Registrazione di eventi

 Dalla morte non si è mai preso a contare il tempo.

Broch, I sonnambuli

 

I

 

Viene mai solitario un vendicatore solitario? Bussò, entrò e disse sono la morte. Contrasta l’uomo con la sua fibra robusta, era un fiore degli anni, era anche un legno verde ma infine la morte lo prese. Resta sola la moglie, crebbe il figlio, venne l’estate del 1963, un giorno del mese di luglio, dopo settimane di pioggia il calore cadeva con scoppi di polvere e questa nebbia si sperdeva sulla strada. Secchi erano i fiumi fra le rive scoscese; i pozzi, i campi eccoli immobili e spogli in quel loro grigiore spento, il fumo delle fabbriche si inchinava e sembrava una grande bandiera ferita.

Disse che si poteva, disse così…

In quel tempo Ettore aveva trentotto anni e gli sedeva di fronte. L’uomo era alto, magro, forse un vecchio, forse no, forse non era un vecchio, una età indecifrabile, il viso bianco pulito, fra i cinquanta e i cinquecento anni. Così: che si poteva. Si alzò, muoveva adagio le mani. Parlò, disse che si poteva. Girò attorno al tavolo, leggerissimo, compunto, pareva al di fuori del mondo. O di questo mondo volgare. Un’ombra bianca, il sogno di un uomo, che lui non si potesse toccare pareva, esile e alto, ma non per giucco era un’ombra, non per potenza voluta; alta, un’ombra alta, più alta degli alberi e delle ciminiere delle fabbriche, certo più alta delle insegne luminose sul tetto dei palazzi antichi. Pam: Motta e buio; pam: Alemagna e buio; pam: Cinzano e buio; una mano che si apre e si chiude, stringe si allenta e la notte è carica di luce gialla, gialla e rossa, nera, bianca, gialla e azzurra, buia.

Disse: conoscevo suo padre. È morto presto, troppo presto, è morto nel fiore degli anni.

Così disse, con un tono gentile, quasi umile, con tenerezza, con un rimpianto sommesso per chissà che cosa; per chissà che ricordo in cui l’uomo morto nel fiore entrava. Nel fiore degli anni.

Era forte e tuttavia fu preso, disse. Disse anche: certo tutti dobbiamo morire – guardandolo e sembrava sorpreso, quasi che per la prima volta si affacciasse alla mente, come una possibilità reale (non pensata e sognata soltanto) questo triste, e vano, pensiero. Restò in silenzio, guardandolo senza guardare.

Con garbo, amandole, si stringeva le belle mani bianche e adesso era più piccolo e gentile, un po’ più corposo, domestico – con più luce (affabile) negli occhi e al bordo della bocca, sulle labbra appena segnate, che prima non c’era o non si intravedeva.

Ettore provò a dire: sì mio padre era giovane

ma è soltanto un ricordo.

soltanto un ricordo ormai, un’ombra

(con tenero cuore) al fuoco del camino

nella sera d’inverno.

Il soffio della morte gelandolo

lo impietrì negli zigomi.

I rossori, l’ira, le parole

urlate, i silenzi, il sorriso

che passava sul viso:

larve spezzate, secche, senza ali.

L’alba di agosto era inebriante,

s’alzava un canto dal prato

di strano uccello felice,

fra l’erba correva un gatto nero.

Così lo trascinarono

con tutta la sua carne

morta sulla fredda barella al cimitero

– ma sentì la voce rimbombare e subito cadere dal soffitto al tappeto di erbe, sul tappeto persiano stupendo in ghirigori di vene di lacrime, spezzarsi contro le pareti, sminuzzarsi in frammenti, accartocciarsi in un angolo.

Sussultò e tacque.

L’uomo annuì e sedette.

Sì, faremo qualcosa – disse. Disse: certo, c’è forse, badi: forse, il modo di fare. Di accontentarla. Ripassi da me, la prego, fra tre giorni a quest’ora. Oggi – sfogliò una agenda – è giovedì. Dunque lunedì prossimo.

Arrivò con lui fin sulla porta. Tutto era silenzio: nel salone, per le scale ricoperte da densi tappeti si camminava volando, fra le colonne di marmo, giù giù fino a che fu investito dalla scarica delle Tetractys bicolore, delle Olivetti 302 alfanumeriche mosse da ometti scamiciati (scivolavano via lievi); un vociare composto ma fitto, il respiro della posta pneumatica si attorcigliava intorno a un tubo ricurvo che sbavava proiettili di cuoio stracolmi di carta arrotolata, di assegni – a cui correvano gli occhi; entrava gente, usciva gente, gente che rimbalzava qua e là, scamiciata, col colletto, senza giacca, con la cravatta, senza la rutilante cravatta, con le maglie aderenti – gli studenti indiani avevano il turbante in testa, appoggiato sopra la sonnolenza degli occhi; agli sportelli i cassieri volavano coi polpastrelli sulla sporcizia della carta rosata o appena verdina, ritratta e segnata da rughe, lacrimosa – che le mani calmano aprendola a mezzo, sfogliandola con tenerezza ansiosa, con un nero amore stravolto.

 

Piovve un poco domenica. Lunedì alla stessa ora la banca scaricava il suo vino. Dagli ottoni, dai riboboli, dai tronchi di marmo, dalla peluche che s’atteggiava nei muri, vomitava l’ira contenuta e raccolta, la verde ira, anche se sorridente nella smemorata perfidia. Tetra a volte come un cesso.

Bianca di cristalli, essa ingrommata di lampade;

lo stesso cassiere

forse lo stesso mazzetto contava

e il vecchietto di tutti i giorni dell’anno, l’emblematico vecchio del giorno di venerdì e sabato, di giovedì e martedì, davanti allo sportello aspettava. Guardava i suoi occhi inseguire

io le mani le unghie le dita la scaltra fortuna racchiusa nel pugno

dell’uomo nevrotico

con gli occhiali, divorato da una passione

e dall’ira (che si annida in vene sul naso),

contava (il cassiere) e incanto sbirciare, guardare, qua e là osservare intento e contare, contare. Il cassiere misura lo spessore di un milione leggero vano sul palmo; un elastico intorno al mazzetto ed egli allunga ad altri il milione, poi l’uomo (il cassiere) è per un momento altrove, subito, per un momento sui mari del Giappone a pescare salmoni o nella nebbia di domenica 10 ottobre 1959 a guardare le folaghe morire bruciate volando, dure cadere nell’acqua – i tonfi eccitavano i cani immersi nel pantano. Il calmiere, il ritorno, la notte. O è ancora a Guardiagrele, accendere il fuoco, il primo fuoco d’inverno nella casa paterna (l’odore di mele sui divani). Per un momento.

Nella banca entrava la gente di sempre, gialla verde blu, col turbante e leggera, con le scarpe pesanti e gialle degli olandesi, mentre la posta volava, un cassiere chiamava agitando la mano.

Un impiegato con il viso da bambino ma quasi calvo si esprimeva singhiozzando, roso da una balbuzie paurosa, impaziente: i travellers’ checks, signore, alloosportello quattro, vier, caaapito?

Was? ringhiava il vecchio ottuso e testardo, rosicchiandolo con gli occhi, e il filetto dell’apparecchio acustico gli dondolava dall’orecchio alla giacca,

Was? Wohin muss ich gehen?

Ora il calvo accompagna questo signore, con un gesto disperato stringendolo alla manica, adagio, grazioso, il cliente ha sempre ragione finché il conto è coperto, lo trascina al guinzaglio frustandolo col morso della gentilezza e un sorriso; sospirando cantando si avviava.

Il signore arriverà al quattro

il signore è a cinque metri dal quattro,

quattro metri dal quattro

tre metri due passi un metro finalmente al quattro signore, idest vier, il manigoldo teutonico vuole a te dice al cassiere, ferendolo a morte. Questo buzzurro tedesco butta la testa nel foro.

Un quadrante nel mezzo della sala, appoggiato a una parete, indica le ore; allo sportello 11 una fila di personaggi per la cambiale – scadenza 15 non prorogabile. Aspettano, reggendo in mano il denaro contato, stretto fra l’avviso verde o appoggiato (nella borsa delle donne) sulle foglie d’insalata, disteso e insolente. Come ceri reggono il denaro. In pellegrinaggio salivano al cielo, mortificavano l’impazienza, compunti, con la bava alla bocca; ne ripartivano chini quasi avessero un sacco in spalla, un altro sacco ancora, deposto quel sacco, ahi. Ma noi, è questo il punto – diceva – concediamo i fidi maggiori al tasso più basso, o al tasso più gradito. Ci sarebbe un cartello fra le banche; come dire? una tacita intesa; ma chi ci crede? meglio, chi si fida? Ci freghiamo a vicenda, ecco. Dobbiamo allargare i nostri impegni, capisce? Il fatto è che il credito non può estendersi che sulla fiducia

data e concessa dall’istituto bancario

e dunque, in questo caso, dal funzionario bancario

al cittadino tormentato

(se vogliamo: momentaneamente angustiato)

perché occorre dare, dare ancora (da parte nostra)

se vogliamo ricevere,

ricevere ancora, se ricevere dobbiamo…

e in proporzione del rischio (ma tutto questo viene poi)…

– lo guarda quasi lo vedesse per la prima volta; l’osserva attentamente.

Ettore siede silenzioso, mezzo sprofondato mezzo appoggiato in una grande poltrona (forse più larga che grossa, più larga che soffice. Gemevano molle occulte). Quegli occhi. Lo ascolta parlare. Era impaziente ma aspettava, sa di non poter fare altro, che non può sollecitare o chiedere, pregare e inveire, avvilirsi tristemente di lacrime; dar pugni sul tavolo, versare calde lacrime, chinare la testa sul braccio. Solo aspettare, aspettare e avere pazienza. Notò che il cranio dell’illustre uomo a volte leggermente arrossiva o, piuttosto, rosava; si caricava di un sangue smorto, appena intinto di pece; che quel colore risaltava fra il bianco dei capelli. Così candido e vicino gli appariva vecchissimo, poi di nuovo giovane, poi ancora un uomo maturo, se gli guardava le mani o l’onda dei sopraccigli che s’alzavano come le serrande sui vetri di un negozio illuminato.

Proprio così; le serrande (pensava) del mio negozio; gli occhi erano i vetri, il rimpallo delle iridi era il riverbero della luce a pieno giorno, l’occhio la vetrina intera nello sfarzo dei legni e delle lampade; la morsa delle sottili griglie. Ma aprire la porta del negozio, così leggera, fragile, era un modo (il solo) di scoperchiargli i pensieri? di aprirgli il cranio? S’accorse che gli offriva una sigaretta.

Rifiutò con un cenno, la mano destra si mosse pesante nell’aria. L’uomo sedeva di fronte, alla stessa distanza, ma gli appariva lontano, sprofondato – sembrava che fra loro non sussistesse soltanto la scrivania ma una serie di ostacoli: banchi, tavoli, orologi, luminarie, statuette di giada. I rumori della strada salivano ammorbiditi, catalogati, distinti e più che scontri volgari di suoni, un prevaricare di opposte volontà, guerresche contese, formavano un insieme vago e attraente, di musica dissociata. Erano verba scandite, integrate all’umore di quel silenzio disperato. La sua vicenda, ad esempio, si illuse di pensarlo, ne era accompagnata con qualche verità. Quel fruscio di cose smorzate dal tendaggio s’accoppiava al fuoco ormai spento che lo spingeva, contrastandolo, in quei giorni. Certo che uscendo di lì tutto cambiava, anche la musica –

allora la città si spalancava come la bocca di un vecchio sulla pianura – gli opifici le acciaierie le officine i modesti macelli erano i bisonti pascolanti sulle rive dei fiumi. O muggivano di dolore al sopravvenire del gelo invernale. Fiatavano, coprendo di un brusio la pianura, la sonnolenza delle signore incinte. Su quella pianura. O bastava l’autunno con la nebbia da coltello a spaventarli. Allora i bisonti fuggivano, s’acquattavano, incalzavano, tremavano, uccidevano.

Sortivano dai meandri furibondi. Oh le grida di dolore delle loro sirene. Ma adesso, adesso la città fertile e composta, decorosa e un poco corrotta, si spalancava sulla pianura come un mazzo di carte (segnate) e rovesciava la pece greca della sua vita.

La sua stanza, la sua casa. Alta sui tetti nell’ora del tramonto; ventate di zenzero fiottavano da un vicolo sottostante in cui un grossista scaricava sacchi e bidoni fra voci e risate. L’odiosa allegria della gente. Anche il grido (piuttosto maligno) di una ragazza, ciabattosa, che usciva col gatto, a cui un omo dai capelli densi neri e la cicca in bocca, passando aveva sfiorato con la mano (e tu benedetta…) appena il calore di un fianco. Corsero voci grosse e quelle frasi di

(che si possono interpretare con una docile filologia o con la fantasia della sera che si srotola articolando fantasmi sui camini al riverbero delle finestre spalancate); le voci, il fiato caldo, le labbra risucchiate da un desiderio represso per tutto il giorno;

quelle frasi di… improvvisamente banali che tuttavia aprono spiragli all’immaginazione

“oh! je sens que ça vient. Oh, oh!”

“décharge dans moi, mon adoré, oh!”

“oh!”

rivoltarsi uno nelle braccia dell’altro non facendo che un’ombra.

Le frasi del vicolo, la finestra aperta, in una sera d’estate, con Ettore eccitato, un po’ stanco, buttato fra la tristezza, il rancore e una volontà di distrarsi in qualche modo; la mortificazione di riconoscere di non potere; il bisogno fisico di allontanarsi dai pensieri soliti, le preoccupazioni e un affanno – ed essere magari volgare, torpido, astruso, perché è pesante vivere. E tuttavia sopportare, cioè arrivare, riuscire a toccare la sera.

Ascolta la radio, il vibrare macabro (da lontano) della televisione che da una luce astrale alle pareti delle case, già ferme e attente

– Ettore è steso sul divano e guarda un metro di cielo fra finestra, tetti e un camino lungo più a destra; basterebbe affacciarsi di nuovo e ascoltare. La ragazza è fra le braccia di un uomo, dimessa e timida, si scuote mollemente sfilacciata nella sua astuta debolezza. Non pare più quella, così silenziosa.

Si può mettere un disco o uscire in cerca di donne.

 

S’accorse che gli offriva una sigaretta e gliela accese con un accendisigaro placcato da piccoli stucchi neoclassici, un colore azzurrino sbiadito su cui le figurette delle dive sedute risaltavano come su uno schermo. Guardando se stesso nella fiammella rifletteva, in quel modo un poco teso di lasciar che la mente adornata di lucidità ma anche di rimpianto (un momento di debolezza) vada e ritorni, divaghi, dalle cose ai luoghi ai sentimenti. Allunga la mano sopra il tavolo:

“La sua domanda è questa?”

(un grumo psichico esplode, Ettore è il luogo dello scontro: al timore per gli incontri degli addendi in una giornata tormentata, alla sufficiente perplessità dell’attesa o dell’operazione appena cominciata, si mescola il senso clandestino di invidia adirata per l’irresponsabilità degli altri che sono indifferenti o macabri nella loro leggerezza; è il ricordo del nanetto mal cresciuto, viso a rughe, pietroso, da vecchio, soprattutto da uomo perfido, vizioso, visto ieri sera con la sua vocina da topo che cava di tasca al bar pacchetti di fogli da mille, piegati con cura a blocchi da diecimila e trattenuti da un elastico) – dicevo? ah, la domanda. È questa la domanda?” Ettore prese il foglio che l’altro gli stendeva, riconobbe subito la firma di Ettore in calce a destra, mentre a sinistra, sotto la dicitura a stampa “il garante” c’era uno spazio vuoto.

“Il garante non c’è” disse l’altro e sembrò che accennasse con indifferenza a una mancanza ovvia.

