Poesie per l’amatore di stampe
Ritratto del vecchio Celso
Il suo viso è di bronzo
come i vasi cavati dalle tombe.
Dicono che Celso è avido, spietato
ma io lo vidi piangere, una sera,
all’urlo di mio figlio
trafitto dalla vespa.
So che alla notte sale per il viottolo
e poi si getta nell’orto, a rubare
i meloni ormai gialli o i pomidori;
all’alba spaventa l’usignolo
con la sua voce secca:
«Il ladro è venuto, il figlio di puttana
ha rubato le fragili cipolle
e l’orto è devastato»
– il grido rimbalza nel mattino
fresco e violento come una frustata.
Io che vidi il vecchio corpo inchinarsi
fra i tralicci dell’orto
e la sua ombra sfiorata
dal grigio lume della luna,
so che si deve a Celso perdonare.
Nelle sere d’estate
siede sull’erba, immobile, a guardare
il cielo. Dice: «Sono disgraziato»
e nella voce trema una terribile
malinconia. Dice: «Io sono vecchio
e morirò quando la terra grida
al passo di lupo dell’inverno.
All’inverno non voglio morire,
solo, come l’agnello nella stalla».
È un vecchio per racconti di mare;
ha gli occhi grandi e neri di un pirata;
la sua pelle è secca per le ingiurie patite.
Dice: «Chi mi amava, un tempo, ora è partito»
e sembra ascolti un prossimo uragano.
Il carrettiere
Disteso sul carro senza vita
rotto dalla fatica,
sognando al passo lento del cavallo
mentre le stelle cadono
sul grande ombrello verde;
o schioccando la frusta aspra nell’aria
per ferire le nuvole che vanno
là dove non si può andare,
oltre la pianura
dove tutti sognano di arrivare
– grandi fiumi corrono per la pianura,
le città aspettano
e i pioppi quietamente all’orizzonte
accolgono il riposo del sole;
o caricando col triste badile la ghiaia del fiume,
la sabbia del fiume, grigia
come la chioma degli uomini non ancora morti;
o ascoltando nel pieno meriggio
la campana, col cuore in tempesta;
questa è la vita del carrettiere
con nero cavallo e rosso carro.
*
«Spalanca la tua chiesa, campanaro,
accendi i tuoi ceri, brucia l’incenso
sotto il quadro dell’uomo crocefisso
– solo le vecchie donne accorrono
a pregare per i loro morti.
Ma per la gola arsa e il corpo abbattuto,
per il cuore amaro,
per gli occhi di un peccatore
e per le labbra che hanno imprecato,
oh un bicchiere colmo fino all’orlo
di vino, bianco
come il viso di colei che amo.
Quando sarò morto ogni pena finirà:
non fiume da guadare,
sassi da raccogliere,
vie senza fine da percorrere,
frusta da schioccare
sulla schiena del cavallo ferito dalle mosche.
E dimmi: là, dove tutto è ombra
e gli uomini aspettano distesi,
ha termine il dolore e risplende il paradiso,
a fatica finisce e gli angeli cantano?
Ma questo è certo: né taverna e ragazza,
né cavallo che beve alla fontana.
Campanaro, getta il battacchio nel fiume
e spegni i ceri;
perché tormenti gli uccelli appisolati?
la tua chiesa è deserta;
nella taverna affollata
io posso ricordare la ragazza
che ha tenere le ciglia
quando sorride e guarda».
Cuore in tumulto
Corro, arso dal male della gelosia
che strappa la carne;
il fuoco acre del desiderio.
Strisciano le nuvole lungo i muri
inseguendo ladri in fuga
e vecchie donne uscite dalla chiesa;
un cavallo caduto, con le zampe
secche nel gelo – il carro capovolto –
e il collo proteso nello sforzo
nitrisce tristemente.
Nella sera imminente
gli uomini ascoltano il pianto del cavallo.
Sul viale abbandonato,
con i sassi ammucchiati e le macerie
fra l’erba, disperse nei campi,
vedo la casa rossa, la finestra
dischiusa e il pallido
riverbero dei vetri per il prato;
urlo il suo nome come se travolto
dai marosi, nel mare,
fra l’onda, nella solitudine del mare
disperatamente la invocassi.
