte le mie forze, ma non più con rassegnazione. Ero a Savigliano, appostato col mitra, nella notte d’aprile, ed ascoltavo il passo dei tedeschi in ritirata, e il canto da cruco, duro, triste che l’accompagnava; poi a Cuneo, a sfilare davanti a Parri, con tutta la gente felice, in quei giorni che sono il più bel ricordo della mia vita”5. Questo è tutto quello che si riesce a sapere sulla partecipazione diretta di Roversi alla Resistenza, interrogarlo oltre su questo argomento vorrebbe dire sentirsi rispondere che, dopo il 1960, mitizzare quel periodo finisce col disinnescarne le ancora attive potenzialità di opposizione politica e culturale; così il poeta, su «L’Unità» in un’intervista del 1966: “Bisogna rivolgerci alla Resistenza non con la tenerezza abbastanza equivoca della memoria, ma con la coscienza che quelle istanze sono tuttora operanti ed aperte. Si devono guardare le difficoltà che ci stanno davanti, non le delusioni che sono dietro”6.

Alla fine della guerra, Roversi torna a Bologna e conclude l’iter universitario con una tesi su Nietzsche, anche se, ora, i suoi interessi sono prevalentemente storici come ci confermano, in tempi molto più recenti, i suoi ricordi: “Mi interessava la storia del Risorgimento soprattutto, letta la prima volta ancora al liceo sulla documentazione interminabile ma, per me ragazzetto, affascinante del Tivaroni. Quei fatti minuti, sottratti alla pompa dei velluti e delle medaglie e delle barbe dei vincitori; quella perspicacia nel documentare e quel respiro che quasi faceva voltare le pagine come un piccolo vento… Chiesi e ottenni di diventare assistente alla cattedra di storia del Risorgimento all’università di Bologna. Rimasi due anni con progressivo appannamento delle speranze di fare, della voglia di fare”7. Un interesse per la storia italiana che mette sotto un’altra luce, alcuni titoli emblematici dell’autore, quali Dopo Campoformio, Ai tempi di re Gioacchino e, ancor di più, Caccia all’uomo,quelloche, tenendo conto della centralità del tema dell’uomo “braccato” nella poetica del bolognese, potrebbe essere assurto come titolo di tutto il macrotesto roversiano. Continua, infatti, Roversi: “Il mio proposito modesto ma convinto era di indagare sul serio, voglio dire in profondità e con continuità, la storia da fanfara e da bandiere al vento (ma in realtà da tragedia e da morte) di quegli anni, disponendomi non dalla parte del vincitore ma sulle carte del nemico. […] Niente, neanche mi ascoltavano. Volevo cercare di indagare sulle violenze ripetute e sui ripetuti massacri compiuti dalle truppe piemontesi soprattutto in Abruzzo, negli anni dell’annessione, ed ero stato conquistato dal severo eroismo dei soldati borbonici asserragliati nella fortezza di Civitella del Tronto per quell’ultima resistenza, senza resa, fino all’ultimo uomo. Solo per fedeltà a una parola. A scuola nessuno me lo aveva raccontato che c’erano uomini simili anche dalla parte sconfitta. Da quel momento, da quelle letture, da quelle notti passate su documentazioni appassionanti, ho imparato come una verità mai più dimenticata a diffidare delle parole dei vincitori. O comunque, di andare cauto nell’ascoltare e di non intrupparmi mai, in nessun caso, nell’applauso… Lasciai senza saluti l’università e mi dedicai ad altro, cercando intorno a me…”8.

Ricerca, questa, che lo portò per cinque anni ad essere contabile in una piccola fabbrica di schemi per raggi X, “lasciando un ricordo non felice, d’umore scontroso e chiuso”9; in seguito, lavorando con un’altra insegnante, e lui con uno pseudonimo, compilò parecchie antologie scolastiche che ebbero un ottimo successo, fino a raggiungere quello che per cinquant’anni sarà il suo duro ma dignitosissimo mestiere: “lavorare con i libri vecchi, con i libri antichi… con i libri che hanno polvere addosso […]”10.

Il capocommesso della libreria Cappelli a Bologna, Otello Masetti, lo avvertì che un imponente e secolare archivio, appartenuto ad un vecchio nobile che smobilitava casa, si trovava nelle mani di un rivenditore di carta straccia; Roversi decise, con un prestito, di comprare quei sacchi e di riscontrare, con lo stesso Masetti, i volumi di quel primo acquisto. Nacque così, nel 1947, la libreria antiquaria “Palmaverde”, e quel lavoro di quotidiani gesti minimi che permette a Roversi, fino ad oggi, di “vivere con quel povero decoro che mi è essenziale, e d’essere libero; di rigirare le mie carte senza che un muso di cane mi fissi con occhio risentito e mi allunghi la paga, con un sospiro, alla fine di ogni mese”11.

Da uno stanzone al primo piano accanto alla chiesa di S. Michelino, si passò ad un “cubicolo” nella centralissima via Rizzoli, poi in via Castiglione ed infine al civico quattro di via dei Poeti, dove la “bottega” si trova tuttora. Queste pareti saranno culla di importanti interessi culturali ed intellettuali, luogo di incontri e di lucida ricerca ideologica tanto da portare il gestore di una piccola libreria a trasformarsi in editore. Per le edizioni della libreria Palmaverde, infatti, sono apparsi, non solo i fascicoli della prima serie di «Officina», ma anche quelli di «Rendiconti», «La Tartana degli influssi» e «Dispacci», fino ai più recenti «Lo Spartivento» e «Numero Zero»; nonché alcuni libretti di una collana di opere “nuove e diverse”, «Il Circolo», che comprendeva testi di Pasolini, Leonetti e di Roversi stesso; le collezioni specialistiche di Opere inedite e rare a cura della Commissione per i testi di lingua; Medievalia, studi e testi latini e greci medievali e i volumi della Biblioteca Musicale della Rinascenza.

Per quanto riguarda invece le opere da produttore in proprio di questo primo periodo, e ci riferiamo alle prime Poesie, Rime e al romanzo Umano, esse rivelano subito il forte impegno morale, la strenua tensione etica ed esistenziale del giovanissimo autore ma anche, come nota Giuseppe Zagarrio, “l’educazione formale ispirata alla lezione più severa e rigorosa dei classici. Leopardi, Petrarca, ma anche e soprattutto Dante e il predantismo, quello più lacerato e aspro più pronto e rauco, insomma Cavalcanti o Cecco o lo stesso Dante più pietroso e apocalittico”12. Ovviamente molto è destinato a cambiare nel corso dei decenni a venire, però, ci chiarisce lo stesso Zagarrio, il lettore più attento ai primi vagiti (e non solo) della poesia roversiana, “restano delle tracce utili, di ordine comportamentistico ed espressivo, che possono servire a fare luce sull’ulteriore lavoro del poeta e fino a quello più attuale, […] tracce che ci dicono di alcuni motivi destinati ad operare ancora in avanti e a trovare ulteriori esiti”13. Il critico individua queste impronte, come abbiamo visto, nel “fascino della severa compostezza del classicismo”, ma anche “nell’assenza [ma si potrebbe anche definire rifiuto] della scelta novecentesca”, nella “propensione etico-religiosa verso un rigorismo di tipo calvinistico”, e nell’”effetto stilistico di accentuazione retorica” di questi versi. Aggiungeremmo noi, azzardando, pure una certa tensione verso la disperazione che si risolve o nell’urlo ribelle ovvero nel lamento inconsolabile; tensione questa che si avvertirà anche nella successiva produzione di Roversi e che Zagarrio, lucidamente, non mancherà di notare.

È del 1954, infine, il primo volume roversiano uscito dopo la fine della guerra, quello che si potrebbe definire il primo risultato compiuto della sua poesia, nel momento in cui, come ci pare giusto fare, i volumetti giovanili vengano considerati come un fecondo tirocinio e come una valida palestra per i suoi versi: Poesie per l’amatore di stampe, per le edizioni Sciascia. In questa raccolta la tendenza roversiana alla monumentalità e il tentativo di sgrossare in ritratti eroici, sia individuali che collettivi, la materia contadina, “la tecnica della ritrattistica e nell’accezione specifica della scalpellatura e dello sbalzo scultoreo”14, caratteristiche proprie del Roversi più maturo, si chiariscono già come “maniera” personale e come base progettuale ferma e sicura.

 

Il tempo di «Officina»

 

Quando nell’aprile del 1955 esce a Bologna, stampato dalle edizioni della libreria Palmaverde, il primo numero di «Officina», Nehru è il premier indiano, Nasser è il primo ministro egiziano, Molotov è ancora ministro degli esteri sovietico mentre Einaudi è il presidente della repubblica italiana; nel “bel paese” il nuovo capitalismo rampante, come ci conferma la produzione in numero sempre maggiore di automobili di piccola cilindrata, sta cercando di allargare i consumi di beni voluttuari. Il 25 aprile si festeggia in tutta Italia il decennale della Liberazione Nazionale, ma “è raccolta e divulgata la notizia che a Prato i ‘celerini’ hanno assaltato, bastonato, disperso il corteo dei partigiani a causa dei fazzoletti rossi al collo e delle bandiere al vento”15. Roversi per sua stessa ammissione viveva, a quel tempo, “assordato da una sensazione di frastuono degradante, di polverone ribollente dentro a una geografia di spacchi aperture frane; sentivo o mi pareva che tutto crollasse per cambiare, a causa di un mutamento forsennato; dentro i tonfi, mi accorgevo di essere partecipe e complice di un preordinato sfracello”16.

È in questo periodo quindi che l’aggregazione sociale che trovò il proprio collante nella Resistenza comincia a sfaldarsi sotto i colpi di nuove e sempre più complesse esigenze, ed è proprio in questo periodo che nella “bottega” di Roversi ebbe inizio il sodalizio con Pasolini e Leonetti ed il quinquennale lavoro di «Officina», progetto a cui il libraio offrì dunque il luogo natale, nonché il suo contributo di poeta oramai maturo. Infatti Roversi in «Officina» non appare espressamente impegnato nella formulazione teorica (tranne alcuni sporadici, ma lucidi, interventi) nella quale emergono invece le maggiori capacità di “agitatori” culturali di Leonetti, e soprattutto di Pasolini.

L’apporto di Roversi alla rivista sarà affidato, oltre che all’oscuro lavoro redazionale e all’attività pratica di editore, in special modo ai versi che apparvero in una serie di quattro momenti, nei numeri 1, 6, 9/10 e 12, coi titoli rispettivamente di Il margine della città bianca; Il tedesco imperatore e Periferia; La raccolta del fieno; Pianura Padana. Il suo ruolo nella “squadra” di «Officina» sarà proprio il bolognese a chiarirlo, anni dopo, ricordando che: “lì dentro ho più imparato che fatto, posso ben dirlo, a parte un fare pratico che mi incombeva e in parte mi ammazzava; la ragione è che gli altri marciavano con un frenetico passo, in un caso, e nell’altro con zampate che ad ogni colpo lasciavano il segno e non finivano di stupirmi; mentre io arrancavo venendo da un forsennato e duro viaggio fuori e dentro me stesso, viaggio che non mi pareva né mi appariva ancora concluso. Imparavo liberandomi, imparavo guardando, imparavo ascoltando, imparavo anche facendo qualcosa; per conto mio ma con una violenta tensione nel fare”17.

Il dibattito contro il “novecentismo” e la conseguente spinta verso forme poetiche tardo-ottocentesche, la ricerca di una tradizione letteraria “altra” ed il lavoro di inserimento della nuova realtà sociale all’interno dello specifico letterario, che erano i punti fermi del progetto di «Officina» e del “neosperimentalismo” pasoliniano, spingeranno, sin da ora, la poesia “officinesca” di Roversi verso “un più” di partecipazione e passione intersoggettiva, fino a precipitare l’umore del poeta nella “rabbia” e nell’“ira”, sia indiretta, dall’analisi cioè dei dati oggettivi di una realtà in via di disfacimento, sia più direttamente, dall’autoanalisi delle personali urgenze umane e sentimentali.

L’esito di questa evoluzione è un sempre più sicuro definirsi di quello che Zagarrio definisce “idillio rustico”, uno stile epico-tragico dunque, alieno ad ogni rischio arcadico, nonché il passaggio dalle giovanili scansioni più brevi alla poesia narrativa, civile e blandamente allegorica dei poemetti. Roversi, difatti, tornerà successivamente su questi versi, per inserirli, con le dovute modifiche, attraverso La raccolta del fieno, all’interno del volume Dopo Campoformio, un sintomo chiaro, ci sembra, della consapevolezza di aver raggiunto uno stabile, anche se momentaneo, equilibrio formale.

Nel 1959, l’edizione della seconda serie di «Officina» fu affidata all’editore Bompiani, liberando così Roversi dalle difficoltà pratiche (ma soprattutto economiche) che la tiratura semi-artigianale della rivista comportava, ma presso Bompiani uscì un unico fascicolo, la redazione si sciolse e i componenti della stessa presero strade diverse. Fu facile, da ogni parte, stabilire che questo epilogo fosse dipeso dal famigerato epigramma di Pasolini su Papa Pio dodicesimo, e dalla “maretta” (o dalla tempesta) che esso aveva provocato, tenendo conto soprattutto della notorietà crescente a livello nazionale e conseguentemente del peso che la figura del poeta di Casarsa andava assumendo all’interno della redazione; invece, ci rivela Roversi, “la verità più interna, molto meno interessante per il pubblico che nemmeno ci seguiva, era che redazionalmente ci eravamo squilibrati, nello stesso arco di tempo, con l’assunzione di Fortini, Romanò e Scalia. I quali, anche se collaboratori da sempre, e da sempre interlocutori molto attivi, tuttavia non avevano avuto la chiave in tasca della casa redazionale e consentivano a noi tre di chiudere le questioni, avendo una certa omogeneità caratteriale…e su alcuni principi di base. […] Il tam tam di Fortini, ad esempio, divoratore di tronchi redazionali come una termite africana, procurava perscrutando ogni dettaglio una perenne tensione”18.

La fondamentale esperienza di «Officina» verrà in seguito criticata da tutti i suoi vecchi redattori e collaboratori, come testimonia il già citato lavoro di G. C. Ferretti sull’argomento, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, ed il dibattito che seguì, su «Paragone Letteratura» nel 1975, alla sua pubblicazione con Einaudi. Alle accuse di Fortini, Leonetti e Scalia, circa il presupposto “immobilismo” delle proposte metodologiche di «Officina», si accosta la lucida critica di Roversi ad un operazione culturale che, a suo avviso, aveva prodotto “una rivista fatta da letterati, […] in «Officina» hanno avuto prevalenza, così, problemi inerenti alla letteratura piuttosto che problemi ideologici, problemi politici […]. Non è mai stato chiaro il proposito di trasferire i problemi letterari ad un diverso livello, di collocarli in una diversa e, direi, nuova posizione nei riguardi di una società che si evolveva con tanta rabbia e così in fretta”19. Si capisce così, da queste parole, quale sarà l’intento alla base del successivo progetto di Roversi, la pubblicazione della rivista «Rendiconti», portata avanti da solo nel tentativo di continuare, con maggiore determinazione ed efficacia, ciò che di buono era stato fatto con «Officina».

Sempre al periodo “officinesco” del poeta bolognese appartiene, poi, l’edizione, nel 1959, del romanzo Caccia all’uomo nella collana “La Medusa degli italiani”, curata da Elio Vittorini per Mondadori. In un contesto che aveva visto quasi tutti i titoli della stagione neorealistica, questo romanzo storico che riunisce e rielabora in una struttura unitaria i racconti di Ai tempi di re Gioacchino editi a proprie spese già nel 1952, è quanto di più insolito e non-realistico sia possibile leggere nell’ambito della cosiddetta “letteratura della Resistenza”. Il parlare della propria esperienza indirettamente, infatti, tramite cioè il filtro storico e geografico del periodo napoleonico del Sud, è qualcosa che nessuno scrittore in quel periodo riuscì a fare; Roversi mantiene inoltre il tono delle sue pagine sempre alto, per mezzo di una “fantasia molto letteraria e di artifici retorici che concorrono a rendere del mezzogiorno italiano ‘ai tempi di re Gioacchino’una immagine in cui l’elemento lirico ed evocativo, prevale sulle connotazioni, per lo più evanescenti e come (per forza di cose) sfocate”20.

 

Quei “favolosi” anni Sessanta

 

Conclusa l’esperienza di «Officina», è stata, come abbiamo già accennato, la volta di «Rendiconti», che dal primo fascicolo del 1961 verrà portata avanti da Roversi, da solo, quotidianamente e senza interruzioni fino al 1977, per poi riprenderne il lavoro dal 1992 fino ad oggi. Questa nuova rivista, a differenza della precedente, è servita, con maggior attenzione, a “ricercare nuove metodologie e ad aprire a nuove direzioni problematiche, predisponendo, o almeno ricercando, gli opportuni agganci; quindi si è tentata (e si tenta) non tanto un’opera (un lavoro) di aggiornamento, ma una vera e propria operazione di scavo, molto cautelosa e specifica, per la verità, e senza smanie, ma precisa, persistente e attenta”21. Si tenga conto che siamo agli inizi degli anni Sessanta: quelli che vedranno acuirsi sempre di più le tensioni della società occidentale fino all’esplosione del “maggio francese”, quando deflagreranno le contraddizioni del mondo tanto ad Ovest quanto ad Est, trascinando con esse tutte le istituzioni, anche quelle dell’arte e della letteratura. Il fuoriuscito di «Officina», sulle pagine di «Rendiconti», in realtà, pubblica solamente alcuni saggi e alcune Descrizioni in atto, preferendo dedicarsi ad un più puntuale e segreto lavoro di redazione, presentando quasi sempre interventi e ricerche “scientifiche”, più che testi poetici, perché l’esigenza dalla quale è nato questo nuovo progetto è stata quella di registrare degli strumenti nuovi, per giungere ad una idea della letteratura e del lavoro intellettuale diversa, e come dice Roversi: “partendo da questa premessa, che toccava un punto profondo dell’organizzazione del nostro lavoro: i problemi della letteratura non sono rappresentati dalla letteratura ma dalla lingua. Ne è conseguito l’interesse preminente, almeno fino ad oggi, per i problemi linguistici e per le ricerche metodologiche”22.

Già nel 1960, inoltre, la bibliografia roversiana si era arricchita di un nuovo titolo La raccolta del fieno, pubblicata da Vittorini sulle pagine de «Il Menabò» n. 2 assieme ad una cospicua Notizia su Roberto Roversi (montaggio di citazioni di Leonetti, Roversi e Vittorini stesso), nonché ad alcuni cenni sul poeta bolognese in Le poesie italiane di questi anni di Franco Fortini, le prime note critiche dedicategli sulla stampa letteraria nazionale.

I quarantasei poemetti che costituiscono il nucleo de La raccolta del fieno sono la rielaborazione, con numerose aggiunte e varianti, di alcune poesie “officinesche” e di altre già apparse in Poesie per l’amatore di stampe; un’operazione, anche questa, che trova le sue ragioni profonde nell’intricata matassa dei coevi eventi sociali: “il dopoguerra finiva, era finito rapidamente, nei suoi necessari entusiasmi, nelle sue ultime violenze, e si metteva in moto una diversa violenza, torbida e costante, inesorabile; meno manifesta ma atroce perché non lasciava scampo… dato che era finalizzata a compiere uno sterminio da anno zero, contro la civiltà, il mondo, la cultura contadina. In brevissimo tempo fu spazzato via, al riparo di una indifferenza quasi generale, un mondo che rappresentava l’unica montagna contro l’invadenza del nuovo capitalismo […]. La raccolta del fieno è già, per me, una piccola personale finestra aperta direttamente su quel mondo che cercherò poi in seguito di intendere ancora meglio e di partecipare con più coordinazione in Dopo Campoformio23. Saranno infatti le due edizioni di Dopo Campoformio, nel 1962 con Feltrinelli, ma soprattutto nel 1965 con Einaudi a sancire definitivamente il passaggio di Roversi ad una poesia capace di dare voce “alle esigenze di ragione ed insieme di partecipazione corale, di ricerca storica e strumentale, di schietta polemica laica e popolare”24, una poesia, infine, antilirica, volutamente narrativa e didascalica, in cui la formulazione verbale trova posto nel suo spazio storico di ricerca ed elaborazione culturale.

Roversi, in questo libro “buttato in una oggettività esasperata e dolente”, nel quale, “è perseguito il proposito di narrare una vicenda di forme e di idee che trapassano, si scontrano, declinano, si spengono dentro a questo paesaggio di cose nel corso dei quindici ultimi anni”25 e scritto tramite “la povera, buona, vecchia lingua italiana” (dato che “non si darà nuovo linguaggio e nuova invenzione se non salteranno per forza di idee i cardini delle strutture che si oppongono”), è riuscito, come dirà Giorgio Barberi Squarotti, a trovare finalmente la possibile struttura del poemetto civile di quegli anni. Il genere del poemetto che già in un primo momento era presente nelle pagine roversiane, ma più come esito mimetico, come rapporto spontaneo con le fonti ottocentesche, è ora inteso, e giustificato, come ricerca interdisciplinare e viene specificamente riferito dal poeta all’’architettura’: “L’elaborazione del poemetto, inteso come struttura a più archi di fondamenta, come massiccia palizzata di cemento armato, anche nella flessibilità organica e ‘studiata’, ma attentissima, da inserirsi in un contesto sociale articolato (perverso magari negli egoismi, nei rifiuti, nelle intolleranze e nei pregiudizi, nel modo di intendere la pietra soltanto come peso economico, ma attraente nei momenti di lucide gioie) viene dall’architettura”26. Il volume viene infatti presentato dal suo autore come un unico lungo poema in più lasse, come un viaggio unitario all’interno di quell’Italia in frenetica trasformazione; tutto ciò sarà ancor più chiaro nell’edizione Einaudi del 1965, nella quale le numerose varianti apportate saranno specificamente indirizzate ad una maggiore compattezza sia tematica che formale.

Nelle ultime “lasse” del 1965, dunque, (i poemetti La bomba di Hiroshima, Prima dell’autunno… e Iconografia ufficiale) la poesia del bolognese appare tutta impegnata in nuove spinte etico-ideologiche e metodologiche, proprio secondo i programmi del progetto «Rendiconti». A questo periodo, inoltre, appartengono tanto gli interventi più violentemente critici nei riguardi degli orrori della nuova società italiana, oramai inarrestabilmente avviata verso il “falso miracolo” economico, quanto un nuovo rovello sperimentale che ne investe tutta l’attività creativa. I risultati di queste nuove spinte si faranno progressivamente più convincenti.

Già nel 1963 le prime cinque Descrizioni in atto risultavano composte e comparivano in una cartella di disegni del pittore Giuseppe Guerreschi, mentre nel novembre dell’anno precedente era esplosa su «Rendiconti», forse mai in maniera così veemente, l’ira di Roversi: “Non amo il mio tempo, ‘questo tempo’; e non lo amo così come lo vedo, da noi, qua, mentre presume di aver raggiunto forme perfezionate di civiltà propagandare invece le (logore) formule del linguaggio politico-burocratico occidentale: libertà, democrazia, regime parlamentare; che secoli di storia hanno definitivamente usurato, coprendole di sangue, di una polvere fitta, di ricordi di dolore di perfide contraddizioni. Nazionalismo, metafisica, misticismo […]. Così qualcuno può scrivere: la rabbia di… Sia pure, con ragione; se divergendo da: rabbia in corpore litterae, nella fattispecie per opere cattive e patite per colpa dell’autore, indicasse: per la o per una realtà autentica che, anziché opprimere, e dunque costringere all’azione, offende, e dunque addormenta e insterilisce anche i propositi migliori. Rabbia politica, che è, o dovrebbe essere, sana e giustificata”27.

Tutta la materia di Registrazione di eventi, un nuovo romanzo pubblicato da Rizzoli nel 1964, prende le mosse da questo scontro con il proprio tempo disumano e falso. Ettore, il protagonista del romanzo, è schiacciato da un rifiuto economico, da una logica calcolatrice dalla quale nessuno è salvo. A livello stilistico quest’urto è reso per mezzo di un ardito sperimentalismo che avvicina Roversi agli esiti dei romanzieri neoavanguardisti. Registrazione di eventi si pone quindi al di là del “tempo immobile” di Dopo Campoformio: “Ho cercato una contaminazione linguistica del mio discorso […] dato che sono vivo e non morto e che mi appisolo malvolentieri: ho cercato cioè una persistente deflagrazione del discorso […]. Mi proponevo proprio questo: di strisciare o strusciare due sassi [lirismo e forzature avanguardistiche] per far scintille, di esasperare le mie contraddizioni per giungere a sfiorare, alla fine, un discorso più organico, dopo questa serie di combustioni consecutive in cui bruciassero veramente tutte le mie vanità”28.

Queste spiegazioni dell’autore possono valere, crediamo, anche per le nuove poesie di Roversi, Le Descrizioni in atto,che appariranno “alla spicciolata”, nel corso di tutto il decennio, su «Rendiconti» e su altre riviste, undici delle quali accompagnate su «Paragone Letteratura» n. 182, nel 1965, da una premessa programmatica di un’intransigenza critica ed autocritica senza precedenti. Roversi vi ribadisce la fine di ogni illusione in una sorta di “palingenesi rivoluzionaria”: “Anche Gramsci, il Gramsci tradizionale, iconografico (che ci bastava) ci sfugge […]. Ci occorre un Gramsci autre, che stiamo scoprendo”, e ancora, “così anche la poesia, lasciate le propaggini di Parnaso, […] siede a un tavolo e ascolta, impara e scorda di cantare […], si assume l’impegno di partecipare, con gli strumenti linguistici strutturalmente integrati, alle contestazioni continue dell’equivocità delle operazioni di ammorbidimento e cooptazione che i sistemi ordinati compiono contro lo svolgersi delle ricerche”29; i versi vengono caricati qui di un impegno assoluto, storico, essi divengono uno strumento scientifico, un atto politico: si scrive per la rivoluzione. La vocazione all’urto globale investe l’istituto poetico trascinando con se tutti i residui “retorici” che trova sulla sua strada; la poesia di Roversi, ormai per nulla attenta alla propria specificità (che anzi viene consapevolmente scavalcata), si trasforma così in puro gesto rivoluzionario.

Nello stesso 1965, oltre a ciò, il nuovo, incontenibile furore delle idee di Roversi proromperà anche sul terreno (nuovo per lui) del teatro, con il lineare atto unico Unterdenlinden, in cui il mostro ghignante del neocapitalismo assumerà le fattezze di un Hitler risorto e pronto di nuovo, dalla stanza dei bottoni di una multinazionale, alla conquista.

Questa rinnovata concentrazione ideologica troverà però, nel corso di tutti gli anni Sessanta, il proprio obiettivo primario nelle vicende politiche italiane, essa verrà scagliata principalmente contro la svolta in senso governativo del P.S.I., con la nascita del centrosinistra “organico”, e ancor più contro “lo squallido periplo di un processo socialdemocratico”30. La critica a quella che Roversi definisce “un’operazione assolutamente involutiva e deteriore”31, ma anche “un’opera di pulizia politica [nella sinistra italiana] che gioverà, una volta tanto, all’ordine delle cose e ad un più equo intendimento della situazione”32, si esplicherà in una vera e propria azione di “guerriglia” dalle pagine della stampa letteraria e non, e troverà il proprio culmine in due articoli del 1966, rispettivamente su «L’Unità» del 19 giugno, rispondendo alle domande postegli da Gian Carlo Ferretti, e su «Giovane Critica» in autunno col battagliero titolo: Il codice operativo. Autunno 1966.

È del 1969, invece, un’altra pièce teatrale di Roversi: Il crack, anch’essa incentrata sulla violenza e sul volto inumano della società dei consumi; si tratta, infatti, di un apologo della caduta in disgrazia di un industrialotto trasgressore delle tacite, ma non meno ferree leggi degli affari, in regime di libera concorrenza, che si conclude con le scene finali di giovani contestatori che finiscono fatalmente in prigione. Sullo sfondo, dunque, traspare oramai la rivolta giovanile del sessantotto, che lascia presagire delle novità anche se ancora in maniera nebulosa e non ben decifrabile.

 

Gli anni Settanta. Nuovi canali di comunicazione

 

Gli anni Settanta di Roversi si aprono nel segno della clandestinità, ovvero nel segno del ciclostile. Le Descrizioni in atto, scritte negli anni Sessanta, verranno infatti raccolte in una edizione “fuorilegge”, tirata a mano dallo stesso autore, e spedita nel 1970, gratuitamente, a chiunque ne facesse richiesta; seguiranno poi, con successive integrazioni, le nuove tirature del 1974 e del 1985. Un atto di pratica politica, questo, in sintonia con le citate premesse programmatiche apparse su «Paragone Letteratura» del 1965, ma soprattutto in netta polemica con un’industria culturale oramai chiaramente massificatoria. Questo esperimento tuttavia trovava terreno fertile proprio nell’ambito della contestazione, giovanile e non, di quegli anni e in quell’acceso dibattito si chiariva non come una scelta provocatoria, ma come un’ardita ricerca di nuove possibilità di incontro col lettore.

Furono gli studenti infatti a suggerire a Roversi il ciclostile ma “era già abbastanza evidente fin da allora che lo scontro vero e vitale, sottraendolo a formule datate, avrebbe dovuto essere trasferito sul campo delle nuove tecnologie di comunicazione, dei nuovi sistemi di distribuzione e gestione della comunicazione, dei nuovi linguaggi”33. Un aspetto, questo, tanto importante nelle battaglie politiche del sessantotto che, secondo Roversi, sarebbe stato corretto “allora, […] attraversare il reale trasferendo la propria immaginazione nella codificazione delle parole; invece l’immaginazione fu collocata e poi quasi abbandonata nella concretezza della lotta politica, che andava assestandosi sulla base della violenza pratica”. Questo per Roversi fu “l’errore (di convinzione e di prospettiva) che ha portato al terrorismo”34.

Proprio su questa violenza, sull’ambiguità del potere che ne fa uso e sulle possibilità di azione dell’intellettuale contro di essa, ruota La macchina da guerra più formidabile, il terzo degli scritti di Roversi per il teatro, apparso su «I Quaderni del C.U.T.» nel 1971, e forse il più arduo e meno comunicativo di tutta la sua prosa. “La macchina da guerra più formidabile” è, secondo la definizione di De Sanctis, l’Encyclopédie, la quale mosse guerra al potere. “Questo, secondo Roversi, è sempre uguale a se stesso [nel tipo di violenza utilizzato per reprimere] e per quanto si sforzi, a volte con successo, di appropriarsi della ‘macchina’, i principi di essa sostanzialmente gli restano estranei e avversi”35. L’immutabilità dei metodi di coercizione del “sistema”, che si manifestano nel corso delle tre parti del lavoro (Violenza, Repressione, Conclusione), viene resa dall’autore tramite numerosi anacronismi e contaminazioni della vicenda, nonché per mezzo della strana grafia dei nomi (Volty per Voltaire, Roos per Rousseau, ecc.) e da vari “barbarismi anglicizzanti” (Roversi fa qui uso di una strana Koinè, una sorta di ironico esperanto). In tal modo la violenza descritta tende a superare ogni confine storico e geografico e a rendersi universale ed eterna. Il testo verrà rappresentato dal Gruppo Libero tramite la riduzione e l’adattamento alla scena di Arnaldo Picchi.