“Naturalmente” ripeté guardandolo con dolcezza, esprimente da un leggero rilassarsi dei muscoli piuttosto che da un moto del cuore un sentimento di simpatia, di solidarietà. Il volto era disteso, senza ombre ambigue – insomma nell’ambiente, e in quel momento, il personaggio era certo favorevole, propenso a…; senza alcuna apparente falsificazione gli elargiva il conforto dell’esperienza al servizio di un bisogno. “Non vorrei ricorrere a mia madre” disse Ettore, abbastanza deciso

la vecchia

era ritirata in un angolo, rattrappita, in un atteggiamento di scolara diligente che il figlio le ricordava dall’infanzia. Seduta sulla sedia di vimini, che gelava la fantasia appena a guardarla, il quaderno aperto sul tavolo, l’abat-jour arcaico con le rose azzurre fra le grosse foglie slavate – le giornate informi e regolate; una decisa volontà di preservarsi; piuttosto, precisa come un incubo, la paura non tanto svagata ma reale di una misurata miseria (in lei?), di un declassamento economico (e tuttavia: perché lavorare?)nel disprezzo per chi dipendeva dagli altri; il figlio considerato un oggetto, con attenzione – e difeso da un affetto sincero ma esclusivo, un po’ monotono, mai che svariasse oltre i confini di un debito contratto con la morte e del debito contratto nell’allevarlo. Era giuridicamente a posto l’amore della madre e chiesasticamente benedicente. Mai che gli ricordasse il padre

– quel padre giovane morto

– padre che non disse una parola

– che si sentiva ancora così lontano dalla morte

– da ogni pensiero di morte

– che non lasciò una riga scritta, un foglio completo

– né testamento olografo

morì con la sua volontà stretta nel cuore nel pugno del cuore e in tasca una lettera affrancata

avvertiva un amico con poche parole che sarebbe andato a trovarlo, una vacanza di ore, per riprendere amichevolmente da amici alcune vicende passate

(ma intendeva: il filo dell’esistenza) –

la madre allineava le cifre con la mano di luce distesa dalla lampada che le stringeva i capelli quasi con rabbia, una luce incandescente, di colore opalino che ravvivava, nutrendosi, il colore smorto del divano, della seggiola, del tavolo rotondo, piccolo (oggetto di vimini) in cui essa viveva.

“Vorrei, se si potesse” ripeté Ettore. A vampate l’afa alzandosi dall’asfalto sbatteva contro i vetri chiusi, i vetri vibravano smossi da quelle dita invisibili. Ma in quella sala, in quella regia dimora per uomini di pregio, appariscenti, confortevole sala, una gradita frescura dall’odore di miele e di senape (certo un odore di miele, che altro?) attutito da sbruffi rumorosi di menta che si mescolavano verso il soffitto ricadendo, insinuava dentro al corpo, nel fondo colitico oppresso (con tenerezza, dopo le cure mattutine) una inerzia di muoversi, la volontà di attendere, una lieta perplessità delle risposte che svariavano articolandosi nell’aria, sembravano formiche volanti, leggere leggere fragili belle, noti disgustose. “Non è possibile” la risposta fu pronta e secca. Un’amabile cattiveria

“ma offro buone…” fu interrotto –

“Lei può esibire buone garanzie. È questo che intende?” sottolineò la domanda con un gesto delle spalle, il viso gli si indurì tirandosi attorno alle labbra, piccole fitte rughe affiorarono segnandolo

e tu ancora un uomo solo, ma un uomo ben difeso, lui, uomo contro uomo, uomo retto e centenario, o giovane prevaricatore, pronto alla difesa e all’offesa ma mai a umanizzare un atto, mai a umanizzare un’azione e un rapporto – un uomo dunque che non aveva in quel momento (ne avrà mai) alcuna verità da difendere – soltanto attento (e in essa condannato) a una spietata regola del giuoco.

Giuoco in cui la fortuna non è alterna, imprevedibile, generosa, scaltra, ma ottusa e spietata;

uomo tutto piegato da una parte, sempre monotono e parziale, nella sua durezza di guerra.

“Buone garanzie, ha detto?”, posando le mani sul tavolo si protese, si disfece, fu esile e nervoso – o meglio, protese testa e collo, la testa bianca e il collo lungo, il collo bianco e la lunga testa che parvero staccarsi dal corpo posato sulla poltrona; buttò avanti la fessura di acciaio degli occhi, adesso grigi e stretti (ma senza cattiveria apparente) come il vuoto affilato nelle armature: quello splendore appannato delle pupille, la vitalità oscura nella trama del ferro. “Vorrei, se si potesse” disse Ettore. A che cosa avrebbe portato la schermaglia di frasi non compiute, di insinuazioni, accenni? Non si procedeva di un passo, eppure ogni gesto, ogni atto erano calcolati (Ettore lo percepiva esattamente), provati e riprovati, senza uno sbaglio, una sbavatura, con uno scopo preciso. Tuttavia questo scopo poteva essere raggiunto solo per la via un po’ tortuosa e dolorosa dell’ammicco e dell’indolenza (apparente), del peregrinare di frasi, del fervore seguito dal riposo, dal rilassamento delle giunture, dallo scontro delle voci articolate in un tema predisposto. E in esso placate. Ettore cercava di adeguarsi, con un impaccio sottile, con scarsa naturalezza, come vedendosi riflesso in uno specchio. Ma tentava almeno. Pareva che fossero passati giorni interi invece era lì, seduto sulla poltroncina, da dieci minuti appena, a rigirare il foglio fra le mani, riconoscendovi sopra, in basso a destra, la propria firma

 

– quella sera nella camera, dopo una giornata di tormenti (l’ansia particolare che non si sfoga), quando finalmente era giunto, o così gli pareva, a una conclusione. Alle volte le possibilità di salvezza da un caso disperato sono a portata di mano (è nei proverbi), abbastanza chiare e magari proterve, vicine per abbagliare, eppure; eppure non si riesce a intenderle; vive egli, il tormentato, in un frastuono di sentimenti che non aiutano a procedere mentre lo sgomento rende incolmabile il male, il guasto della vita.

In quelle condizioni Ettore aveva vissuto per alcune settimane – poi la madre nel suo ordine industrioso, che alla richiesta del figlio si era dimostrata sorpresa, in uno stupore dolente, come di un’offesa fatta a lei stessa dall’amore di quell’unico figlio – il giovane figlio mai cresciuto, dalle gambe lunghe nei calzoni, dalle lunghe braccia, il bambino solitario, lo studente schivo e industrioso che camminava sulla traccia del padre nel suo procedere e prendere la vita; quell’unico figlio che non era sua gloria ma il suo legittimo amore (neppure conteso); che esisteva per lei (da lei preservato e custodito per la sua morte, per quell’attimo di aiuto) ma che lei non poteva, o non voleva, in questa vicenda aiutare. Non poté dargli che alcune parole di consiglio vertiginoso arcaico impossibile (neppure un conforto, non sapeva), ammonendolo per il futuro. Ma intanto, oggi, vedesse: non c’era alcun modo di trovare la cenere del denaro per lui, il corpo decomposto del denaro, se non vendendo precipitandole in un baratro le poche cose che possedeva. Era questo che il figlio voleva? Vibrava nella sua voce il suono, il rombo tonfo di un’eco, l’orgasmo trattenuto entro le ossa del petto, il battere del cuore per un evento non previsto e che forse;

ma il figlio, quel figlio, suo figlio, l’unico, l’aveva rassicurata. Si trattava soltanto di una domanda, le disse; sostenendo che non era accaduto nulla di grave (piovere sul bagnato), o di importante per lui; lei continuasse a vivere quieta e tranquilla lontana, difesa dall’egoismo cristiano, dai languori del mondo, dalle vicende degli anni. Si adagiasse nel suo sonno, non doveva angustiarsi. Quella sera nella camera, dopo una giornata di gravi pensieri, scrivendo una domanda per il prestito sul foglio stampato ritirato in banca, Ettore restò sospeso – in un mezzo sogno sepolto – guardando il quadratino bianco su cui la madre avrebbe dovuto scrivere la propria firma minuta, uno svolazzo, un barbaglio d’inchiostro. Decise di inoltrare il documento senza questa firma – “Lei sa che non è, né può essere regolare un simile procedimento” sentenziò l’altro – “poiché per ogni prestito occorre sempre l’avallo di un garante, conosciuto, noto, solvente, mi capisce? Lo sa certamente; e intendo la sua discrezione di non volere coinvolgere e dunque importunare una cara persona. Le persone anziane, si sa… Ma questa volta è necessario. Mi creda – aggiunse – è inevitabile”. Sospirò, cavando un fiato dal petto. “Non può provvedere altrimenti, scovando un’amicizia che si presti? Occorre un amico, lo so” concluse mortificato, quasi che fosse impossibile, e lui stesso lo riconoscesse per esperienza quotidiana e per pratica d’ufficio, avere un amico; o avendolo, richiedergli questa prova d’amore. “Sì, autentico amore” mormorò Ettore e concludendo nel dolore il raggio del proprio sentimento: “Un amico è impossibile” disse.

“Non ha amici?” e incalzando: “perché, non ha amici?”

“ Non ho amici che possano farlo”.

“Ma amici che volessero potendo?”

“Non ho amici che possano farlo”.

“Ma amici che vogliano?”

“Non ho amici che possano farlo”. Scese la calma fra i due.

Amici che possano, amici che vogliano, quegli occhi lo scrutavano perforandolo e per un attimo, solo un attimo, Ettore ebbe il timore che l’altro si divertisse e che l’inchiesta fosse prolungata solo per divertimento. “Non ho amici” rispose – “Non ho amici che possano, almeno”.

All’improvviso: poteva essere il rigido oculista? l’ometto nobile e sparuto, perpetuamente innamorato senza speranza, cupo (ma non tetro), uno snob di città nella sua magrezza dinoccolata, levigata, di scapolo vegetariano? Si poteva tentare? Forse, forse si poteva;

Ma la telefonata! “Pronto?” nel latte della voce chiarissima apparve la faccia segnata dalla perplessità – subito impercettibilmente si indurì in difesa.

“Che cosa posso fare?” – l’oculista si interessò della madre, della campagna, gli chiese perfino della salute, come se volesse rimandare o addirittura cancellare l’oggetto della telefonata.

“Non certo un consulto” s’era affrettato ad aggiungere Ettore, con un’ironia scialba o con scarsa socievolezza. Cominciava male. Ma il microfono, nel filo teso, nei mille filamenti sottesi alla città imbalsamata, indovinava perfino nella perplessità del silenzio la domanda: chi è costui? perché mi telefona? Infine, angosciosa sopra tutte: che cosa vuole? Che cosa chiederà? lo azzannassero costui che telefona. Che cosa vorrà? che cosa chiede? intanto la voce dell’oculista parlava di padre e di madre, di vecchi ricordi insensati, al diavolo, producendo un suono come lo sbattere di gengive vuote; il celebre oculista, lo scienziato lodato, il curatore di luci, il sofisticatore di pupille, l’uomo l’omone l’ometto magrino e solitario, scalfiva la propria scorza, si cuoceva nella solitudine nella profondità verminosa del suo studio imponente vigilato dai bottoni dorati e dalla giacca a strisce di un cameriere pederasta. E senza compagnia, senza amore, con gli anni consumati dietro le spalle che si aggrumavano in un mucchio di detriti, di spazzatura, con un afrore caldo e diluente. Ed egli buttato nella poltrona, con la scrivania davanti, con agende aperte e lettere chiuse, oggetti dorati e una fotografia di bambino, il merdosetto ipocrita si vagheggiava giovane, sbruffava alla necessità e al dubbio, al dolore delle domande, alle ombre scure dell’anima e ai silenzi dell’angoscia, per lasciare Ettore libero ai colpi delle sue frecce. La telefonata fu lunga, complessa, complicata, un incrociato rapporto di inibizioni non dichiarate, scontro di perplessità e di paura, di ansie, una manifestazione di orgoglio. Saggio di alterezza e di un vivere sottile. Era possibile che tutto questo fosse entrato a ribattere le acque, le parole, i pensieri, in quelle ore, o in quell’ora, o nei pochi momenti della telefonata (un mucchietto di cenere dentro un vaso d’argento, il fumo di una sigaretta, il tempo che un cerino si consumi e anneri).

Gli ricordava con particolari – richiami, accenni a cose fatte o dette in passato, a persone note, amiche che Ettore neppure conosceva – raccontava la sua avventura di caccia, la sua storia africana, la vicenda d’amore e morte, in realtà soltanto un incidente insignificante, accaduto durante un viaggio a Firenze, in macchina, nell’anno ’45 (badi, proprio in quell’anno, in maggio appena, continuava a ripetere) insieme al padre di Ettore, alla madre di Ettore, alla sorella poi morta. Una rottura di freni, o piuttosto un colpo maldestro di freno da parte di questo automobilista (come Ettore credeva) e in una discesa, fino alla curva, senza poter frenare, o riuscire in quell’atto, la macchina è veloce, l’oculista preme il freno, oppure sbagliando preme la frizione, o addirittura accelera, non ricorda, la macchina era una grossa Ford, un bisonte, sa, una macchina enorme, si sta comodi dentro ma a guidarla poi! Alle volte si finisce per sbagliare, si vedono tre o più luci accese nel cruscotto, chissà, il bianco il rosso il celeste, occhi che guardano, fanno paura, impressionano, alle volte si spengono, insomma riuscii a infilare un viottolo in salita, un sobbalzo, ci fermammo ritrovandoci tutti sani sul promontorio. (Perché lo raccontava?) La paura fu mia, gli altri risero poi, non se ne accorsero. Sudavo che sono magro. Pronto? e suo padre, così acceso di pensieri e pronto di parola – nel mio ricordo è ancora vivo – così industrioso nella sua vicenda vitale, così nobile, così fresco, saldò il debito alla sorte bevendo con il guidatore. Mi donò anche un fazzoletto, a righe a colori, solo per le lacrime di gioia, come augurava, o per i nodi da farsi alle ore dell’amore. Lo conservo ancora, so dov’è dentro a un cassetto. E poi, e poi

– a Ettore lo stomaco doleva per la desolazione, per la noia del farneticare dell’homunculus, per essere sia pure in lontano contatto, e in quel momento, con un uomo che gli era insopportabile anzi gli diventava odioso in maniera quasi dolorosa; al quale avrebbe adesso chiesto con semplicità un grande favore

un favore da amico che poteva

un favore d’amico che potendo voleva

un favore d’amico (non suo ma del padre) che voleva potendo – chiedere inchinandosi, domandare nell’incertezza certa della risposta; poteva tacere, riattaccare, chi lo obbligava? poteva salutare e così via; poteva fuggire urlare piangere sdraiato sul letto; poteva mentire; ma che senso avrebbe avuto? Doveva, di questo era altrettanto sicuro come del rifiuto, chiudere anche quella porta. Doveva chiedere, inchinarsi; anche per questo saluto. E l’altro via, via con la sua storia, di automobili americane, di acceleratore, di una frenata, di un brivido, una curva, lo sbalzo nell’altipiano, in quell’anno di un’era trapassata – quali macchine usavano allora? che uomini correvano il mondo? quali idee dominavano? quel tempo in cui era vivo Pollock, e James Dean e Mann, e ancora un po’ vivo Hitler, e sul suo marmo Stalin, e vivo era B. S.; quali donne facevano l’amore? sono queste vecchie dame curve nel grigio? dal collo bruciato, dagli occhi spenti – non c’è più il lucido folle poi subito sparito ardore della giovinezza. Erano queste le donne stese allora sui prati? Chi giocava nell’Inter? Le Monde era giunto alla quarta annata, un foglio leggero, leggero. E si riassestavano i panni, accingendosi a dimenticare, gli scampati alle morti. Perché quest’uomo parlava? che parole poteva esprimere, non un vero sentimento, quale passione? amava? Fu per chiederlo e tacque mentre l’altro esorbitava addirittura mimetizzandosi fra le immagini, fra pensieri smozzicati.

A Ettore importava soltanto quella domanda e andarsene, chiudere con l’episodio insignificante che lo legava al ladro di occhi, al servo della solitudine.

– Con semplicità un grande favore

– naturalmente se poteva

– soltanto se voleva

– o esprimere, non tanto per sé ma per gli altri, se volendo poteva.

Il microfono nella mano, rattrappito e pesante, è un mostruoso membro afflosciato. Urlò la domanda, aggiungendo un tuonante per favore, battendosi il petto con le parole, quasi gemendo, immerso in una melma densa (e acquosa) di mestizia. Disse il suo dolore, piuttosto raccontò il suo bisogno, l’urgenza dell’aiuto, gridò il suo disprezzo (sempre con dolcezza), narrò la sua necessità, la miseria di oggi, come una novella cekoviana straziante, come una novella galante, come una bugia. Fu incerto e tenero, anche se suadente, poi falso, tremò e imperversò, contraddisse e incalzò, batté il pugno, maledisse, imprecò un poco – soltanto. Fu solo.