Il suo viso come il sole m’appare.
Siede, leggera, sotto la lucerna
con la signora grassa e buona
dal sorriso tristissimo di capra.
I capelli sugli occhi le discendono
mentre mi getta un bacio
porgendo le labbra sulla mano
e poi soffiando con atto leggiadro;
in questo giuoco beato
trascorrono le ore.
Il vecchio marinaio
Impallidisce il cielo verso oriente
e l’onda si fa verde,
il cielo è senza nubi,
senza vento è la terra,
l’aria odora di erbe e di amaro.
Mentre il sole si inalbera nel cielo
lente le barche escono con grandi
vele, nel mare
splende il guizzo improvviso del delfino;
il giorno appare e palpita sull’acqua,
le barche vanno con le reti stese,
dall’una all’altra passano i richiami.
Un vecchio ascolta e lo riafferra il male
della vita trascorsa;
quanti anni! Stefano gettò
in altra terra, magro e disperato,
la miseria del suo petto bacato;
Turi dileguò nella bufera
come un albatro; il duro capitano
morì sul ponte in una sera
colma d’autunno.
Addio, addio! il grido che dai flutti
saluta la terra si è perduto.
Pesano gli anni, il corpo si è incrinato;
per il petto riarso
più non si alza il vento di settembre
a gonfiare le vele, a inseguire
il volo lento e bianco dei gabbiani;
dov’è la voce
forte, sul mare, che chiama la terra?
e il vigoroso strappo sul timone?
e la mia forza a sciogliere le vele?
Ogni nave è sommersa, ogni speranza.
Sole, all’opposto argine del molo,
due grandi barche, fradice di mare,
quiete accolgono l’onda e la rovina.
Rachele
Nel paese d’alta montagna
il torrente vola come un’ape impazzita
e i bambini ridono sul ponte,
il prete nel sole si assopisce.
Paolo accanto alla finestra
zufola e intaglia il legno,
Osso guarda una tela di ragno,
Diletta, fiore di melo,
reclinata la testa dorme, lievissima.
Gli altri, fra il verde tenero dei monti,
cercano le torpide marmotte:
dagli umidi buchi affiorano le bestie
appesantite dal sonno
ma un laccio risplende nel sole,
teso alla morte.
Secca come un pioppo
Rachele guarda le nuvole e gli uccelli,
nel meraviglioso deserto
ode la voce lontana dei figli
e il pallido respiro di Diletta dormente;
ferma sulla porta,
inchiodata come un’immagine sacra,
solo gli occhi sono papaveri ardenti.
*
Le fanciulle frementi attendono l’amica:
Rachele si sposa, Rachele di bianco è vestita
– la tela è ruvida ma il cuore è un cristallo.
Attendono, le amiche,
che dalla scala di legno discenda,
il volto di fiamma, lo sguardo fuggitivo.
Rachele a tutti stende la mano;
oggi è felice! si è mirata allo specchio,
ha lavato il corpo nell’acqua intiepidita;
Rachele! Rachele! le porte si aprono,
ogni finestra l’invita.
Oggi pranzeranno in piazza
e balleranno sul selciato,
affaticati gli uomini dal vino
rosse le ragazze con la malizia nel cuore.
Domani gli uomini passeranno il confine
– e le donne a pregare
per le valanghe, le tormente, i burroni;
ora le amiche accompagnano Rachele
– la tela è ruvida ma il cuore è un cristallo.
Altri attinge acqua; essa, felice nel sole
come il fieno accanto alla casa,
berrà il vino che arde
e gli uomini canteranno al suo amore.
Le campane suonano a distesa;
Rachele! Rachele! ogni porta si apre,
ogni finestra l’invita.
Le ragazze cantano pensando al loro giorno,
i giovani invidiano alla notte il sacrificio
e all’uomo la tenera preda.
Nel cuore arde fresco il desiderio.
*
Gli scavarono la fossa
scaglia per scaglia, piccone con piccone,
sudore e lungo affanno.