Le quaranta, fittissime pagine degli “Appunti per l’allestimento scenico” a firma di Picchi ci sembrano essere la più chiara prova della estrema densità testuale e della lettura singolarmente difficoltosa della redazione originale, ma anche del grande fascino di un testo che si propone come una complessa figurazione dei cruenti avvenimenti che cominciavano ad insanguinare il suolo italiano proprio in quegli anni.

Dei primi anni Settanta sono poi le fruttuose collaborazioni di Roversi con le riviste «Quasi» e «Salvo Imprevisti», dalle pagine delle quali l’autore bolognese continua la sua battaglia, oramai più che ventennale, per dare alla letteratura e all’intellettuale una più precisa funzione politica, per creare le premesse di “un loro inserimento qualificato e qualificante nel contesto delle operazioni culturali”36. Il problema dei rapporti tra politica e cultura, dunque, non può che continuare ad essere centrale, oltre che nella produzione creativa, anche negli scritti teorici roversiani di questo periodo, ce lo confermano le parole di Roversi stesso che, su «Salvo Imprevisti» nel 1973, riportano questo lacerante nodo alla storica questione del “Politecnico”, evidentemente conclusa, ma da cui poteva trarsi un valido insegnamento: “Non più Vittorini o Togliatti, Togliatti o Vittorini, ma subito Vittorini-Togliatti e Togliatti-Vittorini… Non più l’opposizione politico-culturale per cercare di raggiungere agganci opprimenti, rapporti che deludono, ma politica… Oggi da noi non si può far altro che politica”37.

Un gesto determinato da istanze politiche ci sembra infatti il nuovo esperimento di Roversi, condotto per saggiare le possibilità di un diffusissimo, ma (per lui) insolito, mezzo di comunicazione: i testi per canzoni scritti con Lucio Dalla. Dal 1973, dunque, al 1976 appaiono le tre collaborazioni del poeta col cantautore (gli LP Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Il futuro dell’automobile); uno strumento, quello delle liriche per la musica leggera, che può apparire poco ortodosso solo ai fautori di una presupposta sacralità della letteratura, e che invece mette in luce la necessità dell’intellettuale, nella moderna “jungla dei segni”, di sondare ogni possibile mezzo d’informazione per eludere e contestare gli oramai corrosi tramiti istituzionali, “così l’appello dello scrivere resta, sia pure rognoso, un atto politico. Non perde la misura”38.

Nell’ottica della ricerca di sempre nuovi canali di comunicazione che, come abbiamo visto, è la principale preoccupazione di Roversi durante tutti gli anni Settanta, ci sembra di poter inserire anche la stesura, iniziata nel 1974 su una remota commissione della Banca del monte di Bologna in vista del suo centenario, di una pièce teatrale scritta esplicitamente per essere rappresentata in piazza Maggiore a Bologna, Enzo re. Tempo viene chi sale e chi discende. Di questo testo esistono tre edizioni a stampa (una apparsa in cinque puntate su «Bologna Incontri» nel 1977, un’altra, col titolo Enzo re, su «I Quaderni del C.U.T.» nel 1978 ed infine per le Edizioni del Battello Ebbro nel 1997), ma il pezzo non venne mai messo in scena poiché “all’improvviso tutto fu accantonato senza una parola dietro il pretesto (questo si vergognoso) che lo spettacolo sarebbe costato oltre cento milioni”39. La vicenda di re Enzo Falconetto, figlio naturale di Federico II, imprigionato dai Bolognesi, diviene ancora una volta, come ne La macchina da guerra più formidabile, simbolo dell’ambiguità del potere, in questo caso, però, rappresentato dalla penna di Roversi tramite una sorta di stile “epico basso”, striato da sfumature esistenziali, estremamente distante dunque dalla densità del tessuto linguistico dello scritto precedente.

Anche la trascrizione in lingua delle poesie in dialetto romagnolo della raccolta I Bu di Tonino Guerra, curata per Rizzoli nel 1972, si presenta come un intervento in un campo non certo consueto, ma, visto che “la poesia dialettale è uscita dal ghetto, o dall’aulico cincischiamento dei grammatici o glottologi […], ha allargato il suo dialogo, ha coinvolto e interessato tanti, con eccellenti risultati”40, ricco di straordinarie potenzialità eversive.

Ma la realtà sociale e culturale degli anni Settanta cambiava con una velocità sorprendente, ed ecco che, nella “conversazione introduttiva” con Gian Carlo Ferretti all’edizione de I diecimila cavalli, l’ultimo romanzo di Roversi, apparso nel 1976 con gli Editori Riuniti, l’autore sottolinea come le scelte che avevano portato al ciclostilato delle Descrizioni in atto fossero oramai superate da problemi diversi e più complessi. Anche questa apparentemente regressiva opzione editoriale, infine, fu determinata da una diversa necessità politica, quella di cercare (e di raggiungere), in questo caso tramite un canale di partito, un gran numero di lettori per far loro ascoltare la propria voce, “altrimenti il testo restava lì dov’era”. Questo complesso scritto, arricchendosi di numerose citazioni ed allusioni letterarie, si muove, però, all’interno di un ambito molto alto di ricerca, senza concedere nulla per quanto riguarda la leggibilità immediata e dirigendosi nel suo esasperato simbolismo verso nuove, e più attuali possibilità di lotta politica.

In queste pagine, la disperazione per un mondo misero e corrotto s’intreccia indissolubilmente con l’imperterrita e irrinunciabile fiducia dell’autore nella possibilità di cambiare una società nella quale gli uomini vengono contati come cavalli. Come dice Roversi a Ferretti, nella già citata “conversazione”: “Non è che il marxismo sia in crisi, sono in crisi le interpretazioni del marxismo, così suggestive; gli abiti delle quattro stagioni del medesimo stracciati dall’uso; ma il torso di legno duro rimane; soprattutto resiste” “bisogna rivestirlo” “questo è il punto. Bisogna rivestirlo”41.

 

Gli anni Ottanta-Novanta

 

L’ultimo periodo della complessa vicenda intellettuale roversiana si svolge nuovamente nella semi-clandestinità. La sua critica demistificante delle violenze e delle ipocrisie perpetrate dalle istituzioni è, infatti, ancora affidata alle pagine di piccole riviste introvabili e a plaquettes di poesia e narrativa pubblicate presso case editrici estranee ai maggiori (e più redditizi) canali di distribuzione. Come abbiamo già accennato, in questo periodo escono per le edizioni della libreria Palmaverde i “fogli” di poesia «La Tartana degli influssi», «Lo Spartivento» e «Numero Zero», Roversi inoltre si fa redattore, al fianco dell’amico Scalia, del trimestrale bolognese «Le Porte» che, pur privo di dichiarazioni programmatiche, si pone in evidente polemica con l’editoria ufficiale e “le convenzioni (individuali e sociali) della produzione dei segni”. Ad esse, questa rivista, e Roversi con essa, contrappone ancora una poesia radicata nel sociale che sappia, per dirla come il poeta stesso “dissacrare il ritualismo…un po’ farneticante e chiacchierone con cui oggi da varie parti si cerca di ricompensare la poesia dentro al gioco consunto della lingua, o dentro al traballante oracolo del cuore”42.

Mantenendo fede ad una coerenza estrema, che ci sembra l’aspetto più significativo della tenace tensione etica del bolognese, i sanguinosi avvenimenti italiani in quegli anni, dai fatti di Bologna all’affaire Moro, vedono Roversi, da una postazione sprezzantemente defilata ma fortemente partecipe, schierarsi a viso aperto, dove più l’impegno civile lo richiedeva:

Galantuomini in Lebole / che sgovernate l’Itaglia. / Ma io a Bologna da che parte stavo? / Culi secchi maledetti. / Maledetti tre volte. / […] Io a Bologna stavo / non dalla parte del vento e del fuoco / ma all’ombra del dolore43.

La mappa poetica roversiana in quest’ultimo ventennio si è inoltre arricchita di un altro, lungo progetto: L’Italia sepolta sotto la neve. Il sommario di questo imponente poema epico-civile prevede, per più di quattrocento lemmi, quattro sezioni, delle quali le prime due già uscite, come sempre un po’ alla “macchia”, tra il 1984 e il 1992 insieme ad una premessa. Il complesso impasto linguistico di questi versi si risolve in una sorta di “figuratività barocca”, e ci svela, ancora una volta, una realtà che, sebbene attraversata dai “fantasmi” della storia e continuamente alimentata da una fantasia a tratti allucinata, si mantiene sempre sul livello della pura quotidianità, quotidianità che sembra però mutarsi, all’istante, per mezzo delle parole, in scatto poetico. Nella raccolta tuttavia circolano inquietudini e fondi di cupezza sconosciuti al Roversi precedente, determinati forse dalla nuova offensiva della violenza contemporanea, dall’atto cioè di “scancellazione del presente” e del “passato tutto intero”, quindi della vita umana.

Roversi continua tuttora a lavorare a questo complesso disegno ma, nel frattempo, il suo “insopprimibile fervore nel fare” lo spinge a scrivere numerose introduzioni e prefazioni a testi ed autori considerati, nella disastrata situazione attuale della letteratura italiana, validi ed efficaci (tra i molti ricordiamo Teresio Zaninetti, Pietro Guberti, Eugenio Vitali) e a pubblicare alcuni volumetti, sempre in edizioni a tiratura limitata e sempre tramite circuiti editoriali ignoti ai più.

Nel 1986 esce, per Il Ventaglio, Paso Doble, dieci “pezzi” di Roversi intrecciati con le poesie di Luisa Giaconi e preceduti da un intervento nel quale il bolognese giustifica la riscoperta della poetessa fiorentina, immersa fino ad allora nella polvere dell’oblio della cultura italiana. È del 1993 invece Il libro del Paradiso, undici poesie degli anni Settanta ed Ottanta pubblicate in edizione a tiratura limitata da La Caita. Tre anni più tardi, nel 1996, escono due raccolte di poesia: l’introvabile Se tutti i mari del mondo fossero inchiostro con la cooperativa culturale Centoggi, ed i versi scritti a mano di 25 poesie autografe, in un’elegantissima edizione su carta pregiata di soli 150 esemplari. Sono del 1998, infine, il racconto breve Spaventoso rombo e notturna devastazione della grande città di Parigi. 1808, la storia grottesca e semi-autobiografica di un bibliofilo del secolo decimonono, ed i versi di Aber es haben zu singen nella collana “Amici”, su carta tirata a mano, con una notevole incisione di Enrico Della Torre.

La lucida ed inflessibile “registrazione di eventi” di Roversi, in aggiunta, oltre che sulla rivista semestrale «EnnErre». Le nostre ragioni», si distende, tra il 1998 ed 1999, sulle pagine di due supplementi settimanali del quotidiano «Il Manifesto»: «Alias» e «La Talpa Libri», nelle quali il poeta tiene personalmente una rubrica, La biblioteca di Alessandria. Gli scritti del bolognese, sorta di moderni elzeviri, si sviluppano in questa misura, per mezzo di ricordi ed annotazioni personali, in un continuo passaggio dalla letteratura alla storia e viceversa, disegnando affascinanti peripli nella memoria sia individuale che collettiva.

Oggi, quindi, dato che “qualsiasi partecipazione all’interno delle istituzioni, conclude [dal punto di vista di Roversi] sicuramente alla cessione del proprio potere comunicativo e all’accettazione diretta o indiretta del potere comunicativo dell’altro”44, l’eco della voce del poeta bolognese, flebile ma ferma, ci giunge attraverso le crepe aperte nella uniforme e monolitica superficie della società letteraria contemporanea, pagando il prezzo di una quasi totale disattenzione, ma brandendo minacciosamente il proprio pensiero “forte” contro ogni possibile “debolismo” vigente.

Infatti, sebbene “la sconfitta per chi si attesta dall’altra parte del fiume sembra per il momento totale. Bruciati i villaggi, distrutte le biblioteche, irrisi i libercoli superstiti […]”, secondo Roversi “un errore di sufficienza, di arroganza l’hanno pure compiuto; non hanno bruciato le navi. Si può nottetempo prendere il mare, verso qualche approdo… C’è sempre una riva per chi si mette in mare… Ma perché detesto questa società? Perché è, inesorabilmente, il regno del leone nella foresta. Di nuovo il luogo dell’ottocento, con pochi padroni e i piccoli servi delatori. E con i poveri poveri fuori dall’uscio guardati dai cani… E da dove scappo a gambe levate? Da un Paese senza testa, da un Paese senza coda, con solo braccia mani gambe per arraffare…”45.

 

***

 

 

II. Il caso Roversi. Fortuna e sfortuna di un poeta intellettuale

 

“[…] come un monaco di clausura

diventato pazzo, che cerca una clausura

nella clausura

per rifare di nuovo il cammino già fatto

senza notizie biografiche

cicala nel sole della tomba

a trasformare livore in malinconia[…]”

 

Pier Paolo Pasolini

 

“Grazie per il monaco pazzo di mezzo inverno

imbucato in caverne tombe che tocca la volta

con un dito

per forare il cielo

potrò vedere di notte i voli dei giovani

pipistrelli

perdersi nello sfascio dell’orizzonte?[…]”

 

Roberto Roversi

 

 

La poesia di Roversi. Una scoperta tardiva

 

“I critici hanno sempre ragione, quando i critici ci sono e leggono veramente. Io ne ho avuti quattro o cinque soltanto ma pazienti, intelligenti. Questi hanno mille ragioni, nelle loro conclusioni”46. Così Roberto Roversi nel 1978.

Ci sembra di poter dare un volto e un nome a questi critici, tanto la storia della fortuna di Roversi sulle pagine ufficiali delle “patrie lettere” appare scarna oltre che nient’affatto lineare. Una storia significativamente influenzata non solo dalla sua complessa e sofferta ideologia letteraria, ma anche dalla ideologia tout court (sebbene questi due termini appaiano assai difficilmente distinguibili nel programma culturale del poeta bolognese), nelle quali agisce come una sorta di pedale di fondo una costante attenzione ai mezzi di produzione e di distribuzione della letteratura. Roversi ha vissuto e vive nella coscienza di essere, benjaminianamente, un “autore-produttore” inserito, in maniera inevitabile, all’interno dei rapporti di produzione, all’interno degli aspetti più strettamente materiali della letteratura.

Il primo volto che si affaccia su questa scena non può che essere quello severo, deciso ma affabile di Elio Vittorini. È Roversi stesso, in anni assai più recenti, a darcene testimonianza: “Ho tre riconoscenze umane e letterarie che difendo e conservo alimentandole nel ricordo con i sentimenti. Per Giorgio Bassani, per Elio Vittorini, per Paolo Grassi. Vittorini è stato tra i pochissimi con cui ho potuto entrare in un rapporto di attenzione costante sulle mie cose man mano che riuscivo a completarle […]. Un lettore raro; partecipante, incalzante ma anche inesorabile”47.

Sarà Vittorini, infatti, dalle pagine de «Il Menabò» a dar notizia, per la prima volta, del poeta Roversi. È il 1960, da un anno circa si è chiusa l’esperienza di «Officina», il sodalizio con Leonetti e Pasolini (ma anche con Fortini, Scalia e Romanò) non ha retto alle scosse di assestamento della giovane repubblica italiana. Giocando con le date, si potrebbe dire che per creare interesse l’individualissima personalità letteraria di Roversi si sia dovuta liberare dalla feconda esperienza di «Officina», ma anche, come ci testimonia la lettura degli epistolari e dei verbali delle riunioni preparatorie e delle relazioni interne, dalle conflittualità e dagli attriti personali che un luogo di dibattito tanto aperto, e la compresenza di strade tanto divergenti determinavano.

In effetti, nell’“anno zero” della rivista il 1955, il poeta bolognese allora trentaduenne, aveva già pubblicato alcune plaquettes di poesia e narrativa in edizioni di provincia48, ma era pressoché sconosciuto, il suo sviluppo artistico ed anche una certa notorietà matureranno proprio sulle ruvide pagine di «Officina». Vittorini pubblica su quel secondo numero de «Il Menabò» tutti i quarantasei pezzi che compongono La raccolta del fieno, e più avanti è il primo a raccontare del loro autore nella breve Notizia su Roberto Roversi.

Questa “notizia”, più un affettuoso ritratto umano ed intellettuale che una reale analisi dei suoi esiti poetici, delinea gli spigolosi tratti di un uomo “irto di difficoltà e di misuratissimi interventi”49. Così Vittorini: “Roversi mi ha informato della sua famiglia prima che di se stesso, mi ha scritto al riguardo: […] appartenevamo ad una borghesia non ricca, appena benestante, ma provincialmente ambiziosa e con ‘qualche dovere’“50. Da queste pagine, soprattutto, è possibile leggere l’unica confessione, strappata da Vittorini a Roversi, circa gli anni successivi al 1943 (la guerra, la resistenza, il primo dopoguerra), quell’esperienza, cioè, che il carattere del poeta schivo e rigoroso ha tenuto sempre lontana, ricacciata gelosamente nel privato: “La guerra mi portò rovinosamente lontano. Ero senza idee e senza forza: solo, senza maestri ed ignorante; ignorante con disperazione e consapevole […]. Non feci nulla, patii soltanto con tutte le forze ma non più con rassegnazione, […] poi fui a Cuneo a sfilare davanti a Parri, con tutta la gente felice, in quei giorni che sono il più bel ricordo della mia vita”51. E continua Vittorini, citando Leonetti: “In cuor suo è, per temperamento, per ideologia assai ferma, chiuso a relazioni, solitario e legato a pochi […], ha stabilito di non esprimere, o di dichiarare, l’angoscia e la sensibilità tormentata; si è avviato ad una nuova poesia contando che fosse già reale, in lui stesso, il suo ideale morale dove non c’è posto per quegli “stati” che pure contagiano le sue emozioni come quelle di altrui”52. Ed infine: “È uno dei pochissimi giovani che abbiano le capacità sbrigative (e, insomma, la razionalità visiva) di un Michelet”53. Occorre inoltre notare che Vittorini, durante l’anno precedente, aveva accolto nella collana da lui diretta presso Mondadori “La Medusa degli Italiani” la seconda stesura di Ai tempi di re Gioacchino, col titolo Caccia all’uomo. Segno certo di una partecipe attenzione.

Sfogliando quel numero de «Il Menabò» ci si imbatte in un’altra nota su Roversi, questa volta incentrata più sul carattere dei versi che su quello dell’uomo, a firma di Franco Fortini. Il volto austero, spesso tirato dall’ira, di Fortini crediamo possa essere affiancato a quello di Vittorini nella sparuta schiera dei “critici pazienti e intelligenti” di Roversi. L’appunto, che si fa luce tra le note sui verseggiatori contemporanei nel saggio Le poesie italiane di questi anni, è infatti la prima prova di una continua riflessione di Fortini che, attraverso tutti gli anni Sessanta (edoltre), s’incentrerà sui limiti (in primo luogo ideologici) della poesia di Roversi, seguendone la complessa evoluzione. Una riflessione che, muovendosi sul crinale tra letterario ed extra-letterario, si svilupperà in un dibattito fecondo, scoprendo i nessi e le contraddizioni della poesia impegnata di quegli anni, mettendo il dito nella piaga, si badi, non solo la piaga di Roversi ma anche quella dello stesso Fortini e di molti altri. “Ma qual è il limite di questa poesia, quel che, da una parte le conferisce una energia, una presenza, un volume innegabile, e dall’altra, sembra votarla alla ripetizione di uno schema, metrico e psicologico?”, si chiede, “È l’esitazione tra servitù volontaria alla ‘letteratura’, come schermo, maschera, punto d’appoggio convenzionale e libertà immediata, come espressività integrale, ‘sincerità’“54. Esitazione che si riflette, nota Fortini, nell’aggettivazione ora “esornativa”, ora “esplosiva”, e sul piano delle immagini: “tese ognuna da scoppiare, al punto che stai per veder saltare le cerniere sintattiche e logiche, ma inserite in un complesso sentito come idillio o elegia”55. Il tutto, continua, inserito in una struttura di “torva malinconia”. La direzione che può portare Roversi fuori da questa contraddizione (tra tipo di espressione della singola immagine e organizzazione dell’intero poema) è quella del “personaggio” o “bozzetto” inserito in un’apparente regressione di gusto fine-ottocento, che attenuando l’esasperazione espressionistica dà al poeta i suoi “momenti migliori”.

I dubbi di Fortini e la sua analisi sul rapporto tra la specificità del gesto letterario in Roversi e la possibilità di un suo “innesco” sul piano dissestato dei rapporti sociali avrà proficue appendici negli anni successivi, soprattutto dopo l’uscita delle prime Descrizioni in atto nel 1965, ma affronteremo questo cospicuo argomento in seguito.

Per ora ci basti segnalare come il secondo numero de «Il Menabò» registri l’inizio di una attenzione durevole sulla poesia di Roversi dalle pagine di alcune delle più importanti riviste letterarie nel corso di tutti gli anni Sessanta. Un primo esempio ne siano gli interventi che, nel 1961, inseriscono il bolognese tra i significativi testimoni di una nuova poesia nata dalle ceneri dell’ermetismo.

L’illustre firma di Geno Pampaloni verga le pagine del n. 61-62 di «Aut Aut», nel marzo di quell’anno, che segnalano l’opera di Roversi, assieme a quella di Sereni, Luzi e Pasolini come modello del superamento di una crisi, quale “segno di un esito”, del sollevarsi di molti equivoci, sintomi “propri di una società letteraria che riesce ad esprimersi”. L’analisi del poemetto Contadino emiliano de La raccolta del fieno rivela infatti, secondo Pampaloni, l’allontanamento da una temperie culturale, da una poesia, quella della “religione mallarmeana”, che pretendeva troppo, “pretendeva che il lettore si adattasse perfettamente all’autobiografia del poeta […], ch’egli adorasse gli idoli che per il poeta prendevano talora il posto di Dio”56. Una poesia, quella di Roversi, capace di rompere il cerchio antico della solitudine, della cifra esistenziale in “una più aperta e calorosa solidarietà umana”57, senza però sottrarsi alla verità irriducibile della propria coscienza. Egli riesce, scrive Pampaloni, in un’affettuosa sublimazione popolare dell’esperienza storica che, esplicitandosi nella parola tematica “pazienza”, tende a cogliere l’“esistenziale” nello “storico”, e lo “storico” nell’“esistenziale”, non lasciando i due termini irrelati.

In quello stesso anno, e quasi contemporaneamente, Roversi è incluso in una piccola antologia di nuovi rimatori “tra stile nuovo e tradizione”, curata da M. Lavagetto e E. Siciliano sul n. 17 di «Palatina»; in una breve introduzione viene delineato un profilo poetico del poeta di «Officina» tra “moralismo” e “scrupolo masochistico”, quale “giurista” e “glossatore”, versificatore che si è riservato “il diritto doloroso e puntiglioso di introdurre dissonanze, di tendere le immagini fino al limite di una ricerca catechistica”58.

 

L’interesse per Dopo Campoformio

 

Ma è solamente dal 1962, e cioè dalla pubblicazione della raccolta di poemetti Dopo Campoformio, data alle stampe da una delle più importanti case editrici italiane, Feltrinelli, che la poesia di Roversi diviene oggetto di un analisi più approfondita ed attenta, condotta sulle pagine della stampa letteraria dai più importanti “lettori di professione” italiani; inevitabilmente la visibilità di Roversi negli ambienti letterari degli anni Sessanta risulta accresciuta in maniera esponenziale. Quell’assenza di un equilibrio, lucidamente notata da Franco Fortini nella sua lettura de La raccolta del fieno, fra l’intransigenza morale e il discorso specificamente letterario nelle poesie roversiane, viene però evidenziata anche dalle varie recensioni che accompagnano l’uscita del volume feltrinelliano. Tutte, quindi, sembrano indirizzate a dirimere il problematico rapporto di questi versi con la tradizione e a saggiarne le capacità di “carico” di quei valori, intrisi di insofferenza e di strenua resistenza ideologica, che veicolano.

L’intervento di P. Bonfiglioli, apparso su «Palatina» n. 23/24 è teso proprio a considerare come la poesia, per Roversi, non possa essere un’attività assoluta secondo la tradizione ermetica, né pragmatica e fenomenologica secondo i canoni della nuova avanguardia: “[…] l’operazione estetica si spegne ai limiti del ‘villaggio’ oltre i quali comincia un’attività che ha delle ragioni più ampie […]”59. Il libro che Roversi presenta come “buttato in una oggettività dolente”60 e scritto tramite “la povera buona vecchia lingua italiana”61, invero, svela il Bonfiglioli, legge il mondo contadino che ne è l’oggetto attraverso “le cataratte linguistiche di tutto l’analogismo e l’immaginismo novecentesco, italiano ed europeo […], in realtà non esiste lingua meno elementare e più viziosamente letteraria di quella di Roversi”62. E addirittura: “Il villaggio è il Parnaso delle Muse derelitte che hanno saccheggiato le bigiotterie dell’Europa letteraria”63. L’esitazione palesata da Fortini resiste e, spinta da un moralismo feroce che tende sempre più ad eccedere nel furore, è forse ancor più accentuata, divenendo un’insolubile contraddizione tra il dentro e il fuori dell’opera, tra letteratura e rivoluzione.

Con Bonfiglioli si troverà successivamente d’accordo Gianni Scalia che nel 196864 definisce lo sperimentalismo roversiano come “chiuso” rispetto a quello “aperto” di Leonetti: “la lingua di Roversi è una complessa mescolanza-tensione di livelli linguistico-letterari, malgrado le apparenze realistiche, o le affermazioni antiavanguardistiche, l’apparente lingua media di Roversi è di fatto una congerie di livelli, strati, toni […], si tratta di una piena disponibilità linguistica verso il lessico letterario novecentesco, non accettato come tale, ma esasperato in una specie di rabbia espressiva, di furore di documentazione linguistica e verbale”65.

Concorde circa questo aspetto è anche Geno Pampaloni, che torna su Roversi per recensire Dopo Campoformio sulle pagine destinate alla letteratura di «Epoca» del 7 ottobre 1962, per il quale il bolognese non trova alcuna stabilità: “con questo libro, è già (rivela di essere, conferma di essere) dentro la tradizione”66. Resta il contrasto politico e l’intensità di una opposizione, ma questo “[…] fa parte dell’intensità della sua passione, del timbro della sua parola: la protesta che risuona nei suoi versi affonda nel suo modo di essere, più che nel suo modo di capire e di dichiarare”67.

Per quanto riguarda il lavoro di Roversi Bortolo Pento, su «La Fiera Letteraria», invece, accetta la definizione di “poema”, a condizione che “la si spogli di tutti gli attributi sfavillanti di cui una illustre tradizione ultramillenaria l’ha sovraccaricata; purché lo si riferisca ad una epica alla rovescia, priva di declamazione, a una nozione di eroismo fatta di cruccio e di pazienza […], senza che nemmeno la sfiori la tentazione dell’enfasi”68. Ma anche dal punto di vista di Pento vi sono e rimangono “attimi di lievitazione sensoriale e fantastica” e “anche per tale via la poesia è salva”69, momenti lirici, insomma, che Roversi cerca di stemperare con l’ironia “scaltramente imbrigliata dall’aristocratica sapienza dell’uomo di consumata esperienza letteraria”70.

Al contrario, stando ad Aldo Rossi71, nei poemetti di Dopo Campoformio non vi sono impennate liriche, folgorazioni, quell’impasto analogico e simbolico che distingue la poesia dalla prosa, ma “una cantilena dura e monotona che a momenti non disdegna la violenza espressionistica”72 e che disegna una “posizione eminentemente religiosa, ma di una religiosità laica, tra Foscolo e Montale”73. Roversi, però, accoglie “troppa realtà, troppi episodi nei suoi versi; sicché vi è una evidente sproporzione fra ampiezza dei poemetti e risultati concettuali, rappresentativi e morali raggiunti, che sono spesso di eccezionale mordente”74.

Emerge in questo gruppetto di recensori, per l’ampiezza e la densità del suo intervento, Marco Forti che nel suo Le proposte della poesia75 s’impegna in una lunga lettura testuale di Dopo Campoformio,poemetto per poemetto, inserendo contemporaneamente la raccolta all’interno della temperie culturale di cui si fa documento: gli anni Cinquanta e le drammatiche trasformazioni che investivano il territorio e le coscienze italiane. “Il libro di Roversi, le cui diverse parti nacquero negli anni scorsi in una congiuntura culturale che dava loro un significato di innovazione, se non di rottura, si legge ora, nella sua interezza, in una diversa situazione, che lo riproporziona tutto a se stesso”76. Lo snodarsi del racconto, di quello che Roversi stesso definisce “un unico lungo poema in più lasse”77, dai primi poemetti, relativamente nutriti ancora della carica attiva della grande illusione democratica e popolare dell’ultimo dopoguerra, agli ultimi improntati ad uno scontento crescente verso l’arrembante sarabanda tecnologico-industriale, viene seguito attentamente da Forti che trova nei ritratti “essenziali” dell’appendice (sorta di flash back di una realtà in via d’estinzione) il risultato massimo di quella tensione all’oggettività che echeggia sin dal primo verso. Lo stesso Forti si occuperà nuovamente del poeta, recensendo due anni dopo su «Aut Aut» n. 86 un secondo lavoro di Roversi, edito da un altro campione dell’industria culturale italiana, questa volta un romanzo Registrazione di eventi con Mondadori, sottolineando acutamente il tentativo dell’autore di stratificare, nelle sue pagine, il discorso “secondo strutture prese, senza tema d’inganno dall’avanguardia, senza d’altra parte sacrificare o atomizzare la sua interna vicenda storica o ideologica di scrittore”78. Ma questa strada, quella della lettura nell’ottica dello sperimentalismo avanguardistico del romanzo di Roversi, era stata già battuta da Walter Pedullà nel suo ragguaglio di Registrazione di eventi del 1964, successivamente inserito in La letteratura del benessere79.

Pure l’eminente penna di Giorgio Barberi Squarotti si confronterà con Dopo Campoformio nei pochi cenni dedicati a Roversi ne La cultura e la poesia italiana del dopoguerra80 ed evidenzierà come l’autore “sia giunto a costruire la possibile figura e struttura del poemetto civile dei nostri anni: le varie immagini del mondo contadino fra rievocazione storica e descrizione realistica, con la significativa esclusione del mondo operaio, per l’ancora georgica concezione italiana della parola poetica, tuttavia legata a suo perfetto agio soltanto con la terra e i suoi problemi, tranne l’isola milanese […]81.