 

Che altri la prendessero. La vedeva (con altri) così lieta e sola, e libera nell’amore, nuda con altri. Era il suo pensiero; come un filo il momento della sua angoscia, di una innervata gelosia, tesa come un arco e tintinnante, pericolosa; poi lo addormentava in un riposo di capra sfamata l’altro pensiero grave (e meschino) che sarebbe rimasta incinta, con la grossa pancia di mesi, una sguaiata povera massaia con la pancia di sei mesi, le zinne ingrossate, i fianchi, nei fianchi deforme – come hanno le donne incinte le grosse caviglie, gli straripanti cuscinetti di grasso; le divine caviglie da gazzella pascolante e indecisa, nel suo astratto e assoluto simposio, disfatte – che sarebbe rimasta incinta, con le caviglie grosse e rosse strette a malapena nella calza elastica, un passo ciondolante, la fatica del passo, le labbra tumide per la fatica, per la convinzione dell’intelligenza in questa inutilità di figliare. La conosceva; avrebbe sopportato e patito, si sarebbe sgravata urlando ma con scarso sollievo del sentimento e invece con l’odio, lucido silenzioso, così spietatamente razionale in lei, e calmo, per l’atto appena compiuto; per la pena senza senso, senza novità ma con dolore (ed era questa una pena); per lo strappo nelle viscere che dicono tremendo; gemere, piegarsi, tastarsi e protendersi, piangere mugolando magari un poco; per quell’amore lieto su un letto così duramente pagato. Altri l’avrebbero avuta, così calda era e amabile; affondando nella lietezza del suo riso. Avrebbe gemuto, un piccolo ansimare di fatica, senza volgarità o fervore ma come (ed era certo) residuasse in lei, sempre, anche nel momento dell’orgasmo, un soffio, una pausa di lucida indifferenza – o piuttosto una lieta e non disfatta curiosità? Era lieta e gentile; e oltre che bella, viva era, pronta, non succube del mondo, non pavida, ma decisa e precisa, imprevedibile spesso, d’umor cangiante – si parlava a lei, e con lei, come con un libro aperto sulle ginocchia. Un libro aperto; le altre frasi, le sussurrate frasi insinuanti, le calibrate intenzioni – scomparivano. Capiva tutto e leggeva molto. Lavorava ed era, anche nell’amore, riservata, pronta, avventurosa, pudica – mai un sasso che cadesse, da lei, nel fango. Era una creatura; ed era estranea alla volgarità. Nulla che compromettesse l’ordine, la gentilezza della sorpresa e il calore del ricordo. Dopo, con lei già ricoperta dal lenzuolo, restavano stesi accanto, in silenzio, intrecciandosi le dita di una mano; o forse no. Respirando adagio. Passava così un’ora e un’altra ancora sul riposo che ricomponeva i sensi e il cuore, e dava ordine alla speranza. Se ne andava, sortivano. Veniva a casa sua, la riaccompagnava a casa, sul portone le stringeva la mano (il braccio), lei scompariva nel suo cuore.

Così era; ecco pensava com’era.

Perché Ettore l’aveva lasciata? si lusingava, stupidamente (lo riconosceva) della sua fermezza e sudava gelato nel timore di perderla. Un modo di punirsi soffrendo? Era certo che anche lei avrebbe considerato il distacco non tanto un gioco ma come una pausa – la sospensione prima di un temporale – nemmeno una prova; o piuttosto che avrebbe inteso con maggior acutezza e prontezza di Ettore che il gusto di colpirsi trasmodava fino a coinvolgere i pochi sentimenti autentici che ancora lo accompagnavano. Ma forse era soltanto difficile intendersi bene, nel groviglio della situazione smossa con tanta irruenza e così precipitosamente da Ettore.

Erano passati i giorni, e forse altri giorni ancora, e spiovevano quei ricordi mescolati alle invettive e ai tristi pensieri, e poi i pensieri volgari cadevano, torbidi; e subentravano ricordi eccitanti, vivi, sessualmente veri e godibili (questa eccitazione del sogno non dormito); infine non restava che guardare una mosca sul muro, un punto fisso, un ragno ripugnante, un punto fisso, il lampadario, la finestra aperta, disteso sul letto, godendo come mortificazione anche di patire il caldo. Era domenica, il tempo passava, chi è giovane muore, chi deve nascere invecchia, e non resta nessuno a ricordare. Accese la radio poi cominciò a singhiozzare – senza lacrime, uno scarico esclusivo del petto, quindi un afferrare rauco del fiato, molto simile allo scarico di un tubo ingolfato, la raucedine dell’acqua, l’arrabattarsi dell’acqua, l’affanno – solo uno sforzo doloroso. La radio cantava; la rivoleva; subito; la rivoleva con la smania dell’angoscia, la stessa smania con cui l’aveva respinta, rifiutata, pregandola di andarsene (e sperando che lei ribattesse con furia, restando). Un’ira di sentimenti mescolata al bisogno di mortificarsi (l’ho detto), di ferirsi allontanando da sé, strappandoselo di dosso, il solo oggetto d’amore che egli possedeva, la felice concupiscenza della ragione; ferire lei che si amava per colpire più a fondo se stesso. E il motivo di questo felino rancore era ovvio. Egoisticamente Ettore aveva pensato soltanto a sé (come accade a tutti gli uomini), trovandosi mille giustificazioni senza capire

– sono rovinato

– la rovina principia

– si può evitare

– è necessario impedirlo

– si può impedire

– la situazione è pesante

– tutto si può aggiustare

ma non gli interessava, gli era indifferente; anche se era assillato dal proposito di evitarlo e dall’urgenza di agitarsi in modo concreto, con atteggiamenti decisi e precisi, perché il peggio non accadesse. L’amarezza e un sentimento di solitudine astiosa aggiunti all’acredine verso se stesso, lo trascinavano ai più volgari pensieri (non sempre si limitava a ferire e a colpire soltanto se stesso), quasi che contaminando la donna potesse rendere meno lucido il proprio dolore.

“È strano – ribatté Ettore – come scappino in fretta. C’è di nuovo silenzio”.

“Hanno fame. Fame, i bisogni corporali. È l’avidità dell’aria che li spinge a galoppare. Usano le motorette per andare più in fretta. Ma alle tre, di nuovo, qua al banco” – puntò il dito in terra, a richiamare da sé autorità nuova per gli altri, o una ripetuta sottomissione di ombre – “Ma parliamo di lei”.

“È tutto scritto qua”, Ettore depose il foglio sulle carpette, allontanandolo dagli occhi come se fosse sincera la sua angustia che la domanda era o sarebbe comunque stata bocciata. La notte così chiara e senza vento, bagliori si accendevano in un cielo di stelle in consunzione definitiva o di nuove libere vite viaggianti; si leggeva il segno entusiasmante dei razzi, un rosso filo che pareva d’inchiostro, un teso rilucente filo di rame contratto e scattante per le strade dello spazio.

“Parlare di lei, caro amico – (e fu amabile, deliziosamente) – vorrebbe dire, se mi intende, un invito ad aprirsi, o addirittura a scoprirsi. In questa occasione una modesta invitation au voyage. Le domande sono fredde? bene, lei è stato preciso e laconico, con intelligenza, nelle risposte. Ma io, io personalmente, ho bisogno di un aiuto se debbo aiutarlo. Da lei ho bisogno d’aiuto. E mi creda: sono fra quelli, amici, come si diceva, che voglio aiutarlo e non posso. O non posso ancora – ho le mani legate. Ma cerco di potere, ho questa volontà di aiutarla. Intanto

– la strada dove ha la bottega (chiamarla così? mi scusi ma è un suo vezzo) è molto bella, è chic

– è un luogo centrale (Ettore)

– un vicolo sofisticato (l’altro)

– Ettore: il passaggio per i pedoni è reso incerto dalla strettezza della via, tenuta aperta al traffico nonostante reclami e diffide; al traffico delle macchine, dei furgoni, che ingorgano si premono sovrastano suonano rimbombano.

– È un’oasi di pace. Alle volte, di domenica mattina, mi incanto alle sue vetrine – le armi antiche arrugginite mi sembrano vive, sembrano senza più forza ma invece sono pronte ancora a far fuoco e fiamma, polvere, dispetto. Soprattutto mi affascinano le giade – ne ho viste alcune, stupende. Aggiunse: converrebbe che lei, infine, dichiarasse le sue convinzioni. Convinzioni politiche. È comunista? La domanda è qua, vede? nascosta fra le altre; a questa domanda non risponde. Era libero infatti. Può non rispondere se crede, non è fra quelle d’ufficio, ma sarebbe bene che desse una risposta, una risposta semplice, una semplice risposta. È comunista? (prese una penna in mano e s’accinse a scrivere). Rispondiamo subirò (deciso, come se la risposta fosse stata pronunciata, o comunque concordata). Ettore si limitò a dire: “È cosi… Anche se lo sono per inerzia in questi ultimi anni – in cui ho perso qualcosa”. L’altro sospirò – l’indice di quel sospiro era il segno di una liberazione inferiore, lo scioglimento di un groppo (burocratico). Appariva di nuovo severo e sicuro, il volto disteso, leggermente molle, lustro, in cui gli occhi sprofondavano – due buchi di dita dentro al fango o alla pastasfoglia. E cresceva con la persona, in alto, sovrastando

– notte profonda, una profondissima notte, le ore scandite dagli orologi della città, delle torri, della banca, i lumi spenti, le strade deserte, non un’ombra; soltanto i fari di un’automobile ogni tanto, un colpo di clacson, una voce. Ma erano poi un faro, una voce, un suono? Quest’uomo oppresso da una vitalità che la notte rendeva spettrale, scriveva ben ritto, solo gli occhi chinati a seguire la frase; senza pentimenti come rifacendo o ripetendo un testo memorabile.

“Rinnoviamo tutta intera la richiesta” disse a un tratto e stracciò il foglio, ne afferrò un altro, accese un secondo lume sul tavolo volgendolo verso Ettore che fu illuminato a fondo, sul corpo (e sulle mani appoggiate ora al tavolo ora al bracciuolo della poltrona) – “ricominciamo e speriamo di concludere. La domanda sarà presentata in consiglio domani. Età, anni, luogo, data, genitori, via, laurea e beni” –

diceva che i beni della madre, cioè del padre, cioè i suoi e della madre; i beni del padre lasciati alla madre; o almeno assegnati alla madre, in nessun modo potevano rivalere per lui come immobili su cui garantirsi – senza, è ovvio, la firma (che è un avallo) della signora madre. Ma questo è il punto contrastato. Lasciamo da parte, lasciamo per ultimo, sarà risolto col giudizio di entrambi. Mi importa sapere:

la richiesta del fido è da attribuirsi alla volontà di ingrandire un’impresa prosperante, dar più chance al lavoro, stabilire nuovi rapporti? stendere nuovi fili di colleganze all’ombra del MEC? o non piuttosto (lei sa, con me adesso può e soprattutto deve dichiararsi a cuore aperto, usare lealtà; bisogna) – o non piuttosto per turare buchi? E in questo caso, da che determinati? Incuria, contingenza contraria, cattiva riuscita di un affare (semplicemente); insolvenza di altri? spese in proprio eccessive? giro di cambiali, interessi a terzi, debiti di giuoco? Notte, notte lucida notte nella sua morte, profonda in una quasi assenza di vita, un pugnale nel cuore pareva e il sonno della morte; la stanchezza annodata alle giunture è la polvere che arrugginisce, è un uccello imbalsamato sul trespolo, sembra di cedere ai sogni strani, vagheggiare tranquilli, disarmati, pacifici, leggermente eccitati; si sente nascere dentro alla notte sentimenti rapidi di amicizia (e di conquista), di solidarietà che poi svariano per chi divide nella stessa misura il gelo notturno e la paura delle ore di solitudine. Era un cimitero, bastava sdraiarsi per terra su quei tappeti morbidi per essere già nella tomba. Assenza di moto, essere all’improvviso dentro i secoli fermi. Ettore dormiva e rispondeva; l’altro, il vecchio, con braccia testa gambe fuori da porte e finestre, travalicante e misterioso, adagiato il tronco sulla poltrona come un ammasso solido di pietra, nella sonnolenza maligna, forse una falsa sonnolenza per costringere l’antagonista al sonno ostentando un mistificato torpore, scriveva dettava domandava.

E il sole, il sole, l’avvampare sull’asfalto delle ombre degli uomini, le cime delle torri con i conati di vomito del fumo. Tutto appariva di nuovo automaticamente ridimensionato, il condizionatore d’aria inserito nella finestra vibrava ristorando. Porte sbattevano mentre i campanelli suonavano. L’uomo continuava nelle domande:

– “Potrebbe esibire la contabilità?”

– Poteva.

– “Confermare di non avere contratto alcun obbligo ancora operante con altri istituti di credito?”

– Poteva.

– “Poteva assicurare, e in che modo, che gli interessi bancari, a conto scoperto, sarebbero stati puntualmente onorati?”

– Poteva.

– “In che modo?”; la domanda, come un serpente, contorcendosi, si addentava la coda. “Siamo al punto, continuò, dobbiamo concludere. Quali garanzie senza un avallo?”

Rabbrividire nella neve. Era questa la sensazione fisica precisa che Ettore sentiva sui pori della pelle, resi duri e compatti da ore di tensione e dal sudore trattenuto, fatto viscido e nebulizzato dall’aria condizionata che svettava gelata – un ghiaccio caldo, o un caldo viceversa ghiacciato, che prima infrollisce e snerva poi rende secchi e irti, così come fa lo shampoo con i capelli castani o grigi o rossi delle donne. Rabbrividire al contatto di gocciole gelate, essere indifesi nell’inverno. Ancora una volta sentiva la voglia di urlare, nel deserto delle sue pene, anche per disperazione, ma soprattutto per bisogno d’affetto, per tristezza, per chiamare un uomo, per richiamarlo vicino, non per odiarlo, non per l’orrore della vita.

Ogni verità si consuma in se stessa, ed è ricomposta dalla sua cenere, dal suo mucchietto d’ossa, all’esplodere di una nuova coscienza, quando finalmente libera e intatta si cerca, e domanda. Ricominciare, con la progressione lenta e asfittica dell’obeso che sale a gambe larghe i pochi gradini; del tardo, del derelitto, dello svagato; ricominciare sempre in se stessi, frugando con le mani in questa poltiglia che è il cuore dell’uomo. La donna: perché la rivoleva vicino, ad esempio? dopo, subito dopo che senza reagire, o con una tortuosa argomentazione del sentimento l’aveva rifiutata? Perché la sua solitudine era sempre così aspra, così cupa? non era soltanto la sua condizione di uomo nella grande città, ma un autentico malanno che gli creava dentro quei vuoti d’aria sentimentali (le sue paure) che lo facevano ansimare come un pesce sull’erba, con la stessa foga che sorprendeva anche gli altri, rendendoli perplessi. Quel commiato l’aveva voluto; non poteva compiangersi; o, facendolo, scadeva davvero in una commiserazione misera, senza sollievo. Notte ancora, con il silenzio non rotto dalla risposta. L’altro uomo era impietrito; seduto, con la penna in mano, la punta appoggiata sulla carta, il viso tranquillo, gli occhi appena dilatati a rincorrere: a) sogni della infanzia, forse – b) progetti per il futuro, forse – c) paesi esotici, africani, in cui affondare. Aspettava; sembrava distaccato dal mondo; non aveva neppure risposto, né si era mosso; non un cenno del capo, un battito di ciglia, nulla, non un sorriso, uno scrollare di spalle, quando la porta s’era aperta (ed era accaduto più volte) e occhi come i gatti, indagatori con costanza, s’erano buttati sul pavimento, strisciando fino a lui, per un saluto o una domanda. Quella notte era continua e fissa, trattenuta dai tendaggi, appena scossa dal ringhio dell’apparecchio dell’aria. Una paletta ruota leggermente in se stessa – Ettore lupo si avvicina alla madre e, piangendo, o piuttosto con un solo singhiozzo, la divora. Non la sbrana; le dava una morte senza dolore nella pancia del figlio uscito dalla sua pancia – un adagiarsi morbido, e perpetuo, nella vitalità dell’uomo che lei stessa aveva allevato, dimenticandolo poi. Era un sogno? Non si conoscevano dopotutto; Ettore lupo temeva; Ettore lupo ansimava; Ettore non rinunciava ancora, sciogliendo la perplessità del cuore, indurendo la volontà (in questo caso), non riusciva ancora a rispondere. E per salvarsi, con decoro; per non essere mortificato e deriso, aveva bisogno di quel denaro.

Ecco la domanda: “La disponibilità della somma, in ogni modo, per lei sarebbe urgente, urgentissima?” La risposta: “Fra un mese. Non ho scadenze importanti prima, ma per quei giorni prevedo di dover prelevare Finterà somma per un versamento”.