Dopo anni volati uno accanto all’altro
– ingiallivano le foglie nella pianura –
l’uomo scese rigido fra i sassi;
la morte l’aveva spogliato e diviso
e un vento malefico l’aveva seccato
sul limitare della casa.
Come suonarono a festa
le campane nel dì delle nozze
tanto duro e senza misericordia
fu il tocco del bronzo addolorato.
Lo posero fra i sassi, nel silenzio
del tramonto, quando il cielo
immemore si attarda a rimirare il prodigio;
e senza lamento, poiché tutti sanno
che il bene o il male ha il suo tempo
e la sua ragione.
I figli, accanto alla madre stretti e sorpresi;
Osso guarda una nuvola errante
che segna d’ombra il volto trafitto del padre.
Con pugni di terra fu coperto,
il volto fu accecato, la mano imprigionata;
poi come un gregge di agnelli
pieni di sonno e stupefatti
i piccoli tornarono alle solite mura,
al consueto riposo; nel silenzio
più non si udiva il russare profondo dell’uomo.
Essa raggela
al ricordo di quella notte, eterna.
*
Così Rachele
scava ogni giorno la sua nicchia per l’eternità
come l’acqua che incide la roccia
per aprirsi il cammino sotto l’arco del cielo;
e conta i figli quando escono al mattino
e ritornano alla sera, poiché i suoi pulcini
sono dolci e tremanti alla fatica.
Carlo mungendo si guardi
dalle corna della mucca impaziente!
Se Rachele sulla soglia attende
le pare che tutti debbano partire
e nessuno mai ritornare,
che i figli scendano in Francia
e le figlie al piano
e sola rimanga
come un cipresso gettato sulla proda di un fosso.
Almeno uno ritorni per chiuderle gli occhi
il giorno dell’estrema fatica!
Ma se ora grida i figli rispondono;
Osso correndo fra i sassi scivola
e s’alza piangendo,
Diletta sveglia guarda smarrita,
Carlo col latte giunge ridendo,
Osso si acquieta;
sulla montagna
lenta la sera stende il silenzio.
In memoria di Enrica Smeraldi
La nonna è morente
– vecchia e grassa qual è –
nella stanza d’affitto
lontano, oltre le mura.
La figlia infastidita
dal lento declino
– ogni anno più bianca
ogni anno più stanca –
l’avvolge in una rete
fitta di rancore.
Il peso del suo corpo
si fa immenso; nel letto
il viso solo affiora
dalle rughe trafitto,
e i capelli disfatti,
le flaccide mani,
gli occhi ormai fievoli
sui beni della terra
– tutto è abbandonato
tristemente alla morte.
Oh io ricordo gli anni
trascorsi, quando a Pieve
nell’ilare silenzio della casa
la nonna mi accoglieva
con la torta di riso e la ciambella
e il vino frizzante nel bicchiere
istoriato con Amore e Psiche.
*
Ritorno a te, nonna, sopra la tomba
riarsa, senz’ombra, in cui riposi.
Ti reco un lumino nuovo
che splenderà un mese
e quattro fiori di campo
gialli e rossi, come a te piacevano.
Ritorno a raddrizzare la croce,
a pulire il ritratto in cui sorridi
ilare, dal fondo di quegli occhi chiari
che tanta età videro, e piansero
sopra tante sventure.
Quando ti portai dentro la bara
come pesava il corpo
e a me come gridava il cuore:
sentivo il tuo capo sopra la mia spalla.
Era un mattino splendido d’inverno,
bianca la neve e terso il cielo;
sostavano ai cancelli, stupefatti,
i fanciulli.
Ritorno a te, nonna, sopra la tomba
in cui, quieta, riposi;
ti pongo adagio sul petto
quattro fiori di campo
come a te piacevano,
e per un poco anche ti siedo accanto.
Il viale dei cipressi è lieto, ora,
e gli uccelli sono così felici!
L’arazzo nella villa di Bentivoglio
Il fiume avvampa nel sole che nasce.
l’usignolo riposa; solo il passero, basso,
cerca nel solco ma un grido lo spaventa.