È però dalle pagine della rivista «Quartiere» del giugno 1963 che si affaccia il profilo di un terzo critico che si può considerare, accanto a Vittorini e Fortini, tra i più attenti ed assidui lettori di Roversi, uno dei protagonisti assoluti della storia della sua fortuna critica: Giuseppe Zagarrio. La lettura di Zagarrio, già da questo primo intervento, s’impernia sull’analisi degli errori ideologici e delle contraddizioni della poetica culturale di Roversi, integrandosi fruttuosamente con le perplessità che Fortini andrà sempre più precisando. L’articolo prende le mosse da uno scritto apparso su «Rendiconti» nel novembre 196282, nel quale Roversi esprimeva, con toni veementi, l’astio nei confronti dell’aborrita situazione socio-politica italiana e ne prendeva sdegnosamente le distanze. Zagarrio ponendosi dalla parte di Roversi, nella trincea, dunque, di un militantismo letterario teso ad un’opera di “guerriglia” avversa ad ogni ufficialità, ad ogni ambiguo compromesso con l’industria culturale, chiariva però i propri dubbi circa un “massimalismo morale e ideologico, che è nobilissimo quanto si vuole, ma potrebbe finire a lungo andare col divenire mito e metafisica in altra forma”83. Bisogna, secondo Zagarrio, guardarsi bene dal rischio della “globalità giudiziaria”, dai toni disperati che conducono ad una conclusione di totale colpa; è necessario porsi sul piano più efficiente del “rapporto a”, non sul piano del compromesso e del giustificazionismo ad ogni costo ma su quello della praxis, della comprensione storica. Una rabbia giusta, insomma, quella di Roversi, “ma fino all’ingiustizia, sana ma fino all’insania, e insomma implacabile e totale fino a chiudersi a una qualsiasi soluzione che non sia […] la coscienza disperata della impossibilità, la solitudine spasmodica appunto o la tragicità, che sono termini tipicamente roversiani”84. Zagarrio partecipa della stessa rabbia, dello stesso travaglio ma sente l’esigenza di superarli, di utilizzarli, di “sviluppare dal messaggio una praxis che vada oltre la soluzione generalizzante e astrattamente libertaria del restituire colpo a colpo serrandosi nelle proprie file”85, altrimenti non rimane che la condizione amarissima della “rassegnazione”, situazione, questa, “cristiano-medievale”, non è più illuministica, non diciamo poi rivoluzionaria e marxista. Tutto ciò lo rende “eticamente solidale” con Roversi ma “ideologicamente differente”, perché questa sua posizione antistoricistica fa il gioco della destra politica, perché si autoesclude automaticamente mentre la destra si muove sul piano più concreto dell’azione. Giuseppe Zagarrio coglie l’aspetto “fattivamente sano e giustificato della rabbia roversiana, il suo scatto produttivo che si traduce in azione, il suo farsi punta e assalto […] cioè guerriglia resistenziale, non disponibile affatto, né per ideologia, né per praxis, alla rinuncia”86, ma ne sviscera le contraddizioni che la costringono a rimanere inattiva: l’ottica non sempre giustificata del “totale complesso di colpa” e la ribellistica “metafisica dell’evento totale”. Questa interpretazione ci pare un inappellabile sintomo di sentita partecipazione agli stessi problemi e porzione importante di un fecondo dibattito che chiama in causa non solo Roversi, Zagarrio e, come abbiamo visto, Fortini ma tutto il militantismo letterario di quei “favolosi” anni Sessanta. Zagarrio tornerà continuamente sull’argomento, a maggior ragione dopo l’uscita delle prime Descrizioni in atto, nelle quali sembrerebbe, riprendendo il già citato giudizio dello stesso Fortini sulla poesia roversiana, che la rilevata “esitazione” tra “servitù volontaria alla letteratura” e “libertà immediata come espressività integrale” si risolva pienamente a vantaggio della seconda. I due articoli che appariranno, a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro qualche anno più tardi, nel 1970 su «Quasi» n. 1 e su «Il Ponte»87, saranno infatti indirizzati a scovare nel nuovo tassello della biografia intellettuale roversiana l’equivalente linguistico dei suddetti “errori ideologici”: nel primo articolo per mezzo dell’analisi testuale di un inedito, Esecuzione di un piano (successivamente inserito nelle seguenti tirature delle Descrizioni in atto), nel secondo attraverso la lettura completa dei quarantaseipezzi che ne costituiscono il nucleo originario. La postura irremovibile del poeta, in queste pagine, il compito dirompente e demistificante che vuole affidare alla poesia lo spingono, a sentire Zagarrio, verso un’antinomia di fondo: “la ragione accanto al furore: è questa la condizione di duplicità o di ambivalenza che precipita la poesia-azione ipotizzata e praticata da Roversi. Ora ciò che la rende complessa, ma anche suggestivamente esemplare, è il rapporto (particolarmente drammatico) con cui le due categorie s’incontrano e si scontrano: in una situazione di reciproco condizionamento […]”88. La ragione e il furore sembrano volersi rapportare dialetticamente in un contesto che dialettico non può essere, determinando così una correlazione drammatica che individua “quella continua incandescenza ideologica, vale a dire la continua tensione della coscienza e di conseguenza la condizione continua di lotta verso tutta la summa dei rapporti umani […]”89. L’impossibilità della soluzione positiva, massimalisticamente auspicata dalla ragione, implicherà sempre quella negativa del furore, di qui gli “errori ideologici”: il disprezzo, questo condivisibile, verso gli apparati ufficiali della sinistra (gli uffici della rivoluzione), ma anche, e questo non è condiviso da Zagarrio, verso la massa dei popoli oppressi che dovrebbe essere il soggetto attivo della rivoluzione (“ogni qual volta / i popoli furono chiamati a scontrarsi / per la guerra di lor signori / puntuali si presentarono giovani e con la rosa infilzata sul fucile”), “l’impazienza (im)politica”, il più netto rifiuto verso qualsiasi strategia dei tempi lunghi, l’esaltazione unicamente indirizzata verso singolarità eroiche (il “Che” prima di tutti), l’ingenerosità verso la Resistenza (“una rivoluzione quando è vera / o si vince o si muore”), ecc…”Se si dovesse tradurre questo Roversi in termini ideologici, si dovrebbe gridare all’errore […]” e ancora: “Errori, dunque, del Roversi e dall’interno del suo stesso sistema ideologico […]”90. Errori che lo portano sovente a sfiorare i campi semantici della nevrosi, del suicidio e della solitudine, e dunque all’interno dell’area semantica di un decadentismo deteriore. Ma Zagarrio trova nelle stesse Descrizioni in atto l’elemento capace di scardinare questo circolo vizioso: “l’eppure vitalistico” che (un po’ come l’avversativa foscoliana “ma”) scompiglia il ben saldo ordine coscienziale, e ne impone lo scarto: Roversi contrappone alla massiccia pressione dell’esperienza la volontà di non arrendersi e di recuperare, oltre la nevrosi e oltre la solitudine, un “fervore sconosciuto” di attività e di impegno. La sua poesia continua così ad avere la possibilità di essere azione e contemporaneamente continuo resoconto (un termine caro a Roversi) di essa; una sorta di canto epico, si direbbe, per la misura corale in cui si traduce. Tutto ciò rende i versi del poeta di «Officina» fautori di una perenne eventualità. “Le esplosioni apocalittiche”, insiste Zagarrio, “[…] si chiariranno prima come disperato scatto e fuoriuscita ignea della coscienza, costretta nella solitudine della generale indifferenza […], ma si definiscono poi più precisamente nelle sue misure, dopotutto più scalzanti, di progettazione e incipienza”91. Proprio questo era stato definito anni prima dallo stesso critico il “terreno su cui vorremmo che si muovesse sempre, o sempre più la polemica roversiana, […] terreno solido, terreno fecondo, il terreno più adatto e congeniale a chi intende operare una lotta senza quartiere contro tutte le prevaricazioni della destra, e tanto più della sinistra culturale”92. Zagarrio curerà, oltre a ciò negli anni Settanta, un lungo capitolo dedicato a Roversi in La letteratura italiana. I Contemporanei. Vol. IV per Marzorati, nel 1974 (poi in una seconda edizione nel 1979), nel quale percorrerà attentamente tutta la storia dell’opera roversiana, palesando inequivocabilmente una vigilanza costante e non certo occasionale sulle vicende del bolognese.

 

Il dibattito degli anni Sessanta

 

Si capisce perfettamente, da questi pochi stralci, quanto le Descrizioni in atto si inseriscano nel coevo dibattito sul militantismo letterario, e quanti e quali problemi sollevino in quei fervidi anni Sessanta italiani scossi da mutamenti radicali: dal “boom” economico alla svolta governativa del P.S.I., con la nascita del primo centrosinistra organico, dal neocapitalismo iperpervasivo oramai avviato alla deflagrazione degli effetti del rapporto Kruscev e dei fatti d’Ungheria del 1956.

“È evidente che c’è stata una frattura negli anni Sessanta, e fatti o problemi o uomini ‘rappresentativi’ che prima incombevano (e, pareva, con una certa urgenza) adesso sembrano storicizzati o arcaici o terribilmente stanchi; altri decaduti in una loro longeva senescenza […]. Ci si accorge, mutando le prospettive del mondo e distaccandosi dai tramiti tradizionali o acquisiti che lo pacificavano oscuramente, che anche i nostri strumenti, che addirittura si rifanno a Dante, è nella realtà dell’operare che non servono più, o non servono affatto”93. Queste le parole di Roversi al momento di proporre alcune delle sue prime Descrizioni su «Paragone Letteratura», nel 1965; parole che annunciano una svolta, un necessario adeguamento dei mezzi espressivi, delle frecce all’arco del poeta per fendere una realtà che pareva mutare più velocemente della letteratura. Parole che, ritenendo necessaria una radicale trasformazione della sua poesia, una poesia che si facesse “conoscenza del mondo (possibile) nella sua organicità; contestazione dei sistemi e degli istituti integrativi da qualsiasi parte si svolgano; ribadimento delle responsabilità pubbliche, cioè sociali, che tale strumento di comunicazione comporta, […] secondo il rigore più operativo e più utile della ricognizione strutturale del proprio lavoro”94, non potevano che creare, negli ambienti letterari italiani più attenti alle varie ipotesi per un’idea materialistica della letteratura, un grande interesse. Il nuovo programma di Roversi determinerà difatti un acceso confronto di opinioni a cui parteciperanno, in quello stesso numero di «Paragone Letteratura», Fortini, Raboni e Cesarano (con uno scritto a quattro mani), nonché Angelo Romanò sulle pagine della stessa rivista, qualche mese più tardi.

L’intervento di Fortini sarà, come al solito, sottile e sferzante e, approfondendo la “verifica dei poteri” della poesia roversiana, interrotta cinque anni prima su «Il Menabò», alle dichiarazioni di intransigenza di Roversi risponderà con un’inflessibilità, se possibile, ancor maggiore. Fortini accusa qui Roversi di sterile ingenuità, di battere il martello su “miti sub-religiosi”, di “finitezza funesta”, di “freddo sudor metafisico”: “hai un bel rischiare la vita in versi: si finisce decorati, non fucilati. Quando nessuno considera più delitti ‘les erreurs de la conscience’ (Saint Just), considerarli tali ma dirlo in versi non è delitto sebbene conciliabile contraddizione”95. Il mutamento veemente dei toni e dei ‘meccanismi poetici’ attuato da Roversi determina nell’autore de I Dieci Inverni “l’imbarazzo del critico, del lettore, dell’amico o di tutti e tre” proprio a proposito della “nota impossibilità di prendere alla lettera un testo che annunciandosi poetico la lettera rifiuta”96. A tratti si direbbe un maestro disilluso che riprende un enfatico allievo: “[…] mi è gravemente patetico, caro Roberto, sentirti una fede che è stata e, a strappi, è ancora la mia”. E al grido di schietta ‘gola surrealista’ di Roversi: “grammatica e futuro finiranno”, Fortini così replica: “nell’ordine della rivoluzione oggi vivente, e nemmeno nei ranghi beati delle sante legioni, non c’è posto, questo credo, per il poeta ma, con molto incerta e difficile procedura, forse solo per la poesia. Questa poesia di Roversi mi conferma che né per lui né per me c’è più saggezza”97. Ancora una volta Fortini si impegna a tastare i nervi scoperti e le incoerenze di un tentativo di rendere la poesia un forte elemento di dissenso, dello sforzo di inserirsi nella realtà sociale per cercare, a colpi di versi, di cambiarla. Uno sforzo questo che è anche il suo, messo in pratica nel suo caso calcando sentieri più impervi, certamente più sgusciante, Roversi in maniera più diretta, violenta e di una chiarezza disarmante. Queste divergenze saranno ulteriormente chiarite nella risposta che Roversi darà, qualche anno dopo, alle obiezioni di Fortini: “l’osservazione […] è sostanzialmente molto giusta se ci si pone, e si rimane, dentro la letteratura; invece, se si intende la letteratura […] come un semplice mezzo (uno dei semplici mezzi), come strumento sia pure liso e banale rivolto verso obiettivi (o risultati) non letterari, la forza dell’obiezione mi pare impallidisca”, e ancora, “se non ho altro strumento per le mani e non sono altrettanto buono artificiere per le bombe e tattico per le battaglie […], sarò poi uno dei mille al momento dell’azione; ma intanto […] adatto la mia biro a picchiare sul viso e dico con gli altri, ripetendo con gli altri, che bisogna uccidere il tiranno”98.

Fortini ritornerà sulle Descrizioni in atto nel 1976, nel suo I poeti del Novecento99, e ai dubbi espressi sul piano ideologico accompagnerà una lettura degli esiti formali raggiunti da Roversi, notando come “l’esperienza della coeva ‘nuova avanguardia’ non viene del tutto respinta: in quelle ‘descrizioni’ c’è un piano didascalico-ragionativo […], e ce n’è un altro che evoca immagini naturali o comunque elementi figurativi. I primi e i secondi piani si avvicendano[…], in Roversi c’è una mimesi del parlato e una volontà di connessione e di movimento trasversale che è di dichiarata ascendenza espressionistica e vociana”100.

Nello scritto successivo di quel notevole numero di «Paragone Letteratura», anche Raboni e Cesarano punteranno l’attenzione più che sul piano concettuale, sulle modificazioni della struttura formale che, rispetto a Dopo Campoformio, si osservano nelle Descrizioni in atto.Cercheranno di svelare, i due critici, il modo in cui in questi versi si rifletta il passaggio ad una realtà formale sensibilmente diversa da quella che poté apparire, nel corso degli anni Cinquanta, al poeta de La raccolta del Fieno; e cioè la realtà della mercificazione e del disconoscimento dell’umano nelle strutture e nella vita della moderna società capitalistica. Il poeta nella precedente raccolta di poemetti aveva trovato una sua posizione, un instabile equilibrio nel problematico rapporto tra un piano positivo, rappresentato dalla possibile autenticità di gesti e sentimenti del mondo contadino, ancora presente ancorché assediato in quel travagliato decennio, ed un piano negativo incarnato nell’arrembante società neocapitalistica. La sua postazione poteva ancora essere, allora, quella mediana di un osservatore che registra lo scontrarsi delle due realtà, la poesia, sebbene appesantita da un moralismo retorico che ne faceva quasi una “mitologia campagnola”, aveva ancora il compito di proteggere e difendere le energie e le verità di quel mondo. Negli anni Sessanta la sua torretta di osservazione è stata distrutta dall’avanzare dell’inferno capitalistico, ed è da lì, dal fondo che ci giungono le sue Descrizioni; ed è da lì, dal fondo che Ceserano e Raboni ce ne danno un resoconto. In Dopo Campoformio “la struttura formale era affidata a campiture piuttosto ampie, elaborate con un dorato impasto di evocazioni visuali e suggestioni, e chiuse in una allure metrica a tratti un poco impettita, oratoria”101. Una scelta, questa, dove è agevole scorgere la posizione antinovecentesca presente nel lavoro teorico di «Officina». La contraddizione tra i due opposti poli, alla quale abbiamo accennato, che nella visione di chiarezza assoluta di Roversi si risolve nella dicotomia città-campagna era rispecchiata sul piano espressivo da una continua alternanza fra una serie di immagini ipertese ed una di immagini più lasse che tendono quasi all’elegia ed all’idillio. Aspetto, questo, che si ripercuote anche sull’aggettivazione: la seconda più serena, sinuosa, la prima dura, irta, quasi plumbea. In queste Descrizioni, dal punto di vista figurativo-sintattico, si assiste ad una omogeneizzazione e, notano Cesarano e Raboni, ad una “accelerazione estrema dei procedimenti espressivi”102. Si affaccia violentemente il discorso diretto di tipo sentenzioso, quelli che in precedenza sembravano giudizi interni e circostanziati, giustificati dal contesto, sembrano acquistare ora una grevità “astratta”, ma insieme “corporea”, propria delle sentenze. A livello metrico, inoltre si osserva un tentativo di sottoporre “strutture già sperimentate in passato a prove di carico particolarmente severe, che le sollecitano e le deformano senza oltrepassare tuttavia, sino ad ora, il limite di rottura”103. Più avanti Cesarano e Raboni registrano quella che Oreste Del Buono ha definito “una felice contraddizione”104 tra la distanza, espressa da Roversi negli scritti teorici, dagli esiti formali raggiunti dalla neoavanguardia, e una produzione poetica, quale quella delle Descrizioni in atto, che si avvicina pericolosamente alle istanze di un linguaggio ch’egli definisce “da crociera turistica”; ma credono, i due critici, di poter giudicare “tali coincidenze come sintomi o indizi di un clima espressivo condensatosi in questi anni su un’area più vasta di quella di pertinenza del formalismo avanguardistico […]”105.

Angelo Romanò, nell’agosto di quello stesso anno, nel n. 186 della stessa «Paragone Letteratura», si inserirà nel dibattito, leggendo la diatriba innescata da Roversi come un’utile introduzione alla lettura delle poesie di Majorino. Le fondazioni, i metodi e gli obiettivi disciplinari che Roversi richiede per la poesia, nel citato scritto programmatico, la violenza demistificante ed autocritica, il gesto scientificamente “contro” non vengono, secondo Romanò, da operatore in proprio, cioè in quanto poeta, rispettati. “Nelle poesie c’è l’altra e la maggior parte di lui: il rovello lancinante, la disperata, proterva integrità, il pervicace rifiuto del mondo, lo smisurato amore per il passato, […] il senso dell’inafferrabilità del tempo, il voler essere puro, incorrotto, compatto dentro la storia che è impura, corrotta, dissoluta […]”106. Quella di Roversi è, per il critico, “la dolorosa esaltante pazzia di chi crede che i versi siano, contro ogni evidenza, un’arma di rivoluzione; dunque accetta il rischio di essere un solitario, soggettivo, patologico ribelle”107. Majorino, al contrario, possiede come dati di fatto quelle che per Roversi sono le più faticose conquiste del lavoro intellettuale: la meticolosa ed imparziale precisione e il rigore metodologico nel catalogare la realtà quotidiana, un contegno culturale imperturbabile; la sua è una poesia che si regge su un progetto minimo, astenendosi dal definire e dal denunciare, alla ricerca sempre di una giusta spiegazione.

La valutazione di questa incoerenza verrà considerata validissima da Gian Carlo Ferretti, che nel suo La letteratura del rifiuto108 avvertirà l’importanza dell’argomento e si introdurrà autorevolmente nel dibattito, ma alla dicotomia tra programma ed esiti in Roversi, messa in evidenza dal Romanò, contrapporràl’assoluta consapevolezza del poeta, “che appunta la sua ira e il suo sarcasmo sulla condizione ambigua e colpevole di un’opposizione intellettuale letteraria, subalterna insomma, che confina il poeta fuori dalla lotta che si combatte: velleitario poeta e velleitario politico insomma, privo di una qualifica e di un lavoro preciso”; una consapevolezza, dunque, che “dà all’agonismo di Roversi […] una drammaticità autentica che respinge, di per se stessa, ogni accusa di astrattezza ideologica e di mitologizzazione di una protesta privata”109. Roversi sembra aver trovato, per Ferretti, il modo di contrastare attivamente, senza sentimenti blandi, con rigore e scientificamente avvalendosi di una sperimentazione linguistica, metrica e stilistica che fa uso in modo estremamente libero delle prove di mezzo secolo di letteratura.

Il nuovo massimo di concentrazione ideologica che si esplicita nelle quarantasei Descrizioni in atto, può chiarire anche il perché Roversi abbia voluto dare, in quello stesso 1965, una definitiva sistemazione ed un assetto unitario ai testi di Dopo Campoformio, col prepararne una editio ne varietur per Einaudi. In tal modo il marcato lavoro di “limatura” dei singoli poemetti raccolti nel 1962 (alcuni apparsi già in Poesie per l’amatore di stampe e in La raccolta del fieno) e di organizzazione degli stessi in una struttura unitaria (il percorso a ritroso di “un solo lungo errore”), trovava una sua coerente conclusione nel traguardo di una distanza critica dalla quale poter portare a termine tutto un periodo mai rinnegato, ma oramai superato.Questo lungo processo di riscrittura e riassestamento è stato seguito attentamente, in tutte le sue fasi e varianti, da Giansiro Ferrata, che in un intervento apparso su «Rinascita» del 27 marzo 1965, cioè proprio a ridosso dell’uscita del volumetto einaudiano, considera come nella nuova edizione il poeta finisca col “respingere quanto di frammentario e rapsodico l’aveva accompagnato nel ’62”. Il “nuovo” poema “si snoda da solo per i suoi undicicapitoli […]”110. Roversi, secondo Ferrata, ha qui tolto ciò che andava tolto, ha aggiunto pagine efficaci ed è riuscito a stabilire le regole del proprio impegno “senza premeditarle, le ha sviluppate così come si porta a maturazione la forma di un’opera lavorando sulle inquietudini e sugli esperimenti. Non c’è stata nessuna programmazione ideologica, solo il passaggio da un fermento ad una prospettiva storica […], fatta di storia vissuta e pensata”111. Ora, il “lungo poema in più lasse” diviene realmente un libro di opposizione, un libro di contrasto politico senza alcuno scrupolo di ordinamento dall’esterno.

È del 1967, invece, uno dei rarissimi resoconti, a firma di Gilberto Finzi, di una produzione teatrale di Roversi; un altro esempio lampante di un interesse generalizzato per tutte le opere roversiane negli anni Sessanta. I testi teatrali dello scrittore sebbene non numerosissimi112, costituiscono uno spicchio importante (prova ne siano anche le rappresentazioni di Unterdenlinden nella stagione 1967 e di Il crack due anni dopo, presso “Il Piccolo” di Milano) di un macrotesto che lo scrittore ha sempre considerato come unitario, “una matassa da sfilare, stando attenti ai nodi […], fili corti, fili lunghi, fili che si spezzano e da riannodare. Anche i testi teatrali, sullo stesso piano… quelli conclusi, altri distesi nei fogli”113. Quel breve saggio, dunque, appare in Lo spirito del ’45114 col lapidario titolo di Adolfo è vivo, e si risolve in una appassionata lettura da un’ottica prevalentemente ideologica (difficile prevederne un’altra) di Unterdenlinden, edito da Rizzoli nel 1965.

Finzi inserisce correttamente il breve e tematicamente compatto atto unico di Roversi all’interno di quell’esperienza “sempre più delusoria nelle coscienze, sempre più provocatoria nelle virulente incontenibili esplosioni di apparenza: tecnica, economia e società (amorfe, senz’altra bellezza che quella esteriore di luccicante brillio)”115 degli anni Sessanta. Per Roversi il passaggio aspro dalle speranze ai chiarimenti, dalle promesse alla disillusione, si materializza nelle sembianze di un Hitler redivivo che si appresta alla riconquista: non un folle, ma un corretto, efficiente ed abile capitano d’industria. L’autore così, conclude Finzi, “in una lineare struttura teatrale ha disciolto i peggiori veleni, storie e contraddizioni dell’epoca; che nella chiarezza semplice di un assurdo-logico ritorno, ritrova l’oggettivizzata chiave delle antinomie, che usa deliberatamente, direttamente con logica fredda senza sottigliezze e senza ambiguità: fino in fondo”116.

 

La scelta della clandestinità

 

Ci sembra di essere giunti, così, ad uno degli snodi fondamentali di questa storia, quella della fortuna di Roversi, della sua visibilità nella società letteraria italiana, quella dei “critici che hanno sempre ragione” quando “ci sono e leggono veramente”. È il 1970, infatti, quando Roversi raccoglie, in netta polemica con i metodi produttivi e distributivi mistificatori dell’industria culturale, i testi scritti dal 1963 in poi in un ciclostilato in proprio, che si apre con questa sigla perentoria: “Questo è il gruppo integrale delle Descrizioni in atto composta dal 1963 al 1969, di cui molte inedite; e adesso raccolte per essere liberamente mandate”.

Uno splendido esempio, questo, di condotta produttiva fattualmente eversiva, e punto di riferimento di tanta teoria, ma anche prassi, della contestazione degli anni Settanta; un’operazione culturale che ci sembra espressione di estrema conformità tra il “dentro” e il “fuori” del testo, tra la materia trattata e la materia con cui la letteratura deve inevitabilmente venire a contatto: la coeva realtà sociale e fatalmente l’industria culturale. La scelta di Roversi è, usando le parole di Giuliano Manacorda, “una cosa sola con il contesto dell’opera, ne è l’etichetta autentica […], la verifica in re, la manifestazione tangibile che la sua non è opera di sole parole”117. I temi di “soffocamento, assassinio, sterminio e genocidio”118 che esprimono violentemente la “rabbia politica” di Roversi, trovano la loro espressione più coerente nella realtà, nel tentativo di legittima difesa dal “tritatutto editoriale”. Un tentativo che, sebbene abbastanza diffuso in quei movimentati anni (esempi ne siano Venticinque poesie di Fortini e Gli sguardi, i fatti, i senhal di Zanzotto), sottolinea l’approdo ad una effettiva azione di rottura, indissolubilmente legata alla coscienza della fragile inconsistenza, della precarietà, della fondamentale contraddittorietà dell’atto dello scrivere oggi, da sempre delineate da Roversi negli scritti teorici.

C’è un interessante intervento del 1967 pubblicato su «Rinascita»119 in cui Roversi dichiara (rispondendo alla domanda: “per chi si scrive una poesia?”) di non credere più ad un rapporto diretto con l’interlocutore collettivo, e ciò a causa dello sviluppo dell’industria (culturale e non) capitalistica. Dunque non si può scrivere più per qualcuno, semmai “contro qualcuno”, e meglio ancora “contro se stessi”. La sottrazione dell’individualità all’autore, l’inevitabile caduta della sua autonomia, la mercificazione dell’opera d’arte, portano ad una sostanziale impossibilità di libero e incondizionato intervento e all’inutilità della letteratura in questa fase della lotta anticapitalistica. La sua risposta non è una risposta tecnica ma una risposta politica ad una situazione in cui il pubblico “è sollecitato a questo tipo di consumi (i libri) dai mezzi di pressione (oppressivi) tradizionali: giornali, settimanali, Rai-TV, prospetti pubblicitari a domicilio, lotterie, concorsi, ecc…”120. È giunto il momento di “spezzare la penna sul ginocchio e perdersi nella tempesta”.

Leggendo queste parole si comprende pienamente la scelta di Roversi di arrivare al cospetto del pubblico tramite canali di distribuzione diversi, con lettere a mano, più in dettaglio, da solo.

Una dura critica molti anni dopo, nel 1982, verrà inferta a queste tesi, ritenute massimaliste, da Giampaolo Borghello in Linea rossa. Intellettuali, letteratura e lotta di classe121. Per il quale “il bel gesto” di Roversi rimaneva tale mentre i problemi divenivano sempre più complessi, e difficilmente risolvibili da azioni eclatanti o ribellistiche negazioni.

Un esperimento, quello del ciclostilato, di cui il poeta stesso specificherà a fondo le motivazioni assai più recentemente, rispondendo, sembrerebbe, anche alle accuse di Borghello: “Non è stato un rifiuto dell’industria culturale, […] figurati che paura avrei fatto a quell’industria, e per loro quale perdita grave!…No, no…avevo pubblicato, […] senza troppa difficoltà con Mondadori, Feltrinelli, Einaudi, poi anche con Rizzoli, nonostante, e devo dirlo non per mortificazione ma per igiene mentale ed autoironia, non avessi più di cinquanta lettori, potevo arrivare a cento, con i curiosi familiari. Quindi avrei fatto ridere, se mi fossi messo ad alzare muri e divieti. […] In quegli anni Sessanta uno dei problemi di fondo impostato e promosso con violenza di propositi del tutto legittima […], direi anzi uno dei problemi determinanti si riferiva alla comunicazione. […] Non potendo conquistare la comunicazione, cioè i centri della comunicazione ufficiale, ci si proponeva di allestire e gestire almeno alcuni alternativi […]. Il ciclostilato con le Descrizioni in atto scritto nel corso di quegli anni faccia a faccia, spalla a spalla con gli avvenimenti, intendeva, presumeva… presumeva come atto, di inserirsi come una scelta militante e diretta, in cui uno metteva in gioco ciò che aveva, nel cuore di questo problema drammatico e, come ho detto determinante. Mi inserivo come un chicco di polvere ma con determinazione”122. Una citazione un po’ lunga, ma necessaria, crediamo, a comprendere per mezzo delle parole dello stesso autore, come la poesia-azione di Roversi, si trasformi coerentemente in azione politica, nel gesto di distribuzione all’interlocutore collettivo.

La tortuosa (e perigliosa) strada della “clandestinità” imboccata da Roversi non mancherà di destare l’interesse della “congrega” letteraria italiana; già il 24 maggio del 1970, sulle pagine assegnate alla cultura nel periodico «L’Espresso», Valerio Riva dà rilievo alla scelta roversiana, inserendola puntualmente in un discorso generale sulle pubblicazioni clandestine. Furono proprio gli studenti come dice lo stesso Roversi rispondendo a Riva in questo articolo a dargli l’idea del ciclostile, ed in effetti, come abbiamo già appreso dalle sue parole, proprio negli ambienti della contestazione giovanile, la sua scelta acquistava una prospettiva chiara e completa. Comincia a nascere, scrive Riva, una rete editoriale alternativa, l’editoria fatta in casa inizia a farsi sentire, librerie fuorilegge nascono in Germania, in Inghilterra e negli Stati Uniti, ce n’è una anche in Italia; la poesia di Roversi si carica di una forte spinta antagonistica e di una forte politicità integrandosi in questo nuovo contesto. L’ampliarsi del fenomeno è esemplificato, ci riferisce Riva, dal fatto che Roversi dopo aver “tirato” meno di cento copie delle sue Descrizioni in atto,per venire incontro alle numerose richieste, abbia dovuto stampare ancora più copie di quante se ne siano mai vendute dei suoi libri di poesia a stampa. Il penetrante articolo, che lucidamente coglie appieno il significato e la portata del progetto di Roversi, si conclude con quella che nel 1970 può considerarsi come una sorprendente profezia: “[…] verrà il giorno in cui teoricamente non si venderanno più libri, scrittori e lettori avranno sempre bisogno di duplicatori, magari elettronici e collegati tutti come terminals ad un unico computer centrale che immagazzinerà nella sua memoria tutto lo scibile umano e tutta la letteratura universale […]”123. La descrizione, questa, di un futuribile sistema di distribuzione della letteratura che oggi, nell’epoca della “comunicazione globale”, ci appare certo meno lontano.

Anche Giovanni Raboni, nuovamente dalle pagine di «Paragone Letteratura»124, riconduce la sua attenzione sulle Descrizioni in atto, e sulla loro tiratura “fuorilegge”. Una illegalità che anch’egli legge nella giusta prospettiva, non come ribellistico rifiuto ma come ricerca di più dirette e meno corrose modalità d’incontro con il lettore, un libro di poesia ha poco da perdere, dunque non si tratta di un atteggiamento oppositivo per una struttura (l’industria capitalistica) che si condanna da se, ma di una legittima difesa, di una ricerca di nuove possibilità. Nel merito delle poesie, la lettura, ora possibile, della totalità delle Descrizioni libera tutto il loro potenziale di orrore e furore, che si esplica in un discorso che fa della compattezza la propria cassa di risonanza. “Roversi ha lavorato in orizzontale su temi di soffocamento, assassinio, sterminio e genocidio […], che non sopportano prelievi e campionature di sorta”125. “Il Vietnam di Roversi”, per essere descritto, ha bisogno di un unico, interminabile poema “senza né capo, né coda”. Anche dal punto di vista stilistico il valore fondamentale consiste nella “grandezza di scala, nel carattere, per così dire, cubico delle varie soluzioni proposte […], che acquistano, nella coscienza di chi legge, il loro significato di violenta giustizia solo se vi si lascino ripercuotere secondo l’estensione necessaria”126, e cioè nella dilatazione smisurata di un libro che non può parlare d’altro e che non potrà mai finire di essere scritto.