Ritornò rigido l’altro, immerso nell’euforia del sonno macinato dentro con gusto e tuttavia con sofferenza per non riuscire a goderlo intero, per non riuscire a concludere, chiudendo per sempre le palpebre; ed Ettore che aspettava ritornò agli spini di neve luccicanti in cima, alla pelle secca, a rabbrividire nella neve. Aspettava di riuscire a trovare la risposta che cercava e la risposta non c’era, non poteva averla, se non dalla madre. Ogni altro passo sarebbe falso, inutile; o una vigliaccheria. Ritardare la sorte, giocarsela per sempre, dentro di sé, non avendo per antagonista che un funzionario di pietra. Un alto funzionario. Forse il più alto di tutti.

Ciminiere, i morti, la luce del sole abbondante come un latte versato sulla tavola; le cose rischiarate nel loro vigore, in risalto l’esattezza delle linee, il tocco delicato, l’immobilità perpetua. La loro esemplarità. Si poteva sfasciarne la sostanza, rompere il bordo delicato di cristallo, ma sarebbe persistito il segno della loro presenza come un calco sul tavolo, sul piano del bureau, sui piedi curvi del mobile Chippendale appoggiato alla parete. Nel tripudio del nuovo giorno s’esaltò la vena grottesca dell’uomo – Ettore ormai lo conosceva come un amico sia pure contrastato tanto parlavano e si scontravano in colloqui muti – che Ettore fu, per un istante e per giucco, portato a rivolgergli la domanda d’aiuto. Dirgli: saltiamo la banca, saliamola come si dice: scavalchiamo la banca gentilissimo oh dottore, dottore dei miei stivali, macaronico, economista eccelso, conoscitor di scienze, addestratore di uomini, sapiente domenicale – firmi un assegno lei che può, allunghi il denaro a me (che renderò puntuale con gli interessi calcolati all’11,85%, sulle sue mani intatte). O rilasci un avallo per me, che mi conosce come mio padre, come un figlio del figlio; sostituendosi a mia madre per troppo ciarlare; che sa di mio padre e di me, che fu amico a mio padre e aiuta (o dice di voler aiutare) il figlio più vecchio del padre; lei che sa tutto e ha la coscienza pulita e una scienza infusa – lei che può spaccare un capello, rovesciare idoli, sbalordire l’inclita, attingere l’ordine.

Sente come trillano i campanelli di tutti a casa? come trillano con una decisione da fucileria nordista per tutti al lavoro? si scatenano le calcolatrici (che Cere pulisce e controlla col grasso ogni due mesi); un cassiere allo sportello 6 sembra impazzito, fuma disperato, piange singhiozza, inveisce, conta e riconta i pacchi, i diecimila gagliardi, conclude la scena con un sospiro fischiando la canzone d’Abissinia. Il giovane commesso guarda le gambe delle donne che entrano; c’è un ladro fra la gente (così vigoroso e desto, così sfavillante che mette allegria per rubare), e c’è un altro ladro, dimesso e magro cosmi, un vinto certamente, un ladro schifoso che ruba per bisogno, un delinquente, uno spettro in divisa da marinaio, è subito preso afferrato picchiato buttato arrestato. “Perché non usciamo a passeggio?” – l’uomo non udì; o fu soltanto un bisbiglio di Ettore invogliato dal giorno. Ettore doveva assolutamente uscire, non riusciva più a trattenersi dentro quell’afa, costretto in quel torpore; forse le gambe non avrebbero più retto a portarlo e sarebbe rimasto anchilosato in quel posto per sempre (altro che prestito). Correre, uscire, ritrovare l’allegria dei sensi come dopo una malattia. La prima corsa sul prato, l’odore della terra bagnata in aprile – non l’odore che cresce mosso dalla corrente, ma l’umore che sforna dalle radici, dall’erba, più discreto, che si cerca affondando la faccia, distendendosi bagnandosi ricevendone in bocca il sapore. Ettore sapeva che chiudendo così bruscamente il colloquio, il prossimo incontro avverrebbe almeno fra una settimana; tuttavia chiese una sospensione, l’ottenne, sorrise, fuggì.

Adesso era disteso nell’aria, sopra una torre, la città si stendeva in un passaggio di pietre senza fine e senza forma. Gli uomini non si vedevano. Dalla torre il lago ci si specchiava e tutti i monti e anche mari, fino – sembrava – ai fiords del nord, alle insenature della Norvegia, al mar di Barents. Ettore sudava, rideva, era anche felice di questo suo sgomento che non si concludeva; di questo chiedere senza speranza, di questa speranza di chiedere; di questo offrirsi senza essere offeso; di non essere accolto; parlare, pregare (modestamente) senza pubblico, senza riuscire a convincere. Sentiva d’avere la forza sufficiente per sopravvivere, anche l’odio per la madre gli serviva (un odio disprezzo che si nutriva in queste ultime settimane), ma non gli importava. La stolta vecchietta, null’altro era che una vecchietta ottusa nei pensieri, con l’ossessione della morte – che si ascolta ogni ora del giorno e nella notte avanzare, tac tac, con una luce di vetro negli occhi. Questa è la fine della vita. Hanno solo egoismi, rancori, rimpianti i fastidiosi vecchioni di cento chili, le noiose nonnette di quaranta chili. Spazzate via dal ciclone

“ma sopravvivono ad ogni guerra, le carogne, a ogni calamità resistono; carestia, peste, morbillo” diceva un tempo l’amico alludendo a un imperituro paparazzo novantenne che, naturalmente, e secondo le regole, lo seppellì.

A Ettore piaceva guardare da lassù e ne provava un beneficio di tranquillità. Così discese poi abbastanza deciso e andò a dormire, vestito. Quando ritornò in banca lo accolse, con molte cerimonie, un giovanotto. Magro, distinto, Prince of Wales, scarpe Saxone, cravatta a tinta unita di Chanel infroissable, ogni oggetto sul corpo al punto giusto deposto con una cura che confermava un deciso rispetto per sé uniformato al decoro dell’ufficio. Mani intalcate, il bordo delle unghie girato al tondo, un bianco che sfumava al grigio, gradevolissimo.

Gli disse il dottore si scusava ma era in riunione (non prevista, come può accadere una volta o due all’anno, aggiunse) e l’aveva pregato di sostituirlo, nel caso che la pratica si potesse chiudere quel mattino con la soluzione dell’ultimo quesito ancora insoluto. Si accomodarono su due poltrone e fumarono. Parlarono e fu come circoscrivere il volo di un corvo, attorno, attorno alla carogna del cavallo; al richiamo della carne un roteare sempre più stretto (qualche impennata) con sguardi sempre più acuti al fondo della coscienza.

“Costoro sono peggio, altro che!” pensò Ettore, respinto un ennesimo assalto. Perché lo picchiavano in quel modo, sul viso e sul ventre, non schivando alcun colpo proibito? Gli chiese se a tutti capitasse, avendo bisogno di denaro, questo genere di tortura. L’altro rise, da bambino. Due denti d’oro. Poi si ricompose e fu attento sotto le lenti – rispose che si davano più casi; per grandi complessi industriali, o anche medi complessi organizzati su struttura industriale, o grossi impianti artigianali, i prestiti erano quasi automatici e gli interessi ridotti rispetto allo standard abituale. Per i privati era un altro affare: chi aveva molto denaro poteva ottenerne dalla banca, se avesse voluto speculare, altrettanto e con eguale facilità – a un tasso discreto; uomini sulla bocca di tutti disponevano della banca come di una propria organizzazione, di una riserva privata – la consideravano bruscamente una so-lle-ci-ta succursale. Gli altri casi si vagliavano uno per uno, con meticolosa precisione, con una preparazione dei particolari che nessuno avrebbe immaginato. Inutile dire che si rifiutavano i prestiti esigui (al limite di qualche milione), per i quali ci sono le banche cooperative locali, le banche popolari o i Monti di pegno, aggiunse; e si scartavano le richieste delle persone bruciate, cioè di coloro notoriamente insolventi, dissestati, o comunque con scarsa aderenza al liquido. Disse così. Ettore intuì che la formula, ambigua e curiale, alludeva ai giocatori di professione, che in questa città cresciuta male e in fretta prosperavano incantando e truffando con delicatezza – simili essi ai pappagalli addestrati a recitare un verso o – è lo stesso – a sorprendere con risposte scurrili. Si salutarono, Ettore si dedicò ad altri giorni di riposo; cioè di lavoro in proprio e dentro al vecchio affanno; di considerazione di sé e della propria condizione. Poté riflettere fino alla nausea, al fastidio fisico e ricordare con rabbia, ferirsi, maledirsi, cercare l’oro nella sabbia, setacciando fra il palmo delle mani, riunite e screpolate, un rivolo di sabbia,

e così i giorni, la piramide della vita, correvano schiantandosi. Vivendo nella castità e nell’affanno delle circostanze l’uomo è ridotto simile a un cane affamato, rannicchiato senza forza contro la spalliera di un ponte, contro un portone chiuso, o in una cantina con i topi. Le cose fatte erano incasellate nella memoria, cartellinate; piccole schede perforate che il bottone dell’affanno percoteva precipitandole nei vani inclinati. Gli atti, le vicende, le cose – nonché parole e azioni sparse – tutto si univa.

Ad esempio: la macchina alla donna, o la donna (desiderata) che lavorava con la macchina, o la donna che lavorava vicino alla macchina; e intanto invecchiava. O era troppo giovane per fortuna, ancora giovane per invecchiare. Ecco di nuovo il rombo dei sentimenti. Decise di telefonarle ma non la trovò, non era in casa, non era in ufficio. Alcune circostanze contrarie; ma riudì la voce di quella madre e indugiò a conversare, dolcemente, con questa vecchia diversa da tutte le altre nella sua umanissima tranquillità, e così calma e cara nella parlata; che non aveva paura della vita e rideva (diversamente); rideva di sé e della morte, e soprattutto non lamentava la vita. Amava tanto la vita, era ancora così viva, da ignorare la morte – pareva. O da volerlo fare di proposito, con più coraggio da non averne pensiero. Che durasse a lungo, dunque, questa creatura, vivesse per l’eternità. Un legno, un tronco sull’acqua, questo gli parve, che l’acqua trascina ma è sempre sulla cima dell’onda. La novità di questa pace vigorosa suscitata dalle immagini e dal sentimento, dopo la telefonata, lo calmò e poté uscire indifferente, acquistare sigarette, il giornale, il cinema e a letto presto. Tutto un sonno a finestre spalancate. Il giorno gli scese sul petto senza peso, con le piume dei capelli che gli sfioravano la spalla. Questa era allegria e questa una giornata da vivere. Si poteva essere, cioè sentirsi forti anche nella sventura (momentanea). Fra due giorni tutto risolto: tornerò da mia madre. La strada è questa; per parlare alla vecchia, alla vecchietta arcigna, sospettosa nella sua bontà di chiesa, leggermente avida nel suo sentimento d’amore, insinuerò qualche trovata. Può firmare e basta, dopo non saprebbe più nulla. Non voglio truffarla, non voglio ingannarla la vecchia, la madre, non voglio angustiarla. Pagherò i frutti e il debito con la regola stabilita ma la vecchina devo riuscire a farla firmare senza ferirla, senza che se ne accorga. Come, questo è importante, una cartolina d’auguri. La firma e basta. Ma lei è furba e sospettosa, maligna, è avida, avara, acuta e teme d’essere ferita dall’amore del figlio. Non vuole aiutarlo, per affetto (così crede). Teme che aiutandolo egli ripeta l’errore una seconda volta in futuro o ricada nel bisogno. Non lo crede cattivo, o disonesto, o da poco; sa che potrebbe legittimare in lei qualche motivato orgoglio (se si eccettua questa dannata circostanza) – eppure pensa ripensa decide che è meglio non farlo, non rischiare. Chissà potrebbe anche perdere tutto. Alla sera parlò col suo latte, con la sua ciambella casalinga, bagnata e gustata, parlò con l’acqua che scendeva (non scrosciava, in cucina) per lavare la tazza, parlò con la televisione che cantava smaniava, parlò col quaderno che riempì con le ultime cifre. Parlò con sé e con dio, col ritratto del marito che ormai considerava come un proprio figlio – sfiocato il sentimento d’amore dalla lontananza, reso incerto l’amore nell’affetto, in una tenerezza un po’ perversa che dava, al bacio seralmente gettato a quel ritratto, un senso ambiguo.

Saltava il tappo del mondo il mattino nel quale Ettore s’avviò a visitare la madre. Tutta la lunga strada coperta di tralicci metallici, gru gialle giravano nel cielo che aveva il colore della carta da imballo; calavano, affondavano, risalivano legate a questo mondo dalla catena che pendeva dal braccio in convulsione. Sollevavano mattoni che sparivano dondolanti, fra le voci degli operai dentro al vuoto scrostato delle case. Uno degli operai cadde con un tonfo e morì. Gli altri calarono giù dai muri, dalle travature, addensandosi intorno al povero morto. Poi con la sirena, sporco dentro al lenzuolo, sparì. Ma l’aria invitava il corpo ad agitarsi, a sentirsi in equilibrio, a godere del ristoro che un’età non troppo tarda poteva ancora riservare a Ettore, e ad altri. I più, poi! pazziavano addirittura nei freschi costumi, i corpi magri liberi, le fanciulle crocchianti sotto i languidi sguardi. Si riposavano all’ombra, quieti, sorridenti, così vivi e veri, così ordinati nella loro giovinezza e con tanto? rigore nella volontà di esprimersi e di ritrovarsi, che ogni anziano abbassava la voce passando, e pareva camminasse furtivo, o almeno più leggero; interessato, un po’ commosso (senza saperlo), invidioso. Passa la giovinezza in un baleno e va. Le ombre di oggi, queste soavi silhouettes muoventisi dentro al caldo di luglio, al riparo di luglio, oggi – eccole, sbiadite, invecchiate, sono l’ombra di uomo e scala, di donna e scala, le due ombre per sempre unite per sempre nel muro della casa, là nel fotogramma di Hiroschima. Vola la giovinezza e va, ed è sempre più breve il giorno dei nostri compensi, più corta è la nostra vita che tira: durano sempre meno i giorni entusiasmanti in cui le ore corrono sulla mano, vezzose, sulla spalla tornita, si rifiutano di lasciarci. Sempre più breve sempre più grave è il peso della vita per chi vive, di questi giorni lunghi per un dolore, misurati per la tristezza della noia, inutili sembra alla gioia – pare scomparsa la giovinezza dalla terra, a branchi uomini dai capelli di latta ansimano consumati per le campagne. Che cosa dico? Ettore cammina nel mattino di luglio mentre giovani spocchiosi ridono davanti ai bar, con ragazze fra essi; un leggero bistro agli occhi (allungati), le vestine leggere leggere trasandate con noncuranza, e si lasciano guardare come se dovessero. Tutti sono se non felici, spensierati. Lo stupendo cuore umano, incolmabile dall’affanno. Un mare di tenerezza, un vulcano d’amore, neppure il gelo della morte lo può intristire. Gli amanti si amano per sempre; gli innamorati, gli amici si tengono per mano. Le parole sono le giuste parole (così sembra effettivamente); ogni oggetto è significato con esattezza, ogni sentimento è descritto con rigore affettuoso; non c’è più il dubbio, l’incertezza; la guerra è scomparsa dal mondo. Resistono altri mali che saranno presto disfatti; e l’Africa è la conchiglia celeste di Venere. Fra milioni d’anni la terra sarà tutta ghiacciata ma gli uomini saranno via altrove rapidi, saranno su Marte se conviene, sul silenzioso Saturno – intristerà sul ghiaccio della terra solo un poco della vecchia storia – e gli uomini sul silenzioso Saturno, e lì ci porteranno i fiumi se mancheranno i fiumi, se i fiumi non ci sono, e porteranno pietra a pietra le più belle città del mondo se là non ci saranno le città belle del mondo. Ecco perché posso vivere oggi – pensava Ettore andando – non ci sarà mai una fine. Eh, è così. La fine del viale non c’è; c’è una piazza e la casa materna, col piccolo giardino (fiori ecc.), la scala, una balaustra di ferro contro la finestra, la tenda di canapa ingiallita, tirata per smorzare la luce in un rivolo dentro alla penombra. I suoi pensieri di prima, una meditazione improvvisa e caotica, gli avevano infuso una carica supplementare di energie e anche di spavalderia per affrontare la madre che non doveva persuadere o pregare ma soltanto sorprendere con un inganno senza peso: una malizia, un sottile farnetichio, una improvvisazione.