Falconi accecati, con ispidi artigli, volano
al richiamo di una preda fremente;
il gemito è vano: ghermito,
l’uccello la testa reclina e il falcone ritorna.
Neri cavalli bevono alla fonte
del castello; gridano i garzoni
a un gobbo che scende la scala: «Oh nano deforme!
mezz’uomo! ti sciupi la schiena!»
il gobbo con lazzi e con ira si avventa.
Splende la mensa nella sala aperta
su tenui colli lontananti,
verdi di vigne e limpidi di cielo;
la frutta riposa su vassoi cesellati
da un artista paziente,
gli uomini ridono gonfi di ingordi bocconi;
agnelli squarciati e rosati
si sciolgono nell’odore di alloro e rosmarino.
In silenzio si ciba il re. Terribile
è la vecchiezza – Dio! – più che la morte.
Grinzoso ha il collo come la biscia in agosto,
dolente il pugno si stringe
sull’arco che un tempo gagliardo piegava,
profonda è la voce più del suon della botte,
nessun vento l’eguaglia.
Fresca di giovinezza è la regina;
il corpo sembra spuma
che si rincorra esile sul mare.
Il re la guarda, lento una sua mano
candida cerca mentre il cuore
urla come il cervo nella selva;
essa raggela
quasi una serpe la sfiori, immonda visione.
Brindano alcuni cavalieri, alte
le coppe e bevono, altri ridendo
con malizia bisbigliano ai vicini.
Il re s’alza: l’ombra immane schizza
nera sul muro; lo segue
bianca e silenziosa la regina.
Gli uomini abbandonano le tazze,
le candele tremano sfinite;
la tavola deserta
è come il mare dopo la tempesta.
Mara
Mara vive come la farfalla
candida, fra un volo
e i lunghi indugi sui calici dondolanti;
splende il suo volto nei campi
quando ancora la luce dorme
sull’onda del canale
e gli storni dai merli della torre
bisbigliano lieti;
Mara cammina staccando
una foglia dal tralcio o un pampano
ritorto a cui succhia l’aspro umore.
Poi dilegua la nebbia
nel maestoso canto del sole,
la campana scende sul focolare del povero
e Mara ritorna
– l’accompagna il sonno del carrettiere
sotto l’ombrello verde
e il passo del cavallo affaticato.
Sulle pareti gli occhi di antichi guerrieri,
il martirio di un santo
dalle frecce trafitto
e l’ansia celeste
di Giuseppe e Maria fuggitivi.
Trascorrono le ore; ombre
cadono dagli alberi,
i buoi vanno allo stagno,
nuvole d’oro coprono il declino del giorno;
Mara ascolta la luce morire
e il suo male salire,
un tarlo le rode il petto,
il sangue nelle vene è come ghiaccio;
cereo il volto, ella si oppone al male
disperata e impotente.
*
«Tu sei il grillo» – dice Celeste
mentre impasta sul vecchio tagliere –
«tu sei il grillo paziente
che attende la buona ventura».
Nelle sere d’estate – la campagna
palpita e sul fieno
volano stridendo i pipistrelli –
Vincenzo e Celeste ricordano
gli anni trascorsi
e le antiche calure, quando il grano
ardeva come il ceppo nel camino.
Vincenzo canta: «Mara è bella
come la regina di Saba;
avrà mille servi e mille specchi
per la sua giovinezza; allora
sarò lontano per un suo sorriso».
Oh estati di fuoco e di ricordi!
Lentamente Vincenzo fu portato
lungo la vigna e il rigido novembre
spegneva i ceri,
e Celeste si avviò verso il compagno
pallida e stanca, nell’autunno; neri
strisciavano i cipressi contro il cielo.
Mara fu sola; crebbero i languori
e le smanie, il dolore acre
nel sangue; un male improvviso
l’abbatté al tramonto
e la flagellò nelle ore notturne
ed ella silenziosa e stupita soffrì
sola, come il passo
che nella notte cerca il paese.
*
Ora anche essa è morta.