Lo stesso Zagarrio, nel già citato saggio Poesia fra editoria ed anti ne «Il Ponte» (Firenze 1970), sottolinea la funzione delle Descrizioni in atto come splendido archetipo nella prassi del “circuito alternativo”, come esempio di comportamento produttivo anti e punto di riferimento centrale della coeva contestazione.

Anche Giuliano Manacorda, nel 1972 in Vent’anni di pazienza127, mette in rilievo la scelta di Roversi “che sta nel rifiuto di ogni alienante dipendenza dall’industria culturale, nel rifiuto deciso di stare in qualsiasi forma al gioco non immacolato della società letteraria in regime neocapitalistico”128, notando tra l’altro come la rabbia di Roversi esploda, qui, con una violenza che in Dopo Campoformio era ancora trattenuta, che ancora si distendeva in forme in ogni caso letterarie tra l’elegiaco e il didascalico. Ora la poesia delle Descrizioni in atto lascia parlare la realtà ex ore suo, basta la constatazione, la semplice “descrizione” appunto, per suscitare l’orrore. Ma pare a Manacorda che esistano due diversi tipi di descrizioni all’interno del volume: “il primo non è propriamente un descrivere, ma piuttosto un additare le categorie del vivere in ‘questi giorni di pece’“ (ciò che manca in questo momento è la precisione del riferimenti ad eventi e persone, un bersaglio, insomma), si avverte così ancora la tendenza ad una letteraria bellezza, ma dopo la XV “descrizione” circa, “l’intenzione trova i suoi traguardi precisi, fatti e persone sono chiamati in causa per nome, il descrivere si fa più propriamente tale”129.

 

Roversi nel “mercato delle lettere”

 

Colui che però analizzerà più a fondo il rapporto di Roversi conl’industria culturale nelle varie fasi della sua carriera (se tale la si possa realmente definire), è Gian Carlo Ferretti nell’opera Il mercato delle lettere130 (Einaudi, Torino 1979). Ferretti, che già si era occupato del poeta bolognese in La letteratura del rifiuto (Mursia, 1968) e in «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta (Einaudi, 1975), può prendere sicuramente posto, accanto a Vittorini, Fortini e Zagarrio, nelle serrate fila dei “lettori più attenti” di Roversi che stiamo cercando di mettere assieme. Nella lunga analisi che Ferretti compie, in questo libro, delle traversie della poesia italiana del Novecento nell’angusta struttura dell’industria culturale moderna, infatti, Roversi ricopre un ruolo fondamentale. Il suo rilievo non è determinato solamente dalla scelta eclatante del ciclostilato nel 1970, scelta che Ferretti vede realisticamente come tentativo “disperato, ma rigoroso di sottrarre la propria raccolta poetica agli equivoci ed alle strumentalizzazioni del mercato”, anche se questo affrancamento si svolge “come se la macchina dell’industria culturale non esistesse e perciò oggettivamente vulnerabile nei confronti di essa [facendone affiorare, per esempio, una certa istanza di rivolta elitaria, velleitaria e moralistica: un peccato di orgoglio intellettuale, insomma]”131; ma è un rilievo dato soprattutto dalla fisionomia “editorial-letteraria” dello scrittore che si arricchisce progressivamente dai tempi di «Officina» agli anni Settanta, lasciando però immutate le caratteristiche di fondo. Roversi nel 1955 si fa co-redattore ed editore di una rivista su cui sembrano riflettersi non pochi contrassegni del suo carattere intellettuale “schivo, elitario e protoindustriale”132. La stessa poesia officinesca di Roversi porta i segni di una tenace letterarietà, di un rigoroso moralismo, di una problematica squisitamente pre-imprenditoriale. Roversi è “un oppositore tanto più solitario quanto più intensamente partecipe dei conflitti reali […], strenuamente attaccato alla severità di una propria dimensione preindustriale ed artigiana”133, contemporaneamente e paradossalmente “ascetico-aristocratico” e “culto-popolaresco” nel modo di essere e di scrivere, quindi, in modo analogo, negli anni Sessanta esterno ai fasti dell’industria editoriale. Mai un best seller, mai un premio letterario, ma un’intensa attività nelle riviste, come la “sua” «Rendiconti», ma anche altre “rivistine” introvabili, intensi rapporti di discussione e collaborazione con gruppi politici organizzati e personalità di rilievo, dentro o fuori dalla “sinistra storica”, tra organi importanti e pubblicazioni emarginate. Lo stesso Dopo Campoformio sembra trovare una collocazione significativa in questo senso nella collana diretta da Bassani per Feltrinelli, “la presenza di quella raccolta poetica insieme a quelle di Fortini (Poesia ed errore, 1959) e Volponi (Le porte dell’Appennino, 1960) sembra voler riproporre certi termini di un discorso officinesco che rende in modo più o meno esplicito il rifiuto del falso ‘miracolo’ italiano […]”134. Ma è l’edizione di Registrazione di eventi con un grande editore come Rizzoli, “ancora in gran parte legato alla sua vecchia immagine, che rappresenta una clamorosa eccezione nel curriculum di Roversi”135. Forse, ipotizza Ferretti, una fase di tendenziale “modernizzazione” e di adeguamento, non a caso il romanzo, “scoppia nella confezione di Rizzoli” con tutta la ‘strumentazione’ del caso: grafica industriale, edizione rilegata con sovraccoperta, fascetta con l’invitante slogan: “così ci si illude di vivere”. Poco dopo, per contro, ci sarà il clamoroso gesto del ciclostilato per le Descrizioni in atto, anche se la veemente critica delle reali possibilità di azione politica di un intellettuale inserito negli ingranaggi del grande capitale, che la tiratura a mano delle Descrizioni sottende, verrà progressivamente modificata: è del 1971, infatti la pièce, La macchina da guerra più formidabile136, incentrata sulla pericolosità del “dotto” all’interno del “sistema”non appena lo stiletto della sua penna divenga sciabola.Negli anni Settanta sembrano esplicitarsi ulteriormente le proiezioni esterne della sua condizione di militante solitario ma partecipe: un autore così poco pubblico percorre le vie del teatro e dello spettacolo (indicativa risulta la collaborazione nei primi anni del decennio col cantautore Lucio Dalla per i dischi distribuiti su grande scala dalle edizioni R.C.A.) ma senza rinunciare al suo arroccamento moralistico. La sua posizione era stata e rimane però quella di un “minoritario” di sinistra, egli aveva mantenuto un rapporto di leale ed aperta discussione col P.C.I. con fasi di adesione. Emblematica di una di queste fasi, per Ferretti, è l’edizione de I diecimila cavalli con gli Editori Riuniti. È Roversi stesso che nella “conversazione introduttiva” al romanzo con Francesco Leonetti precisa la propria scelta: “L’operazione politica delle Descrizioni in atto è superata da altri problemi, da richieste oramai diverse nella sostanza e più complicate. […] Adesso gli Editori Riuniti propongono di pubblicare questo libro, ho accettato e accetto come un atto di pratica politica, altrimenti il testo restava dov’era”137. Dunque una scelta nuova, tramite l’utilizzo di un canale di partito, in una edizione economica con apparati critico-interpretativi, alla ricerca del maggior numero di lettori possibile. Una nuova strategia politica, nei fatti. Ma il romanzo mostra di resistere ad una lettura di massa, ad una presenza capillare, così Ferretti: “la sua struttura e scrittura sperimentale, il suo movimento di costante frantumazione e riorganizzazione del discorso, la sua densità problematica e simbolica, la sua forte letterarietà, sembrano destinarlo alla lettura di quei pochi lettori a cui erano pervenute le Descrizioni in atto e comunque non molti di più”138. Roversi si trova a fare i conti con una situazione di mercato a cui non sfugge nemmeno una casa editrice di sinistra, che ne è anzi per più versi condizionata, il romanzo non può non rientrare nella logica imprenditoriale. Certo egli vive in pieno questa situazione ma, scrive Ferretti, lo fa senza alcuna illusione di purezza, nel continuo tentativo di vivere il momento politico all’interno dello specifico letterario facendosi carico di tutte le dolorose contraddizioni che questo comporta. “Uno scrittore, insomma, che a proposito di un suo romanzo può affermare, in modo paradossale ma emblematico, con onestà e un po’ di utile autoironia: ‘leggete il mio libro prima di acquistarlo’“139.

L’“istituzionalità” del mezzo di distribuzione del nuovo romanzo di Roversi ha inevitabilmente comportato il subitaneo apparire sulla stampa nazionale, in quel 1976, di numerose recensioni, tutte però mettono l’accento sulla non facile leggibilità del romanzo e sull’alto potenziale simbolico di un’opera globalmente considerata complessa e densa, ricca di riferimenti al dibattito sociale e politico (quindi, nell’ottica roversiana, culturale) in corso.

Mario Spinella è il primo, su «Rinascita» n. 12 del 19 marzo 1976, a dare notizia del nuovo volume. In un denso “occhiello”, dal suggestivo titolo “Il fuoco e la neve”, Spinella svela le numerose citazioni che arricchiscono il complesso impasto delle pagine di Roversi, a partire dal titolo, sintagma di un antico poeta cinese citato da Mao. Ma “di tali riferimenti e perfino di numerose citazioni dirette, Roversi fa ampio uso. E, in quella prima pagina […], non a caso incontriamo i nomi di Diogene Laerzio, di Epicuro, di D’Alembert, mentre ancora più numerosi per tutto il romanzo sono i riecheggiamenti indiretti, i ‘calchi’ culturali, le allusioni a testi letterari del passato. La cultura e la letteratura sono così esplicitati nella loro funzione di materiali […]”140. La diligente lettura del critico ci chiarisce anche numerosi prestiti da “canzonette”, modi di dire correnti, slogan pubblicitari, anch’essi materiali culturali da sussumere direttamente e che costituiscono anzi “già di per se stessi eventi dai quali l’azione è, per così dire, tutta impastata e segnata”141 in un assemblage e collage propri dell’arte contemporanea, dell’avanguardia. Roversi, continua Spinella, guarda alle sperimentazioni dei vari “issimi” come ad un nodo essenziale dell’officina culturale contemporanea. Un altro riferimento esplicito che non sfugge a Spinella è il Vittorini di Conversazioni in Sicilia, e più ancora, forse, di Il Serpione strizza l’occhio al Fréjus, una consonanza più di “genere” questa, il genere “epico-lirico”, non solcato perciò dal simbolo solo occasionalmente e ricco di accentuazioni ritmiche e di una ricorrente versificazione. L’autore bolognese, però, a differenza di Vittorini non sembra cadere mai nella tentazione dell’allegoria, rischio primario della letteratura che ha come referente privilegiato l’ideologia. Il nocciolo del romanzo è infatti lo spirito del sessantotto che Roversi sviscera tramite l’utilizzo scientifico dell’apparato linguistico a sua disposizione, un romanzo sperimentale, dunque, ma “nel senso migliore del termine”142.

Sulla densità del tessuto linguistico del romanzo incentra la propria interpretazione anche Mario Lunetta, in un articolo del 24 marzo di quello stesso anno su «Il Messaggero» di Roma, notando come “l’energia di Roversi sia multidirezionale solo all’apparenza: in realtà la sua capacità di sintesi è perfino ossessiva e in tutti i casi indirizzata, con magnifica coerenza, all’uso visionario di un delirio antagonistico in cui la logica è sempre ‘altra’, la metafora ‘sguincia’, la rappresentazione ‘straniante’ […]”143.

Pure Felice Piemontese nel recensire I diecimila cavalli su «Paese Sera Libri» dà rilievo alla dimensione convulsa e magmatica del romanzo, proprio come convulsa e magmatica è l’Italia di quegli anni, un Italia che è ben più dello sfondo su cui si svolge la trama. I riferimenti culturali sono infatti “non passivamente raccolti ed esibiti ma costitutivi della struttura stessa dell’opera”144. Nel libro, continua Piemontese, ritroviamo tutto il dibattito letterario e politico di questi anni, rivissuto dall’interno criticamente, anche se “non tutto è convincente […], non lo sono gli echi vittoriniani troppo espliciti ed esibiti, così come non sufficientemente giustificati sembrano alcuni riferimenti simbolici. C’è anzi un’attitudine metaforizzante che a volte risulta sovrabbondante (provoca un eccesso di letterarietà) anche se, in verità, Roversi stesso rivela un’impazienza stilistica verso i suoi stessi riferimenti”145.

 

Un colpevole silenzio

 

La coraggiosa scelta della “macchia”, iniziata con il ciclostilato delle Descrizioni in atto, e inframmezzata, come abbiamo visto, dall’edizione de I diecimila cavalli con gli Editori Riuniti, verrà propugnata anche negli anni successivi. Fino ad oggi, infatti, le opere di Roversi verranno pubblicate da piccole case editrici semisconosciute o su riviste difficilmente reperibili, su “fogli volanti” come ci conferma lo stesso autore: etichette quali Nordsee, Pendragon, La Caita, Cooperativa culturale Centoggi, e ancora, l’Associazione Autori Contemporanei, La Città del Sole o Il Girasole; edizioni a tiratura limitata, con esemplari numerati, o su carta tirata a mano da mastri cartai. La clandestinità teorizzata da Roversi è stata attuata in pieno nel corso di tutti gli anni Ottanta e Novanta, corredata da una fitta attività di “registrazione” dei mutamenti sociali e di opposizione agli “orrori istituzionali” condotta dalle pagine di riviste a piccola diffusione. Una scelta consapevole e coraggiosa, che inevitabilmente lo porta fuori dalle luci della ribalta letteraria italiana, in un esilio volontario, sdegnoso ma partecipe, proprio secondo il ritratto disegnato da Ferretti.

Direzioni editoriali, queste, fuori dai circuiti più evidenti, che hanno limitato fortemente l’evidenza della produzione roversiana e la ricerca di un più ampio pubblico tentata con l’edizione de I diecimila cavalli. Roversi scompare dalle cronache letterarie, non si ha più notizia delle sue poesie, gli interventi sempre più rari che lo riguardano hanno peculiarmente come oggetto la sua attività degli anni Sessanta, con la significativa eccezione del volume distribuito dagli Editori Riuniti.

Esempio chiarissimo di questa tendenza è la completa latitanza della più recente poesia di Roversi da alcuni volumi che hanno come oggetto la storia della letteratura italiana del Novecento. Già nel 1976 Silvio Ramat nella sua Storia della poesia italiana del Novecento edito da Mursia, analizzava con relativa attenzione i poemetti di Dopo Campoformio nella loro endemica storicità, tralasciando completamente però le Descrizioni in atto, che come abbiamo visto erano state ciclostilate in propriogià nel 1970, ed avevano avuto, inoltre, una nuova “edizione” con sostanziali integrazioni nel 1974 (Nel 1985 Roversi si metterà di nuovo al lavoro col ciclostile, inserendo nella raccolta altri testi scritti nel frattempo; nel 1990, infine, le Descrizioni in atto, con tutte le aggiunte degli anni Settanta ed Ottanta, verranno pubblicate in una prima ed unica edizione a stampa per i Quaderni dello Spartivento, anche questa però fuori commercio e spedita gratuitamente). Del resto proprio di un poemetto di Dopo Campoformio, e precisamente de Il sogno di Costantino, Ramat si occuperà a lungo nel suo quasi omonimo I Sogni di Costantino146, una cospicua analisi tematica dei riflessi che gli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo ed altre grandi opere d’arte del passato hanno avuto su alcune importanti esperienze letterarie italiane del XX secolo. Un lungo percorso che da Le faville del maglio di D’annunzio arriva a Pasolini e Roversi attraverso “gli appunti visuali” di Roberto Longhi, del quale entrambi i co-redattori di «Officina» avevano frequentato i corsi universitari, ma arricchito soprattutto da una fedele lettura testuale del poemetto roversiano.

Le scarsissime notizie di Roversi offerte da G. M. Anselmi e A. Bertoni in L’Emilia e la Romagna, storia dell’attività culturale in quella regione e in special modo a Bologna (in Letteratura italiana. Storia e geografia, vol. III: L’Età contemporanea, diretta da Asor Rosa per Einaudi, Torino 1989), omettono, anch’esse totalmente, Le Descrizioni in atto, nonché tutta la produzione successiva a I diecimila cavalli, occupandosi esclusivamente di Dopo Campoformio e di Registrazione di eventi.

Ancor più significativo ci sembra l’esempio de La storia della letteratura italiana contemporanea. 1945-1995147 a cura di Giuliano Manacorda, la vicenda di Roversi raccontata in questo volume infatti subisce un’improvvisa interruzione a metà degli anni Settanta. Le opere a cui si fa riferimento sono di fatto le stesse di cui sempre Manacorda aveva dato notizia, quasi un decennio prima nel suo Letteratura italiana d’oggi. 1965-1985 (Editori Riuniti, 1987), l’attività letteraria di Roversi sembra fermarsi alle Descrizioni in atto del 1970 e alla stesura del romanzo datato 1976. Dopo questa data il nome di Roversi scompare, viene tirato in ballo unicamente a causa di collaborazioni con alcune riviste letterarie, tra le quali «Quasi», «Le Porte» e «Salvo Imprevisti». Le più recenti esperienze poetiche roversiane, quali, negli anni Ottanta, le varie parti dell’unico lungo poema L’Italia sepolta sotto la neve o, negli anni Novanta, Il libro del Paradiso non vengono nemmeno citate.

In controtendenza si pone invece un’opera in cui alcuni estratti da questi ultimi lavori di Roversi vengono inclusi, accanto ad altri da Dopo Campoformio e dalle Descrizioni in atto: l’antologia Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995148a cura di M. Cucchi e S. Giovanardi; forse l’unico volume edito negli anni Novanta capace di fornire una visione relativamente completa della produzione roversiana dagli anni Sessanta ad oggi.

Ancora un breve saggio apparso su «Allegoria» nel recentissimo n. 33, nel giugno 2000, e cioè l’ultimo intervento in ordine cronologico dedicato a Roversi sulle pagine di un’importante rivista letteraria, ha come oggetto un testo degli anni Sessanta, e più precisamente Registrazione di eventi, col titolo La pazienza “cauta e astuta” di Roberto Roversi a firma di Simona Luciani. La curatrice sembra essere conscia della sorte di Roversi nella società letteraria italiana, tanto da esordire sottolineando che “l’opera narrativa di Roversi ha dovuto fare i conti con una certa trascuratezza nella critica contemporanea; cosa piuttosto grave dal momento che oggi Registrazione di eventi […] è considerato da molti critici […] uno degli esempi più interessanti tra i tentativi di rinnovamento del romanzo italiano”149. La lettura si svilupperà poi da un’analisi formale dell’“arditissima, ma sempre controllata sperimentazione stilistica e strutturale”150, alla verifica dell’ideologia che la sottende, quella della feroce critica alla società “dei mille frigoriferi, del calo della benzina e delle macchine a piccola cilindrata”, della “solitudine economica” del protagonista Ettore, fino a trovare una degna continuazione del romanzo nella pièce teatrale dell’anno successivo Unterdenlinden, “minore ma di notevole significato culturale e tristemente attuale”151.

Stesso discorso vale per il saggio apparso qualche mese prima e dedicato a Roversi da Giuseppe Murraca nel suo Utopisti ed eretici nella letteratura italiana contemporanea152, un’accurata analisi delle Descrizioni in atto lucidamente inserite nell’intricato dibattito politico e letterario degli anni Sessanta.

L’assenza di una recente monografia sul poeta bolognese ci sembra essere, però, il più chiaro sintomo dell’oblio di cui è caduto vittima; nessuno, infatti, sembra ritenere necessario un resoconto aggiornato del complesso percorso intellettuale ed umano di Roberto Roversi, sebbene, già nel Febbraio 1978, L. Caruso e S. M. Martini avessero curato il numero 134 della famosa collana “Il Castoro” per La Nuova Italia, completamente dedicato alla sua personalità culturale. Nell’inevitabile stringatezza delle piccole monografie fiorentine, tentarono di raccontarne la poliedrica attività letteraria e di delinearne la natura in tutti i suoi molteplici aspetti. Della superficialità del risultato crediamo siano da incolpare più i ristretti limiti editoriali in cui il volume risulta inevitabilmente angustiato, che le intenzioni dei due diligenti curatori. Martini e Caruso, invero, partendo dalle prime giovanili esperienze roversiane giungono all’ultimo periodo incarnato, all’epoca, dal volume de I diecimila cavalli, tentando di cogliere tutte le sfumature che vanno progressivamente a complicare i percorsi intrapresi dal poeta, ma anche dal romanziere, dal drammaturgo, senza dimenticare il critico ed il promotore culturale che nella persona di Roberto Roversi si danno convegno. Il loro zelo però appare frustrato dall’incomodo margine delle novanta pagine del “castorino”.

La chiusa del volume ci rivela infatti la piena coscienza, nei due curatori, della provvisorietà di questo comunque significativo lavoro: “[…] a questo punto ci pare venga fuori un possibile aggiornamento relativo al tema roversiano dello scrittore in questa società. Ed è su questo termine di aggiornamento che preferiamo concludere un discorso (provvisorio) su un autore nel pieno delle sue possibilità espressive”153. Possibilità, aggiungiamo noi, che sembrano esser rimaste senza eco, nessuno infatti amplierà lo sforzo di Caruso e Martini, almeno fino ad oggi.

Nella desolante situazione che abbiamo tratteggiato, l’eclissi di Roversi dalla scena della stampa letteraria nazionale degli anni Ottanta-Novanta è illuminata, a tratti, dai tempestivi interventi di Antonio Motta, ma soprattutto di Gianni D’Elia.

Motta, in un lungo articolo nel maggio 1995 su «Italianistica», ripercorre tutta l’attività letteraria di Roversi dalle prove giovanili di Poesie, Rime e Umano alla “Premessa” del recente poema L’Italia sepolta sotto la neve, definendolo come “un viaggio conoscitivo, calviniano, alla ricerca di altri mondi possibili, dove esiste quella striscia di realtà da conquistare (non l’isola felice di Robinson), quelle esigue spanne di terreno ideale e morale necessario per vivere” e cogliendo una “soglia di leggera e tragica ironia che soffia in questi versi”154.

Motta sottolinea inoltre un aspetto sul quale raramente parlando di Roversi è stato messo l’accento, “il lavoro capillare, attento, puntuale, attorno alla poesia dei giovani”, lavoro di cui “si dovrà tener conto, un giorno, per ridisegnare la mappa poetica roversiana”155. Tutta l’esperienza di Roversi viene qui velocemente tratteggiata, quasi a volerne ricordare l’importanza ai disattenti operatori culturali contemporanei.

Di questa importanza invece è certamente consapevole Gianni D’Elia, colui che infine vogliamo inserire nella lista dei lettori di Roversi più assidui e partecipi che abbiamo cercato di stilare nel presente capitolo, se non altro perché interrompe schiettamente e consapevolmente l’indebito silenzio che circonda il poeta in questi anni.

Nel novembre del 1989 infatti, dalle pagine della rivista «Poesia» n. 11, D’Elia recensisce, ed è l’unico crediamo, i 46 frammenti dalla prima parte del lungo progetto de L’Italia sepolta sotto la neve, pubblicata allora grazie ad Angelo Scandurra. Il critico comprende l’isolamento della sua voce al riguardo, ricordando immediatamente “[…] la reticenza ad apparire e la stessa difficoltà di seguire ‘fisicamente’ l’opera di uno degli autori più liberi e intransigenti della poesia italiana”, ma contemporaneamente avverte quanto questo diario policentrico, “questo poema epico e civile […] appaia come una novità reale e importante, per tensione espressiva e tensione linguistica, tanto da ricollegarsi al lavoro forse più impegnativo di Roversi, Le descrizioni in atto156.

La “solita” rabbia di Roversi, il suo quasi quinquagenario tormento, la sua continua cupezza trovano qui, secondo D’Elia, un nuovo equilibrio, un’altra stabilità che, determinando l’erompere di una rinnovata interrogazione continua, ininterrotta della vita, sfocia nell’ossessione della verbalità. Ossessione nella quale, però, “il linguaggio non è un mezzo, ma una realtà corrente della fantasia, che è sviluppo della capacità tecnica”157. Roversi raggiunge nella sua ricerca di un’espressione materialistica, stando alla lettura del critico, la stabilità tra il verso libero e prosodico ed un verso metrico oramai inconsapevole, “naturale”, poiché l’intenzionalità dell’opera pare rivolgersi alla coincidenza di prosa e poesia, di frase e verso, di etico e politico, di “estetico” e “cognitivo”. “E non era questo forse”, si chiede addirittura, “il sentiero retorico dell’unica poesia materialistica in Leopardi? […]”158.

Ma è soprattutto grazie ad una lunga ed appassionata intervista apparsa su «Lengua» n. 10, nel 1990 che D’Elia conquista di diritto il suo posto accanto a Vittorini, Fortini, Zagarrio e Ferretti. Un’intervista che, significativamente intitolata Conversazione in atto, coglie appunto le potenzialità ancora “in atto” dell’attenta critica, della imperterrita politicità, della coerenza estrema del poeta di «Officina». Roversi, infatti, viene qui non solo invitato a raccontare di se, del suo passato, ma anche a dare giudizi sul presente, sulla situazione politica, sociale e culturale contemporanea. Così accanto al ricordo del lavoro di «Officina», delle prime prove giovanili, della propria esperienza di libraio e piccolo editore a Bologna, del fervido dibattito del sessantotto e dintorni, dei contrasti con Fortini, dell’avventura del ciclostilato, ecc…, Roversi delinea con toni drammatici la situazione letteraria contemporanea, quella di “una disastrata letteratura, che allappa”, specificando: “Una situazione allarmante, tenuto conto soprattutto del modo, delle strettoie, attraverso le quali le opere, una volta scritte, e comunque scritte vengono stampate, distribuite, buttate più che distribuite, scaricate più che distribuite sul mercato librario, sul mercato della lettura… Allappa, allappare lo intendevo nel merito di una sostanziale omogeneità di gusto, di sapore […]. Per traumi diretti, potrei raccontare aneddoti impensabili, nella società dello spettacolo e delle macchine; i quali in qualche modo potrebbero confermare che essa prospera ma in maniera non naturale, perché assestata dentro l’arroganza del caos. Nel senso che i grandi si fanno i fatti loro e i piccoli si devono arrangiare e non importa se vanno al diavolo. Insomma, mangiare la minestra o saltare eccetera…”159.

Ed è proprio in questo sconfortante panorama, nella omogeneità e piattezza di questa letteratura che si sono insabbiate le tracce di Roversi. Ed è proprio per questo, oggi crediamo, che la figura di Roversi, nella sua proterva integrità, nella sua coerenza spasmodica, nel suo sdegnoso rifiuto di ogni facile compromesso, possa divenire modello di una difficile ma effettuabile alternativa, al fine di vivere la letteratura come impegno e come sfida, con la necessaria dignità, senza la quale essa diventa niente più che una brillante evasione. Solo così la poesia potrà avere ancora, tenacemente, la funzione di:

 

[…] contestare / stravolgere calpestare / […] oggi strumento di scasso, oggetto di rapina, / disciplinata frusta, tavola bianca di schemi / e di severi decaloghi (schivando tutti gli altri pericoli)”.

 

Roberto Roversi, XII Descrizione in atto

 

***

 

 

Cap. III. L’Italia sepolta sotto la neve

 

“Il presente è compiuto. Ho rabbrividito un poco”

 

Roberto Roversi

 

“Il ribelle è colui che ancora non vuol finire di parlare, e parla; di mettersi in viaggio, e viaggia. […] Il ribelle si strugge dentro la vita, perché la vita è il suo mondo”

 

Roberto Roversi

 

“Oggi siamo sul punto di dovere, non dico ricominciare, ma riprendere il cammino. Capelli bianchi o neri. Perché questi anni sono melma e qualcosa si dovrà pur fare”

 

Roberto Roversi

 

Tra vecchie angosce e nuovi stimoli

 

Come è stato fin qui sottolineato, tutta l’esperienza di Roberto Roversi progredisce nella ricerca di un’opposizione politica e culturale contro ogni mistificazione e contro ogni idealismo, dunque contro ogni enfasi nella letteratura quale momento irrazionale, metastorico, sublime e per questo inoffensivo. Un antagonismo, il suo, che pur muovendosi costantemente sotto il segno del materialismo non ha mai accettato però di sottomettersi alle istanze teoriche di un determinismo “volgare”, alle semplificazioni di un rispecchiamento puramente descrittivo, alle restrizioni di un rapporto univoco tra struttura e sovrastruttura. Roversi, al contrario, ha sempre cercato di opporre alla logica capitalistica delle istituzioni vigenti l’uso politico delle tecniche letterarie, la veemenza di un discorso politico-ideologico diretto a varcare i ristretti limiti nei quali la poesia (e lo scrivere tout court) viene dalla suddetta logica ghettizzata. Egli, come ci dimostra la riflessione ininterrotta sulle continue modificazioni dei mezzi di produzione e di distribuzione della letteratura, che è stata per oltre mezzo secolo l’elemento fondante della sua attività intellettuale, ha sempre considerato materiali non solo i canali attraverso i quali le idee – letterarie e non – si diffondono, ma anche le circostanze in cui nascono e gli effetti che determinano nel sostrato sociale. Lo spessore materico dell’oggetto-libro, insomma, contrapposto all’ideale metafisico delle circostanze psicologiche e spirituali della genesi letteraria e, allo stesso tempo, ad ogni vuoto avanguardismo, abbandonato com’è alla deriva di una colpevole impossibilità di comunicare.

Quest’attività di dura opposizione ma anche di appassionata ricerca sulle forme del linguaggio e sulle modalità della comunicazione, finalizzata alla conquista anche per l’istituzione letteraria di un più puntuale decoro metodologico, ha avuto battesimo sulle pagine di «Officina», sulle pagine dunque di una rivista impegnata in problematiche peculiarmente pre-industriali o proto-industriali e, spinta da una coerenza tanto inflessibile da apparire a tratti ossessiva, è stata propugnata con determinata ostinazione per tutti questi anni. Nella visione di Roversi, anzi, la difesa della propria autonomia dalle incessanti pressioni del “potere” sembra acquisire addirittura nuovo rilievo oggi, nell’era cioè della comunicazione e del mercato globale, in un’epoca nella quale “la società che è stata definita con infelice eufemismo ‘trasparente’ esibisce [sempre più] un guscio opaco e caoticamente variegato che oppone resistenza all’analisi critica, […] sembra in grado di occultare la sua complessa struttura, ammantandosi in una fitta coltre di ideologie, vera fantasmagoria di immagini corrispondente alla fantasmagoria delle merci, prodotte e offerte al consumo su scala planetaria”160.

Nel hic et nunc, infatti, le ideologie letterarie dominanti, da quella apologetica di un “postmoderno” deteriore (nei fatti un’accettazione acritica dell’attuale fase del capitalismo vincente), a quella conservatrice di un rinnovato, regressivo ritorno alla tradizione, alla difesa dell’uomo (dell’individuo borghese) che assediato dalla violenza tecnologica tende a rifugiarsi nello spirito immortale della creazione artistica, appaiono tanto legate ed interconnesse da non lasciare che pochi, angusti spazi alle possibili formulazioni critiche. L’interminabile battaglia di Roversi diviene così una strenua resistenza, sempre più difficile ma sempre più stimolante, e la letteratura pare persino acquisire nell’attuale orizzonte politico nuove, fondamentali responsabilità. Allora, se nel 1966 Roversi poteva ancora scrivere che “occorre dare un significato all’opposizione politico-ideologica, non esautorandola alla periferia, ma innestandola con un continuo rapporto con il centro intorno al quale si muove la lotta operaia in Italia: il partito comunista”161, in un mondo quale quello attuale, in cui anche le prospettive istituzionali della sinistra sembrano muoversi cautamente tra i cocci del muro di Berlino, alla ricerca di una sistemazione “onesta”, la politicità degli scritti roversiani e le potenzialità di contestazione che lo strumento letterario ottiene nel suo “programma operativo” divengono essenziali, per riuscire “non dico tanto a dirottare ma ad incrinare questo meccanismo perverso che tende invece per abitudine a rendere circolare ogni progetto, ogni proponimento, ogni tensione”162.

