Non la pungono le api?
Giorno d’estate, non propriamente il 21 giugno. È luglio, è agosto.
Il 1997, lo annunciano le trombe del cielo, è un anno strizzato come il budello di un porco appena macellato ma è un anno che non si è dimenticato di lasciare cantare la gente, almeno un poco, afferrandola in gola. Le ore dieci di un mattino.
Forse le ore undici di un mattino di questo giorno d’estate.
Davvero si può cantare nell’anno Novantasette?
Come, chi, dove, perché?
La ragazza esce dalla villa.
Qualcuno può sentire il fischio sui cardini del cancello, un’opera artigiana lavorata fitta fitta a fuoco lento e oggi da oliare.
Ma dove si trovano in giro persone che sanno dare olio ai cancelli, in questi tempi?
Olio ai congegni arrugginiti, olio alle vecchie maniglie, olio alle giunture contorte?
Dove le persone per un libero lavoro di oliatura dei congegni che stridono?
E si può, anzi si deve aggiungere: dove si vedono prati belli liberi naturali e bene oliati dal cielo per nostro conforto?
Questi prati bisogna cercarli con la pazienza del tempo, perché non si possono mettere nel mazzo delle carte buone quei praticelli lustrati con la zappetta, larghi appena una mano, che sembrano poltiglia di plastica e si sciolgono e dispaiono al primo colpo dell’inverno… la ragazza si ferma vicino a un cespo di rose selvatiche… inoltre i pochi prati superstiti, scampati al pranzo dei magnaccia edilizi (massacro di ossa e di foglie) anche se incerottati da sembrare soldati appena sfuggiti a una micidiale imboscata, bene, questi prati che si contano sulle dita sono corruschi.
La ragazza regge in mano qualcosa. E cammina. Corruschi?
Corruschi, corruschi. Un prato corrusco è fosco, è brusco. Come questo che la ragazza ha davanti agli occhi, da cima a fondo.
Ma corrusco, cioè splendente, non è lo scudo che Achille sbandierava sotto le mura di Troia, per incutere affanno al solo annunciarsi?
È forse uno spiedo di fulgore il prato qui presente?
Non lo è. Non si può affermarlo.
È fosco, sì. È brusco, sì. Ma certo non è corrusco. Con fiori gialli che si agitano tarantolati e le quattro farfalle indispettite che sono pronte a scappare via dalla collina, verso la pianura. Verso la città dai tetti d’oro.
Il prato non splende, non è corrusco. È un prato dimenticato, su cui va a rintanarsi il sole quando ha il fiato corto per la corsa e sta ansimando.
Perché il sole, anche lui, è vecchio.
Sopra al prato ronzano nuvole leggere che alle volte si aprono e lo coprono, questo sole, mentre disarmato riposa; lasciandolo freddo.
Ma il sole, sempre all’erta nonostante il sonno, apre un occhio e zac! sforbicia via le nuvole maldestre e torna a ricaricarsi di luce, come libero esercizio contro l’infame violenza della vita.
Anche il prato si danna per tenersi vivo succhiando aria dal cielo e dalle nubi. Perché ha bisogno di progredire e salvarsi, ogni ora del giorno e della notte. E di mantenere il suo ruolo.
Infatti declina dall’alto al basso, avendo, davanti, la pianura, rosso ventre di una balena squarciata; sul lato destro, un bosco che va a perdersi lontano, sovrastato da uccelli d’argento in un volo senza grida; e sul lato sinistro, fra gli alberi, tre case sporche di bianco, con i mattoni e l’intonaco dei muri crepati.
Sulla parte alta, oltre il filo impolverato di una strada, sta la villa da cui è appena uscita la ragazza.
La ragazza, in vacanza, è libera e in questo momento, felice.
Al di là del cancello si sentono voci, liberi suoni. Nessun cane, a testimoniare di una vita sicura.
La ragazza scende leggera sul prato.
Gli occhi del cielo seguono cauti le sue orme.
Did diceva… diceva… ah, sì! Did, il favoloso Did ha fatto esclamare al suo Jacques, fatalista arlecchino, che tutto quello che capita quaggiù è scritto lassù; inteso non come un dio imbronciato che se ne sta seduto per dannarci, in qualche modo; ma come un destino dai mille colori che ci riempie di penne e di pene.
Così, se lo ha scritto Denis bisogna credergli e stare attenti, molto attenti a quel che si scrive.
A quello che si legge.
A quello che si dice.
Mentre la ragazza che ha un nome gentile continua ad avanzare sul prato, dalla seconda casa bianca, a destra, fra gli alberi, esce un ragazzo che inforca la bicicletta appoggiata al muro si avvicina al prato è già sul prato.
La ragazza ha una valigetta stretta in mano.