Saluto in un mattino d’inverno
Nevica e tu mi attendi; corre l’inverno
per la città e i campi
ma i tuoi occhi ridono
oltre i vetri se giungo.
Mi riscalda l’immagine
del tuo viso che affiora,
le braccia che stendi
– in marmo scolpite –
all’abbraccio gioioso
se alla soglia mi affaccio.
«È tardi» dici e aggiungi
al vino soave della gioia
il sottile veleno del rimprovero.
Io non avevo un tempo
il mio cuore di oggi
– frutto che tu maturi –
e se un saluto ti invio
che precorra il mio arrivo
ti sarà prospero il giorno
né ti sfiorerà l’inedia
del quieto polverio.
Vedi che il tempo addobba
gli alberi per il riposo
e il cielo scivola allegro
per sfavillanti declivi?
Ma soltanto ora tu sciogli
la trama lieve del sonno
e apri alla luce
gli occhi belli che ridono
oltre i vetri se giungo
tutto di neve bianco,
rosso il viso e lo sguardo
lacrimoso nel gelo.
Sera d’avventura
Non puoi sempre vivere
con la moglie che fastidiosa attende l’obolo
e il bambino che piange,
né puoi, sempre, cadere sul letto
come un animale abbattuto.
Questa sera andrò lungo il fiume
dove l’aria è più fresca
e il cipresso sbadiglia placido
accarezzando il cielo,
questa sera andrò con Monica lungo il fiume
verso la città alta,
dove le stelle scoppiano violente
e il cielo è verde come l’Adriatico;
giunti al ponte, nel silenzio più fondo,
rovesciata sul tenero cuore dell’erba
io su lei riverso,
oh non ci sarà altro fuoco
che il fuoco del mio cuore
né altro cielo
che l’azzurro dei suoi occhi coperti di ombra.
*
Ho sentito sul collo il suo respiro angoscioso
e il grido d’amore, aspro
come l’urlo del soldato nella battaglia;
ho ammirato il suo corpo fra il verde.
Balzato sulla giumenta
persi la memoria dei miei anni felici
e degli anni più tristi;
quiete e tempesta lottavano
sopraffacendosi.
La nostra solitudine era meravigliosa.
Quando allentai le briglie
già un lungo cammino era stato percorso;
fra l’erba
la bella creatura giaceva, fragile
e pallida;
sul suo labbro fioriva
un sorriso che non ho mai veduto.
Avanzava l’alba
calpestando i fiori e le stelle del cielo;
io riemersi dai flutti
come l’antico eroe dopo la lotta col mare.
Temporale
Vola la palla oltre la siepe e il campo,
oltre il cancello della villa accanto;
nell’orto è caduta
rosso di pesche morbide e odorose.
Corre Gioietta lieve, con un grido,
e la veste si gonfia come vela
bianca nel vento. Delle ragazze intanto
quale è stesa nel fieno, quale sbuffa
arrossata dal giuoco; a una il volto
riga il sudore e sul labbro scendono
avide stille e lente;
un’altra con lo sguardo affaticato
ad un tronco si appoggia, tende
all’ombra il collo e ne è tutta imbevuta.
Gioietta ritorna con la palla
e con pere nascoste nella gonna
che offre come coppa;
ognuna afferra un frutto ed essa pure
addenta con gli artigli candidi
un frutto che si spacca, trepido,
al morso e ne discende il succo
per il mento, fiume di fiamma.
Intanto il cielo annera
ma le fanciulle stanche
non scorgono le nubi
precipitose dai lontani colli,
mentre il vento si arruffa e i capelli
già scomposti solleva.
Esili i fiori si scuotono nei campi.
Cade la pioggia e le ragazze immote,
gettati i frutti, osservano stupite
i rami che si piegano, le foglie
già tristi e cupe. Un contadino corre,
un porco da un ragazzo scalzo
è inseguito nel prato,
fra gli scrosci s’odono
i tonfi di finestre rinserrate;
a un richiamo improvviso le fanciulle,
con liete grida,
sotto la pioggia corrono e scompaiono.