In questi anni, dunque, il bolognese sembra rimanere rigorosamente fermo sulle sue posizioni, insistendo su istanze teoriche che aveva già chiaramente formulato negli ormai lontani anni Sessanta e che lo avevano portato all’eclatante scelta del ciclostile per le sue Descrizioni in atto. Il perfezionarsi dell’ideologia del consumo, anzi, determinando una situazione definita da Roversi “allarmante”, una realtà nella quale la cultura “che apparentemente sembra ‘alta’ [continua ad essere] una cultura in pompa magna ma che nella sua struttura di fondo è quella normale che il potere vuole distribuire”163 e in cui l’istituzione “dell’editoria e della comunicazione è completamente modificata rispetto ad un recentissimo passato”164, sembra addirittura inasprire il suo disperato arroccamento, esasperarne la sdegnosa solitudine.

Roversi continua ad insistere nei toni violenti ai quali ci ha abituato, teorizzando una “resistenza attiva” che sembra doversi ancor oggi collocare nell’ambito della “clandestinità”, nella scelta di un’organizzazione aggiornata e convinta di una comunicazione direttamente gestita, “una comunicazione impegnata a contrapporsi al rastrellamento quotidiano dell’attenzione pubblica, […] un intervento sulla pelle viva della comunicazione”165.

Nel perpetrarsi di questa opera da “guastatori”, “uno dei canali solo in apparenza più modesto e marginale, ma in realtà – per verifica mai consumata – corrosivo, tanto da confermare almeno una utilità dissacrante”, non cessa di essere rappresentato “dal borbottio fastidiosamente implacabile delle rivistine (la parte più povera del mondo culturale), l’armata quasi invisibile delle formichine della parola […]”166. Il lavoro instancabile ed oscuro sulle pagine delle riviste, che come abbiamo visto è stato (insieme alla distribuzione di libelli “fuorilegge”) uno degli irrinunciabili impegni di tutta la febbrile ricerca intellettuale roversiana, continua perciò ad essere necessario, anzi sembra addirittura acquistare un nuovo peso a contatto con la metamorfosi della società italiana degli ultimi anni.

Anche nel costernante stato di cose, perciò, l’unico modo per “gestirsi in un modo che non sia ottocentesco, ma con un minimo di vitalità contemporanea, senza essere patetici, ma vitali dentro la nostra determinatezza”, l’unico modo rimasto a Roversi per continuare ad esprimere la propria rabbia (“io parlo di rabbia, di rabbia infuriata, la rabbia furiosa, la rabbia provocante, uno stimolo continuo”167), rimane inevitabilmente quello di gestire la propria comunicazione fuori dall’organizzazione istituzionale, fuori dai gangli del potere (finanziario), sottraendosi alla folle logica di un “villaggio globale” che ha bisogno di essere alimentato continuamente di novità, in una accelerazione che rende i ritmi addirittura trituranti. Cioè anche – e soprattutto – dalle pagine di piccole riviste, dalle poco trafficate strade sterrate da cittadina di provincia dell’editoria alternativa.

Pure le più recenti innovazioni tecniche applicabili alla gestione della letteratura non sembrano intaccare il compatto e duraturo sistema teorico roversiano. Le nuove tecnologie della comunicazione, infatti, secondo il poeta bolognese sono già diventate oggetto di un asfissiante controllo da parte delle oppressive istituzioni ufficiali, sopprimendo ogni eventualità di metodi di distribuzione alternativi improntati all’uso dei più moderni sistemi informatici. Oggi dunque si è costretti ad utilizzare di nuovo i canali clandestini di sempre: “la nave che ci reggeva, […] supportando molti e contrastanti umori ed errori, è sprofondata nel gorgo e intorno pare avere solo brandelli di cose; frammenti di piccoli legni sufficienti però a reggerci sul momento, non potendo contare su altro”168.

Il furore delle parole di Roversi e l’incondizionata coerenza della sua poetica culturale si mostrano però, a contatto con l’attuale fase politico-sociale, sempre più fragili e ancor più passibili, crediamo, di rimanere intrappolati in quello che, già nel 1963, Zagarrio definiva “massimalismo morale e ideologico”, nonché pericolosamente soggetti al sempre incombente rischio di divenire “mito e metafisica in altra forma”169. Sebbene anche in quella occasione Zagarrio, con l’abituale lucidità, abbia messo in evidenza la necessità di superare certe posizioni generalizzanti, al fine di utilizzare al meglio ed attivare fruttuosamente la pur giusta “rabbia politica” roversiana, non crediamo che il bolognese sia riuscito, almeno fino ad oggi, a sciogliere le sue annose contraddizioni ed a valicare una impasse che, si badi, è quella di molta letteratura militante degli anni Sessanta. Infatti, benché Roversi tenti attualmente un aggiornamento dei propri “strumenti”, le istanze politico-ideologiche che li sottendono rimangono sostanzialmente inalterate e forse indissolubilmente ancorate ad un ben preciso e limitato periodo storico.

In ogni caso, all’interno dell’imperturbabile compattezza del suo programma culturale, alimentato nel corso degli ultimi anni soprattutto dalle pagine di «EnnErre» (una “rivistina”) e soprattutto tramite una serie di fitti dialoghi con Alba Morino, pensiamo sia da inserire il nuovo incontenibile “furore nel fare” del poeta bolognese. Roversi, come abbiamo più volte accennato nei capitoli precedenti, continuerà nel corso di tutti gli anni Ottanta e Novanta ad occuparsi ed a collaborare con numerose riviste quasi sconosciute al grande pubblico (tra le molte citiamo «Lacio Drom», «Piazza Grande», «L’area di Broca», «L’immaginazione»), dopo aver rimesso in piedi il progetto «Rendiconti», abbandonato nel 1977 e ripreso nel 1992 con nuovo, incontentabile entusiasmo, rendendosi necessario “[…] radunare sparsi frammenti nel naufragio di cose e idee in atto per allestire un primo appiglio a cui affidarsi”170; anche se è già stato messo in cantiere l’ultimo numero (stavolta definitivo) della rivista che uscirà tra qualche mese. Il bolognese seguita, inoltre, a “distribuire” numerosi “opuscoli” di poesia e narrativa per mezzo di un altro strumento (o canale) della rete editoriale alternativa: le piccole case editrici, anch’esse “formichine della parola”, anch’esse resistenti all’“abuso informatico” che corrode il mondo della comunicazione ed aliene ai fasti dell’industria culturale capitalistica.

In breve, sebbene la situazione generale in questo momento sia estremamente contorta, Roversi nel leggerla giunge “a delle conclusioni che sono drammaticamente angoscianti ma allo stesso tempo drammaticamente sollecitanti e ad una precisa scelta di campo in cui ognuno di noi ha deciso di operare. Senza questa scelta di campo ben precisa io penso che non si possa fare se non della cultura di partecipazione alle istituzioni, quindi è un altro genere di discorso”171. Un genere di discorso che, come abbiamo visto, Roberto Roversi non ha mai voluto fare.

 

L’Italia sepolta sotto la neve

 

Proprio nella “complessa durezza” di questo tempo che abbiamo tentato velocemente di delineare, nella difficile battaglia, cioè, in cui l’indefessa forza morale di Roversi continua a proporsi come “antagonista impaziente” all’attacco delle armate ideologiche della “parte più rapace del mondo”, si inserisce quale nuova “bocca da fuoco” uno dei suoi ultimi progetti: L’Italia sepolta sotto la neve, un lavoro editoriale, come dice l’autore stesso, “avviato e difeso quasi coi denti, in situazione di isolamento e difficoltà”172.

Questo lungo poema si presenta come un vero e proprio programma di lavoro a lungo termine. Nelle prime pagine della “Parte prima”, pubblicata per “Il Girasole edizioni” nel 1989, infatti, scopriamo un sommario173 che prevede oltre ad una premessa, edita dall’autore già nel 1984, quattro parti composte da oltre quattrocento frammenti numerati in successione. Le cinque sezioni previste dal sommario, insomma, sono state pensate come frazioni di un’unica monumentale opera da pubblicare sempre un po’ alla “macchia”, in più tempi, senza fretta, secondo quella “pazienza” che nel corso di tutti questi anni il poeta non ha mai mancato di alimentare; non la pazienza “bolsa e quieta, buona per tutte le stagioni, ma l’altra, quella cauta e astuta, che procede adagio e attende all’erta, con tutti i nervi tesi, a speculare nel buio”174.

Ecco dunque nel 1984 apparire la premessa in versi al poema in “Nordsee”, un semisconosciuto manifesto bolognese di poesia, col sottotitolo Il tempo getta le piastre nel Lete. Cinque anni dopo nella curatissima ma altrettanto ignota collana Le gru d’oro, a cura di Angelo Scandurra, fa la sua comparsa la prima parte, Fuga dei sette re prigionieri e, stando a quanto ci riferisce personalmente Roversi, nel 1992 per la “Pendragon” l’introvabile seconda parte: La Natura, la Morte e il Tempo osservano le Parche. Ancora da pubblicare ma già messe in cantiere la terza parte, col sottotitolo Astolfo trasforma i sassi in cavalli, alcuni frammenti della quale sono già apparsi in una cartella di immagini litografiche di Giuliano Collina e nella rivista calabrese «Il Filorosso», e la quarta parte: Adler-Stey show: spettacolari sensazioni.

Roversi, dunque, negli anni Ottanta vara un nuovo, imponente tentativo di opporre all’“avanguardismo a freddo” ed al “poetismo sublime” imperanti, entrambi ugualmente superficiali, una poesia che muovendosi come sempre negli oscuri vicoli della clandestinità conquisti a poco a poco la chiarezza e la densità del reale. I versi del poeta emiliano, infatti, tendono nello svolgersi della narrazione ad un realismo che, sebbene minacciato dalle ingombranti ombre della letteratura e del passato, racchiuda in sé i più netti significati e le più puntuali motivazioni dell’orrore presente. La scrittura, anche in queste ultime raccolte, continua ad essere per Roversi “un cemento che imprigiona ogni verità; rafforza ogni attesa; solidifica ogni parola, ogni pagina, non le lascia più andare. Le condanna ad essere vive per sempre o le uccide per sempre”175.

Il diario polifonico ma contemporaneamente personalissimo (nella lucida analisi delle istanze tanto personali quanto sociali) di questo viaggio in volo libero su una società intorpidita da un “sistema” disumano e falso (la “neve”) si dirige, così, sempre verso il terreno fermo della quotidianità, dei gesti minimi, degli aspetti più consueti della vita. Esso appare dunque come un tentativo di restituirci una verità che, benché nascosta sotto la fitta coltre degli inganni del nostro tempo (tra i quali il bombardamento “medianico” al quale siamo tutti sottoposti), tendendo bene l’orecchio si può sentire ancora palpitare. E Roversi, in questa Italia sepolta sotto la neve, il proprio orecchio lo tende come sempre e riesce a percepire, ad ogni ora più soffocata ma comunque martellante, l’eco lontana di una realtà più autentica. Del resto, nel corso di tutta la sua vicenda, l’autore bolognese ha dimostrato di essere abile come pochi a superare dalla sua postazione decentrata le immote acque del luogo comune per accedere ad un fondo di verità e di moralità resistente, rinfocolando le residue speranze in un cambiamento e le ancora attive potenzialità di lotta politica.

Questo lungo poema, insomma, si propone non come suggello ad un’epoca in cui la civiltà dei consumi ha raggiunto il proprio apogeo ma come racconto in fieri di un tempo, anch’esso in divenire, in cui le possibilità per un’esistenza più umana e più piena si assottigliano ma rimangono ancora scoperti dei solidi appigli morali ed ideali, nascosti nelle pieghe della vita quotidiana, sui quali far leva per continuare a combattere.

I “destini generali” e quelli individuali, gli aspetti più palesi della realtà tangibile ma anche quelli più nascosti vengono descritti o “registrati”, però, senza imprecazioni disperate o facili moralismi, senza il prevalere di quel discorso diretto di tipo sentenzioso che era stato l’elemento forse più caratteristico delle Descrizioni in atto. Anche se lo scatto morale e l’ira irrefrenabile in alcuni casi non vengano ben controllati ed esplodano ancora nell’invettiva, nel poema primeggia, in realtà, una materia verbale che benché febbrile risulta sempre ragionata, sempre capace di stendere anche sui più piccoli fatti un velo di enigmatica chiarezza.

Si fa spazio inoltre, rispetto alla produzione precedente, la tendenza ad una maggiore introiezione dei dati della realtà concreta. Essa, crediamo, trova giustificazione nella nuova, complessa fase della lotta politico-ideologica che è andata via via delineandosi nel corso dell’ultimo ventennio e nella quale questo poema roversiano perentoriamente si inserisce. Oggi infatti, negli “anni di melma” che viviamo, venuta meno la spinta di quel movimento generale degli anni Sessanta-Settanta che sembrava delineare una ben chiara prospettiva di trasformazione sociale, nel pieno di una deriva delle prospettive politiche della sinistra, un aggiornamento dei metodi, la ricerca di un percorso che si faccia più individuale a Roversi “più che necessario sembra doveroso”. Rimanendo ovviamente saldi gli obiettivi di sempre, il discorso poetico del bolognese, quindi, oltre che dall’abituale impulso etico e civile viene attraversato da una cupa malinconia, da una visione estremamente dolorosa e tragica della propria vecchiaia, una vecchiaia tormentata dai rimpianti per gli errori passati, straziata dall’orrore presente e che spinge a tratti queste poesie verso un tono addirittura elegiaco. In tal modo un forte senso della memoria si riversa in queste pagine, ma i ricordi che affollano i pensieri del poeta non possono che restituirci un passato singolarmente complesso, intricato e di difficile lettura. Sebbene esso si contrapponga fortemente, grazie alla passione civile e morale che lo vivificava, alla vacuità attualmente imperante, allo stesso tempo custodisce il seme, l’origine, il segreto di questi giorni senza nerbo, teatro della violenza che devasta il mondo. Il rammarico e lo sconforto per gli errori commessi, perciò, possono mescolarsi nelle varie sezioni del poema con una rappresentazione allucinata e, a tratti, tragicamente ironica degli sconvolgimenti in atto.

La mesta descrizione che Roversi ci rende della vita d’oggi sembra inoltre necessitare di un nutrimento letterario, il suo cammino non può non tener conto delle impronte già affondate nel terreno cedevole della letteratura. Nell’immaginario roversiano, allora, si affacciano spesso i volti severi di poeti del passato, le voci di ideali interlocutori che fanno da pedale di fondo a quella dell’autore. Questo continuo dialogo immaginario si sviluppa tanto in maniera diretta, è questo il caso di Tommaso Campanella (al quale sono dedicate tutte le sezioni del poema), di Dino Campana (protagonista di un frammento della seconda parte) e di Pier Paolo Pasolini (autore di una poesia che coinvolge Roversi e che riceve, qui, una degna risposta in versi), ma anche di D’Aubigné, Brecht, Empedocle e di molti altri, quanto indirettamente, tramite cioè una serie di citazioni, criptocitazioni o calchi letterari (è questo il caso di Montale, Shakespeare, Eschilo, Eliot, Ariosto, ecc…). Fuor di metafora insomma, il suo discorso si avvale anche di altri accenti, la parola di Roversi, infatti, pare sempre confrontarsi oltre che con le proprie paure, con i propri errori, con la propria rabbia e disperazione anche con le polverose pagine già vergate dalle grandi penne del passato, in un continuo colloquio atto a rendere la vita un unico, intricato groviglio polifonico.

Per di più quello dell’inverno e della neve, come simbolo di un presente vuoto ed invivibile contrapposto alla luminosa primavera di un futuro possibile, è un topos assai diffuso negli ambienti di “certa” letteratura italiana del Novecento. Ci basti solamente pensare all’amico/nemico di Roversi, Franco Fortini, autore de I Dieci Inverni ma anche delle coeve poesie raccolte nel volume Poesia e errore, composizioni nelle quali, alla stregua di questo lavoro roversiano, l’inverno rappresenta una stagione drammatica della società italiana in cui una neve dannosa e artificiale copre ed intorpidisce qualsiasi eventuale riflessione critica.

Si noterà, infine, che i sottotitoli alle varie parti di questo poema sono sempre contrassegnati da riferimenti mitici o cavallereschi che si contrappongono nettamente ad una materia poetica, al contrario, costantemente tesa verso la cronaca, verso la prosa del mondo. Il poeta, crediamo, anche in questo caso avverte la necessità di intingere il proprio pennello in tavolozze diverse al fine di creare un ampio ventaglio di tonalità, una molteplicità cromatica indispensabile per tratteggiare gli irregolari e sfumati contorni di una situazione estremamente complessa. Il mito e la materia cavalleresca, infatti, sono forse gli strumenti più adatti alla rappresentazione di un tempo quale quello attuale, sconvolto da nuove guerre, violenze e devastazioni.

Roversi, in conclusione, sembra raggiungere in queste poesie, anche grazie ai numerosi riferimenti letterari presenti, il massimo di quella “razionalità visiva” che Vittorini gli attribuiva già nel lontano 1960. Essa si dispiega in una serie di climi psicologici (oltre che atmosferici) e di rappresentazioni affabulanti che si alternano in una esposizione estremamente tesa e ricca di sconvolgimenti, una esposizione nella quale, però, “i cavalli della fantasia” vengono saldamente legati “ai cerchi di ferro della realtà più dura e immediata; della realtà più cruda; fissati nel muro”176.

La vita dunque, nel continuo suo svolgersi, giorno per giorno si fa storia e viene avvolta dalle parole dell’autore che ce ne restituisce un disegno intricato, estremamente dovizioso, ricco di molteplici suoni ma anche, in maniera inevitabile, profondamente umano nell’intensa fiducia che lo sottende.

 

Premessa: Il tempo getta le piastre nel Lete

 

La premessa al diario del suo lungo viaggio all’interno di questa Italia sepolta sotto la neve viene pubblicata da Roversi nel numero cinque di “Nordsee”, un foglio-manifesto di poesia “clandestino” e ovviamente fuori commercio, curato da Marco Calabria e Maurizio Maldini per le edizioni “Alpha Beta” di Bologna. Gli ottantuno frammenti che compongono questa prima raccolta sono disposti senza alcun titolo sull’enorme manifesto bianco, contrassegnati esclusivamente da una numerazione progressiva e suddivisi in cinque sezioni distinte da numeri romani.

Il poeta bolognese, ancor prima del sommario, presenta questi versi con un esplicativo promemoria, una nota che recita: “I testi tentano di raccontare un momento di tempesta con progressiva lotta per sfuggirla fino ad assestarsi su un approdo sottratto ad ogni nebbia - e forse perfino in un calore di sole. L’uomo lì dentro comunque si salva da un inizio di naufragio. Senza il miele delle sirene. Fra il fumo di mondi. Avendo imparato ancora una volta, dopo tanta vita consumata, che si deve ascoltare tutto, non tacere niente, per vivere non come conviene ma come gli è assegnato. In realtà i poveri scrittori di versi sono indispensabili solo quando si deve ricominciare dopo una sconfitta. Ecco perché prima di nascere devono morire”177. Subito dopo compare una significativa epigrafe a firma di Robert Capa, il famosissimo fotoreporter di guerra morto in azione, che pare evidenziare la rinnovata esigenza del poeta di mettersi totalmente in gioco, rischiando in prima persona, per registrare gli orrori attualmente vigenti in modo chiaro, non mistificato: “Se la foto non è buona, vuol dire che non eri abbastanza vicino”.

Roversi, dunque, esordisce con l’annuncio di una morte e di una rigenerazione, di una sorta di catarsi attraverso la quale, sfuggendo ai pericoli del naufragio in corso, sembra dover cambiare pelle per poter riprendere la propria navigazione su un mare che si fa sempre più burrascoso. Ma anche con un’esplicita dichiarazione della necessità di immergersi completamente nell’interminabile inverno di questi anni, per renderci un’istantanea limpida e non sfocata della realtà circostante. D’altronde la struttura narrativa del poemetto risulta estremamente semplice e lineare: il poeta è defunto e racconta di come le sue spoglie, raccolte in un’urna cineraria, vengano trasportate attraverso la fitta nebbia della pianura Padana verso un luogo sconosciuto, su una buffa Mini Morris guidata da una meravigliosa creatura bionda che risponde al nome di Catharina Blonde. Le fattezze della bella traghettatrice, uno splendido Caronte che richiama indirettamente il fiume dantesco presente nel sottotitolo (“L’aliscafo di Carondemonio dal regno dei / morti porta alla terra dei vivi” III. 52), fanno risorgere la passione amorosa dell’autore ed è proprio questo ridestato sentimento, l’avvenuta manifestazione del senso assoluto della bellezza (“Anch’io conosco le meraviglie di un mondo / che non riesce ancora a morire” II. 46)che gli permette di rinascere a nuova vita. Così, la rivelazione dell’inevitabilità della vita contrapposta alla necessità biologica della morte lo rende disponibile a combattere ancora, gli fa decidere di continuare, nonostante tutto, a respirare anche quest’aria che diviene sempre più pesante.

L’Italia sepolta sotto la neve si presenta, dunque, già da questi primi squarci, come il racconto di un viaggio conoscitivo nel “grande freddo” d’oggi alla ricerca di nuove possibilità di azione, di un modo dignitoso di vivere questi giorni senza dignità: “mi guardo allo specchio mi palpo / LA FACCIA a destra sinistra il profilo / penso che si può cominciare. Tempo / di mettersi in azione”. (IV. 64).

Le potenzialità di una flebile speranza, difatti, oggi appaiono ancora attive e Roversi offre ad un lettore partecipe del suo stesso tormento la narrazione di un’avventurosa esplorazione, diretta verso altre realtà raggiungibili dove esista ancora la possibilità di un futuro nuovo di cui impadronirsi, una terra promessa dove i valori della sua fervente moralità conservino il necessario spazio vitale per continuare a resistere alle offese del “potere”: “La dimenticanza (non l’oblio) è conoscenza / ho la speranza e in data odierna parto / sulla groppa di un delfino cerco il prato del mare / do un addio / mai più ritornerò” (II. 24). Il suo discorso poetico, così, si fa spazio tra la neve e la nebbia per mezzo di gelide iperboli che non sembrano lasciare margine ad alcuna fiducia: “Il micidiale gelo del nord portato sul carro dei vincitori impetuosi / è approdato su questa pianura con fiori di vetro. / Il cuore è un guerriero con la lancia in mano / appassita dal vento di una tomba etrusca” (II. 30). Il glaciale inverno che il poeta descrive, per di più, tramite una variazione consonantica che determina un significativo slittamento semantico, si trasforma spesso in un orribile inferno (“Mi allontano verso l’inverno. È l’inferno / dei suoni”. IV. 66), un inferno da attraversare con intelligenza e rinnovata fiducia per ritornare in superficie “a riveder le stelle”: “vorrei avere le scarpe con un’armatura che richiede intelligenza / per camminare nell’inferno e DA LÌ RITORNARE” (IV. 66). Allora il ghiaccio che tutto copre è spesso rotto, nel corso delle cinque sezioni di questa raccolta, da luminosi squarci di ottimismo improvviso, immagini di rinnovato vigore: “Ma non ha spento il mio cuore. / Un brivido io. La / vita mi perseguita è magnifico vivere, un’errabonda luce” (II. 17).

Il lugubre tragitto verso un approdo sconosciuto, insomma, l’attraversamento di questa spessa e cinerea coltre che si conclude con una sorta di laica resurrezione sembra simboleggiare nitidamente la nuova, disperata esigenza del poeta di superare l’orrore di un inferno sociale sordido ed egoista, la spasmodica ricerca di una rigenerata volontà, lacerando il buio di tempi in cui le strade per un mondo diverso sembrano sempre più ombre sfocate.

Roversi dopo un tormentato periodo di limbo, dopo aver sofferto in un disilluso torpore una mesta abulia, una morte apparente (“Ho passato settimane vuote mi sono sentito / senza più anima mi sono sentito senza / il vento della vita del tutto appassito / mi sentivo mi sono sentito tutto appassire / sfiorivo fra il canto delle rose esplodenti era la voce delle cose a consumarmi”. II. 16), si affaccia di nuovo sul mondo, dato che “in questo tempo se vuoi dire le cose bisogna pensarle profondamente / scavare” (III. 50).

Il poeta sceglie ancora la vita e prende la propria decisione, crediamo, tramite un riferimento esplicito al celeberrimo monologo shakespeariano di Amleto: “Dio com’è bello morire se scegli di dormire sognare / su scogli terrestri irti di punte / taglienti e un vento / che neanche si vede” (IV. 61). C’è del “marcio” nell’attuale situazione sociale e tra l’essere ed il non essere Roversi, come il principe di Danimarca, decide di battersi per la verità. Egli, infatti, non è “[…] mai stato vivo come dentro questa morte” (IV. 65) e torna tra le anime vive tramite un scontro fisico, totale con il rigido ambiente circostante.

Del resto, già ad un primo sguardo, nel poema si prospetta la lucida rappresentazione di un’Italia in condizioni di completo inabissamento. La nebbia che, come abbiamo visto, avvolge lo strano corteo funebre di Roversi e i due termini connotanti presenti nel titolo e nel sottotitolo, rispettivamente la “neve”, il gelido e compatto strato di falsità imposte, ed il “Lete”, il fiume infernale dell’oblio, concorrono tutti a produrre l’immagine di un ambiente nero e livido, nel quale la violenza in atto nei confronti della memoria del passato ma anche del presente tutto intero si tramuta in un processo costante di “scancellazione” e distruzione dei fondamentali valori umani: “È in atto la scancellazione del presente. / O del passato prossimo. / È in atto la scancellazione del passato tutto intero”. (II. 29). Appare come un dovere irrinunciabile, perciò, nel lasciare la terra alle proprie spalle, difendere la memoria dei giorni passati e conservare il ricordo degli errori che hanno determinato la disastrosa condizione attuale: “Affrettati cane della memoria abbaia insulti. / Tacitare le astrazioni. / Cosa posso raccontare? / Progressivamente ho visto distruggere il mondo e il mondo ricomporsi”. (II. 28).

Nella raccolta così si diffondono, seguendo quel processo di introiezione al quale abbiamo già accennato, tetre preoccupazioni, cupi scenari, pensose considerazioni sul proprio destino mortale sconosciute al Roversi precedente. La sua voce a volte si arrochisce, si fa dolente e malinconica nell’esprimere un inconsolabile senso di amarezza, di solitudine, di angoscia: “non posso, non posso più non posso ancora o forse / non so più rappresentare la morte / come un fatto impossibile la / morte è ancora vita dentro la vita / gli occhi sono chiaramente aperti / dentro alla piccola tempesta di buio che sopravviene e sono / occhi galoppanti / con strani freddi pensieri / sui prati circostanti […]” (II. 20). Ma a questo punto il suo è un viaggio inevitabile, doveroso (“Mi dispongo a seguire il viaggio degli / uomini che partono. / Questa terra si inabissa con le sue antiche canzoni di gesta […]” III. 39), anche se estremamente difficile, pericoloso, estenuante attraverso un mare in tempesta.

In condizioni quasi proibitive, il poeta appare come un navigatore solitario che si appresta a salpare con la stiva comunque carica di rinnovata fiducia, la sua parola poetica allora acquista nuovamente limpidezza e luminosità: “Non avrei mai pensato / che si può essere così ferocemente felici liberi so- / li sulla groppa di un delfino che naviga naviga in bassi fon- / dali […]” (II. 24).

Perciò, anche se a volte questo epico periplo pare investito da quella che Antonio Motta definisce “una soglia di leggera, tragica ironia”178: “Vorrei tornare bambino vorrei tornare / con le penne di usignolo calde / […] vorrei essere solo a giocare nel cielo profondo di questa Emilia […]” (IV. 66), è doveroso oramai per Roversi perseverare, salire a bordo di nuovo, tornare a rimboccarsi le maniche: “Ricominciamo, dunque; anzi, riprendiamo a muoverci come se fossimo alla ricerca di una perigliosa esperienza che ci manca. La vita non sembra conclusa ma, al contrario, da avviare e non ci consideriamo trafitti, accantonati. Questa complessa durezza del tempo è uno stimolo che non lascia margine a un troppo prolungato disarmo delle idee”179. Il battello di Roversi, colmo di feconda energia, salpa nuovamente, un lungo e avventuroso viaggio inizia da queste pagine, perché oramai “IL TEMPO DEL DOLORE È FINITO” (V. 81), ma “ Poi è arrivato il tempo. Quando / non bastava più aspettare” (III. 34).

 

Parte prima: Fuga dei sette re prigionieri

 

La “Parte prima” de L’Italia sepolta sotto la neve appare nel mese di febbraio del 1989 in un prezioso libretto giallo con carta e copertina tirate a mano dal mastro cartaio Franco Conti, un volume curato da Angelo Scandurra per conto delle eleganti edizioni catanesi “Il Girasole”. Si tratta dunque, anche in questo caso, di un testo difficilmente reperibile e certamente non destinato ad una larghissima diffusione.

Occorre notare subito che secondo il progetto roversiano, esposto nel già citato sommario generale delle prime ruvide pagine di questa pubblicazione, i frammenti della seconda sezione avrebbero dovuto essere più di ottanta, il testo invece ne propone solamente quarantasei, ancora una volta senza titolo e contrassegnati progressivamente dal numero 82 al numero 127. Anche se dalle nostre ricerche non risulta l’esistenza di altre edizioni di questa parte del poema, è lo stesso Roversi a sottolineare in una nota finale quanto, seguendo un metodo di lavoro per lui usuale, questa prima stesura non sia definitiva e di certo completamente, o almeno in parte, da rivedere.

In ogni caso, a partire dall’enigmatico sottotitolo Fuga dei sette re prigionieri, che sembrerebbe alludere alla tragedia I sette a Tebe scritta da Eschilo nel quinto secolo a.C., il viaggio intrapreso da Roversi nella “Premessa” continua attraverso un’Italia attanagliata dal freddo e dal gelo, un’Italia in cui si osservano con orrore i segni della decadenza in atto. Tanto nell’opera del tragedo greco che narra la lotta tra i due figli di Edipo per il possesso della città di Tebe, quanto in queste poesie roversiane, infatti, il dramma pare scaturire dall’imminenza di una catastrofe, determinata non solo dallo scontro degli interessi delle parti in lotta ma anche dalle colpe degli avi che inevitabilmente ricadono sulla discendenza. Roversi sembra dunque proporre da subito la dolorosa immagine di un presente in via di distruzione, ma anche di un passato da rileggere con occhio critico per individuare, una volta per tutte, le molte colpe di cui è costellato.

Dai versi a nostra disposizione, poi, è possibile rilevare quanto sia marcato quel movimento centrifugo al quale abbiamo accennato. In esso il poeta scioglie tutte le “distruzioni in corso, le utopie nascoste di anni sazi e disperati, la rabbia civile e le figure della tarda modernità (il viaggio, l’esilio, i giovani, lo spatriamento)”180, dando vita ad un processo in cui il mondo odierno, in tutti i suoi aspetti, ma anche i ricordi di quello passato vengono trascinati in un turbinio di parole e ne escono disgregati, fissati in immagini infinitamente combinate.