Il ragazzo la vede, sta per fermarsi, poi si allontana.
Lei sceglie un posto sull’erba fra alcuni fiori.
Il ragazzo, affondato nell’inchiostro del bosco, non è mai esistito. Lei l’ha appena sfiorato.
Si accovaccia, sistema sopra l’erba piatta la valigetta rosso sangue di un vecchio grammofono trovato in un granaio coperto di polvere insieme a un mucchietto di dischi con la targhetta della Voce del Padrone e l’immagine di un cane bianco seduto ad ascoltare.
La ragazza ha tutto ripulito, ha anche lucidato.
Fa caldo. Alcune nuvole sporche si affacciano sopra la pianura.
I fiori si scuotono. Altri fiori dormono. L’erba intera riposa.
La ragazza alza il coperchio della valigetta gira la manovella per caricare il congegno appoggia sul piatto un disco e si alza un suono si alza un canto:
Sulla radura quaranta sorelle
facevano quiete la loro merenda,
i candidi veli si alzavano al vento
scherzando con l’erba felice del gioco.
Poco distanti quaranta soldati
pulivano assorti i loro fucili,
con gesto preciso tendevano il braccio
stringendo le dita sul collo dell’arma.
Un cacciatore ansioso di preda
esplose uno sparo mettendoli in fuga,
cambiando il destino a ottanta infelici,
quaranta soldati, quaranta sorelle.
Sulla radura giacciono infatti
quaranta fucili e poche ciliegie:
quaranta soldati, quaranta sorelle
fuggirono insieme cercando fortuna.
Dal bosco riaffiora il ragazzo come dal mare, il ragazzo che ancora pedala.
Si ferma in mezzo al prato.
Ascolta.
Alla fine della canzone lascia cadere la bicicletta sull’erba.
Si avvicina.
“È bella ‒ dice ‒ cos’era?”.
“Una canzone” risponde la ragazza senza guardarlo.
Il ragazzo siede davanti a lei.
In mezzo, tra loro, il grammofono rosso.
“Lo so che era una canzone, ma cosa?”.
La ragazza solleva il disco dal piatto e lo allunga: “Leggilo tu, se vuoi”.
Il ragazzo rigira il disco fra le mani e lo restituisce sgarbatamente: “Devi dirmelo tu… io non capisco… io leggo male”.
Nel cielo passa un aliante azzurro, così leggero che non scuote neanche un fiore.
“Suonane un’altra, di canzone”. La voce del ragazzo si è incupita.
“Dai! Un’altra canzone”.
La ragazza indecisa sceglie adagio un disco.
Prima di appoggiarlo sul piatto lo accarezza con la mano per togliere la polvere. Si accende il suono, s’alza una voce:
Ci piggiaru ’a fimminedda
drittu drittu ’ntra lu cori
e chiancia di duluri
aya, aya, aya, ya!
Il ragazzo balza in piedi, come sorpreso da un pensiero. Poi torna a sedere.
Dice: “Questa canzone non mi piace, è da buttare”; agita la mano e tocca senza volere la puntina che scivola sul disco tracciando un solco.
Il suono si ingarbuglia, si arresta.
Il ragazzo non sa cosa fare, cosa dire.
La ragazza, bloccato il movimento, osserva il guasto.
“E un disco rovinato” dice.
“Lo ripago io” afferma il ragazzo, per un momento mortificato ma adesso irritato.
“Era vecchio, un altro non si trova, come puoi ripagarlo?”.
“Lo ripago e basta”. Il ragazzo ha un brivido caldo nel pensiero, perché diverse risposte si stanno scontrando nella sua testa.
Infine sembra tornato deciso.
“Alzati e vieni con me. Per poco tempo”.
La ragazza resta seduta, lo guarda.
Lui insiste: “Entriamo e usciamo dal bosco. È un momento”.
“No, non vengo nel bosco. Neanche ti conosco”.
“Sto nella casa bianca, fra gli alberi. Adesso mi conosci”. Un momento di indecisione poi: “Ti faccio vedere una cosa. Una cosa che neanche ci pensi. Sei la prima ma te lo voglio dire, a te posso dirlo. Dopo, forse sei contenta e capisci come posso pagare. Devi avere fiducia”.
La ragazza alzandosi si scrolla la gonna. “Puoi venire sicura”. La voce è più tranquilla, morbida. Non ordina ma semplicemente invita. Quasi una preghiera. La ragazza si sente rassicurata, dice: “Ma solo per un minuto. Il bosco non mi piace”.