Di una giovinetta appena morta
«Anche ieri cantavo
mentre riversa sul prato
su me passavano lievi
le nuvole che corrono lontano,
ma ora sono fredda, bianca,
come la statua della fontana
con le braccia spezzate
e la bocca che grida pietà,
né sogno più le isole solitarie.
Quanta neve mi avvolge e quanto vento!
Mi guardi? non ti vedo,
se sfiori la mia fronte non sussulto,
non odo – se parli – la tua voce
che mi fu cara un giorno.
Terribile è il silenzio della morte.
E dimmi, prima che io cada inabissata
senza speranza, e che una pietra chiara
per sempre mi rinchiuda,
dimmi se il sole splende sopra i rami
caldi del melo e se dal pioppo ancora
canta l’usignolo.
Odora l’aria di erba novella?
e s’ode nella sera il fremito
del fiume che si accascia?
Oh addio, addio; addio a te per sempre;
è l’ora tetra e stanca del mortorio».
Il racconto
«Sul prato che il vento d’ottobre rallegra
lasciatemi riposare;
la mia solitudine è un ricordo».
«Racconta» – gridano i bambini
con splendidi occhi alla speranza
– ad uno, sul ginocchio, il sangue raggrumato
arde come la ferita di un santo.
«Il vecchio è stanco» – dicono le donne
andando alla fontana.
La campagna era in fuoco,
così l’ottobre derideva l’inverno.
«Non ho casa, né legna che bruci
chiamando le ombre sul muro,
né bianca farina per il riposo dei topi;
non ho figli che piangano al lume
stanco della candela;
vengo da lontano».
«E i tuoi piedi piagati?
e il tuo viso seccato?
parla del tuo paese!».
Il vecchio tace; ascolta
la luce che chiama fra le vigne
gli uccelli della sera.
«Anch’io come quelli vado
per strade polverose
verso lontane contrade».
«E vedesti gli indiani?
i negri d’Africa che divorano
il cuore dei nemici?
udisti imprese di pirati?».
«Acqua più fresca per la vostra sete
vi offre il pellegrino.
Ecco, vedete; queste mani arse
come l’ulivo quando il vento soffia
strinsero una spada a Roncisvalle.
Nella sera imminente
ascoltavo il terribile lamento
di Orlando e l’urlo del suo corno
che picchiava nel monte».
Gli sguardi si inchinano
riverenti alla voce.
«Ascoltai la preghiera di Turpino
sul guerriero riverso;
Durlindana scheggiata
all’ombra della notte impallidiva».
Il lamento di Orlando a Roncisvalle!
ai ragazzi stupiti
il cuore si affievolisce.
«Una grande pianura è Roncisvalle,
con radi alberi e un triste silenzio;
il grido dei feriti
lo disperdeva il vento».
Il sole discende lentamente
oltre il canale e i campi
e fa d’oro le foglie.
«E il pianto di Turpino?» – chiede
timorosa una voce.
«Turpino pregò impietrito
per i guerrieri morti a Roncisvalle.
Ma ora ritornate alle case,
alla voce soave che vi chiama,
al fuoco che riscalda,
e lasciate il viandante a questo masso».
«Tu sei un guerriero antico!
i tuoi occhi ardono di un fuoco terribile.
Oh resta ancora, con i ricordi vecchi
come la tua mano!».
«Ritornerò con il primo vento
che aprile alza dal prato».
Libretto d’appunti
30 marzo 1947
Scendeva la pioggia splendendo
fra i rami del melo chini
come l’ala di un angelo
sopra la bimba con un gatto in braccio
che osservava, stupito.
Il vento correva.
«Fra poco torna il sereno»
disse un vecchio passando.
Guardai nel cielo e mi accorsi
che primavera era giunta.
1 aprile 1947
Ho arrossito quando la signora
ridendo mi ha guardato.
Negli occhi lucenti
brillava, lieto, Amore:
e io, orso, ho tremato.
Così fuggita è la fortuna; intanto
sopra l’albero altissimo
i passeri volavano,
i bambini rincorrevano i cerchi
per i viali bianchi del giardino.