In questa sorta di “vortice poetico”, oltre a ciò, la contrapposizione costante degli elementi semantici connotanti fuoco / neve tende a rendere, ancor più esplicitamente di quanto avvenisse nella premessa, il quadro di una società nella quale la devastazione dei valori, l’incendio di ogni ideale viene ammantato da un niveo velo mistificante (“Una montagna di neve/erba una montagna d’oro / […] Dove succedono le cose comincio a nevicare il giorno / ventotto / agosto/gennaio e nevica nevica nevica […]” 94; “Eppure / inquadro le città sparse con la paura del fuoco”. 104). Una contrapposizione che, a livello cromatico, ovviamente si risolve nella dicotomia rosso / bianco: un mondo glacialmente candido (“Oh bianco il mondo / bianco da est ad ovest da nord a sud bianco la nebbia / si scioglie fra canne di laghi profondi infernali. […]” 94) vive così nell’attesa“che un inferno immensamente rosso / mescoli sole sabbia dei paesi senza più uomini / alle macerie dentro le case / alle porte sbarrate […]” (108). Roversi dunque, in questi versi, si accanisce sul paesaggio circostante, accentuando le tracce del disfacimento per mezzo di un discorso poetico dai toni freddamente aspri e capace di caricare la realtà di immagini continuamente tese fino al limite, ma anche tramite una serie di iterazioni e di ripetizioni che tendono a rallentare questo discorso, quasi a voler rendere il lettore partecipe della fatica del suo lento incedere tra la nebbia e nella neve. L’Italia di Roversi qui ci appare in una serie di scorci pietrosi e sepolcrali, spesso notturni ed osservati da un punto di vista che si direbbe aereo, con una straordinaria profondità di campo, come lo era quella sulle notti italiane inquadrate dall’occhio attento di Pier Paolo Pasolini ne L’Appennino, il grandioso e visivamente spettacolare poemetto di apertura del volume Le ceneri di Gramsci. Il panorama descritto da Roversi, però, è completamente immerso nella neve e si presenta tanto innaturalmente solitario e silenzioso quanto quello dell’amico di Casarsa era tumultuoso e colmo di vita, movimentato da quell’istintiva “allegria” popolare che appariva come un vero e proprio serbatoio di vitalità poetica. Il poeta bolognese invece, nella desolante situazione attuale, per descrivere la vita concreta deve prima attraversare uno spesso e denso strato di nebbia e scavare a fondo nella neve che tutto copre e fa tacere. Così lo sguardo di Roversi, squarciando faticosamente la coltre grigia e brumosa che lo avvolge, oltre ad indugiare spesso sulle istantanee della quotidianità, sui particolari di una materia assolutamente informale (“mentre la donna dice dovresti dimagrire un poco / se vuoi indossare i vestiti dello scorso inverno / non muovere le mani mentre parli” 93), si ferma anche su fatti epocali, sulle forze propellenti della storia d’oggi (“[…] si scioglie il freddo la sabbia / d’Africa l’Africa cade sui capelli / i plurisecolari pensieri intrecciati ad alberi arbusti / qualcosa si consuma che andava perduto”. 85), con l’abituale attenzione partecipe di colui “che vuole vivere in quel tale tempo. E vuole viverci dentro”181.

Non c’è in queste pagine nulla di inconsistente, tutto sembra acquistare attraverso la parola poetica il proprio giusto peso specifico; l’autore sembra voler rendere tramite la sua poesia la realtà più vera, la vita più degna di essere vissuta, il mondo più complesso di quanto appaia ma sicuramente più limpido, più comprensibile, dato che “le idee confuse sono la / confusione della storia […]” (90). Il tutto orchestrato, però, da una parola che si mantiene saldamente ancorata alla realtà, senza perdere mai di vista la materialità dei dati e degli oggetti osservati, “perché la buona scrittura (si intende la scrittura che vuole partecipare) deve scavare nel fango, aspettare lì il nemico”182.

Un’interrogazione continua dunque, ininterrotta, che Gianni D’Elia, nell’unico scritto dedicato esplicitamente a questa raccolta sulle pagine della critica italiana, non si esime dal definire come “una macrosequenza barocca”, “una concatenazione seriale” visto che in ogni testo l’ultima parola è ripresa nell’attacco del testo successivo, evidenziando inoltre come “lo stesso immaginario mitico del viaggio e del diario policentrico che Roversi ha scelto, nella rigorosa costruzione di una materia apparentemente informale, spinge l’autore verso una figuratività barocca, o meglio settecentesca e tardobarocca, con richiami alla pittura inglese e italiana”183. Costanti sono, infatti, in particolare i rimandi a due quadri del Settecento, uno di Alessandro Magnasco Soldati e mendicanti fra i ruderi, vero e proprio leitmotiv della raccolta,e l’altro di Thomas Gainsborough che sembrano alludere ad un tempo di nuove agitazioni e nuovi terrori, nuove violenze, guerre ed occupazioni straniere.

D’Elia, poi, mette l’accento sull’intenzione dell’autore di far coincidere prosa e poesia, frase e verso, “immaginario e civile”, “etico e politico” anche attraverso l’uso alternato di un verso libero e prosodico ed un verso metrico “oramai inconsapevole e ‘naturale’”, “il respiro della lingua italiana già catturato nelle misure canoniche”184. Così, all’interno dell’andamento prevalentemente ritmico del poema, Roversi sembra permettersi di recitare alcuni “endecasillabi naturali” estratti quasi spontaneamente dalla consueta cadenza del nostro parlare. La prosa e il verso, quindi, possono coincidere senza mediazioni nella descrizione di questo solitario paesaggio odierno: “l’autostrada in quel momento deserta” (98)

Allora lo sguardo acuto e penetrante di un uomo che viaggia nell’Italia dei nostri giorni, troppo spesso assordato dal “cicaleccio” continuo e vano dei “media” (“[…] Il tempo / usano il veleno il silenzio il labbro / della commozione / la quantità di querele l’inutile lamento / parlano parlano parlano […]” 117), si muove con questo ritmo tra memoria del passato, orrori del presente ed utopia futura, costantemente alimentato da una “ossessione della verbalità” capace di “tracciare un’epica allucinante della tarda modernità, […] una testarda etica dei sentimenti e delle idee in discussione, il disperato ottimismo di fondo nella volontà di mettersi sempre in discussione e in ascolto”185.

Una poesia sempre tesa verso un faticoso approccio alla vita, dunque, inevitabilmente spinta da un’istanza antiretorica e lontana da qualsiasi possibile eccesso di eloquenza. Una parola poetica che perciò sembra trovare la propria sorgente nella veemente moralità di Tommaso Campanella e nell’asprezza espressionistica di Clemente Rebora, due degli autori tra i più bistrattati nella storia della letteratura italiana e tra i più amati da Roberto Roversi.

L’intransigenza di Campanella e la fermezza e forza dei suoi scritti hanno avuto un’enorme influenza sul poeta bolognese sin dai primi anni, tanto da fargli affermare che: “già nel 1943 ero sotto le ali del frate legato nelle profonde segrete vaticane, e dentro almeno con gli occhi… lo vedevo… dentro alla sua disperazione intransigente, inesorabile. Ero addirittura travolto da quella voce, da quell’ombra… Tommaso Campanella! […] Il 1943 era un anno tremendo. Quella di Campanella mi sembrava la mia condizione. Pubblicai in trenta copie il libretto azzurro scuro delle Rime, dedicato appunto al frate. […] Dopo, prendendo nel tempo a stampare altri libretti, la dedica al frate macigno, al frate tremendo e che splende, è rimasto come segno buono e costante, un indice propiziatorio […]: a Th.”186. Ed infatti “a Th.” è anche la dedica di questa Italia sepolta sotto la neve.

Lo stesso Rebora, però, è stato un riferimento costante per Roversi che lo considera il più grande poeta del Novecento italiano: “[…] Rebora sentivo che aveva un trapano in mano che punzonava il marmo in continuazione, con un rumore anche agghiacciante, talvolta persino fastidioso. Ma si prolungava, si prolungava… Mi sembrava alle volte che fosse impegnato a bucare il lucchetto della prigione di Campanella, per liberarlo. Mi sembrava anche che di fronte al mondo, alle cose del mondo, entrambi avessero la stessa disperazione violenta… ma intransigente”187. La stessa “disperazione violenta ma intransigente” di fronte alle “cose del mondo” ci sembra di poterla scorgere anche in questa nuova raccolta roversiana; una vicinanza che nasce, come ci conferma l’autore stesso, “da situazioni culturali affini, dall’essere nella vita in un determinato modo, il mio modo”.

La disperazione di Roversi è spinta fino all’intolleranza da un’esigenza di chiarezza quasi fanatica, da un cupo ascetismo, come volle definirlo Pasolini in una “poesia in forma di rosa” dedicata a Roversi e ripresa dall’amico di «Officina» in queste pagine (“Grazie per il monaco pazzo di mezzo inverno / imbucato in caverne tombe che tocca la volta con un dito / per forare il cielo […]”110), e diviene proprio per questo capace di non nascondere la specificità dell’oggetto letterario, di utilizzare invece il linguaggio non come un semplice mezzo ma come una realtà corrente tra le altre, nel turbine della vita “oggidiana”.

La letteratura, che è stata per tanti anni il “campo di lavoro” del bolognese, qui diviene infatti uno dei materiali da decostruire e ricomporre, con precisione, fondendolo con altri materiali al fine di ritrarre il mondo in tutti i suoi aspetti. La sua parola si fa corporea, tangibile e si avviluppa indissolubilmente con la memoria delle delusioni vissute e delle vittorie conseguite, con la propria storia. Essa diviene il protagonista assoluto dei suoi ricordi (“le parole allora scaldavano come lana della pecora. / Ho contato fino a cento le ombre scomparse […]” I. 92), ma anche delle disillusioni e dell’amarezza di questo tempo: “[…] le parole una per una cadono dentro al cassetto / il tonfo è secco / per rivolgersi al miele delle parole al loro suono il ven- / to invernale non grida, arriva. Aspettare” I. 97). La parola roversiana appare ancora come l’elemento determinante dell’eterna speranza in un futuro diverso, un monito indirizzato agli uomini che verranno (“Lo sai tu che la penna invecchia la vita si perde / ma la parola detta è consumata solo da un orecchio / buono” 107).

Lo scrivere, che oggi a maggior ragione è divenuto, come abbiamo già visto, uno degli ultimi baluardi per una possibile resistenza operativa, per un approccio non falsificato alla realtà, si tramuta in un arma concreta, “un pungolo nel cuore del mondo”, tanto da rendere plausibile l’immagine di una sorta di metamorfosi concretizzante, di una esplicita materializzazione del proprio discorso poetico: “[…] Perché lasciamo perdere le parole? / Guarda dall’alto il fiume adattarsi a libro / segna il nome sul sasso / il poema poco per volta è composto / diventa presente, un fumo / un toro impazzito dentro al cerchio di fuoco” (85). Per Roversi, infatti, in queste poesie “il mondo si scrive da solo sopra una carta”(123).

Dunque la poesia del bolognese per mezzo di un linguaggio che si fa oggetto e tramite un’andatura “scarna e testimoniale”, un ritmo “basso e iterativo”188, ma anche attraverso una intensa fantasia, quella che D’Elia definisce come “vero protagonista del poema”, capace non di produrre immagini ma “[…] di fissare il neobarocco contemporaneo già troppo ‘carico’ di istantanee, di disgregarlo per mettere in evidenza se stessa, il proprio ritmo lungo e irritato che ‘doppia’ la realtà”189, tenta di restituirci una quotidianità in cui le irriducibili forze morali dell’umanità – e la letteratura tra di esse – vengano esplicitamente mostrate nell’eterno conflitto che le vede duellare con gli inganni in atto. Sia l’abbassamento retorico che qui predomina, sia l’incedere lento e grigio di queste pagine sembrano voler sottolineare proprio questa disperata richiesta di verità che ci appare come l’intenzione prioritaria dell’intero poema roversiano.

In tal modo, tutti i temi da sempre presenti nelle opere del poeta sembrano acquistare qui una nuova luce, ferma, definitiva, una fissità solenne e lapidaria, quasi fredda. Un dolore secco si alterna a momenti di mesta elegia, i colori del mondo si scompongono attraverso la nebbia, un silenzio assordante avvolge un gelido paesaggio da natura morta vivificato esclusivamente da lente, inquietanti figure. Anche se a volte l’ira prende ancora il sopravvento, chi si era appassionato all’ardente inclinazione belligerante di un autore così viscerale e “sanguigno” si trova spiazzato da una visione di un mondo in via di distruzione che spesso si fa tanto statica, malinconica, dolente.

Si avvertono, dunque, accanto alla consueta tensione etica e all’insopprimibile “ira politica” di Roversi, dei momenti di profondo avvilimento, accompagnati da una immagine estremamente sofferta della propria senilità, un’età segnata da un “dolore civile” che sottolinea implacabilmente l’impotenza attuale del poeta. Il tempo delle proficue battaglie oramai appare lontanissimo, sembra perdersi nei recessi della memoria: “Oggi piove. / È sereno. / Il mese sereno crudele / scioglie le montagne del tempo, il fiume è / neve. / In quell’estate i giorni con pause impenetrabili. / Racconta per telefono notizie della guerra “ (I. 86).

Le età della vita umana, lo spietato destino biologico a cui è assoggettato, possono allora alternarsi, nella sapienziale riflessione di Roversi, con le stagioni che inesorabilmente, ciclicamente trasformano l’amatissimo paesaggio padano. L’inverno che attanaglia un territorio devastato diventa anche l’inverno della vita e la sua voce sembra perdere peso, scivolando lentamente nell’amarezza: “Lavora una talpa nel giardino degli acquazzoni d’ / aprile mese crudele. / Aprile s’affaccia, brucia, brucia le foglie appena, / sui fogli scritti appena scritti. / Così calmo anche il mese crudele. Si spegne. / Aprile viaggia su strani arcobaleni. / Saluterà la terra. / Ciò che lui ha detto ha fatto. Così è scritto. / Lascia cadere parole / un uomo vecchio alle spalle le raccoglie piangendo” (86).

Questi versi, inoltre, sembrano richiamare direttamente i versi di T.S. Eliot, il poeta che per primo, nella sua The Waste land, dipinse aprile come “il più crudele dei mesi”. Il tepore del mese primaverile, tanto nelle parole di Roversi quanto in quelle del grande verseggiatore di origine americana, sciogliendo la neve dell’inverno e risvegliando i colori della natura, ridesta anche il ricordo e la speranza, riacutizzando senza alcuna pietà un dolore oramai sopito. Roversi così, nel descrivere una nuova “terra desolata”, coperta anch’essa di macerie fumanti, si avvale proficuamente delle parole di un altro esimio “interlocutore”, anzi di colui che forse meglio di chiunque altro ha descritto nel suo capolavoro un momento di desolazione e crisi della civiltà occidentale, una civiltà che oggi appare seriamente minacciata per l’ennesima volta di distruzione.

I luoghi della memoria e dell’odierno sconforto inoltre, quel paesaggio emiliano in cui Roversi si era formato in un contatto “fisico diretto e quotidiano, con suoni, rumori, odori, luci, voci, dialetti, violenze […]”190 e che ne La raccolta del fieno ed in Dopo Campoformio era stato difeso, con le unghie e coi denti, dall’offensiva del nuovo capitalismo degli anni Sessanta, si mostrano oramai indelebilmente segnati dalle tracce della vittoriosa industrializzazione forzata, rappresentate di frequente tramite descrizioni apocalittiche di una violenza espressionistica degna del prediletto Rebora (“Polvere della fabbrica che uccide il Reno / acque di lacrime veli / funebri legati a / scandagli in terre secche / cumuli precipitosi di sacchi / le discariche al limite di un pioppeto[…]” 108), ovvero attraverso una visione più pacata, imperturbabile, disingannata (“dietro il cancello della fabbrica chiusa per ferie / lei lo abbraccia dietro al passaggio al li- / vello incustodito fa segnali coi piedi scalzi in- / forca occhiali da sole. / Cosa si può fare dei baracconi da zingari abbandonati lungo una siepe fra l’erba?” 91).

In grande evidenza in questo panorama, ancora una volta, sono le strade, o meglio le autostrade, quelle “in-utilissime […] che la Fiat ci ha elargito, e ha voluto concedercelo perché non si ottiene che ciò che essa vuole”191, quelle che attraversavano, violentandolo, il mondo contadino di Dopo Campoformio e che facilitavano gli spostamenti nell’inferno capitalistico di numerosissime Descrizioni in atto. I veicoli che le percorrono sembrano gli unici elementi in movimento di un ambiente innaturalmente immobile e silenzioso e vengono seguiti dalla parola roversiana che ora si fa nuovamente lucida e salda: “Tutto comincia così / da qualcosa che brilla / un vetro in movimento / l’asfalto brucia perché l’inverno è lontano / […]” (99); “[…] Sull’asfalto il viadotto rotola insegne d’amianto. / I tir austriaci inseguono da sponda a sponda l’orma di case in fuga / la giornata è scossa da alcuni presagi. / Chi l’avrebbe detto dieci anni fa?[…]” (105).

E con le strade, anche la “morte stradale”, un altro tema da sempre presente nelle opere di Roversi quale simbolo della insania di una società in perenne corsa, senza traguardo (si pensi ad Ettore, il protagonista di Registrazione di eventi, che trova la morte in un folle viaggio in auto alla rincorsa del proprio passato, ma anche alle due giovani “comparse” de I diecimila cavalli ed alla tante vittime cadute sull’asfalto delle Descrizioni in atto), viene in questi versi rinnovato per mezzo di una descrizione che non lascia trasparire nessuna passione, nessuna sorpresa (“Tacendo / ascolto il cristallo rompersi / sotto il diamante di una parola che lo incide. / In quell’istante un cane è schiacciato da un tir”(118); “[…] Il morto sull’autostrada dice saluta sorridendo la vita”(111).

Ma la prospettiva dell’autore, come abbiamo detto, è estremamente ampia, nel corso dell’estenuante viaggio lungo questa Italia “sepolta sotto la neve” e sconvolta dalla violenza attuale, infatti, lo sguardo tagliente di Roversi si posa non solo sul territorio emiliano ma anche (riproponendo in termini geografici la contrapposizione tra fuoco e neve a cui abbiamo accennato) sulle riarse terre del profondo Sud (“Brucia Sicilia Sardegna / brucia Calabria da bosco a bosco da uomo a uomo / brucia l’ulivo / guarda il fuoco del bosco l’acqua il bosco / […]” 116) e sulle innevate montagne dell’Abruzzo (“[…] Mi sono anche spaventato ma / il tempo inclemente faceva nevicare. / L’Abruzzo è un poco misterioso e io per caverne e / caverne […]” 125).

Il ruolo predominante, però, il ruolo da prima attrice non poteva che assumerlo la “sua” Bologna, la città “da sempre identica nei miei occhi”, la città “non bella ma bella nella contraddizione, bella nella sua complessità”. In questa raccolta infatti, Bologna appare come una città imporporata da freddi tramonti, investita da colori rossi e scuri, lacerata da bagliori dorati, contrapposta nel suo calore all’indifferente bianco della neve che raggela il mondo (“La città si innalza tetragona e infiammata” 106; “Vedremo la città d’oro apparire da lontano”. 109); una città stratificata, medievale, turrita, imponente (“Oh Bologna / calda di torri diroccate o di ombra di torri / ha il pianto delle cicale sgozzate conficcate in gola ai maceri / della pianura / città sorella alla brace alla pioggia alla pietra / cammina nel silenzio d’autunno / mentre i nobili nel casino di caccia parole. / vivrà mille anni ancora aspettando il passato 113), ma allo stesso tempo, dato che “nell’inverno lo stile è tutto”(82), resa grandiosa ed altera da “lo stile barocco fondato sulla / razionalità della scuola emiliana”(82). Una città, infine, che ci sembra non dissimile dalle antiche città italiane (tra le quali la stessa Bologna) dei Canti Orfici, dalle “torri barbare”, “rosse e impenetrabili”, abitate da enigmatiche, sfumate figure femminili e affrescate dai colori bizantini dell’occhio allucinato di Dino Campana.

A rendere più suggestiva questa ipotesi concorre il fatto che lo stesso Campana, anch’egli tra i poeti più amati da Roversi in gioventù, appaia inoltre, in un frammento di questa seconda parte de L’Italia sepolta sotto la neve, affettuosamente rappresentato mentre si affaccenda con frenesia tra le sue carte: “[…] Dino Campana, da Marradi, sapeva / […] / dove trovare i poeti al caffè / celebrati illustri di penna sapienti / caro Campana così inzaccherato / strappa fogli lacera carta brandelli / butta segnali dentro l’eco di un’ombra / esiste una immaginaria porziuncola interiore / Campana mio puoi affilarci la spada […]” (105). Un omaggio anche in questo caso, crediamo, ad un poeta che ha fatto della sua disperazione ed intransigenza una ragione di vita.

In questo “luogo poetico” in cui i segnali della rovina di giorni disperati sembrano soverchiare a volte la fiducia nel futuro, il tema predominante della poesia roversiana sin dalle prime plaquettes degli anni Quaranta, e cioè la rabbia e l’avvilimento dell’uomo tartassato da una società rapace e da una vita disumana, non poteva essere abbandonato. Le vergognose ingiustizie che quotidianamente si presentano agli occhi dell’autore vengono tuttora accuratamente registrate con un tono adesso freddo e testimoniale: “[…] un povero si accascia alla stazione di Padova / un ricco scende dall’aereo personale / ciascuno comunica all’altro io sono / […] / Licenziato dalla Fiat, abbandonato dalla moglie e dai figli / Damiano Allegretti operaio” (105).

Così anche la proverbiale “rabbia politica” di Roversi esplode, a volte, con il furore incontrollabile e la determinazione assoluta che già conosciamo, veicolata da un linguaggio ancora esplosivo e stridente (“[…] rabbia rabbia esplodono fra la polvere le lattine coca cola sul ripiano del bar / è la voce dell’ultima fabbrica a riempire il mondo di canzoni a / giocare con il turno di notte. Avanza / un ferito da chissà quale lotta dice / nessuna commozione […]” 95) e la sua visione a tratti si fa enfatica, quasi allucinata da un discorso poetico sottoposto a forti sollecitazioni, ad un enorme sforzo di tensione (“[…] la terra di tombe appena scoperte fuma nel suo inferno / perduto. / L’urlo dei maiali nel silenzio del mare / quando è l’ora di strappare le stelle prima del sonno” 116).

Certamente lo stato attuale delle cose appare estremamente difficile. Oggi, infatti, “si ascoltano segnali incerti / dimenticate parole” (110), gli spazi reali per una resistenza attiva si assottigliano nel torpore imposto alle menti e Roversi talvolta sembra cedere alla disillusione. Il suo discorso così si placa di nuovo e si trascina dolente e meditabondo (“ieri (forse) qualcosa si poteva fare / ma oggi non si può fare molto. Le / occasioni diminuiscono le occasioni sce- / mano. Le persone. La falce. / La luce degli occhi viene dalle caverne / fra le foglie prendono il Tavor e chiudono gli occhi[…]” 97). La sua parola poetica sembra voler misurare una distanza tra le persone che s’accresce sempre più in un mondo devastato dalla violenza economica: “è impossibile l’amicizia forse è impossibile essendo l’ / uomo ormai un vuoto a perdere su spiagge calamitose”. (115).

Accanto alla rabbia ed al disinganno si affacciano quindi, in questi versi, pensose considerazioni sullo scorrere del tempo(“[…] È inevitabile dicono: / ciascuno corregge il destino / precipitosamente e / come un albero divorato da un ramo / scalzato non senti invecchiare il cuore dentro di te?/ […]” 102), sulla fragilità dell’esistenza umana (“E l’uomo ha troppe morti da consumare / per sceglierne una sola”), sulla volatilità degli affetti (“Finita l’estate la città si spiana / il cielo ciclopico schianta l’ala di un aereo bianco / che si inabissa e noi, addio, / forse un altro anno ci incontreremo? / Ci trasferiamo dalle pene d’inferno alle pene di cuore / con ironia - il cuore è un deserto con l’acqua che scorre / da foglia a foglia intanto / […]” 109). La voce di Roversi è a questo punto umbratile e meno rabbiosa, una cupa malinconia accompagna queste parole e tende a distendersi in forme decisamente elegiache, mentre anche il passato si affaccia col suo pesante fardello (“Non ho saputo leggerti mano avara. / Circondata dai cunicoli dai labirinti della vita / e da petali che così osannano / io sono un campo d’autunno […]” 115).

In ogni caso, però, il poeta ripone una disperata fiducia nelle verità che la memoria continua a trascinare con se, nel fatto che “[…] nessuno può scomporre / il dare dall’avere, l’infelicità dalla noia / il passato da un presente che rotola / superbamente rumoroso / frammenti d’ossa nel mercato delle pulci” (111), ma sa bene che per continuare a contrastare efficacemente bisogna imparare da questo passato senza rimanervi inerme prigioniero: “Chi mi vuol bene / deve dimenticare i giorni passati / cercheremo di non compiangerli troppo. […]” (92). La memoria dei giorni trascorsi, acquista allora, in questo poema (e nella visione del suo autore), un’importante funzione di “supporto” per il presente. Come ci conferma personalmente il bolognese, è divenuto necessario salvare dall’oblio generalizzato, dall’azione in corso di annientamento della memoria, ciò che del passato può tornare utile per gli odierni conflitti, soprattutto il ricordo delle violente speranze e dell’indomita passione civile che avevano investito coloro che affrontarono la drammatica esperienza dell’ultima guerra mondiale.

È in questo momento infatti che il discorso di Roversi subisce un’accelerazione improvvisa, un sussulto decisivo che lo fa uscire dal più cupo sconforto per proiettarlo nel campo a lui più consono della ragione, della lucida riflessione morale e civile. Fa la sua comparsa un “fervore sconosciuto” che ci pare molto simile a quell’impeto risolutivo delle Descrizioni in atto che Giuseppe Zagarrio ha efficacemente definito “l’eppure vitalistico”192 di Roversi: la “guarigione” d’eccezione offerta al poeta e alla poesia ed opposta alla coscienza delusa, una perenne eventualità di cambiamento, un disperato ottimismo nel mondo a venire.

A questo punto si fa definitivamente spazio, mettendo fine al continuo alternarsi di totale sconforto e ferma determinazione che appare forse come l’elemento distintivo dell’intera raccolta, il piano ragionativo a scapito dei tetri elementi figurativi. Il discorso roversiano diviene sempre più veemente e sentenzioso: “ancora tutto da fare, da imparare” (99); “occorre soffrire un poco / avere ancora pazienza” (90).

Così, dal momento che “[…] Un vecchio inconcludente è niente. / Un vecchio deluso è un recluso (124), ancora oggi “c’è un uomo che scrive ma la paura della vita la / paura della morte la paura della notte - le / lunghe insonnie le trascorre gridando contro la luce / che non arriva”. (113). Il tormento di Roversi si converte allora, anche ne L’Italia sepolta sotto la neve, in vicenda dolorosamente attiva, la ferma volontà di non arrendersi, la voglia di progettare nuove possibilità di rivolta prevalgono ancora una volta. L’ottimismo disperato del poeta, travolta ogni difficoltà, prorompe nuovamente a pieno carico in un linguaggio elettrizzato da una rinnovata, inarrestabile energia: “[…] la terra è piccola per un futuro / che non può imprigionare la mia ombra. / Ah madre quando parlo delle nuove battaglie / solo tu mi sai ascoltare – il dolore / è una lepre che corre” (114).

La “difesa morale” di Roversi dunque si può (si deve) sempre più avvalere della forza d’urto della letteratura per organizzare un fecondo antagonismo. Nonostante tutto, infatti, “nella casa fra i pioppi/betulle al lume di una lampada ad olio (ancora) / la mano stende il velo d’inchiostro” (96). Il vecchio poeta può (deve) avere ancora la forza morale necessaria per nuovi propositi, per rigettarsi, anima e corpo, nel lavoro intellettuale con la curiosità e la solerzia nel fare che lo contraddistinguono (“Vorrei avere molti libri da / leggere. Ancora. Tempo davanti. / Libri con segni sconosciuti / vecchie tipologie polverosi / libri trovati nel ripostiglio di casa […]” 101; “leggi un poco dovunque / non stancarti di chiedere e parlare […]” 120) e le speranze possono (devono) essere fomentate poiché “è la voglia di vivere che salverà il mondo” (121), ma anche perché “c’è sempre un poco di paradiso / in una zona disastrata” (122).

Sebbene l’Italia sia “sepolta” sotto uno spesso strato di gelidi inganni, le infuocate parole di Roversi possono (devono) continuare a mantenere il proprio valore di impegno assoluto, storico; alle volte, difatti, “è più facile che una voce si conservi sotto la neve”(101).

 

Parte seconda: La Natura, la Morte e il Tempo osservano le Parche che giocano la partita

 

Secondo quanto ci è stato riferito personalmente da Roversi, l’introvabile edizione integrale della seconda parte de L’Italia sepolta sotto la neve sarebbe apparsa nel 1992 presso le edizioni “Pendragon” di Bologna, col sibillino sottotitolo La Natura, la Morte, il Tempo osservano le Parche.

Come spesso accade per le opere di un autore tanto intransigente in materia di scelte editoriali, la ricerca di questo fantomatico testo roversiano è risultata vana. Dopo un’attenta indagine, però, siamo riusciti ad entrare in possesso del numero 58 de «Lo Spartivento», il “foglio di poesia militante” stampato dalle edizioni della libreria “Palmaverde” nell’ottobre di quello stesso anno, nel quale dodici degli originari novanta frammenti del poema sono raccolti con una piccola ma significativa aggiunta ad un sottotitolo che ora recita: La Natura, la Morte e il Tempo osservano le parche che giocano la partita. I novanta lemmi di cui si comporrebbe la seconda sezione, infatti, corrispondono, a detta dello stesso autore, ai novanta minuti durante i quali si svolge una partita di calcio, individuando in tal modo una sorta di cornice calcistica che conferisce di certo a questo lavoro una maggiore compattezza tematica rispetto alla raccolta precedente.

Già ad una prima lettura dei pochi versi a nostra disposizione, appare evidente quanto questa robusta struttura portante, all’interno della quale trovano collocazione gli elementi abituali dell’ultimo progetto di Roversi, risulti insolita ma al contempo straordinariamente elastica, capace cioè di integrare tali elementi in un “ragionamento” poetico di eccezionale densità. Nel corso dei novanta minuti/poesie difatti, la penna dell’autore impegna tutte le proprie forze nel disegnare una fittissima conversazione tra i calciatori in campo e gli spettatori assiepati sulle gradinate.

Prende dunque corpo un discorso poetico in cui è il dialogo a trionfare, surreale, complesso e spesso sorprendente, un dialogo in cui predominano le voci provenienti dalla folla sugli spalti e grazie al quale riusciamo a distinguere i volti di numerose figure storiche e di alcuni dei protagonisti della cultura occidentale. Si riconoscono i lineamenti di Kant, Brecht, del grande pianista Glenn Gould, dell’onnipresente “Che” Guevara, ecc… (“[…] Volti antichi di camminatori affiorano sulle gradinate / fra l’onda dei capelli. Sembra un sogno” 167). La “registrazione” degli avvenimenti presenti è perciò dialogizzata, filtrata all’interno di questo continuo colloquio durante il quale la voce di Roversi si frammenta nelle voci dei numerosi parlanti, ma anche per questo ricchissima di riferimenti culturali che, risultando elementi costitutivi della struttura stessa dell’opera, contribuiscono ad ampliarne lo spessore e la problematicità.