“Il bosco è vero che è scuro ‒ dice il ragazzo mentre si avviano ‒ ma per me è soltanto un’ombra che cammina. Non sei mai solo, sei sempre in compagnia. Le cose girano lì dentro, tanti animali, voci, tutto si muove. Anche una foglia per terra fa rumore. Lo so bene, perché nel bosco ci vado ogni giorno, quasi ci vivo. Quando poi c’è la neve, allora il bosco è come sognarlo”.
Sono entrati in mezzo al disordinato ordine degli alberi. Un bosco è sempre in attesa dell’ultima folgore, dell’ultimo incendio, dell’ultimo grido o dell’ultimo sole. Gli alberi sono lì senza lacrime, pronti a rientrare, risucchiati, nel grembo della terra che non ha pace; e non ha ancora amore.
Camminano in mezzo alle saette spettacolose del sole che riesce ad aprirsi piccole finestre nell’ombra.
Alle volte, il rumore degli uccelli che balzano in volo strappandosi le penne è così forte e improvviso, da fare paura.
Il ragazzo alza la mano, parla a voce bassa, un bisbiglio: “Fermati”. Poi ordina: “Non muoverti”. Si allontana. Arriva laggiù a un cumulo di sterpi, di rovi; si protende e si vede che parla con qualcuno.
Si volta e adagio ritorna.
“Hai visto?”.
“Cosa?”. La ragazza è sospesa in una curiosa incertezza.
“Che parlavo con uno… anzi, con una”.
“Una donna dietro gli sterpi?”.
“Sotto, devi dire. Una donna, una vecchia”.
“In quel posto? Perché?”.
“È dentro una buca e lì deve restare”.
“Perché?”.
Il giovane s’avvia, la ragazza lo segue guardando per terra, indecisa.
“Perché deve restare dentro quella buca?”.
“Perché è vecchia”.
“Solo perché è vecchia?”.
“Perché è ricca. Tanto ricca. Così l’hanno rubata”.
“Tu?”.
Il ragazzo ride. “Io devo fare poco, solo andare due volte al giorno a vedere se respira ancora, se non è morta. A mezzogiorno uno porta il pane”.
“Solo pane?”.
“Forse pane, forse formaggio. Non sono il suo cameriere. Vuoi vederla?”.
“Ho paura”.
“È legata. È dentro una buca. È coperta di stecchi, di foglie. Una donna vecchia. Puoi toccarla, se vuoi”.
“Ho paura”.
“In mezzo ai topi non è stare bene. Hai ragione. Io non resisterei”.
Escono dal bosco.
Il cielo, all’improvviso, è oscurato da nuvole che sono arrivate spinte da un vento caldo della pianura.
Il ragazzo si mette a cantare, urla come se volesse liberarsi: “In una buca in mezzo al mar, vecchia vecchiaccia devi restar”.
Intanto risalgono il prato.
Si rivolge alla ragazza toccandole un braccio per tenerla vicino: “Adesso hai capito perché posso pagarti il disco, cento dischi? Mille dischi? È un lavoro che mi dà dei soldi, un sacco. È vivere da signori… Mi dai un bacio?”.
Lei non risponde, cammina. Forse pioverà. Vuole tornare a casa. Si china, chiude la valigetta, prende i dischi, si rimette in moto.
Il ragazzo la segue.
Cadono alcune gocce.
La ragazza chiede: “E quella là non vai a coprirla, se piove?”.
Il ragazzo fa un gesto vago: “È coperta, è coperta. E poi, non ci devo pensare io. La vecchia è all’addiaccio ma io nel letto giaccio”.
Affrettano il passo.
Il ragazzo, all’improvviso, stringendo il filo di un pensiero: “Forse si bagna, ma è in compagnia, non è mica sola. Girano tante cose nel bosco, e anche dentro la buca”.
Ormai sono vicini al cancello della villa.
Lui chiede: “Ci vediamo, domani?”.
“Non lo so, non posso saperlo”.
“Se vieni, facciamo sentire la musica alla vecchia. Andiamo più vicini, così accontentiamo anche lei”.
“Forse devo andare in città”.
“Domani, mi dai un bacio?”.
La ragazza apre il cancello che stride sulle giunture come un vecchio soldato appena ferito a morte.
Ma chi olia più i cardini ai nostri giorni?
Fatti alcuni passi, lei volta la testa: “Laggiù in basso, sotto quelle erbacce, non la pungono le api?”.
Si avvia, comincia a piovere.
Il ragazzo, con la faccia appoggiata alle sbarre, sembra un prigioniero che guarda il sole allontanarsi mentre il mondo si scompagna e la notte è senza un vero tramonto. Intanto si bagna, si bagna, si bagna.
EnnErre, n. 10, I, 1999 (poi in Il timone 2, 2008).
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: racconti
- Testata: EnnErre (poi in Il timone 2, 2008)
- Anno di pubblicazione: n. 10, I, 1999