La madre sedeva nel sole, spalancate le finestre, intenta a guardare il moto della vita su e giù, osservava inquieta e godeva. Partecipava a quel moto. Il figlio –

seduto accanto a lei, con la consueta tensione di rompere la crosta delle prime parole; poi seguiva un parlare fluente. Non sapeva come cominciare, o lo sapeva tanto bene da non riuscire ad avviare il discorso o da averlo dimenticato. Così minuta, fragile, con la volontà di ferro a chiudere e a custodire il proprio egoismo lieto –

“È per le tasse, tu dovresti fare una firma”.

“Le mie tasse?” sussultò il gomitolo di carne.

“Non le tue, già, le mie” urlò Ettore nel cuore ma rispose con un tono piano nella voce. Le allungò il foglio piegato, con tristezza.

“Devi sapere che ho ricorso – aggiunse –

perché mi volevano soffocare, ho parlato di te mia madre,

di lui mio padre di me tuo figlio, dicendo che

mi opponevo (disperatamente, con convinzione)

non pagavo, protestavo

e secondo le leggi (che lo permettono) ricorrevo.

Accolsero le mie obiezioni martedì

ascoltarono le ragioni sabato

sapevano tutto di me

io finsi di dipendere da te

(esclusivamente) in bene e in male per ogni mio affare,

d’essere ancorato alle tue braccia.

Un figlio a carico

di una vecchia signora.

So che è schifoso oggi (figurati per me)

è una vergogna anche solo a scherzarci;

madre capiscilo, questa è la vita così”.

Tutta nel sole, gli occhi socchiusi, le palpebre sbattevano; nel cielo le gru erano ferme a mezzogiorno. C’era odore di pane. Sbatteva le palpebre; le mani, quelle mani, le povere mani tenere, affaticate anche dal lapis, tenute in grembo palpitavano – Ettore sentiva di non amare sua madre, la vedeva lontana, estranea, incerta nella sua sorte. Lei tirava leggermente la carta da una parte, Ettore la tratteneva con cautela dal bordo opposto stringendola fra le dita, perché lei non riuscisse a svolgerla e ne ricevesse invece sotto gli occhi, aperti chiusi, soltanto il bordo utile, il bordo bianco da firmare; la necessaria propaggine per l’inganno. Firmava altro che quello che egli le diceva ma non una condanna a morte. Ettore non temeva questa schermaglia, distratto da una dura indifferenza, e partecipava al giuoco appena cominciato con la necessaria pazienza ma senza ansietà.

“Firma qua – le disse – poi parto, ricorro e mi vedrai contento poi”.

“Voglio leggere tutto”.

“Leggerai il giornale. Sii più paziente”.

“Non è che non mi fidi, lo sai; ho la mia abitudine io. Non voglio pensieri dopo”.

“Ma non è questo il caso. Formalità pura, burocrazia, linguaggio tecnicizzato, la mia volontà di evasione – d’evadere il fisco soltanto. Non ti diverti”.

“A leggere mi diverto”.

“Tu firma”.

“Leggere prima”.

“Prosa noiosa, burocratica ti dico. È tardi, ho fretta. Mi basta il favore” – ma Ettore capiva di perdere terreno, il foglio restava a mezza via, fra la sua mano e la mano della madre, stretto fra le sue dita e le dita della madre abbarbagliata dal sole.

“Leggimi tu almeno”.

Ettore falsificò il dettato, leggendo calmo come a scuola, o come un poeta nei dischi. Inventò soprappensiero, colpito da una lucidità mortificata; sentiva la bugia nella voce e ascoltava il suono restandone frustato.

La madre sospirò. “Tu mio caro inventi”.

Ettore balzò in piedi stracciando il foglio in pozzetti scaraventati dalla finestra (come la neve ecc. descrizione sottile) e ritornando nel grembo della madre le tempestò il ventre e il cuore, picchiandola dal di dentro, scalciando per ferirla. Intanto le gru avevano ricominciato a muoversi, con le proboscidi fiutavano nella terra appena smossa e la luce fatta impalpabile dalla tenerezza consumata del giorno ingrigiva alzando l’ombra dalle cantine delle case. Sulle impalcature stridevano i terroni storti dalla fatica e gementi un loro canto, mentre in altre case ormai coperte dal tetto, nei vetri nuovi delle finestre brulicanti di schizzi di calce, le SS di color chiaro, vernice bianca, svettanti, si proiettavano sullo sfondo della scena, ripetute e allineate, simboli di richiamo oppure allusione a possibili benefici.

La fedeltà, potendosi interpretare in questa chiave – quel simbolo inventato un tempo e subito ripetuto, non solo da città a città, ma da paese a paese, dall’America fino alla dispersa Albania – la fedeltà alla cosa compiuta dal lavoro, al solido oggetto creato, uscito dalle mani comuni, all’invenzione non più utopica; una rivoluzione di segni, un richiamo (il fumo degli indiani sopra una città del duemila) a cento metri di altezza.

Puoi sputarmi sul cuore, insozzare la mia intimità e rendere pubblica la mia vergogna. Sei mia madre. Con la voce in falsetto puoi insultarmi o ridere sulle mie sventure. Puoi scuotere il capo, puoi ansimare con un fischio del petto, sei mia madre. Ma anch’io, tuo figlio, tu mia madre, sbalzato dal tuo ventre posso ingiuriarti non amarti, ricambiarti con odio senza la gratitudine dell’odio, solitudine e vecchiaia nella tua solitudine. Posso dimenticarti se voglio; incontrarti per la strada senza vederti, ferirti fino a coprirti di vergogna, farti avvampare di rossore fino alla radice dei capellacci bianchi. Posso avere fastidio della tua magrezza, ignorare che sei avida e che questa avidità non calpestata ti è durata fino all’ultimo. Sei mia madre.

Sfasciando il tuo bei ritratto, posso uscire dalla tua casa senza mai più ritornare.

 

Fu in quel giorno che uccisero l’allenatore del Calcio Football Club Avack di * con un mortaretto tirategli dritto in testa e che esplose vicino alla sua panca. S’alzò in volo a braccia aperte, cadde in se stesso e morì; la gente gridava, la palla viaggiava, i giocatori scontrandosi si insolentivano in faccia, con la lingua sul naso, “Putana toa sorela” geme l’ala al portiere che gli precipita ai piedi; “Negro rotto nel didietro” scandiva la folla ogni volta che il giocatore d’origine brasiliana agganciava la palla di sinistra, mezz’ala, e crossava lungo a destra smarcando il compagno. Poi cadde il centromediano urlando per il dolore stringendosi la gamba “go il menisco dio can, ahi ahi la gamba, il ginocchio mama” e si rotolava. “Cavalo bolso, alzate, va’, alzate puteo” l’allenatore lo sfiorava con la punta della scarpa, gli sfiorava una spalla, per carezzarlo un po’ infastidito e per sferzarlo. “Nessuna commedia” ripeteva l’arbitro in giacchetta nera e pareva un direttore d’orchestra disarcionato, un po’ sulle sue, a cui avessero per beffa tagliuzzato al ginocchio i calzoni – dimesso d’autorità, un galletto. La polizia tutta verde s’era schierata. Altri giocatori erano in mezzo al campo immobili.

Il più bel gioco del mondo – c’era da dirlo. Sta accozzaglia di rompigambe e rompiballe analfabeti, carichi di puttanelle e manco male; ma erano giovanotti di vent’anni, sperduti nella foresta – sapessero giocare al calcio come ballano il twist (tranne pochi, da contarsi sulle dita, che sanno giocare). E il dannunziano signor D., ad esempio, intreccia in stile liberty, dopo le partite, l’algoritmo della calcistica scientia, distillerà sofismi, stenderà diagrammi; parlerà, in colonne di piombo, di simbiosi, di paranoia eccetera.

Vengono a galla i cadaveri. Nella nostra laguna fioriscono come sinistre ninfee. Immergiamo bisturi da elefanti nel gran bubbone. Ne sortono verdognoli pus. L’impressione è di sporcarci a nostra volta. Vade retro. Sono anni che sfidiamo il contagio levando pugni da candidi monatti. Elefantiasi, dissoluzione, immoralità. Che splendide parole da comizio. Passano come il vento favonio radendo il ranuncolo acre: le sue campanule gialle da quarantena si piegano appena ma non si spezzano.

Uno va, uno viene, uno resta

uno muore. La partita finì sullo zero a zero. Far melina – far melina…

Tranne l’allenatore (ex nazionale), quel giorno, domenica, non morì nessuno. Ma si tocca il cielo col dito dopo il sangue della domenica. Prima l’uomo esplode, la mediocrità mortificata si fa grande nell’insulto ed esulta, il senso di una colpa collettiva esalta il furore, libera le inibizioni, la frenesia si scatena. Tocchiamo il cielo col dito quando un altro signor D., ad esempio lui, descrive la caccia nelle riserve del Brenta (il Fucini pavese, il gran lombardo delle beccacce impaurite che cadono per il terrore usa uno stile colto). Il suo vocalizzo si inturgida e cresce; si smuovono a volo dalla melma del ricordo parole frasi pensieri sepolti dal tempo di scuola, il cranio lucente di d’Annunzio si china sul ventre nudo per ascoltarne i battiti e si mescola nel rondò alla balbuzie di un medico condotto reduce da due guerre ma gran colpitore di starne. Grande e grosso il signor D. e gli piace mangiare e scommettere che stenderà ancora qualcuna sotto gli archi del ponte di Verona, prima di sedere al suo tavolino per la notte come il signor dell’Albergaccio a descrivere la giornata arzigogolata, azzimata, disperata, tetra, abbacchiante di Castruccio Castracani Ghair.

Una domenica lunga come la morte. L’incidente del petardo, lo spettacolo della partita finita con ventidue morti (si fa per dire); la sera gli passò sulla pancia aprendola come una scatola di sardine e vibrando, pallida com’era, in un rigurgito di sentimenti e di orazioni. Il giorno dopo Ettore di nuovo lì, seduto.

L’altro era più pallido e scontroso ma senza cattiveria. Gli disse che occorreva decidere, una per tutte; non poteva più aspettare. Non doveva. Infine non ne aveva più voglia.

Qualcosa era mutato anche nella sala dalla luce d’oro in cui stavano rannicchiati; qualcosa di non percettibile immediatamente. La luce innanzi tutto, forse.

“Ma non ho amici”.

ed era più pesante, più tedesco, il fascino delle poltrone tradizionali; Frau autentiche, dal cuoio lucente screziato, grosse, ben piantate per terra,

“Credo di avere soltanto dei nemici; o piuttosto (scrollò le spalle) persone indifferenti intorno”

su cui si sprofondava, pareva, fino alla gola.

“Non è allegro”.

“Mi creda, ho riflettuto, dibattuto fra me, sofferto, non trovo via d’uscita. Non ho alternative fuori di una, che è questa, la solita che l’offende: se c’è un mezzo, anche uno solo per tentare, ebbene devo chiedere questo prestito senz’altro appoggio”.

“Solo non può stare. Assolutamente non può stare. È contro la prassi, contro ogni regola. In consiglio, nel consiglio, dentro al consiglio la pratica sarebbe bruciata, non passerebbe mai, in consiglio senza neppure una parola sarebbe scartata. E io, che figura! Conosce il sapore delle scene mute, in queste occasioni? cinque minuti mimati secondo una liturgia tradizionale, raggelante, a cui nessuno, neppure il presidente, può sottrarsi? È come passare sotto un torchio, così, tutto è appiattito. Un batter d’occhi, più eloquente, rabbioso, più rigido e intransigente nel giudizio, delle parole. Un batter d’occhi a destra, un batter d’occhi a sinistra e la scena è consumata. Lei sarebbe trombato”.

Giustappunto: un suono di tromba, tromba trombare, un a solo di tromba, un suono sul corpo del primo soldato ucciso in una spiaggia lontana. Un suono di tromba a salutare il prestigio dell’ora; ahi, l’esultanza del giorno che così sbiadisce.

Chiede Ettore: “Ma non siamo già nel duemila? Non sono, nel vostro caso, e in una situazione come questa, le macchine a valutare, schedare, a decidere, lontano da ogni sentimento? Questo occhieggiare, mi pare, a cui lei allude, è preso dal cuore, da lì viene nonostante tutto”. L’altro capì il filo del ragionamento ma rispose soltanto: “Nel duemila? ci saremo domani; forse ci saremo domani; presto naturalmente. Fino allora bisogna aver pazienza, pazientare, adattarsi alle vecchie strutture che coprono vecchie e care abitudini – rassegnarsi alle buone maniere”.

“Ma la fiducia negli uomini? quel credito naturale che proviene da un po’ di onestà, dai principii con ossequio difesi? dall’interpretazione giusta delle leggi (che potrei esibire), dall’avere fino ad oggi, e con un po’ di acume, lavorato prosperato godendo credito? Perché soltanto le pietre devono pesarmi sulle spalle? Anche oggi non ho che il me stesso di ieri, lo sappia. Lo sappia finalmente la banca”.

L’uomo non pareva adirato o seccato. Era serio, questo sì, ma sembrava piuttosto intento a ricucire l’ordine delle idee, turbato da questo sfogo. Disse: “La fiducia negli uomini? Se avessimo questa fiducia (sorrise alla maniera di un frate che si rivolge a un cliente imbarazzato) non ci sarebbero più banche, né funzionari di queste banche, né, presto, sedi succursali agenzie sportelli. Tutto scomparso, affossato, sparito. Noi saremmo, qua dentro, spariti, dilapidati, cancellati… Perché non c’è luogo dove il falso generi il falso, o un inganno un altro inganno, l’astuzia contrasti con l’astuzia (o il tentativo di essa, maldestro) come nel campo degli affari – dove corrono i soldi; dove scivola via il denaro così presto ma dove questo moto ubbidisce ancora, magari purtroppo, a una regola naturale; ad abitudini che sono ormai leggi. Ecco perché è così difficile ottenerne per chi ne è sprovvisto o ne ha poco e lo cerca. Il denaro corre a chi l’ha. Il denaro corre al ricco, questa è la regola naturale, universale. È una semplice verità. Per il resto, nel regno degli affari, un figlio inganna il padre con assegni a vuoto, il padre esorcizza il figlio diffidandolo col giornale, anche le madri intervengono litigiose e deste, mi creda”.

“Non ogni giorno, ad ogni modo”.

“Ogni giorno capitano vicende tristi, volgari, questi scontri di una durezza incredibile. Se non sono pubblici è per carità o per pudore”.

“O per denaro”

“O per vergogna”

“O per denaro”

“Sì, per denaro soprattutto; è vero. C’è chi paga per lasciarsi ignorare o sentirsi ignorare dal giornale. Vede che non è facile il mio mestiere. Ci muoviamo in un luogo di tortura autentica, fra sottili lame, basta uno scarto, un movimento incerto, una titubanza (non dico un errore) per ferirsi, grondare sangue, ritenersi bruciati. Siamo come le spie. Mi spiego? Vorrei farle capire, ma fino in fondo, che se potessi, ma potessi davvero, senza venir meno alle regole, se ci fosse anche un solo mezzo oltre quello enunciato e che lei rifiuta (ha le sue ragioni), l’aiuterei, toglierei lei dal dubbio, dal fastidio di questi incontri che sembrano perpetuarsi e mai concludere a qualcosa. O sbaglio?…

Già, lei è più impaziente di me di finire. Ma si metta nei miei panni, anche in questo giorno d’estate. Da una parte devo badare che la banca che rappresento non perda la possibilità di collocare il denaro a un tasso conveniente e a una persona che è moralmente fidata; d’altra parte devo compiere questa operazione con le garanzie richieste senza le quali la banca stessa sentirebbe contestate le ragioni medesime del prestito, la sua convenienza. Io presto perché questo mi conviene e perché sono certo che mi conviene e perché mi converrebbe in ogni modo più di ogni altra azione in questo momento; perché ricevo nelle mani tali garanzie che questo prestito mi deve, in ogni modo, convenire. L’astuzia, la mia astuzia, e in essa riposa la mia tranquillità, consiste nell’ottenere dal postulante queste garanzie e di non mollarle più fino alla conclusione del rapporto; questa garanzia che mi da riposo, che riduce la mia perplessità, toglie ogni dubbio residuo, scaccia i timori e conclude secondo la consuetudine. Ogni atto è sottoscritto, ogni formula è compiuta, ogni firma è registrata.