Il protagonista assoluto di questo secondo stralcio dell’interminabile poema è però, senz’ombra di dubbio, Théodore-Agrippa D’Aubigné, uomo d’armi e grande poeta sul crinale tra i secoli XVI e XVII, individuo dalla vita travagliatissima, ricca d’imprese militari al sevizio del protestantesimo, di perigliose avventure e di terribili amori. Un personaggio certamente singolare, contraddittorio, ugonotto feroce ma capace di scrivere toccanti liriche barocche sull’attesa delle rondini in primavera. É lui che Roversi utilizzerà come un vero e proprio alter ego in queste pagine, come suo principale portavoce. È dalla bocca del signor D’Aubigné che, infatti, affioreranno sempre più spesso le sferzanti affermazioni dell’autore.

Tra l’altro la figura del poeta francese ritorna più volte nella poesia italiana del Novecento e sempre come emblema della battaglia senza tempo sferrata contro ogni tipo di tirannia. Già nel 1943 Eugenio Montale affidò il piccolo manoscritto di Finisterre, comprendente quindici poesie, a Gianfranco Contini che lo portò clandestinamente in Svizzera, perché i riferimenti alla guerra, ma anche (e soprattutto) un’epigrafe tratta proprio da D’Aubigné che suonava come una chiara condanna dei “prìncipi” e dei tiranni (“Les princes n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles, / Leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter…”), ne rendevano impossibile la pubblicazione in Italia. La raccolta fu pubblicata a Lugano e venne in seguito inserita (e l’epigrafe con essa) in La bufera e altro del 1956. Anche nell’ultima raccolta di poesie di Franco Fortini compare l’ombra imponente dell’implacabile ugonotto. In Composita solvantur del 1994, infatti, un componimento fortiniano intitolato L’inverno è, per ammissione dello stesso autore, una “appropriazione” de L’hiver di Agrippa D’Aubigné. Roversi dunque, facendo risuonare la propria voce nelle parole del poeta francese, sembra voler sottolineare per l’ennesima volta quella funzione di contestazione globale contro ogni tipo di oppressione politica e sociale che ha sempre considerato un dovere inalienabile dell’istituzione letteraria.

Quello del calcio, oltre a ciò, è un tema che negli scritti roversiani è apparso più di una volta. Nel romanzo I diecimila cavalli, per esempio, il derby della domenica, il grande evento sportivo diveniva nelle mani del “potere”, nelle mani dei “signori in grigio”, un potente narcotico per le classi popolari in rivolta, lo strumento principe delle varie “eccellenze” per bagnare le polveriere sociali. La partita in programma, in quella occasione, doveva essere giocata per soffocare con l’assordante frastuono dello stadio traboccante di gente ogni squillo di rivolta: “Facciamola incominciare ‘sta partita, ca custa l’on ca custa. Quelli sono voltagabbana, se la godono ad aspettare per vedere lo spettacolo. Come a teatro con le loro bandiere”; lo spettacolo sportivo appariva infatti, in quell’ultimo romanzo, un efficace palliativo per le rivendicazioni di una folla inferocita: “la situazione dall’altra parte della città è caotica, è molto critica anche se è sotto controllo, dunque è nostro preciso compito di far defluire questi scimpanzé, in centurie ordinate e in fila indiana”193.

In questa raccolta invece il tema calcistico si fa più complesso e acquista nuove, essenziali sfumature. Accanto all’immagine delle forze sociali popolari ancora una volta imbrigliate dalla passione per lo sport nazionale (“IL POPOLO SEDUTO chiede / Quando avrà termine la partita? […]” 166), si affaccia l’ombra di un’altra partita, ben più importante, quella giocata dalle parche del sottotitolo alla raccolta, una partita nella quale le figurazioni del destino, con sovrumano distacco, si contendono ben più di un pallone. Oggetto del contendere diviene invece, anche in questo caso, il futuro di ogni possibile impegno morale opposto ad una società dell’oppressione nella quale i basilari valori umani, etici e civili, sembrano essere costantemente messi in pericolo (“[…] perderemo le virtù d’amore / se la partita non sarà terminata / con un tiro preciso nel momento dell’attesa” 164). Nella visione del poeta infatti, il naufragio civile risulta al momento compiuto: oggi ci sono “gradinate vuote la gente dispersa”e“solo la prossima gara riempirà questa patria / di bandiere. Voci. Le voci coprono l’acqua di molta allegria / sono voci lontane” (164).

In questa “Parte seconda”, dunque, la “resistenza” di Roversi si materializza nel match decisivo che si sta svolgendo contro la terribile compagine di una “società dello spettacolo” “che dentro al frastuono predominante omogeneizza tutto, tutto livella appiattisce […]”194; tra squilli di tromba e sventolio di bandiere, in una grottesca atmosfera da lugubre festa, l’offensiva finale, lo scontro decisivo sembra essere iniziato: “[…] Prima che la notte cada, è stabilito. I leoni / decidono di assaltare i soldati stremati. / POI NON CI SARÀ CAMPO MAGLIE NON PIÙ LA / PARTITA. Voci. / Solo lo stadio sarà vuoto” (166).

Come già era avvenuto nella prima parte e nella premessa de L’Italia sepolta sotto la neve, la decadenza in atto continua ad essere straripante ed in apparenza inarrestabile, le possibilità di contrastare questo perverso meccanismo appaiono, anche qui, ridotte al lumicino. Il poeta bolognese, così, non può che insistere nella rappresentazione allucinante di un mondo tartassato da nuove razzie e violenze (“Ho visto l’orso morire / verso il tramonto solo nella vallata / volavano uccelli enormi senza ali / cadevano conficcandosi in terra risalivano / stringevano in bocca l’agnello […]” 223), ma anche stordito dal sistematico insabbiamento della verità, ancora una volta raffigurato da uno spesso e gelido strato di neve: “[…] Oggi rubano uomini e donne come farfalle / li infilzano con il chiodo li legano all’albero / sotto la neve lì stanno / corpi che aspettano il tempo” (167). Le immagini disegnate da Roversi continuano ad essere tese fino al limite, esasperate da una fantasia furiosa che ci rende del mondo una visione apocalittica ed allucinata. La sua parola poetica sembra qui addirittura più irrequieta rispetto alle sezioni precedenti, agitata da improvvise iperboli che mescolano disordinatamente le istantanee della partita con quelle di un presente magmatico e di un passato lontano, in un impasto convulso ed estremamente complesso.

Il “macro-tema” calcistico diviene perciò, in queste pagine, un contenitore eccezionalmente capiente, il vero collettore di ogni altro tema e il movimento centrifugo della prima parte del poema, all’interno del quale Roversi aveva tentato di rendere la vita nodo polifonico, dopo averla frantumata nei suoi più disparati aspetti, inverte qui la sua direzione. La poesia roversiana sembra ora investita da una spinta opposta, centripeta, diretta verso lo “stadio delle giovani iene” (170), all’interno del quale è racchiuso il mondo d’oggi e dove si gioca, arbitre le Parche, la “partita” finale, la decisiva sfida con la storia.

Allora Roversi / D’Aubigné è “durante la partita mentre il pallone vola” che può esaminare con rabbia la condizione delle vittime della società degli “egoismi globali”, “questa gente nel bosco sotto rami e foglie / gocce di nebbia sulle dita le querce che frusciano i / treni lontani” (167). E mentre le azioni sul campo si susseguono con alterni risultati, egli le segue con apprensione ma anche col consueto estremo rigore di osservazione, perché “la palla non è mai conquistata / per sempre. / La sua conquista non è mai / come la vita tutta compiuta non / può la palla essere distrutta / non rasa al suolo” (216). È solo alla fine di questo scontro epocale, infatti, che si potranno finalmente tirare le somme: “Sospendiamo il gioco delle ombre / oggi sotto lo striscione di arrivo cadiamo nell’eternità” (220).

L’autore dunque, all’interno di questa compatta impalcatura, sempre tramite un processo dialogizzante nel quale predomina la voce altera e bellicosa del signor D’Aubigné, diluisce tutti i rancori e le speranze, le delusioni e le attese di questo “lungo momento”195 in cui sia i nemici sia gli amici sembrano scomparsi (“DOVE I NEMICI DI UN TEMPO? / dove gli uomini dalle lunghe barbe con le alte spade / e gli occhi forano il cielo lanciando fiamme?” 220). Nei suoi occhi, la vita sembra trascinarsi in un tempo senza più dignità, illuminato dai fuochi fatui del baccano tecnologico e l’implacabilità giudiziale del poeta delle Descrizioni in atto torna a prevalere nel furore di un immaginario ossessivo ed angosciante: “Oggi erra l’ombra dei topi / fra le foglie che neanche l’autunno / chiama più con amore. / Dice il signor D’Aubigné sono queste le meraviglie? / […] / Non abbiamo più nemici / siamo uomini spenti. / Che vita è questa?” (220).

Ma la partita, in ogni caso, non viene mai interrotta nell’attesa che D’Aubigné / Roversi scorga, in un cielo oramai sgombro di nubi, tornare a volare le rondini, il fulgido emblema delle speranze in una nuova primavera per l’umanità: “[…] Chiedo alle rondini di tornare / se viene meno la speranza / sia chiara l’attesa / sia giusto l’ordine di migrare” (223).

Anche in questa seconda parte de L’Italia sepolta sotto la neve il discorso di Roversi segue, quindi, un percorso altalenante. Accanto ai momenti di disillusione si affaccia sempre la speranza, allo sconforto si avvicendano costantemente i progetti per ricostituire una riflessione costruttiva, una rinnovata utopia. La parola poetica roversiana, allora, assecondando questo movimento delinea immagini contrastanti che si susseguono senza alcuna mediazione, prima indefinite, sfumate, impregnate di tetra malinconica, poi lucide, dirompenti, spinte da una rinnovata, implacabile fiducia. Così il poeta sembra abbandonarsi, a volte, alla soluzione dolorosa della rinuncia e della resa (“[…] arrivo alla fine della giornata / qualche volta con disperazione / altre volte è una luce intera che all’improvviso si spegne / su questa vita che non è poi disperata.[…]” 167), alle angherie di un passato inclemente che si affaccia con tutti i suoi dubbi e le sue colpe, ancoraaccompagnato dalla penosa coscienza del fatale scorrere del tempo: “Alle giovani penne che oggi interrogano il mondo / che mondo consumato consegno / io che ero aquila predatrice e volavo oh volavo? / […]” (223).

Alle recriminazioni però, come sempre accade, si sostituisce presto la volontà di riorganizzare la difesa, in modo tale da farsi trovare pronti nel momento più propizio. Una flebile fiamma sembra poter illuminare questi tristi giorni: “[…] senza tristezza. Oggi / lavorare aspettare / dolorare le mani / nessuna pietà per i vincitori. / Ci tocca l’onesto soffrire nel momentaneo tramonto. / Ma non saremo altrove / il giorno della danza fruttifera / della lieta mattanza” (223).

La stessa scelta di tirarsi fuori dal gioco non immacolato dell’industria culturale, ovvero l’opzione della “clandestinità”, come l’abbiamo definita, qui si chiarisce esplicitamente come parte di un’ampia strategia attuata al fine di giocare, nel corso di tutti questi anni, le proprie carte fino in fondo: “Non pubblico più libri dice il giocatore di calcio / perché non voglio che qualcuno / tagli le pagine del mio libro / con un coltello sporco di burro. / Non saprei sopportarlo / né da vivo né da morto. / […] / Un bosco di alberi parole / chiede che l’occhio non si chiuda prima che sia / accontentato. […]” (215)

Inoltre, per le sorti della propria squadra, quella composta “non di superstiti disastrati, ma di persone che intendono provvedere con la parola, la scrittura, la riflessione – partendo quasi da zero – ad approdare su un lembo di terra nuovo possibile per l’uomo”196, lo scrivere sembra mantenere, anche in questa raccolta, una funzione basilare. Infatti in questi versi“[…] la parola ha sempre / in serbo una sorpresa o un sopruso / per il lettore che non ha strappato la pagina”(215) ed è solo attraverso la letteratura che il vecchio poeta riuscirà a decifrare la moderna confusione, l’odierna condizione umana: “prima che il mondo ci lasci (o ci abbandoni) / […] raccogliere qualche / frammento di parole / per capire le obiezioni degli amici / il rumore degli anni, queste ultime avventure. […]” (164).

Perciò, quando “la clessidra stabilisce la fine della partita” (170), la speranza di Roversi di fare e muoversi per andare contro al marasma quotidianamente esibito non è andata perduta. L’alacre persistenza da sempre teorizzata risulta ancora possibile, anzi oggi ancor più necessaria, come ancora necessaria è la disperata lucidità coscienziale che dà vita a questi versi. Allora, sebbene gli scontri si facciano progressivamente più duri (“Francesco Lomonaco giacobino dice vedo / gli uomini migliori morire di dolore / e muori per la seconda volta Guevara / offeso dal silenzio come un cristo camminatore su povero / legno” 225), lo stadio non si è ancora svuotato, l’incontro prosegue con rinata energia (“ti cerco compagno amico di questa sconfitta / non perderti nella folla silenziosa dei cani / grida come l’eroe un tempo conosciuto nell’isola che non / (ha nome” (225).

Ed alla domanda dagli spalti: “Cosa devo leggere chiede Glenn Gould / per capire l’Italia?” (225), Roversi, stavolta in prima persona, così risponde: “non l’italietta di ghirlande seduta sulle colonne di Roma / con gambe scheggiate sospese nel vento” ma “un’Italia ferita a morte ma che la morte non vuole” (225).

 

Parte terza: Astolfo trasforma sassi in cavalli.

 

La versione completa della terza parte de L’Italia sepolta sotto la neve verrà pubblicata solamente tra pochi mesi, ma alcuni frammenti di questo poema sono già apparsi nel 1995 in una pregiata cartella di litografie di Giuliano Collina e, tra il 1998 ed il primo semestre del 2000, sulla rivista semestrale «Il Filorosso», diretta a Catanzaro da Francesco Graziano e Gina Guarasci. Come sempre accade per gli scritti di Roversi, questi pochi stralci dell’opera che hanno visto la luce sono frutto di una sistemazione momentanea, una fase di un work in progress che troverà una definizione stabile solo dopo numerose stesure, ma già permettono di intuire, con una certa precisione, le direzioni principali che il discorso poetico dell’autore intende intraprendere.

Il sottotitolo di questa sezione, Astolfo trasforma i sassi in cavalli, infatti, sin dal principio richiama alla memoria l’Orlando furioso di Ariosto, il protagonista del quale già si era affacciato nelle pagine della “Parte prima” del poema in una fulgida immagine di battaglia (“e invidiavo con tenerezza / quelli che come Orlando dalle mischie / s’alzano e con la penna che luccica – e senza sangue […]” I. 90). Roversi, dunque, anche tramite incisioni rapide nella memoria cavalleresca di un’Emilia lontana, sembra voler rianimare nel mondo d’oggi quel senso di instabilità, di pericolo incombente che lo scrittore ferrarese, contemporaneo di Machiavelli e Guicciardini, aveva iniettato sotto l’apparentemente imperturbabile serenità del suo capolavoro. E in questo caso specifico, tramite uno dei più famosi episodi del “furioso” (Astolfo che sulle ali dell’Ippogrifo vola sulla luna alla ricerca del senno di Orlando, perduto fra i cumuli di tutto ciò che gli uomini si lasciano sfuggire in terra), l’autore emiliano sembra voler fare riferimento a tutti quei miti di illusione, vanità e delusione che concorrono a disegnare, tanto nel grande poema cavalleresco quanto in queste pagine roversiane, un mondo senza più direzione, devastato da una sola, inarrestabile follia universale.

Già da questo esiguo numero di versi, inoltre, si può osservare come il processo dialogizzante che aveva investito il discorso roversiano nella seconda parte del poema si prolunghi in questa terza, subendo comunque sostanziali modificazioni.

Infatti questo unico, interminabile scritto, che si dovrebbe snodare a detta dello stesso Roversi senza interruzioni né grafiche né concettuali per più di quattromila versi, si presenta di nuovo come un fitto dialogo a distanza, stavolta però tra due sole voci parlanti: quella senza eco dell’astronauta sovietico abbandonato nello spazio per mesi al tempo del governo di Gorbaciov e quella soffocata ed atterrita di Maria Silocchi, rappresentante della Bologna “bene”, sequestrata nei primi anni Novanta e violentata e martirizzata dopo esser stata tenuta a lungo prigioniera in un anfratto profondo della campagna emiliana.

Forse sarebbe più esatto definire questo dialogo, utilizzando le parole dell’autore stesso, come l’alternarsi di due monologhi incrociati ma non sempre integrati, tra “la paura adirata e temente ma mai rassegnata dell’astronauta russo […] e la paura dentro un barlume di speranza, finché si è spenta straziata, della signora Silocchi, qua in Emilia rapita […]”197.

Il discorso di Roversi, in ogni caso, qui si sdoppia e si converte in una rappresentazione del mondo attuale compiuta tramite l’utilizzo di due punti di vista diametralmente opposti: da una parte uno sguardo che dall’alto copre il mondo nella sua totalità, dall’altra quella di un occhio reso cieco dall’oscurità profonda di una fossa.

Il passaggio da una prospettiva all’altra solitamente si compie senza alcuna intercessione, allora la voce che proviene dal sottosuolo (“[…] Oggi consumata dal silenzio / come la radice di un albero / sotto la terra / anch’io interrata sono la radice / senza più foglie senza il futuro più mai […]” 1531) si fonde totalmente, senza nessi visibili, con una voce che rompe il silenzio assoluto dello spazio (“[…] sono qua nello spazio nero di vita e senza la voce / pellegrino perduto sulla sabbia del deserto di stelle / fra le stelle l’uomo vive senza sonno e dice / ciò che è lasciato non è mai dimenticato […] 1810), determinando così una visione “grandangolare” della realtà osservata. Oggetto dell’occhio vigile di Roversi, infatti, è ancora una volta la realtà sociale dei giorni d’oggi: “sul quaderno delle miserie / scrivo le vicende di questi anni che non conosciamo. / Fossili. Cupi fuochi. La sera / ride sul fiume del tempo. Da riva a riva […]” (1823).

Esaminato da due prospettive d’eccezione, dunque, entrambe solitarie (“[…] Ero solo in quel momento solo davvero / nessun pensiero era vero ma vero […]”, 1651) ed entrambe braccate dalla paura della morte (“la morte è già con me vicina di fango di buca” 1563), il mondo attuale descritto dal poeta continua ad essere investito da una violenta invettiva (“[…] cos’è questo mondo / questo ilare mondo / che si scompone facendo le guerre nel mare delle parole […]” 1744), un mondo che brancola nel nulla, senza più direzione (“[…] oggi scopro che il disordine / è la regola e l’ordine una eccezione […]” 1763) ed ancora devastato da sempre nuove distruzioni. Il linguaggio di Roversi si fa spazio, anche in questi frammenti, per mezzo di esplosioni apocalittiche che non mostrano alcuna pietà per quello che oramai è diventato un inferno di macerie e d’angoscia (“Io in mezzo agli astri sempre ben voluti / vedo le città della terra / ardere. Vedo la terra bruciare fra le braccia di guerrieri stranieri. Bruciano le biblioteche severe i libri piangono./ Mani allungate rubano rosse auto veloci barche d’altura. / Mettiamo la Russia / mettiamo la Merica […]” 1767).

L’ingordigia di una società senza più giustizia viene così registrata dai due sguardi isolati nel buio che, appartati ma disperatamente attenti alla vita che si svolge lontana, sembrano richiamare, estremizzandola, la distaccata ma eccezionalmente partecipe postazione scelta da Roversi, la sua torretta d’osservazione sul mondo, sommersa da centinaia di polverosi volumi nei due cupi stanzoni di via de’ Poeti numero quattro.

In questo modo i due monologhi sembrano spartirsi le percezioni raccolte dall’occhio del bolognese su una realtà in veloce cambiamento, quello dell’astronauta russo – più rabbioso e mai rassegnato (“[…] la gelida rabbia dell’uccello con il petrolio di / ali / al vento gelido grida […]” 1654) – raccoglie attraverso il piccolo oblò della sua navetta spaziale le istantanee del presente in una visione straordinariamente ampia che si distende sulla terra nella sua globalità, registrando gli avvenimenti epocali, quelli che diverranno storia (“Si illumina il mondo di sangue. / Vedo / il volto della Russia non più sovietica / consegnata alla ruggine delle nuove catene… / […] / ma noi non siamo il mondo / non andiamo alla conquista dell’Australia / a forza di bollicine / non conquistiamo col mitra Messico Olanda […]” 1382; “Nelle pianure dell’Asia cavalli veloci / polvere polvere polvere sulla città di New York / sangue nel cielo di Berlino di Roma […] 1806). Nell’oscuro recesso in cui è tenuta prigioniera, avvolto dal più cupo terrore, illuminato però a tratti da un’intensa speranza (“[…] Vivo con tre catene al collo con topi bisce vivo / odoro l’uva appena raccolta da lontano[…]” 1926), il soliloquio della signora Silocchi invece si dipana tra fatti minimi ma comunque non meno significativi per Roversi, tra gli odori ed i rumori che le giungono dalla campagna emiliana squarciando il silenzio della caverna (“[…] rumori di una festa. Suoni. Tamburi nel cielo spezzato. / Voci di campagna metalliche, risse. […]” 1481) e dalla vicina città di Bologna, la “solita” Bologna del poeta, la “[…] città mai dimenticata. Ah città mia / indice della mia vita casa della mia casa” (1765), (“[…] Qua nel bosco le voci di una città vicina / alberi parlano strisciano parole / sul muro di terra segno la curva del tempo come una croce” […] 1804). Ma le parole della terrorizzata prigioniera scavano anche tra i ricordi ed i sogni che affollano nottetempo la sua mente, incursioni rapide in una terra antica ed oramai lontana: “[…] Così il velluto del tempo / si addormenta fra le aiuole / nessuno osava dissentire / alle parole del vecchio vuoto d’orecchio ma labbro loquace […]” (1552). Il mondo contadino emiliano torna così ad essere rappresentato tramite quelle immagini di pacato lindore, ma anche di pietroso tormento, che erano tipiche dei poemetti di Dopo Campoformio: “[…] nebbia alzata dal fiume / polvere sopra il lume della vecchia casa / le mele distese sopra i tralicci le canne la paglia / il cavallo azzoppato che si lascia morire […] (1492).

I due protagonisti del dialogo però, nonostante la loro disperata situazione, insistono nel conservare la speranza in un futuro diverso, in un improbabile ritorno, rappresentata in entrambi i casi dalla luce del sole contrapposta all’oscurità nella quale sono costretti: “in Islanda andare. Vorrei andare. / Là da monte a monte non sole cala la sera / la notte bianca cammina sulle acque […]” (1647); “[…] con me oh gioia esplode la vita / inerpica le sue luci […]” (1562), la stessa speranza, crediamo, che continua ad illuminare il cammino di Roversi anche nel buio pesto dell’attuale situazione politico-sociale, “partendo magari dalla convinzione, e i fatti ogni momento la confermano, che c’è molta più richiesta di speranza di quanto si creda, da ogni parte”198.

Per l’ennesima volta in questa Italia sepolta sotto la neve, infatti, il discorso di Roversi si snoda alternando momenti di cupo sconforto, di disillusione a momenti in cui la fiducia nel futuro prende decisamente il sopravvento. Così, in un mondo dominato dalla vacuità e dalla vanità dell’attuale fase della società dei consumi (“[…] Le cose che non hanno peso / non volano. O volano nella sorpresa generale. / La leggerezza del niente ha conquistato la terra / l’invade con parole […]” 1819), in una società frastornata in cui l’uomo, “l’irrequieto seme del mondo / non si raduna più a parlare / sottovoce da mille anni […]” (1706), progettare un futuro migliore è ancora possibile, la speranza persiste nella coscienza che questo inutile presente diverrà presto passato: “[…] Prima o dopo doveva accadere amico compagno / il futuro non è ancora passato non è migrato nella / caverna del niente ghiaccio delle memorie… / ascolta il giorno non piangere per me non lamentare / il giorno nasce col verde fuoco del sole non sarà / l’ultimo sole…” (1401).

Nelle parole dei due protagonisti, inoltre, come nelle precedenti parti de L’Italia sepolta sotto la neve, si presenta nuovamente il ricordo del passato, soprattutto della seconda guerra mondiale, il conflitto che più di ogni altro ha insanguinato il secolo XX; un sangue, questo, che però oltre a rendere quei giorni drammatici, certamente li ha resi più degni, più veri di quelli che viviamo (“Penso agli uomini antichi che scrivevano il futuro / oggi uomini e donne approdano e scrivono lacrimanti il passato / camminano scalzi su viottoli di cenere polvere. […]” 1687). Mentre allora “sedeva la guerra per terra / seminava morte nel mondo guerriero / signora bella spegneva soffiando la vita / soffiando la morte la vita esaltava” (1724), oggi la vita “pallida lustra d’acqua divaga nella notte emerge nel giorno / è l’alba / verde infine d’alghe marcite fra le pietre e / comincia a vivere urlando pazza di nuova vergogna […]” (1759).

Come abbiamo già più volte ripetuto, la memoria di quel tempo di grandi speranze e di violente passioni ha, secondo Roversi, la possibilità di impartire insegnamenti fondamentali ad un presente che appare senza alcuna decenza, allora le immagini e le emozioni di quelle drammatiche esperienze si affacciano qui con eccezionale chiarezza, tramite metafore luminose che si contrappongono ancora una volta al buio attuale: “[…] Poi l’oblio delle cose accadute in quel particolare momento. / Meravigliosa cosa è non cedere alla meraviglia / di una libertà perigliosa. Grande era l’esultanza / delle vicende accadute in quel particolare momento / ma per non dannarsi la coscienza / si cercava di fare senza / dell’automobile, dei suoni musicali, dei nuovi vestiti, di / creme di pane di libri. O di fiori. / Era tutto un correre gridare scalciare ballare e astratti furori. […]” (1878); “[…] che anni quelli / l’uomo raccontava la speranza / la speranza bruciava bruciava bruciava / con bandiere di luci di voci di sputi bandiera grigia violenta” (1510).

Nell’orbita di questa sorta di programma di difesa della memoria crediamo di poter inserire anche l’importante opera di versificazione delle lettere dei condannati a morte della Resistenza, compiuta da Roversi nel 1995 nel tentativo di “mantenere e alimentare la memoria, attraverso un esercizio di conoscenza e azione, e nel dialogo tra le generazioni anche affidato alla leggerezza e alla gioia dei vent’anni”199, al fine di continuare, con la fede imperterrita nei valori di quel tempo, la comunicazione di allora dentro l’oblio di oggi, dato che “un naufragio si è certamente compiuto ma non tutto di tutto è stato travolto”200.

Tuttavia il XX è anche il secolo della paura atomica e lo sguardo severo e la lucida parola di Roversi si posano sul “secolo coperto di sangue come una montagna / di neve” (1847): “Era una vera e propria droga raccontava vicino / all’orecchio dell’amico / ero come drogato. L’idea di poter immaginare sempre nuove armi. / Costruirle / Di notte facevo sogni a base di esplosioni atomiche. […]” (1841). Il verso del bolognese, quindi, nella descrizione della follia nucleare a volte torna ad essere informativo, sentenzioso, un verso “da telegramma”, come lo era quello delle Descrizioni in atto: “[…] 886 esplosioni sotterranee hanno lasciato sulla pelle del deserto / crateri vasti come interi quartieri di città / e 4500 chilometri quadrati non più abitabili […]” (1867).

Così, anche se nella condizione in cui viviamo si presenta prepotente la tentazione della fuga, la voglia di abbandonare questa terra devastata, nuovamente rappresentata tramite immagini di straordinario e disarmante vigore (“[…] tempo nel tempo per ripren- / dere il cammino salpare veleggiare acque cupe salutare / aspettare l’arrivo dei naufraghi approdi improvvisi gettarsi / contro la scogliera ferirsi la mano nella / sabbia scrivere sulle orme bagnate baciare la terra […]”1412), il messaggio ultimo di Roversi, quasi una missiva in una bottiglia affidata all’oceano in tempesta, ci appare come un messaggio di speranza, di fiducia in un futuro ancora possibile: “[…] Sarò tutto e niente ma sarò ancora. Sarò. Mi è / impossibile altrimenti pensare. La speranza è tempesta / è il getto improvviso del petrolio da una ferita della terra / urlo delle moto in gara / è il colore del quadro di Fontana e la donna di Hopper / è il cielo sopra una tenda nel deserto / questo e altro sarò ma una speranza vera… / non stringerò la mano… / dormire sul sasso è ancora vivere” (1463).

È questa inalterabile fiducia nell’avvenire, crediamo, a segnare l’ultimo risultato della caparbia, disperata moralità ed intransigenza di Roberto Roversi.

 

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IV. BIBLIOGRAFIE

 

Bibliografia

 

Opere poetiche

 

Poesie, Landi, Bologna 1942.

Rime, Landi, Bologna 1943.

Poesie per l’amatore di stampe, Sciascia, Caltanissetta 1954.

La raccolta del fieno, in «Il Menabò» n. 2 Einaudi, Torino 1960.

Dopo Campoformio, Feltrinelli, Milano 1962.

Cinque descrizioni in atto per la cartella del Guareschi, Prandstaller, Padova 1963.

Testa di vecchio, il collezionista n. 4, Bologna 1965 (Poemetto allegato a “Sei litografie” di Vasco Bendini).

Dopo Campoformio (nuova edizione accresciuta e aggiornata), Einaudi, Torino 1965.

Le descrizioni in atto, Ciclostilato in proprio, Bologna 1965.

Trenta poesie, Impegno 70, Mazara del Vallo 1972 (intervento in “Lettera a Leonida Breznev” di Rolando Certa).

Cento poesie, in «Il Cerchio di Gesso», n. 3, maggio 1978.

Trentuno poesie di Ulisse dentro al cavallo di legno, Ribichini, 1981.

L’Italia sepolta sotto la neve. Premessa: il tempo getta le piastre nel Lete, Nordsee, Bologna 1984.

Paso Doble (con Luisa Giaconi), Il Ventaglio, Roma 1986.

L’Italia sepolta sotto neve. Parte prima: fuga dei sette re prigionieri,Il Girasole, Valverde, Catania 1989.

Descrizioni in atto(nuova edizione riveduta e accresciuta), Coop Modem, Bologna 1990.

L’Italia sepolta sotto la neve. Parte seconda: la natura, la morte, il tempo osservano le parche, Pendragon, Bologna 1992.

Vide de figures, textes de Roberto Roversi, ouvres de Antonio Violetta. Traduction de Colette Arnaud, Edition de la Différence, Paris 1993.

Il libro del Paradiso, La Caita, Manduria 1993.

Carta e penna. Quattro incisioni di Antonio Bobo e dieci poesie di Roberto Roversi, Bandecchi e Vivaldi editori, Pontedera 1994.

Scrittura scenica (con Franco Fortini, Alba Morino, Ottiero Ottieri, Emilio Isgrò e Alfredo Antonaros), «EnnErre», Milano 1994.

L’Italia sepolta sotto la neve. Premessa: il tempo getta le piastre nel Lete (nuova edizione), Quaderni del Masaorita, Bologna 1995.

Parole e segni. Tre frammenti di un poema di Roberto Roversi con immagini litografiche di Giuliano Collina, Edizioni Lithos, novembre 1995.