Seduto su una verde panca,
come un vecchio,
ho chiuso gli occhi al sole.
14 aprile 1947
Io raccolsi i lillà
non per Abe Lincoln, il presidente,
ma per Elena che la mia vita accompagna
nel faticoso destino.
Io colsi i lillà che spuntavano dall’orto,
oltre il muro, e dolcemente dormivano
dondolando al vento leggero.
Tre bambini giocavano sulla strada;
mi guardarono con i lillà in mano
e scorgendo lo sguardo felice di Elena
risero maliziosi. Io la baciai.
20 aprile 1947
Vidi un uomo azzimato
rosso di gioia nel vestito nuovo
camminare svelto verso l’osteria.
Sulla soglia una meretrice
molle nel corpo florido
fumando l’attendeva.
Vidi una donna misera,
con passi cauti
seguire l’uomo felice.
Acquattata in una porta
– dalla finestra spiavo –
essa scorse il suo uomo che cingendo
il fianco alla puttana
la trascinava dolcemente.
Un singhiozzo spezzò
ogni allegria.
20 aprile 1947
Sui grossi tomi del Goldoni
oggi ho lungamente dormito.
Dalla finestra aperta
– l’aria è tiepida e leggera –
musica e voci entravano volando.
Io, Elena sognai:
danzava il mio amore
con passo lieve
– il suo corpo leggiadro!
Mi risvegliai che era sera.
27 aprile 1947
Un vecchio suonava il flauto,
tristi erano le note:
poi tacque e all’improvviso
la sinfonia del «Barbiere»
sprizzò nel cielo d’aprile.
Ma un uomo mi sussurrava
una odissea di mali:
la figlia impazzita
– rincorreva la madre col coltello
e aprendo la finestra
furiosamente rideva;
egli era stanco, ormai prossimo a morte.
Lo incoraggiai come potevo
ma la miseria del mondo
mi era scesa nel cuore;
io non udivo più il flauto
che, ancora, lieto suonava.
24 maggio 1947
Ecco! si scuote adagio, ricompone
sotto le trine il corpo
con un sommesso gemito, muove il capo
dolcemente, sbadiglia
– scivola lento un raggio nella stanza
e il candido lenzuolo si rischiara;
affiora un braccio, ride,
i capelli dileguano gettati
lontano; il risveglio è felice!
Un poco indugia
con lo sguardo, oltre i vetri, alla campagna;
poi getta la coperta come l’onda
getta la spuma, e scalza corre al bagno.
Odo il croscio dell’acqua; quindi appare,
sbuffando lietamente,
avvolta in un morbido panno.
Fruscia un’ape sul vetro;
ella canta
asciugando i capelli e offre
il viso al sole.
25 maggio 1947
Partire e mai più ritornare;
abbandonare la casa
con l’uscio socchiuso,
aperte le finestre e le tende
che volano nel vento.
Le vecchie pene per sempre dimenticare.
27 maggio 1947
Oggi gettai per un breve pertugio
il libretto nella bottega a Raimondi:
Otello mi aiutava.
Cadde, esile e giallo, prima in terra
poi – quasi persona – si adagiò
contro una stufa rossa;
allora con un cenno lo lasciai.
Otello rise e il cielo
rise e una fanciulla, bella
– a cui maggio scherzava fra i capelli –
con dolce moto mi guardò, felice.
Io trassi buon auspicio.
2 giugno 1947
Tu non sei più quella che vidi
in anni lontani
soave danzare – e bianca
come le foglie
quando l’estate matura.
Ora sei stanca e triste; traccia
il tempo, sul tuo volto, solchi
senza speranza, e già un declino lento
hai negli occhi, nel suono
delle parole. Disillusa e mesta
t’affidi alla ventura
senza sorriso.
14 giugno 1947
Una giovane monaca
fra le arcate del portico
nella luce calma del tramonto.
Un viso bianco, e gli occhi
lucenti di malizia; il riso
nascosto nella gola calda.
Pareva che dolcemente cantasse.
Io volevo ghermirla.