Come i sapienti di un’accademia, poniamo, che approvano con contenuto entusiasmo, ma certamente con soddisfazione, una relazione scientifica, oppure il discorso di un nuovo luminare; o anche, mi conceda la metafora, come soldati che registrano con ogni dovuto cavillo i termini di una tregua. Tregua, badi, non resa. Un rapporto, e se vuole, un momento di reciproca tranquillità. Di cauto riposo. Eh sì. Lei aggiusta i suoi affari, comunque ritrova la serenità e una spinta nuova, noi collochiamo una somma a un frutto onorevole; noi dobbiamo trovare comunque un cliente per questa somma; lei ha, naturalmente, e comunque, bisogno di questa somma. I termini del rapporto sussistono nella loro evidenza. Danno lustro alla pratica. L’incontro non potrebbe concordarsi con più armonia, o tempestività, nelle sue linee generali. Ma c’è un punto. Un solo punto oscuro, un’ombra, un vuoto. C’è una stonatura, qualcosa che manca e toglie ogni forza all’intreccio, lo disintegra, toglie anche rigore al nostro piano, alla nostra volontà di fare. Non abbiamo riconosciuto lealmente d’essere al servizio di un sistema? Così sia. È come un vento impetuoso. Che cosa posso dirle ancora? dureremo a parlare all’infinito? giorno dopo giorno? lei con la sua necessità sempre più urgente, io arroccato qua dietro, fissato alle regole del giuoco, impossibilitato a volere come vorrei; dentro a limiti dunque sempre più nitidi? Si è giunti a un punto morto. Potremmo sedere, qua io, lei là, su queste poltrone e attendere, aspettare, aspettare un giorno dietro a un giorno, un’ora dopo un’ora. Non ci resta altro da fare; null’altro da dire. I nostri occhi evitano ormai di incontrarsi, ci conosciamo, riconosciamo la nostra voce, in essa scontiamo il moto dei sentimenti.

La noia, ad esempio, mobilita le nostre cellule e in esse la mortificazione, l’ira che monta; il sonno – la quiete del cuore; il bisogno di ricordare; questi sentimenti si confondono, ci fanno confusi. Non è vero? È la frequentazione che rende detestabili anche i matrimoni meglio assortiti. Io la vedo diversa dai primi giorni. Ci sono momenti in cui la scambio, o potrei scambiarla, con suo padre; è lui davanti a me, parliamo d’altro, la banca non ci tocca; siamo in luoghi diversi, lontani di qui, dentro ai nostri anni vivi, lontani da questi anni ormai morti. C’è lui quel suo modo di sorridere, con una umiltà gioiosa, negli occhi la volontà di resistere, una forza che gli amavo. Nei nostri anni lontani. Anni lontani, anni lontani (un’eco nella stanza, un borbottio di pentole smosse) ecco perché vorrei aiutarla, come aiuterei lui se fosse vivo. Ma suo padre mi aiuterebbe, lui saprebbe aiutarmi, trovare una via d’uscita, una soluzione, un modo di cavarsela; mentre lei non collabora o collabora male, aspetta da me la salvezza. Si chiude nel suo egoismo – mi scusi – sa soltanto ciò che non vuole fare, contrasta l’azione che non vuole compiere; non mi ha ancora detto in che modo crede di cavarsela da questa contraddizione. Non ha che la firma di sua madre, e non vuole. Invece è la sola che può ottenere facilmente, o con una certa facilità almeno (sia pure mortificandosi, capisco) ed è la sola che possa esserle data in fretta, senza preamboli, preavvisi, senza altre scritture, senza timore di ripulse; ed è la sola che può subito contare per noi. Una firma, una semplice firma, c’è il foglio a stampa, c’è la regolare domanda. Che altro vuole? che cosa chiede? perché non cerca di volere proprio soltanto questo? una madre, la madre. Un figlio, questo è un figlio. Non c’è rapporto più cordiale alle volte; certo non un altro rapporto così semplice se si vuole, così umano, bonario o ingenuo per tenerezza. Non è vero? Poi lei è il figlio, il solo figlio, non ha che quel figlio, lei è un figlio, che può esigere qualcosa, magari pregando; può chiedere; è un figlio amato che io sappia. Apprezzo la sua riluttanza, lo scrupolo dell’affetto, ogni possibile cautela, ma lei non ha altro davanti a lei, non ha altro da chiedere”.

– Domandò ed ottenne, perorando brevemente, una estrema, ultima, definitiva proroga. Si sarebbero rivisti il prossimo martedì alle ore undici e trenta del mattino, nell’ufficio del dottore, per un sì o per un no, Ettore con la domanda firmata o senza la domanda. Non perdere più tempo – non si poteva; non più parlare, non più guardarsi negli occhi; l’odore della gomma piuma, della pelle falsa pelle delle poltrone e del cuoio autentico, l’odore d’aria di chiesa, di aria rarefatta, d’aria di luglio consumata da altri o di estate filtrata attraverso una rete di calzamaglia, un tubo sottile, un filtro di ferro; attraverso saracinesche vetrificate. Rivedersi al martedì, dopo venerdì sabato e domenica; che cosa poteva capitare di diverso o mutare? una nuova speranza, un’altra bugia delle idee? Non basta una vita a far diversa una giornata; c’è uniformità e costanza, sempre. Sopra un filo teso in avanti, senza deviazioni; scorrerci col piede nudo, articolato – che invoglia la coscienza a perdersi o a ritrovare la lena della verità; il rigore dell’azzardo. Non si può vivere senza questo rischio costante. Ettore sapeva che non sarebbe successo nulla, che nulla avrebbe ottenuto da quella parte; che non avrebbe saputo escogitare un nuovo ingrippo da titillare – restando miseramente disarcionato. E anche l’altro sapeva – nascosto dietro il suo riso arguto, l’argomentare umano, il torbido agitarsi delle mani dietro cui si nascondeva, a volte, come dietro a un ventaglio. Nascondeva l’insidia delle parole; o la propria perplessità, il turbamento del cuore. “Perché anche i funzionari hanno un’anima” si scoprì a pensare Ettore agrodolce, sorridendo in se stesso; e non certo l’anima immortale ma quel tocco di umanità, di partecipazione, quel tanto di interesse non professionale che può essere condensato o raccolto in un sospiro, in un moto d’interesse, in un rossore, in uno sbattere degli occhi dietro le lenti. Che altro: in un sorriso, in una parola. Non l’anima immortale che non c’è; non il fiato che si può spegnere (come si spegne); ma il moto del sentimento, un fuoco razionale, la volontà di capire, il bisogno di partecipare. Questo poteva dare, o offrire, l’ultima speranza in quell’affare. Quindi essa era divisa equamente fra la volontà e la capacità di Ettore di trovare una nuova risoluzione o d’affrettare la vecchia, e la possibilità un po’ equivoca in effetti, ma che non si poteva scartare, che anche il funzionario altolocato, l’amico degli anni verdi, il ricordatore di favole, si scoprisse una facoltà immaginativa e potesse, incontrandolo, offrirgli in regalo il bandolo della matassa. Una matassa arruffata, imbrogliata in maniera maledetta.

 

Passò la sera del sabato in casa di un uomo importante. Essendo ignota la sua condizione attuale di disagio, gli altri continuavano a considerare Ettore l’uomo un po’ scontroso (viziato dal carattere), intelligente e abile, conversatore, spregiudicato, col passato di autentiche battaglie e idee d’avanguardia. Solo i più furbi lo tenevano in sospetto per le idee politiche, tutti lo invitavano a casa. Spesso rifiutava, a volte con malagrazia (che divertiva); accettava se la serata si affidava a poche persone e alla possibilità di qualche incontro intelligente. La nostra società ha tolto questo piacere ormai – per le enormi distanze (ore da una casa all’altra); o lo ha fatto raro. Raro come una pistola rara, o un archibugio, o una rara armatura di Pickering (dentro l’armatura c’è il duca di Brunswick). In casa di quel tizio dell’invito era collocata nell’ingresso un’armatura così pregiata. Certo non di William (non da 400 sterline) ma un’ottima armatura da torneo – con qualche particolare contraffatto. La padrona di casa indugiava dietro una tenda, in un salottino, mentre marito e invitati (tranne uno) litigavano piacevolmente fra Johnny Walker e Nenni, per il gusto del rabbuffo. Il dinamismo intellettuale. Dimenticavano che il socialismo era una moda in quel tempo. Si beveva liscio, al mattino; e giù un bei sorso; faceva bene ai reni dicevano i medici (interessati).

A proposito della padrona di casa:

a proposito della padrona di casa c’era da dire che

– anche in questa città smisurata e stravagante, un cantiere, uno solo, un solo smisurato e stravagante cantiere di pietra, di tralicci, di secchie e carriole, di rami, di qualche bandiera (a tetto finito); nella città retta dalla noia e dal dolore delle domeniche senza sole e delle notti senza miele; in essa, in questa città, mia città, in essa e in noi, in voi, in tutti; a proposito della padrona di casa, oltre che delle sue smanie erotiche peraltro legittime o coperte con buon gusto dalla discrezione degli atti e dalla tenda nell’ingresso, c’era da dire o da ridire che:

essa nasceva bene, di ottima condizione, e bellissima era (stata), bruna e formosa come piacevano un tempo le more, il tempo della bella Gigogin, tutta ciccia giovane, insieme alla sorella a lei uguale, bella e formosa, tutta giovane ciccia ma bionda; una bionda e lei bruna, due sorelle, due donzelle, un solo fiore (oh che gran parlare per le vie, nelle notti di maggio, odoravano i biancospini, e ahi! per i giardini); si cantava questa canzone per la via

le due belle ereditiere

han sposato il puttaniere

pareva infatti, o era soltanto la verità cruda, o la voce di una perfidia che sconfinava nella più limpida verità (come sempre), che la bionda, l’una di esse, dormisse qualche volta con un ricco mugnaio del posto, una volta, quando la città era appena più minuta, di vita più stretta, più misurata; non nevrotica, al tempo della vita quieta. E quella era la canzone adattata mescolandola su lei e la sorella, per la strada, sotto le finestre del palazzotto. Han sposato il panettiere le due belle ereditiere. Poi, una, durante un viaggio, riuscì a sposare spasimando come usava una volta l’appaltatore principe. E non gli diede dei figli. Ma costui tentò anche l’altra, la bionda, ci riuscì, si seppe dello scambio e ne parlarono per anni. La bionda ingravidò e generò una femmina. Vicende dimenticate.

Ora la brunona dal cuore d’oro, appesantita, un poco sfiorita, ma non volgare (volgare non era mai stata; benevola anche troppo con gli altri, ridevole moltissimo con gli altri mascolini, questo sì), nel salotto nascosto da tende si dimenava con un signorino. Gli altri conversano. Dentro a un mese di luglio, in una grande città; è Italia. Una sera, la domenica è lustra di brillantina e di cera, ha pupille aperte sulla distesa dei tetti, le finestre sono spalancate illuminate. Si può dire che

– quelli conversano

– la vecchia figlia del proprietario di terra, l’ex gazzella del panettiere, a gambe aperte, non ascoltava;

– le donne perdono facilmente la bellezza; basta una gravidanza settembrina a ottunderle; ingrossano le caviglie;

“si può dire che il benessere dilaga, non è un sintomo? Intendo, un sintomo di benessere? Cioè, se il benessere dilaga è sintomo di benessere. Non è giusto? Se uno è interamente sano è segno di salute. Non vi pare? Non è giusto?”

Sprofondati nelle poltrone osservano il fumo della sigaretta stringendo il bicchiere del cognac ben calcato nella mano. Indifferenti, ognuno chiuso in se stesso, indifferente e ignoto all’altro, crudele al vicino – in definitiva, a tutti i componenti della compagnia. Parlavano a sbalzi, sussulti, scoppi di voce, con voce fredda. “Che c’è il benessere si vede. Non si può negare. Il benessere è lavoro, è spesa, più spesa, è fatica, più fatica, forse più dolore, anche rinuncia…”

“al sofista e all’usura” insinuò una voce.

“Ma se togliete all’uomo di gongolare su se stesso con un po’ di pietà e se gli togliete un po’ di furore, chi leggerà più i giornali e come potranno vivere, sopravvivere i commediografi?”

“Mio caro, i giornali sono in deficit e il teatro è seppellito”.

Alla ragazza nuda fino al bordo delle cosce con gambe tornite (e pareva) in legno pregiato risposero che – sì, il teatro era finito, cessato, cassato con la rivolussione francese (il brivido delle parole!) Ultime scene madri vicino a Guillotin; la testa di un re. L’uomo aveva imparato in quegli anni! a guardare in giro, a osservare famelico di vicende e ansioso di novità. Tutta la giornata era un teatro.

“Poi il romanzo ha sostituito il teatro, la ragione si è sostituita all’azione”.

“E Brecht?”

Risero con convinzione. Chi assentiva, contraddiceva, condannava, chi difendeva:

– era un’opposizione mimata

– retoricamente patriottarda

– comunismo diluito

– un Tour de France

Ettore ascoltava. Questa, era tutta gente che veniva dal carro. Arricchitasi in fretta (abbastanza in fretta), come conveniva al tempo senza pudore nell’arricchire. Famelici e sguaiati (tranne alcuni soltanto fortunati); sanguigna, astuta, pronta nelle circostanze, disposta a giocare in ogni azione, a correre quel rischio conoscendo il trucco.

Un po’ distesa sulla poltrona, leggermente protesa col grembo, la ragazza aveva già acceso tutti, ma restava indifferente e, in apparenza, ottusa, insensibile al fluido di voglia matta che circolava intorno. I seni erano minuti, calibrati sotto la seta gemmata, opalescente, che la stringeva; su lei la luce sbalzava con strani riflessi, per via del vestito. E bagliori. Ora socchiudeva gli occhi, come se dormisse: “Non si può liquidare Brecht” sibilò “coi soliti due colpi di rivoltella. Accoppate chi non capite, togliete di mezzo chi vi fa paura. Siete porci; ignoranti in malafede e porci”.

La bacerei in bocca, Ettore era curioso e intento soltanto a lei. Degli altri!… grosse vampate di sudore venivano dalla strada fino alle finestre e precipitavano nella sala.

“Nessuno vuol liquidarlo mia cara. Quell’uomo è solo un piccolo pretesto politico, una modesta illusione. Se…” –

Un altro: “Caviamolo dalle occasioni, il suo è un teatro slavato, testi per celebrazioni universitarie…” Un altro “un romantico coi capelli a spazzola” –

Un altro “chi crede più ai profeti? Se muoiono gli dei debbono finire bruciati con loro anche i sacerdoti in gramaglie”.

Parlò Ettore per contrastare – ma con poca convinzione date le circostanze. Vide che la ragazza complice gli sorrideva appena appena.

Il padrone: “So come lei pensa, che cosa pensa… Ma è a questa graziosa creatura che dico: attenta, non si lasci fregare dal cane mastino – pare buono, col muso fra le zampe. Lo lasci perdere. Lo dimentichi Brecht, o un altro come lui; non ne avrà che grane”.

“Che caldo” sbadigliò la ragazza “mi toglierei il vestito”.

Subentrò il silenzio e tutti bevvero in silenzio.