Se tutti i mari del mondo fossero inchiostro, Edizioni Cooperativa culturale Centoggi, 1996.

25 poesie autografe, La Città del sole, Stampa, Torino 1996.

Aber es haben zu singen (con incisione di Enrico Della Torre), Amici, A.A.C., 1998.

 

Opere narrative

 

Umano, Landi, Bologna 1943.

Ai tempi di Re Gioacchino, Libreria Palmaverde, Bologna 1952.

Caccia all’uomo, Mondadori, Milano 1959.

Registrazione di eventi, Rizzoli, Milano 1964.

I diecimila cavalli, Editori riuniti, Roma 1976.

Spaventoso rombo e notturna devastazione della grande città di Parigi 1808, Letteraria Zanetto, 1998.

 

Testi teatrali

 

Unterdenlinden, Rizzoli, Milano 1965.

Il crack, in “Il Sipario” n. 275, marzo 1969.

La macchina da guerra più formidabile, in «I Quaderni del C.U.T.» n. 9, 1971.

Tempo viene chi sale e chi discende, ciclostilato in proprio, Milano 1975, (ripubblicato in forma ridotta come Enzo Re, in «Quaderni del C.U.T.», Bari 1980).

Enzo Re, Tempo viene chi sale e chi discende, I Quaderni del Battello Ebbro, Bologna 1997.

 

Saggi ed interventi

 

Prefazione a “I segni topografici” di Giuseppe Addamo, Cittadella, Bertoncello 1967.

L’Emilia e la Romagna: la cultura delle regioni, di Tommaso Di Salvo e Giuseppe Zagarrio; saggio introduttivo di Roberto Roversi, La Nuova Italia, Firenze 1970.

Materiale ferroso, note e appunti degli anni ’60 e ’70, ciclostilato in proprio, Bologna 1977.

Intervento in “Pierpaolo Pasolini e il Setaccio 1943/1945” (a cura di Mario Ricci), Cappelli, Bologna 1977.

«Officina» (1955-1959), a cura di Katia Migliorini, presentazione di Roberto Roversi; con interventi di Donatella Marchi e Gianni Scalia, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, Roma 1979.

Aretino, Pietro. I Ragionamenti. Premessa di Roberto Roversi, Savelli, Roma 1979.

Intervento in “La poesia in mostra”, quarantacinque autoritratti a voce alta, con un contributo di Roberto Roversi. A cura di Stefano Mecetti, Le Lettere, Firenze 1982.

Occhi di vetro occhi di legno. La tradizione burattinaia nella bassa reggiana, con Remo Meloni e Marco Fincardi, Diabasis, Bologna 1990.

La scoperta di Bologna, con Luciano Leonotti, L’inchiostroblu, Bologna 1991.

Quattro porte ai quattro venti: Pieve di Cento e la sua gente nelle fotografie di Giovanni Melloni, testo di Roberto Roversi; foto raccontate da Dafni Carletti, Cassa Rurale e Artigiana di Cento, Cento 1992 (poi Beccari, Stampa, San Giovanni in Persiceto 1996).

“La finestra si apre” di Teresio Zaninetti; con una nota critica di Roberto Roversi, Ligea, Catania 1994.

Prefazione a “Le radici della memoria” di Pietro Guberti, Edizioni del Leone, Spinea 1994.

Galileo: 1988-1994, di Eugenio Vitali, nota di Roberto Roversi, Edizioni del Girasole, Ravenna 1995.

Siamo andati sui monti più alti (versificazione delle lettere dei condannati a morte della Resistenza), Istituto storico della Resistenza e di storia contemporanea, Modena 1995.

«Rendiconti» n. 40 “Su Pier Paolo Pasolini”, numero monografico, Pendragon, Bologna 1996.

Il riso nel latte: un’estate di tanti anni fa: 1937, di Benny Faeti, nota di Roberto Roversi, Edizioni del Girasole, Ravenna 1997.

La carne e lo spirito. Poesia morale spirituale francese del Cinquecento, a cura di Davide Monda; premessa di Roberto Roversi; postfazione di Eva Rizzuti; collaborazione di Danilo Galletti, Il ponte vecchio, Cesena 1999.

Roversi: guardare, ascoltare, mescolare, in Scrivere, corso di scrittura creativa, Rizzoli, 15 gennaio 2000.

 

Trascrizioni in lingua

 

I bu. Poesie Romagnole di Tonino Guerra, Rizzoli, Milano 1972.

 

Testi per canzoni

 

Il giorno aveva cinque teste (disco con Lucio Dalla), L.P. R.C.A., Milano 1973.

Anidride solforosa (disco con Lucio Dalla), L.P. R.C.A., Milano 1975.

Il futuro dell’automobile (disco con Lucio Dalla), L.P. R.C.A., Milano 1976.

 

Collaborazioni principali

 

«Officina»

«Rendiconti»

«Nuovi Argomenti»

«Paragone»

«Quaderni Piacentini»

«Giovane Critica»

«Che Fare»

«Quasi»

«Libri Nuovi Einaudi»

«Rinascita»

«Le Porte»

«Il Manifesto»

«EnnErre»

«Il Filorosso»

 

 

 

Bibliografia Critica

 

F. Fortini, La poesia italiana di questi anni, in «Il Menabò» n. 2, 1960 (poi in Saggi italiani, Garzanti, Milano 1987).

E. Vittorini, Notizia su Roberto Roversi, in «Il Menabò» n. 2, 1960.

M. Lavagetto-E. Siciliano, Stile nuovo e tradizione, in «Palatina» n. 17, 1961.

G. Pampaloni, Tra l’antica e la nuova stagione di poesia, in «Aut Aut» n. 61-62, 1961.

P. Bonfiglioli, Errore e furore Dopo Campoformio, in «Palatina» n. 23-24, 1962.

A. Rossi, Zanzotto e Roversi, in «L’Approdo Letterario», gennaio-giugno 1962.

L. Baldacci, in “Il giornale del mattino, 10 maggio 1962.

F. Leonetti, L’ira di Roversi. Il disordine di Zanzotto. Generalità, in «Paragone» n. 152, agosto 1962.

G. Pampaloni, Il vagabondo Roversi e l’aristocratico Zanzotto, in «Epoca», 7 settembre 1962.

A. Debenedetti, in «Il Punto», 15 settembre 1962.

B. Pento, Roversi Dopo Campoformio, in «La Fiera Letteraria», 21 ottobre 1962.

M. Forti, Dopo Campoformio, in Le proposte della poesia, Mursia, Milano 1963 (poi in Le proposte della poesia ed altre proposte, Mursia, Milano 1971.

G. Zagarrio, La rabbia di Roversi, in «Quartiere» n. 15-16, giugno 1961.

O. Del Buono, Una felice contraddizione, in «Corriere d’Informazione» 10-11 giugno 1964.

E. Miccini, Ideologia, avanguardia ed altro in Leonetti e Roversi, in «Nuova Corrente» n. 34, autunno 1964.

M. Forti, Su alcuni nuovi romanzi, in «Aut Aut» n. 86, 1965.

B. Pento, Un tempo e un paese della terra, in «Letture di Poesia Contemporanea», Marzorati, Milano 1965.

G. Ferrara, I poeti e la storia del nostro tempo, in «Rinascita» 27 marzo 1965.

F. Fortini-G. Ceserano-G. Raboni, dibattito in «Paragone» n. 184, aprile 1965.

A. Romanò, Questioni di poesia, in «Paragone» n. 186, agosto 1965.

G. Barberi Squarotti, La cultura e la poesia italiana del dopoguerra, Cappelli, Bologna 1966.

G. Finzi, Adolfo è vivo, in Lo spirito del ’45, Giordano, Milano 1967.

G. Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea. 1945-1965, Editori Riuniti, Roma 1967.

G.C. Ferretti, La rabbia politica di Roversi, in «La letteratura del rifiuto», Mursia, Milano 1968.

G. Scalia, La questione dello sperimentalismo, in «Critica, letteratura, ideologia», Marsilio, Padova 1968.

M. Petrucciani, Idoli e domande della poesia e altri studi, Mursia, Milano 1969.

V. Riva, Il romanzo di un giovane inedito, in «L’Espresso», 24 maggio 1970.

G. Raboni, Il Vietnam di Roversi, in «Paragone» n. 242, 1970.

G. Zagarrio, Poesia fra editoria e ‘anti’, in «Il Ponte», Firenze 1970 (poi Celebes ed., Trapani 1971).

G. Zagarrio, L’eppure di Roversi, in «Quasi» n. 1, maggio-agosto 1971.

A. Asor Rosa, Sintesi di una storia della letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze 1972.

G. Manacorda, Roberto Roversi, in Vent’anni di pazienza, La Nuova Italia, Firenze 1972.

F. Camon, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973.

W. Pedullà, Il linguaggio di Roversi allena alla disperazione, in La letteratura del benessere, Bulzoni, Roma 1973.

Romano Luperini, Marxismo e intellettuali, Marsilio, Venezia-Padova 1974.

G. Zagarrio, Letteratura italiana. I Contemporanei, vol. IV, Marzorati, Milano 1974 (Poi II edizione, Marzorati, Milano 1979).

G.C. Ferretti, «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, Einaudi, Torino 1975.

M.L. Serini, Com’era bella la nostra «Officina», in «L’Espresso» 1975.

G. Raboni, Roversi dentro alla materia e Il Vietnam di Roversi, in Poesia degli anni ’60, Editori Riuniti, Roma 1976.

F. Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, Bari 1976.

F. Fortini-F. Leonetti-G.C. Ferretti, Materiali: dibattito su «Officina», in «Aut Aut» n. 54, 1976.

S. Ramat, L’elementare politico di Roversi, in Storia della poesia italiana del Novecento, Mursia, Milano 1976.

F. Ferrarotti, Gli anni di «Officina», in «Paese Sera Libri», 11 giugno 1976.

L. Caruso-S.M. Marini, «Officina», in «Dettagli» n. 1, 1976.

L. Caruso, Roberto Roversi, in Scritti in onore di C. Carbonara, Giannini, Napoli 1976.

E. Piemontese, Mostri e simboli di Roversi, in «Paese Sera Libri», 11 giugno 1976.

M. Cucchi, Privato e politico, in «L’Unità», 26 giugno 1976.

A. Altomonte, I diecimila cavalli, in «Il Tempo», 15 maggio 1976.

M. Spinella, Il fuoco e la neve, in «Rinascita», 19 marzo 1976.

M. Lunetta, Teatrale e simbolico, in «Il Messaggero», 24 marzo 1976.

G. Scalia-P. Valesio, in Lucio Dalla Il futuro dell’automobile dell’anidride solforosa e di altre cose, Savelli, Roma 1977.

L. Caruso-S.M. Marini, Roversi, La Nuova Italia, Firenze 1978.

G.C. Ferretti, Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino 1979.

G. Finzi, in Gelli-Lagorio, 1980.

R. Luperini, Il neosperimentalismo tra «Officina» e «Il Menabò»: Roversi, Leonetti e Volponi,in Il Novecento, vol. II, Loescher, Torino 1981.

G. Borghello, Due dibattiti di «Rinascita»: Autonomia della letteratura e Poetica sociale, in Linea rossa. Intellettuali, letteratura e lotta di classe 1965-1975, Marsilio, Venezia 1982.

G. Zagarrio, Le Descrizioni in atto di Roversi, in Febbre, furore e fiele: repertorio della poesia italiana contemporanea (1970-1980), Mursia, Milano 1983.

F. Graziano, R. Roversi: esemplarità attiva di un intellettuale del nostro tempo fra poesia e narrativa, in «Periferia», settembre-dicembre 1983.

G. Manacorda, Letteratura italiana d’oggi. 1965-1985, Editori Riuniti, Roma 1987.

G. Raboni, Poeti del secondo Novecento, in Storia della letteratura italiana: Il Novecento, Garzanti, Milano 1987.

S. Ramat, I sogni di Costantino, Mursia, Milano 1988.

G.M. Anselmi-A. Bertoni, L’Emilia e la Romagna, in Letteratura Italiana. Storia e geografia, diretta da Asor Rosa, vol. III: L’età contemporanea, Einaudi, Torino 1989.

G. D’Elia, L’Italia sepolta sotto la neve, in «Poesia», novembre 1989.

G. D’Elia (a cura di), Conversazione in atto, intervista in «Lengua», n. 10, 1990.

G. Spagnoletti, Letteratura italiana del Novecento, Newton Compton, Roma 1994.

A. Berardinelli, Letterati e letteratura degli anni ’60, in Storia dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino 1995.

V. Viola, in Krumm-Rossi 1995.

M. Motta, Roberto Roversi, in «Italianistica», gennaio-aprile 1995.

M. Cucchi-S. Giovanardi (a cura di), in Poeti italiani del secondo Novecento 1945-1995, Mondadori, Milano 1996.

AA. VV., Quaderni di critica. Volponi e la scrittura materialistica, Lithos, Roma 1998.

M. Raffelli, La bottega di Roversi, in «Il Manifesto», 24 giugno 1998.

G. Muraca, Utopisti ed eretici nella letteratura italiana contemporanea, Rubbettino editore, 1999.

S. Luciani, La pazienza “cauta e astuta” di Roversi, in «Allegoria» n. 33, settembre-dicembre 1999.

N. Borsellino-W. Pedullà (a cura di), Storia generale della letteratura italiana, vol. XII, Federico Motta editore, Milano 1999.

***

 

 

NOTE

 

1          A. Romanò, in Questioni di poesia, «Paragone Letteratura», agosto 1965, p. 124.

2          R. Roversi, in Roversi, a cura di Luciano Caruso e Stelio M. Marini, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 1.

3          R. Roversi, in Notizia su Roberto Roversi, a cura di Elio Vittorini, «Il Menabò», n. 2, Einaudi, Torino 1960, p. 100.

4          R. Roversi, ibidem.

5          R. Roversi, ibidem.

6          R. Roversi, intervista in «L’Unità», 19 giugno 1966.

7          R. Roversi, in Conversazione in atto, a cura di Gianni D’Elia, in «Lengua» n. 10, 1990, p. 22.

8          R. Roversi, ibidem.

9          R. Roversi, in Notizia su Roberto Roversi, a cura di Elio Vittorini, «Il Menabò», n. 2, 1960, p. 101.

10              R. Roversi, ibidem.

11         R. Roversi, ibidem.

12         G. Zagarrio, in Letteratura italiana del Novecento. I contemporanei, a cura di Gianni Grana, Marzorati, Milano 1979, p. 8704.

13         G. Zagarrio, ibidem, p. 8705.

14         G. Zagarrio, ibidem, p. 8076.

15         R. Roversi, in «Officina» (1955-1959), a cura di Katia Migliorini, Edizioni dell’Ateneo e Bizzarri, Roma 1978.

16         R. Roversi, in «Officina». Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, a cura di G. C. Ferretti, Einaudi, Torino 1975, p. 478.

17         R. Roversi, ibidem.

18         R. Roversi, ibidem, p. 48.

19         R. Roversi, in F. Camon, Il Mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973, pp. 164-165.

20         L. Caruso e S. M. Martini, Roversi, La Nuova Italia, Firenze 1978, pp. 45-46.

21         R. Roversi, ibidem, p. 36.

22         R. Roversi, ibidem.

23         R. Roversi, Conversazione in atto, a cura di Gianni D’Elia, in «Lengua» n. 10, 1990, p. 40.

24              M. Forti, Le proposte della poesia, Mursia, Milano 1963, p. 254.

25         R. Roversi, Dopo Campoformio, Feltrinelli, Milano 1962.

26         R. Roversi, in 7 domande sulla poesia, «Nuovi Argomenti», marzo-giugno 1962.

27         R. Roversi, La settima zavorra, in «Rendiconti» n. 4-6, novembre 1962, p. 135.

28              R. Roversi, in F. Camon, Il mestiere di scrittore,Garzanti, Milano 1973, p. 172.

29         R. Roversi, in Interventi, «Paragone Letteratura» n. 182, 1965, p. 115.

30         R. Roversi, L’angoscia genera i pidocchi, in «Rinascita» n. 44, 10 novembre 1967, p. 14.

31         R. Roversi, intervista in «L’Unità», 19 giugno 1966.

32         R. Roversi, Il codice operativo. Autunno 1966, in «Giovane Critica», autunno 1966.

33         R. Roversi, Il ’68 dell’immaginazione, in «EnnErre» n. 9, 1998, p. 13.

34         R. Roversi, ibidem.

35         L. Caruso, S.M. Martini, in Roversi, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 67.

36         R. Roversi, Interventi, in «Paragone Letteratura» n. 182, 1965.

37         R. Roversi, in «Salvo Imprevisti» n. 6, 1973.

38         R. Roversi, in F. Camon, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973, p. 170.

39         R. Roversi, in Enzo re. Tempo viene chi sale e chi discende, Il Battello Ebbro, Bologna 1997, p. 202.

40         R. Roversi, Conversazione in atto a cura di Gianni D’Elia, in «Lengua» n. 10, 1990, p. 46.

41         R. Roversi, conversazione introduttiva a I Diecimila cavalli, Editori Riuniti, Roma 1976, p. XX.

42         R. Roversi, in «Le Porte» n. 1, 1981.

43         R. Roversi, Cento poesie, in «Il Cerchio di Gesso» n. 3, maggio 1978, p. 1.

44         R. Roversi, Kultur, in «EnnErre» n. 6, 1997, p. 7.

45         R. Roversi, Conversazione in atto, a cura di Gianni D’Elia, in «Lengua» n. 10, 1990, p. 52.

46              R. Roversi, in Roversi, a cura di L. Caruso e S.M. Martini, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 1.

47              R. Roversi, in Conversazione in atto a cura di G. D’Elia, «Lengua» n. 10, 1990, pp. 40-41.

48              Poesie 1942, Rime 1943, con Landi; Ai tempi di re Gioacchino, 1952, nella sua libreria Palmaverde e Poesie per l’amatore di stampe, 1954, con Sciascia.

49              F. Leonetti, Notizia su Roberto Roversi, a cura di E. Vittorini, in «Il Menabò» n. 2, 1960, p. 100.

50              E. Vittorini, ibidem, p. 100.

51              R. Roversi, ibidem.

52              F. Leonetti, ibidem, p. 100.

53              E. Vittorini, ibidem, p. 101.

54              F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni, ibidem p. 107.

55              F. Fortini, ibidem.

56              G. Pampaloni, Tra l’antica e una nuova stagione di poesia, in «Aut Aut» n. 61-62, gennaio-marzo 1961, p. 22.

57              G. Pampaloni, ibidem, p. 24.

58              M. Lavagetto-E. Siciliano, Stile nuovo e tradizione, in «Palatina» n. 17, gennaio-marzo 1961, p. 47.

59              P. Bonfiglioli, Errore e furore dopo Campoformio, in «Palatina» n. 23-24, 1962, p. 45.

60              R. Roversi, Dopo Campoformio, Feltrinelli 1962.

61              R. Roversi, ibidem.

62              P. Bonfiglioli, in «Palatina», n. 23-24, 1962, p. 50.

63              P. Bonfiglioli, ibidem, p. 50.

64              G. Scalia, Critica, letteratura, ideologia, Marsilio, Padova 1968.

65              G. Scalia, ibidem, pp. 236-237.

66              G. Pampaloni, Il vagabondo Roversi e l’aristocratico Zanzotto, in «Epoca», 7 ottobre 1962, p. 112.

67              G. Pampaloni, ibidem.

68              B. Pento, Roversi dopo Campoformio, in «La Fiera Letteraria» 21 ottobre 1962, p. 2.

69              B. Pento, ibidem.

70              B. Pento, ibidem.

71              A. Rossi, Zanzotto e Roversi,in «L’Approdo Letterario», n. 17-18, gennaio-giugno 1962.

72              A. Rossi, ibidem, p. 192.

73              A. Rossi, ibidem.

74              A. Rossi, ibidem.

75              M. Forti, Le proposte della poesia, Mursia, Milano 1963.

76              M. Forti, ibidem, p. 254.

77              R. Roversi, Dopo Campoformio, Einaudi, Torino 1965.

78              M. Forti, Su alcuni nuovi romanzi, in «Aut Aut» n. 86, marzo 1965, p. 46.

79              W. Pedullà, La letteratura del benessere, Bulzoni, Roma 1973.

80              G. Barberi Squarotti, La cultura e la poesia italiana del dopoguerra, Cappelli, Bologna 1966.

81              G. Barberi Squarotti, ibidem, p. 177.

82              R. Roversi, La settima zavorra, in «Rendiconti» n. 4-6, novembre 1962.

83              G. Zagarrio La rabbia di Roversi,in «Quartiere» n. 15-16, giugno 1963, p. 8.

84              G. Zagarrio, ibidem.

85              G. Zagarrio, ibidem, p. 10.

86              G. Zagarrio, ibidem.

87              Poi in Febbre, furore e fiele, Mursia, Milano 1983.

88              G. Zagarrio, Febbre, furore e fiele, Mursia, Milano 1983, p 391.

89              G. Zagarrio, ibidem.

90              G. Zagarrio, ibidem, p. 393.

91              G. Zagarrio, ibidem, p. 397.

92              G. Zagarrio, in «Quartiere» n. 15-16, giugno 1963, p. 11.

93              R. Roversi, Interventi,in «Paragone Letteratura» n. 182, 1965, p. 115.

94              R. Roversi, ibidem, p. 116.

95              F. Fortini, ibidem, p. 117.

96              F. Fortini, ibidem.

97              F. Fortini, ibidem.

98              R. Roversi, in F. Camon, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973.

99              F. Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, Bari 1976.

100            F. Fortini, ibidem, p. 193.

101            G. Cesarano e G. Raboni, Interventi,in «Paragone Letteratura» n. 182, 1965, p. 122.

102            G. Cesarano e G. Raboni, ibidem.

103            G. Cesarano e G. Raboni, ibidem.

104            O. del Buono, Una felice contraddizione,in «Corriere d’Informazione» 10-12 giugno 1964.

105            G. Cesarano e G. Raboni, Interventi, in «Paragone Letteratura» n 182, 1965, p. 123.

106            A. Romanò, Questioni di poesia,in «Paragone Letteratura» n. 186, 1965, p. 124.

107            A. Romanò, ibidem.

108            G. C. Ferretti, La letteratura del rifiuto, Mursia Milano 1968.

109            G. C. Ferretti, ibidem, p. 235.

110            G. Ferrata, I poeti e la storia del nostro tempo,in «Rinascita» 27 marzo 1965, p. 20.

111            G. Ferrata, ibidem.

112            Unterdenlinden, Rizzoli, Milano 1965, Il crack, in «Il Sipario» n. 275 marzo 1969, La macchina da guerra più formidabile, in «I Quaderni del C.U.T.» n. 9, 1971 e Tempo viene chi sale e chi discende, ciclostilato in proprio, Milano 1975, poi in forma ridotta come Enzo re, in «I Quaderni del C.U.T.», 1980.

113            R. Roversi, Conversazione in atto,a cura di G. D’Elia, in «Lengua» n. 10, 1990, p. 52.

114            G. Finzi, Lo spirito del ’45, Giordano Milano 1967.

115            G. Finzi, ibidem, p. 213.

116            G. Finzi, ibidem, p. 216.

117            G. Manacorda, Vent’anni di pazienza, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 407.

118            G. Raboni, Il Vietnam di Roversi,in «Paragone Letteratura» n. 242, 1970.

119            R. Roversi, L’angoscia genera i pidocchi, in «Rinascita» n. 44, 10 novembre 1967, pp. 13-14.

120            R. Roversi, ibidem.

121            G. Borghello, Linea rossa. Intellettuali, Letteratura e lotta di classe,Marsilio, Padova 1982.

122            R. Roversi, Conversazione in atto, a cura di G. D’Elia, in «Lengua» n. 10, 10 novembre 1990, pp. 29-30.

123            V. Riva, Il romanzo di un giovane inedito,in «L’Espresso», 27 maggio 1970, p. 15.

124            G. Raboni, Il Vietnam di Roversi,in «Paragone Letteratura» n. 242, aprile 1970.

125            G. Raboni, ibidem, p. 118.

126            G. Raboni, ibidem, p. 119.

127            G. Manacorda, Vent’anni di pazienza,La Nuova Italia, Firenze 1972.

128            G. Manacorda, ibidem, p. 407.

129            G. Manacorda, ibidem.

130            G.C. Ferretti, Il mercato delle lettere,Einaudi, Torino 1979.

131            G.C. Ferretti, ibidem, pp. 203-204.

132            G.C. Ferretti, ibidem, p. 233.

133            G.C. Ferretti, ibidem, p. 234.

134            G.C. Ferretti, ibidem, p. 235.

135            G.C. Ferretti, ibidem.

136            R. Roversi, La macchina da guerra più formidabile, «I Quaderni del C.U.T.», n. 9, Bari 1971.

137            R. Roversi, I diecimila cavalli, Editori Riuniti, Roma 1976.

138            G.C. Ferretti, Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino 1979, pp. 237-238.

139            G.C. Ferretti, ibidem, p. 239.

140            M. Spinella, Il fuoco e la neve. in «Rinascita» n. 12, 19 marzo 1976, p. 23.

141            M. Spinella, ibidem.

142            M. Spinella, ibidem, p. 24.

143            M. Lunetta, Teatrale e simbolico, in «Il Messaggero», 24 marzo 1976, p. 13.

144            F. Piemontese, Mostri e simboli di Roversi,in Paese Sera Libri, 11 giugno 1976, p. 1.

145            F. Piemontese, ibidem p. 4.

146            S. Ramat, I Sogni di Costantino,Mursia Milano 1988.

147            G. Manacorda, Storia della letteratura italiana contemporanea. 1945-1995, Editori Riuniti, Roma 1996.

148            M. Cucchi e S. Giovanardi, Poeti italiani del secondo Novecento. 1945-1995, Mondadori, Milano 1996.

149            S. Luciani, La pazienza ‘cauta e astuta’ di Roversi,in allegoria n. 33, settembre-dicembre 1999, p. 231.

150            S. Luciani, ibidem.

151            S. Luciani, ibidem, p. 236.

152            G. Murraca, Utopisti ed eretici nella letteratura italiana contemporanea, Rubbettino editore, 1999.

153            L. Caruso e S.M. Marini, Roversi, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 91.

154            A. Motta, Roberto Roversi, in «Italianistica», gennaio-aprile 1995, p. 218.

155            A. Motta, ibidem.

156            G. D’Elia, L’Italia sepolta sotto la neve, in «Poesia» n. 11, novembre 1989, p. 67.

157            G. D’Elia, ibidem.

158            G. D’Elia, ibidem, p. 68.

159            R. Roversi, Conversazione in atto,a cura di G. D’Elia, in «Lengua» n. 10, 1990, p. 18.

160            AA. VV. La costellazione della scrittura materialistica, in Volponi e la scrittura materialistica, Lithos, Roma 1998, pp. 29-30.

161            R. Roversi, Il codice operativo. Autunno 1966, in «Giovane Critica», n. 31-32, 1972, p. 40.

162            R. Roversi, Mare, tempesta. Poi travi, frammenti di tavole, porte. E parole, pensieri, in «Rendiconti» n. 31, luglio 1992, p. 6.

163            R. Roversi, Kultur,in «EnnErre» n. 6, 1997, p. 7.

164            R. Roversi, ibidem, p. 8.

165            R. Roversi, ibidem, pp. 11-12.

166            R. Roversi, ibidem.

167            R. Roversi, ibidem, p. 11.

168            R. Roversi, in «Rendiconti» n. 31, luglio 1992, p. 6.

169            G. Zagarrio, La rabbia di Roversi, in «Quartiere» n. 15-16, giugno 1963, p. 8.

170            R. Roversi, ibidem, p. 8.

171            R. Roversi, Kultur, in «EnnErre» n. 9, 1997, p. 8.

172            R. Roversi, L’Italia sepolta sotto la neve, Il girasole edizioni, Catania 1989, p. 57.

173            Sommario de “L’Italia sepolta sotto la neve”.

            Premessa [1-81]: Il tempo getta le piastre nel Lete. Roma, Nordsee, 1984.

            Parte prima [82-163]: Fuga dei sette re prigionieri.

            Parte seconda [164-245]: La Natura, La Morte e il Tempo osservano le Parche.

            Parte terza [246-327]: Astolfo trasforma i sassi in cavalli.

            Parte quarta [328-409]: Adler-Stey show: spettacolari sensazioni.

174            R. Roversi, in S.M. Marini, L. Caruso, Roversi, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 38.

175            R. Roversi, in Scrivere. Corso di scrittura creativa, Rizzoli, Milano 15 gennaio 2000, p. 150.

176            R. Roversi, ibidem.

177            R. Roversi, L’Italia sepolta sotto la neve, Nordsee, Alpha Beta, Bologna 1984.

178            A. Motta, Roberto Roversi, in «Italianistica» gennaio-aprile 1995, p. 218.

179            R. Roversi, Mare, tempesta. Poi travi, frammenti di tavole, porte. E parole, pensieri,in «Rendiconti» n. 31, luglio 1992, p. 9.

180            G. D’Elia, L’Italia sepolta sotto la neve di Roberto Roversi, in «Poesia» n. 11, novembre 1989, p. 67.

181            R. Roversi, in S.M. Martini, L. Caruso, Roversi, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 1.

182            R. Roversi, in Scrivere. Corso di scrittura creativa, Rizzoli, Milano 15 gennaio 2000, p. 151.

183            G. D’Elia, L’Italia sepolta sotto la neve di Roberto Roversi, in «Poesia» n. 11, novembre 1989, p. 67.

184            G. D’Elia, ibidem, p. 68.

185            G. D’Elia, ibidem.

186            R. Roversi, in Conversazione in atto, a cura di G. D’Elia, in «Lengua» n. 10, 1990, p. 37.

187            R. Roversi, ibidem, p. 42.

188            G. D’Elia, L’Italia sepolta sotto la neve di Roberto Roversi, in «Poesia» n. 11, novembre 1989, p. 68.

189            G. D’Elia, ibidem, p. 67.

190            R. Roversi in Conversazione in atto,a cura di G. D’Elia, «Lengua» n. 10, 1990, p. 41.

191            R. Roversi, Il codice operativo. Autunno 1966, in «Giovane Critica» n. 31-32, 1972.

192            G. Zagarrio, L’eppure di Roversi, in «Quasi» n. 1. maggio-agosto 1971.

193            R. Roversi, I diecimila cavalli, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 197.

194            R. Roversi, Mare, tempesta. Poi travi frammenti di tavole, porte. E parole, pensieri, in «Rendiconti» n. 31, luglio 1992, p. 4.

195            R. Roversi, ibidem, p. 9.

196            R. Roversi, ibidem, p. 6.

197            R. Roversi Arance bruciate in vulcani affamati di cielo, in «Il Filorosso» n. 26, gennaio-giugno 1999, p. 28.

198            R. Roversi, Mare, tempesta. Poi travi frammenti di tavole, porte. E parole, pensieri, in «Rendiconti» n. 31, luglio 1992, p. 3.

199            R. Roversi, in Siamo andati sui monti più alti, Istituto storico della Resistenza e di Storia contemporanea, Modena aprile 1995.

200            R. Roversi, Mare, tempesta. Poi travi, frammenti di tavole, porte. E parole, pensieri,in «Rendiconti», n. 31, luglio 1992, p. 9.

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Autore: Carlo Ruggiero
  • Tipologia di testo: tesi di laurea
  • Testata: Università degli Studi di Roma, “La Sapienza”, Facoltà di lettere e filosofia
  • Anno di pubblicazione: Anno accademico 1999/2000
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