5 agosto 1947
Come può la gente essere allegra
quando sono disperato tanto
che il cuore si spezza
e urlare vorrei come i cani picchiati?
Come può la ragazza sorridere,
il giovane inseguirla,
una vecchia affacciarsi con il gatto
e seguire il passeggio, ora che è vespro?
Come può il cielo adagiarsi
su case e torri, quietamente?
Io sono come il pipistrello che vola
sbattendo contro i muri
e pigola orribilmente.
6 agosto 1947
Quando era il tempo della neve
sognavo l’estate assolata,
gonna di polvere, con le biscie immobili
all’ombra della siepe;
quando era il tempo della neve
e dell’ilare fuoco nel camino,
sognavo i lunghi tramonti d’agosto,
le rosse vele nel mare,
il grano scuro nella pianura.
Ora agosto è venuto,
ora è l’estate assolata,
e io sogno il tempo della neve
e il fuoco che urla nel camino,
sogno i brevi tramonti di dicembre
e il pallido suono della campana
sulla desolata pianura.
9 agosto 1947
Bruciavano le torri di Bologna
alte sulla pianura
e il cielo era grande come il mare.
Meravigliosa città,
per chi scongiurava la tua voce?
Un vecchio, stretto alla colonna,
nell’aria della sera,
allucinato, magro, con le braccia protese
gridava.
Macchine ebbre correvano fra gli archi
dei portici,
strisciavano veloci per le strade.
Non dimenticherò quel grido di battaglia.
12 agosto 1947
Cominciò il fulmine, e il tuono
graffiò il cielo, terribile.
Si incurvarono gli alberi,
la polvere seccò,
gli uccelli cercarono asili solitari;
in un attimo il mondo fu abbandonato.
Il cielo rimase solo,
con nubi, nubi, nubi
correnti nello spazio
e il tuono, il lampo, il croscio;
sul campo, sulla strada
un torrente di pioggia.
Gli uomini, nelle case, ascoltavano;
il cuore mi batteva,
i miei peccati pesarono.
14 agosto 1947
Leggevo, e il volto di mio figlio era proteso
– pallido e dolce – a guardare la luna
sola,
sul riposo del fieno.
Nessun mese ha un cielo più terribile
e un astro così nuovo.
15 agosto 1947
Vedi! le lampare
più non escono in mare
al tramonto; il pesce
verde e dolce è migrato.
Andavano lente sul mare
e riempivano il cielo;
il mare era calmo
come un prato falciato.
La luna si alzava
dal cimitero sul colle,
fra le tombe, cantando.
20 agosto 1947
Vecchie pene, dolori di oggi
e paura del futuro
incidono sulla pelle solchi
che non si cancellano;
non li spiana il sorriso o la speranza.
Chini sui campi
in file sterminate.
Né un albero né un volo.
Su rugginose biciclette, in mucchio,
al tramonto, ritornano alle case
e ai figli
che giocano sulla piazza
sassosa del comune.
Bevono alla fontana e appare,
finalmente, un sorriso
su quelle labbra secche e addolorate.
22 agosto 1947
Riposa sul mio petto
quietamente, come un bianco soriano;
socchiude gli occhi felice.
Ma i capelli sfiorandomi il naso
starnutisco, ed essa ride allegra.
Dice: «Usciamo?». Io m’affaccio e vedo
da un cielo annuvolato
scendere la pioggia;
strade deserte e alberi fradici.
Ritorniamo al nostro ozio immortale.
25 agosto 1947
Tradimento! gridalo
al cielo sporco di nubi
e alla terra stanca,
poi che il cuore è arso
dall’odio e dalla tristezza.
Un cane avido
il petto mi divora.
6 novembre 1947
La donna tace, quieta,
nel suo angolo oscuro;
ha le mani nel grembo e al pallido
riflesso della brace gli occhi splendono.
La luce del giorno
lieve reclina al palpito del fuoco.
E l’inverno cammina, triste
nell’ululo del vento; infrante cadono
le foglie di novembre.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: poesie pubblicate in volume
- Editore: Edizioni Salvatore Sciascia
- Anno di pubblicazione: 1954