Il padrone, con il volto su cui, oltre i fanali degli occhi, svariava un naso appesantito dalla carne; sotto gli occhi rughe che la stanchezza infittiva di vene come l’affiorare di scaglie di legno dentro una corrente. Gli occhi persistenti, cattivi oppure amabili, implacabili, trivellavano l’aria e l’avversario; ogni oggetto o persona era di volta in volta afferrato e calibrato. Abbastanza pesante, alto, le scarpe difendevano piedi spropositati, scarpe nere dalla suola spessa, un po’ lise, trattenevano i due piedoni. Teneva le gambe distese, stravaccato sulla poltrona ma senza appoggiare la testa, anzi sollevata, in una posizione innaturale e certamente scomoda che distraeva il corpo dal riposo. La fatica del sostegno era affidata alla schiena e alle braccia, ma pareva non risentirne fastidio; anzi, che godesse per questa approssimazione di riposo. La voce, che aveva l’accento del lombardo delle campagne, era sonora; si esprimeva a volte con insospettata gentilezza e con una approssimazione di verità. All’argomento si appassionava, accendendosi sotto le borse degli occhi, entro cui finivano di naufragare le vene. Era un alternarsi di pallore e di giuoco, sul vetro del viso, in uno scontro di sentimenti. Mai che si stendesse accucciato, mai che si dichiarasse scornato; aveva la voglia di resistere e di sopportare l’apparente o momentanea supremazia dell’interlocutore; di aspettarlo al varco, magari per tutta la serata. Senza animosità ma come un giuoco che lo suggestionava o lo provocava – sapendo adeguarsi al quale gli accresceva il prestigio. Esplodeva in lunghe tirate che gli altri ascoltavano, ed erano costretti ad ascoltare, in silenzio – senza più dare respiro; il tronco si drizzava assumendo una dignità da vecchio (offeso); la faccia, tutta la faccia, si atteggiava in meglio, caratterizzandosi; più nervosa, malleabile. Ettore non tentò neppure di chiedere o parlare, su l’argomento che interessava. Non era andato per questo scopo, o con questo fine; s’era ripromesso, semmai, di parlargli a quattr’occhi se la situazione o un momento favorevoli l’avessero permesso; o addirittura sollecitato. Ma la serata, per la verità un poco assurda, era passata nell’apparente immobilità delle persone sedute, degli occhi conficcati nel grembo della ragazza, con l’ombra delle mani tese a stringere i bicchierozzi del cognac ghiacciato. Rapidi scontri verbali, lunghi silenzi, piuttosto pause, durante le quali si riusciva a intendere lo sforzo delle meningi intente a masticare idee o a provocarne, per intercettare o aggredire gli altri. Gli avversari schierati in circolo. Per tutta la serata la moglie fu assente; ma arrivò con la finta umiltà della presunzione, arrivò non atteso (dai più, almeno – e un poco detestato), non più aspettato, procedendo lentamente in un calcolato deambulare per la sala, predisponendo gli altri all’attesa, alcuni disponendoli all’angoscia come il sottoscritto, disponendoli con la sola attitudine della presenza al sorriso delle idee e dell’interesse concettuale; arrivò a mezza serata atteso inatteso, l’ergotante frastuono dell’ambiziosissimo Geo, sortito dagli ambulacri diceva lui di private biblioteche in cui, ahi stando in piedi, divorava l’introduzione dei libri tenendola a mente, collezionava risvolti come i maligni gli opponevano. Calvo per quanto giovane, vestito bene, le mani bianche, camicie di * (un negozio importante), ai piedi i costosissimi mocassini che quell’estate erano di moda. Per sedersi attese che l’invito gli fosse ripetuto – era astuto. Non guardò la ragazza ma scelto con rapidità un posticino quasi al centro del circolo, si volse trafitto dall’ironia degli occhi, al padrone del vapore. Gli chiese da bere e bevve. Come un giocoliere dentro a quella piccola arena, svolse domande innocue, secondo un’abitudine, per scaldarsi; ma era altrettanto vero che egli lì si presentava di proposito, per calcolo, per esibirsi. E si preparava, stropicciandosi ogni tanto gli occhi, con un sospiro. Era ormai pronto al salto. Fu quando il padrone di casa

alludendo alla ragazza (che piaceva a tutti, tutti, tranne Geo; essendo tutti uomini concupiscevoli)

spiego in che modo, e come,

a Brecht m’ero avventato (disse).

Io m’ero avventato, dicendo questo e questo.

Il padrone di casa non aveva paura di Geo, neppure rispetto per Geo; lo divertiva, ma infine una volta passeggiando aveva confidato a due amici che Geo non era neppure intelligente. “Un esibizionista” aveva detto; “esibizionista non molto intelligente – e con una sorella iettatrice. Per due volte che l’ho incontrata per caso e ci ho dato il naso contro, per la strada, ho fatto la colica alla notte; una colica renale; avevo mangiato soltanto ravanelli, col solito bicchiere di latte. Quelle rivoltanti coliche che sbattono. Ed è stata quella vaccona a buttarmi il malocchio addosso. Sono certo è così”.

Fu quando il padrone di casa, roso dall’impazienza di attaccare anche sapendo che in principio rimarrebbe scornato; quando gli espresse i termini del precedente contrasto su Brecht che Geo saltò in lizza. Rifece il verso a Ui e fu Hitler e Mussolini in una gioconda indigenza comune; mimo la sciocchezza unita alla vergogna, la scurrilità mescolata al fetore. Si imbrattò di grottesche frattaglie, volgare, insinuante, furbo e per un po’ amabilissimo. Per un istante infatti gli occhi lo seguirono allarmati e divertiti. Gli occhi guardavano, le orecchie ascoltavano; poi tutto sprofondava nella mollezza dei tappeti. Accennò anche a passi di danza, storse il muso, si mise in capo il colbacco, finse l’ira, la distrazione, una severità arida, un’ira sordida da questurino. Agì prima di parlare; poi stanco sedette per il comizio. La voce cominciò a palpitare come se tentasse di alzarsi a volo senza riuscire; stridula anche se ben modulata, si svolgeva in frasi studiatissime, trivellate dalla memoria che le riempiva di particolari, di un’infinità di aneddoti, di allusioni, di richiami. Mai, come in quel momento, apparve la freddezza di questa testa calda, la sua frigidità senza vie d’uscita, talché fu quasi un giucco per il padrone affermare troncando il monologo “la vostra esibizione sul bacio è finita, Bergerac, almeno per questa sera. Amico mio, avete inumidito le palpebre a più d’una donzella. Per me, la frase più intelligente, cioè più acuta, udita questa sera, in quest’afa, in questa città; oh, gli è che non ricordo bene tutto dopo un giorno di fatiche (fingeva la smemoratezza assai divertito lo sciagurato, ilare); ma questa sì la ricordo. La signorina l’ha detta: la sua voglia di togliersi il vestito. Ma lei Geo non riesce a capirmi, lo so. Sono troppo vecchio per lei, lo so; la capisco anch’io. Sì beva il suo cognac prima di andarsene; lo beva a cuor leggero; lo beva adagio, addio”

e si distese nella poltrona chiudendo gli occhi, riparato, quasi si disponesse a dormire ignorando gli ospiti. La riunione si sciolse poco dopo ed Ettore si ritrovò nella stanza stanzuccia stanzetta in cui soltanto un oggetto l’aiutava ed era il letto, duro, restio ad accettarlo e a sopportarlo, ma che finiva per dare al corpo un ristoro anche se solo riposava ad occhi aperti, guardando oltre la finestra. La notte fu lunga a passare – le notti sono lunghe a passare. Aveva giocato, malissimo, le ultime partite, anche le ultime carte, e adesso non gli restava: a) che andare ad ascoltare il flamenco rock, il rifiuto ufficiale, in banca, nel giorno stabilito martedì; b) cercare di scoprire qualche alternativa urgente, una soluzione di emergenza, se mai riusciva, nei ventidue giorni che mancavano alla fine di quel mese. Aveva giusto ventidue giorni esatti, compresa nel conto la domenica che cominciava. Lunedì dai giornali apprese che il funzionario, eventuale amico, il competitore sodale di suo padre, a cui era restato tuttavia soccombente nella disamina dei fatti e delle occasioni a lui negative, era morto di un colpo, in casa, domenica mattina. Un infarto, uomo di sessantadue anni, sei e due, valente probo integerrimo fra il cordoglio di direzione centrale e periferiche, segretarie, agenzie, succursali, amici, mogli di amici, la mia signora, parenti, figli, colleghi. Il dolore.

Ettore fu colpito non tanto dalla notizia della morte, che comunque non riusciva a distrarre o soltanto ad allentare un’operazione la cui conclusione era fatale; ma dal riproporsi alla sua mente di talune immagini, particolari, suono di voce, di quel personaggio concluso che si sfaceva, che era più nulla dopo la discreta potenza in vita (nel suo campo legittimo) – essendo che automaticamente scattava la teoria dei gradi, dei lubrificati congegni per una lunga esasperata dolente e d’altra parte inflessibile trafila burocratica; c’era un nuovo sedere per l’incavo della poltrona. Il ricordo della voce, di alcune parole gravi, la serietà tenera e turbata delle allusioni l’accompagnò e lo distrasse da altri propositi. Chiuso in casa, sudato, a torso nudo, restò il giorno intero disteso, mezzo accecato dalla luce, mezzo affondato nella penombra calda, bagnata, polverosa, a pensare con le immagini in movimento, non riuscendogli spesso altro modo di intimità con sé e di conforto.

Un violento temporale all’alba poi un vento, quasi un vuoto, che lustrava le pietre e le pietre splendevano e respiravano. Ettore arrivò alla casa sul viale; immersa in un verde afoso, in un silenzio appena crucciato; era una palazzina a quattro piani, di gusto modernissimo, a vetrate continue, una casa aperta alla luce con tutte le braccia, impudica e brillante. C’era molta gente che aspettava a crocchi scostati, con l’atteggiamento di chi compie e partecipa a un dovere, a un obbligo d’ufficio da cui non si può rifuggire. Nessuno guardava il cielo e l’aria zampillante con nostalgia; tutti accondiscendevano all’obbligo di incolonnarsi a tre per volta, le mani dietro la schiena, il cappello fra le mani, il viso né alto né basso, nell’attitudine guappa di disinteresse, un’andatura, oh l’andatura ferma e riservata (un capolavoro di presunzione), conscia dell’importanza del personaggio che si accompagnava e dello spettacolo a cui si partecipava, pubblicamente. Il suo estremo atto di forza (del morto); l’estremo ossequio ufficiale. L’ultima noia. Certo che di lì a un’ora, salva la messa del trigesimo in pompa magna, l’avrebbero dimenticato. Era nella norma. Lui stesso l’aveva affermato in uno degli ultimi incontri con Ettore, così bianco nel viso bianco dei capelli bianchi “vede se al mio posto ci fosse un altro, un altro sedesse, come può capitare fra poco, le direbbe le stesse parole. In fondo abbiamo scarsa libertà e dobbiamo perfino censurarci a pensare, se vogliamo durare e sopravvivere. Se vogliamo progredire. Ci è negato professionalmente il gusto dell’avventura, di qualche incertezza, di una improvvisazione; il giuoco insomma. Ci richiamano alle cifre – che costano poco. Alle volte è una pena, come in questo caso”.

Il corteo si snodava per il viale, lunghissimo lento, senza vessilli e fanfare. Un importante silenzioso corteo per un signore importante. Molte corone sui carri concludevano la sfilata; macchine e macchine dietro. Ettore si trovava circa a metà; dopo aver firmato il registro s’era tenuto da parte, indeciso se andarsene, come doveva, o restare, senza alcuna necessità ma per una curiosità meschina, o soltanto per curiosità, o l’indifferenza, o per la noia. In effetti non sapeva dove andare in quel momento. Camminava, un po’ pensando e un po’ guardandosi intorno, con l’insofferenza che il pensiero della propria condizione insinuava anche nella bellezza del mattino d’estate. La ragazza bionda, giovane, che gli camminava al fianco – insieme a una signora anziana e tanto grassa che faticava ad avanzare e sbuffava col naso, sudava, si sventolava con un piccolo fazzoletto bianco. La ragazza è Elisa, la sonata per Elisa, chiaro di luna per Elisa, Elisa coi capelli biondi, il faccino scavato, gli occhi lucidi ombrosi, indecisi per una riservatezza del cuore; e l’aggraziata persona, i piccoli piedi. Con Elisa cominciò a incontrarsi da quel giorno tutte le sere (i tramonti) e la domenica due volte. Passeggiavano parlando. Era piacevolissimo e distensivo – lo riconoscevano entrambi; sedevano anche su una panchina, semplicemente; o al tavolo di un caffè non affollato. Si distraevano, sentendosi in armonia. Studiava chimica, aveva qualche progetto misterioso per il proprio futuro, idee chiare sulla vita (per quanto possibile), qualche dubbio ancora a ventitreanni. Fumava molto, parlava adagio, pochissimo di sé, qualche accenno, mescolanze di ricordi, e poi? Parlava dei problemi, di idee generali, argomentava sottile, ben informata, con qualche novità. Passavano i giorni. Ettore si limitò a inoltrare in banca una seconda richiesta, dettagliata e sottoscritta, motivando con una scusa banale (lo riconosceva) la mancanza di un garante, di una firma di avallo e si limitò ad aspettare, non tralasciando di consumarsi per scovare una nuova idea, una seconda sollecitazione, qualche cavillo. Bah! Con la madre aveva chiuso; morta sepolta la vecchia non intendeva più rivederla, crepasse con la sua roba e addio. Era certo che la banca avrebbe senz’altro respinto la domanda, per via gerarchica. Occorreva trovare – se voleva scampare sul serio, non limitarsi con sarcasmo a guardarsi bruciare sul fuoco – una persona fisica, una mano vergante, l’oggetto dei sospiri. L’impresa appariva disperata. I giorni passavano. I momenti di pace erano con Elisa (Klavierstück für Elise).

Va da Canestri, l’usuraio elegante. Cercava una soluzione. Era un giovanotto slavato, con un colorito epatico sulla faccia, un nervosismo di manovra, le mani sempre in movimento; e gli occhi puntati. Sui trent’anni, ricchissimo. Non c’era una storia misteriosa dietro questa sua ricchezza (una montagna di grana diceva la gente) ma un’attitudine della famiglia, una congenita disposizione di tutti a ramazzar quattrini dove fossero, anche sotto un sasso nascosti da un vecchio crepato al tempo di guerra (capace di scovarli mentre cerca i lombrichi per la pesca); ricco il padre, ricco il nonno, ricca la madre, ricca la vacca della sorella, apriva la mano e un passero gli sputava un quattrino, zac! dal didietro. Un uomo fortunato, una famiglia fortunata; quell’anno era sulla bocca di tutti l’affare delle aree verso l’autostrada del sole, alcuni miliardi di spesa e il doppio sull’unghia di guadagno a pronti, sgranati in carità e di prescia – per i quattro speculatori dalla camicia pulita e Canestri era il terzo di questi. Ha guadagnato il suo miliardo in un amen.

Bene, bene, bene. Aveva l’ufficio all’ammezzato, in un palazzo del centro, disadorno era, gelidissimo nella nuda armonia delle pareti.

“Mio padre conosceva sua madre”.

E dai, gemette Ettore, ottuso e offeso da quella perenne presenza dell’ombra paterna che lo rimordeva. Nell’aria un odore di latte bruciato, non come una naturale emanazione lancinante dell’ambiente, ma salito a tergo dalle bassure del palazzo e insinuatesi attraverso le finestre semiaperte; un odore di cucina, la mestizia delle ore, il fastidio della pioggia contro i vetri, le grosse voci piantate nell’asfalto, nella polvere.

Lo guardava curioso, lo osservava ed esaminava ficcandogli contro, come due cerini accesi, gli occhietti gonfi, brulicanti di vermi di malizia. Sotto nella strada, o dietro nel cortile, doveva essere un garage, con i rumori dei motori tenuti in folle, a basso regime, mulinando poi accelerate che scuotevano l’edificio, il rigurgito dei gas s’alzava a nuvolette rotonde, le debraiate, il cicaleccio degli apprendisti stregoni e dei volgari meccanici. Era un continuo scaracchiare, e insulti, poi voci benedicenti al dottore, l’inchino della mano e del piede al passo del commendatore.

“La sua famiglia un tempo era amica alla nostra”, stringeva fra le mani un tagliacarte di legno; “Sette milioni, dice? e quali garanzie?”

“Cambiali”.

“Cambiali? in commercio sono carta soltanto”.

“Ho il mio nome”.

Quasi crollò a terra, convulso, non offensivo, era soltanto un riso, mordendosi di dentro in una ferocissima contentezza.

“Non può essere così ingenuo”.

Ettore si sentì bruciare; ira sorda, il rancore (ebbene?), il dolore in bocca come di frutta acerba; un groppo nella saliva.

“Non è ingenuità, è amore” si ascoltò rispondere in un angolo cantando, come sdoppiato, lui stesso in un angolo e l’altro seduto, col suo triregno; rispondere così tranquillamente perduto. Era sicuro di giocarsi il credito personale sulla piazza

“Non è possibile, diobono”

“Non che cosa?”

“Questo”

“Che cosa?”

“Dovrebbe saperlo. Non basta mai, la parola non basta, di nessuno. Carta canta? Chi potrebbe aiutarla fidando solo sulla parola? Un matto forse. Ma la carta di una cambiale non canta; è carta da cesso, magari anche con la sua riverita firma sopra. Se lei non paga (mi scusi) me ne sbatto di ficcarla in galera; se ho dato quattrini rivoglio quattrini. O muri di pietra magari in cambio. Nient’altro. Me ne sbatto della vendetta, in questo modo. Su che cosa mi appoggio allora?”

“Allora? a chi date i quattrini?”

“A chi ci pare, beninteso. A chi è solvibile con case, terreni, gioielli e mogli belle, muri di fabbriche, ferro di macchine che lavorano, quadri alle pareti e titoli in banca. A questi la borsa è aperta, tutti prestiamo, così; almeno io presto. A questi e a nessun altro. Me ne sbatto di cadere negli ingrippi e di scoparmi con la galera degli altri. Non mi pare, a parte la sua onestà che non discuto, che lei da quanto dice possa offrire queste pezze d’appoggio case terreni fabbriche, vecchi ori e quadri. O io ho inteso male e lei invece può esibirci quadri, ori, fabbriche, terreni, case?”

“Non ho case, terreni, fabbriche, né vecchie vernici”.

“Vede bene. Allora?”

“Ho garanzie (solide) di serietà professionale”.

“L’onestà non fa credito per queste operazioni, non regala credito a nessuno. I quadri, i gioielli, i terreni, le case; questi oggetti palpabili, queste sacrosante verità, i beni del signore, offrono garanzie dense e ben calcolate, a un credito intelligente. Mi capisce?”

“Capisco. Eh, certo capisco. Un credito intelligente”.

“Ho detto bene”; subito giulivo, “lei traffica in armi antiche?”

“Questo, fra l’altro, è il mio lavoro. Non un traffico ma un mestiere di pazienza soltanto”.

“Veda veda questo pugnale” aprì in fretta un cassetto

– Ettore è per la strada di fronte a un negozio con eccelse vetrine brulicanti, lo sfarzo delle luci al neon. Ottoni, pezzi nichelati, fucili da caccia con il calcio incastonato di madreperla effervescente e la cassa lavorata a ghirigori, arabesche, serpentine, uno sfoggio di bulini, di inedite scene di caccia, con qualche foglia di erba gentile. Inoltre, nel centro della vetrina illuminata da due piccoli riflettori nascosti a luce vivissima, per l’antica via del centro, la pistola calibro 7,65 con ricche incisioni; il modello 421 calibro 6,35 con guancette in tartaruga montate su apparecchio metallico dorato, dentro a un elegante cofanetto; il fucile S.I. 3 EL a ejettore automatico, bascula in acciaio speciale. Vicino a una pistola a tamburo, dalla canna slanciata ma con nel mezzo una massa pesante tutta incrinata da scavi profondi e rilievi affilati, dondola un cartoncino stampato a caratteri Shadow nero tondo corpo 10 dal rilievo scuro e ordinario:

“Nessuna epoca più della nostra ha bisogno di esercizio, di autocontrollo, di calma e di fermezza. Le inquietudini, le preoccupazioni nel succedersi febbrile degli eventi, il ritmo ardente della vita lavorativa, impongono sempre più all’uomo – protagonista di questo suo tempo – doti particolari nel carattere e nel fisico. S’impone cioè la ricerca di mezzi adeguati allo sviluppo di tali doti per raggiungere una propria personale sicurezza che stimoli, di conseguenza, i riflessi. Tra i mezzi ampiamente sperimentati e collaudati da consigliare per questo fine, come regolare esercizio, è il TIRO. Il TIRO, nelle sue varie specialità, è conosciuto come sport e come svago; sport che offre motivi di vivo entusiasmo, svago sereno e tranquillo. Dal 1680 armi, sovrapposti serie SS 55 B; S56E…”

– Ettore lascia il negozio. Il giorno diffonde un chiarore verso ombre lontane che sembrano colline e in realtà sono rilievi grezzi del terreno; mucchi di detrito, di pietrisco, sabbia di fiume. La città nasconde i vicoli dove cartocci di immondizia ammuffiscono e dove un pulviscolo d’oro cala dai tetti ed esplode per le vie del centro, lungo i vialoni illuminati da un boato continuo, intermittente, o in piazzette illustrate da un superstite marmo antico – in cui boutiques larghe quanto un paravento, profumate di silenzio, improvvisano incontri d’amore. Volteggiano nell’aria alcune piume cadute dai tetti, un odore di terra e di benzina si mescola a miasmi acidi, al fresco di cantina che sale a vampate dai vecchi palazzi. Il fumo delle case si muove con la brezza che cresce; la notte avanza, è un soffio; poi scatta come una molla. A destra, accanto al marciapiede (cento metri d’asfalto senza una grinza che segni il catrame) una fila di macchine lustre di spirito, orocrinite, senza un soffio di spuma di polvere, aspettano con confidenza ma indulgenti, ognuna sola e appartata, perché “ciò che è incustodito è custodito dal destino”; e nei rilievi della cromatura, negli intrecci delle gomme special ben rilevate e forti, si possono leggere come su una sfera astrale, presagi di autorità, potenza, denaro, l’amore delle donne, bisbigli, il sangue delle vergini, servili omaggi, una riverenza prolungata. Una vecchia, il collo stretto da un nastro nero, incipriata, è seduta in una di queste nuove diligenze, dai vetri abbassati. La signora gira la testa (non oppressa dal caldo), si volta a guardare, indugia, muove le labbra, aspetta, poi sembra appisolarsi, ma basta un nulla a distrarla, a riportarla alla vita, toglierla da quel gorgo in fondo al quale è la morte. Ne sente a volte il fiato sulla pelle, un freddo di bottiglia. Aspetta con sforzo, un poco inquieta, poiché muove soltanto gli occhi, seguendo ogni persona passare; abbandonata e affossata nel sedile, dentro al tumulo della notte – che il fragore della strada, le luci dei negozi, lo sfarzo delle voci aggruppate, il suono dei passi, non riescono a coprire. Ma, pensa Ettore passando veloce, “vive anche senza aiuti chi è abbandonato in una selva”. La signora è nel buio, sempre più dirada. Un caffè in fondo a un passeggio importante; si radunavano pelliccie e cappotti di loden al tempo dell’inverno, artistiche ambizioni annegate nella noia – in una patetica tristezza. Il passare degli anni. Al principio di ogni autunno le donne, con dolcezza, hanno le ciglia più bionde, slavate dal sole del mare. Chi si lamenta dei figli; o si passano biglietti amorosi. Al caldo d’inverno, al fresco d’estate, i grassi i magri i timidi i vanesii i furbi, o soltanto i falliti. Una corsa alla morte, nella montagna dei giorni. Lì Geo trionfava, ubriacandosi di verba e di autentici cicchetti e dimenticandosi di sedere per ore. Sorbiva fumando Chesterfield l’aria del successo locale, divertendosi su se stesso e con se stesso, disprezzando altrui, arrogante e mellifluo, egli inventava, frivolo, indifferente, ossessionante –

quando doveva passare, nell’ora, in certe ore, o solo in alcune giornate dell’anno, ad ore fissate; eh! quando doveva passare l’alto pittore famoso, così antico nella disarmata vecchiaia, alto silenzioso in se stesso ingrugnato; attento con l’occhio abbassante la coda sotto le lenti spesse che sfavillavano; e trascinava la cordicella della fama faticosa dietro a sé, un cagnolino guaiente, il minuscolo animaletto farfalleggiante che lo seguiva e lo chiamava per nome applaudendolo, fra il commosso silenzio della popolazione che batteva, col cuore, le mani. Una fama di pietra passava, il marmo strideva sul piancito procedendo – un cammino greve, sempre più antico e remoto, fra gli scheletri che penzolavano a guardare.

Era un caffè e lì Ettore incontrarsi con Gropius doveva, per visitare una casa con mobili antichi che si vendevano in fretta. Geo parlava e dicendo noi col piumino della voce si strusciava, era uno sbaffo sul labbro, un piccolo furto, la vanità che si drizzava. Ettore aspettava Gropius e ascoltava.

(Da spiegare che) nessuno lì, fra gli uomini e le donne, e giovani invadenti, e ragazze; neppure Geo in vetrina conosce l’attuale abiezione di Ettore, il suo dolore, la sua angustia, l’angustia delle giornate trascorse da un ufficio all’altro – nel silenzio – sull’attenti dinanzi a occhi aguzzini – nel silenzio – per domandare o soltanto per chiedere, per molto pregare. Nel silenzio. Nessuno immagina questo fastidio (che altri lancerebbero a girandola per l’aria), quanto rancore e odio contro di sé e quanta paura sottile, che morsi di questa paura, a volte bestiale, quel malessere ossessionante ecc.; – e Geo diceva, trascolorando da una finta ambascia all’altra, fumando e soffiando il fumo, che si riteneva coperto assolto confortato in definitiva da questa frase letta in un diario chi sceglie una volta per tutte si esclude dalla storia; e la giustezza del lemma, considerati i tempi, consisteva nell’ampia disponibilità pragmatica che concedeva all’individuo eccetera.

Gli obiettavano che la frase era ambivalente e acuta, utilizzarla in quel modo era defraudarla alla fine. Badasse! Il sesso, gridava Geo, ecco l’orribile ombra del secolo. Asessuiamoci e trionferemo della morte.

“Che c’entra la morte?” chiedevano allocchiti e lusingati gli spettatori; “Mica di morte parliamo (tocchiamoci i coglioni) ma della nostra vita, ore e giorni (che purtroppo passano ahimè), del deserto della notte, di lavarsi e di leggere; dell’arte di fare all’amore. Andare a letto con una donna è un atto della vita. Che cosa c’entra?” e l’amenissimo Geo risponde che il sesso conduce all’incertezza, al dubbio, all’amarezza, a una specie, come dire? una specie di insoddisfazione. È come la sete, non si riesce a vincerla; come un malanno dura insiste resiste nel corpo. Dove si rifugia l’agilità della mente, la sua curiosità, la fame di idee, il bisogno di discutere, una forza per durare a parlare? L’uomo sazio ha sonno, ha sete, ha fame, ha il pianto; ha la mente distratta, i pensieri divagano, ballonzolano.

“Bah!” un coro di meraviglia; Geo con un gesto di fastidio, da una tazza rotonda, col cucchiaino, immergendolo nella panna, cominciò a mangiarsi la macedonia. Il viso gli si distese e non ha altre preoccupazioni che l’intreccio delle moccicate, sceglie i pezzetti immersi nel sugo, profumati di zucchero e rhum da portare alle labbra, adagio. Una voce guardandolo: esse mala malo mala mala sata – Geo col suo cucchiaio alle labbra. Sei brutto, Geo, sei cattivo Geo; ma che cosa vuoi dire mala mala malo? è greco, è latino? no, è sanscrito? traduci Geo, ahi tu! Erano agitati, curiosamente; parla Geo, di’ Geo. Ma Geo delibava, lentamente, col suo cucchiaio nell’aria – e una voce: preferisco mangiare con cattiva mascella; è così ah! Geo non traduci? non distilli fra un boccone e l’altro della tua macedonia? nel riso, nella luce delle case antiche trascinata sulla città dal volo rumoroso dei piccioni, si dimentica la ragione del contrasto, le parole avverse, i fastidi del cuore, tutto si volge al giuoco e si dimentica. La luce si irrigidisce, per un momento sembra spegnersi, poi brilla ancora nella calura.

Il bar non è vasto, la superficie è occupata da un bancone lustro e dalla tavola delle paste e dei gelati – ha vetrate spalancate che non difendono dalla città. Il suo colore, così

è il colore del cielo

d’inverno, verso sera, la neve

azzurra, chiarissima, di cera

sui tetti, in un

contorno di notte già caduta.

Spettrale; con le prime luci accese.

È questo, egli pensa, che manca

alla vita; la severità

dell’intendimento, la chiarezza dei

sentimenti (la vivacità dei contrasti), e nel dolore, la

resistenza al gorgo del cuore;

nell’amore non cedere all’egoismo.

Io sono solo, più solo di tutti, eppure.

Bei volti intenti, volti giovani

intenti, splendidi nella curiosità

e nell’irrisione, tesi

con gli zigomi magri, i giovani

visi (le facce), le giovani mani, le gambe

sottili, tutti i pensieri intenti

giovani e infermi – per un’estate.

Dice: Parlate da vent’anni, voi. Bella gente! Questo è un male italiano. Mille volumi negli scaffali, non un gesto concreto che conti, che valga qualcosa…”

Dice: Sei un empirico e per giunta grezzo. Vuoi un consiglio? bada alle idee, spremile, rivoltale. Le azioni sono cose mal fatte dagli uomini, sempre uguali! sempre quelle…”

Dice: T’arrangi a salvarti in corner perché non conteresti un gesto a tuo favore. Nessuno muoverebbe un dito; neppure il mio amico terrone di un tempo, divorato dalla sifilide. Che testimonianza! Vi rubate le idee uno all’altro, vi nascondete la mano. Quali idee? Tutto è uguale, mi pare, o assomiglia al ventaccio; al suo soffio, al rumore del suo soffio; una sostanza che sembra fragile ed è virulenta, la presenza di un attimo che dura per una stagione, contro voglia, infine tutto scompare realmente. Scompare per sempre. Appunto come il ventaccio che cade al modo di uno zurione attossicato dal DDT. Come il vento. Per sempre”.

Dice: Guarda Geo. Alza il tuo magro naso fra il fumo, soffia il fumo via. Guarda; e guarda a questa luce pazza (così strana) del tramonto. È un’eclissi, dura un minuto e scompare, divorata, rosicchiata ai bordi. Le idee, idee! ma se non sono vostre, neppure sbagliate sono vostre. Rubate, ecco…”

“Questo è giusto, ah, questo è vero” la ragazza è tutta felice; “il cervello di Geo è fatto di carta da macero. Scusami Geo carissimo ma è così. Sei attraente, dicono che sei bravissimo. In tutto. Anche in computisteria sei bravo – ci riesci? – tipografia, metallografia; fai i piedi alle mosche; carico e scarico dei magazzini. È un’orgia. Parli di tutto. Ma senti me – non c’è nulla, nulla, in nulla, nulla, credimi, Geo mio caro, oh Geo carissimo, Geo saputo, colto e inclito Geo; Geo serpente, scimmia, orango ferito, bisonte con la sete; ma non c’è in alcuna tua parola il segno (è perenne questo?) della fatica, di una fatica. Sei soltanto una focaccia, con quel tuo viso di burro… Ecco, ecco, spremi se ti riesce una lacrima sul mio fazzoletto disteso. Sei bruciacchiato mio caro; svolazzi qua e là sembri una farfalla, ma a volte, scusa, con la grazia dell’elefante. Sei bravissimo, Geo mio adorato…” Geo aveva asciugato la coppa e fumava beato, impassibile nella foresta di teste. Fra le palpebre socchiuse, senza angustie del cuore, freddo come la pietra, duro come la pietra, insensibile come il cadavere sotto la pietra per sempre, sogguardava il bancone delle paste con un sussulto di fanciullesca ingordigia e chiese un caffè.

Geo cretino, Geo sottile. Divoratore di libri, divoratore di lardo, evacuatore di idee, spiegazzato ideologo, uomo cornuto, scalmanata cicala, schiavo erudito; piccolo guerrigliere caduto nel fuoco del pomeriggio, idolo delle folle di una borgata, ingiusto e malvagio ma capace di pentimento, onesto all’apparenza (ma nelle notti solitarie, con l’orecchio all’uscio, indifeso); tu vivi e rivivi in una lunga catena di giorni, sempre uguale a te stesso fino alla morte.

Arriva Gropius. Per lui…

Invincibili armate trascinano alabarde

e uccidono, così a lungo vivemmo

che ci è ignoto il giorno della nascita.

Oggi apriamo i cassetti, mettiamo

ordine nelle carte, nulla è compiuto.

Non c’è tempo di rammaricarsi, è freddo

il cuore, incalzano oltre gli anni veloci

anche le giovani turbe che ridono – e il ricordo

dei vecchi amori. Si può sedere e cantare,

il cuore spento nel ricordo della fiamma.

Siamo dentro l’inverno?

l’inferno è alle porte. Ecco

eserciti stranieri che conquistano,

invincibili armate trascinano alabarde

e uccidono, così a lungo vivemmo

che ci è ignoto il giorno della nascita

– in cent’anni, mille anni di storia

in epoche glaciali affonda il nostro primo errore.

Alla parete nessuna decorazione,

dentro a un legno sconnesso il tarlo dei ricordi

degli errori che bruciano, degli incubi

che tagliano il buio della notte.

Escono dalle grotte dei pensieri a frotte

i nomi che si credevano dimenticati

in una foresta – e il viso, gli occhi

i grandi occhi sporgenti e tondi degli impiccati

– La neve sulla pianura e sulla montagna, le gallerie dell’incubo e i rami intirizziti, la colpevole complicità dell’aria distesa per terra senza case, bassa e pesante; la nebbia fra gli alberi perduti. Su questo, il treno che batte nei binari con suono informe; improvvise aperture azzurre impastate di fumo, sulla pianura. Alcuni uccelli cadono dentro al paesaggio invernale. Oppure preparato dal cuore (dal rigore dell’inverno che brucia se stesso), un paesaggio senza neve, scuro e sporco, con alberi ormai cadenti, cimiteri abbandonati, case fra i campi.

Mentre si va a morire.

Quando si incrocia un altro treno i colori balzano contro gli occhi, esplodono e riempiono l’aria; per un attimo il sole. Così era – tuttavia pesante di bronzo come i cancelli del cimitero (nei dintorni dell’Aquila li vidi, cavati per il museo) – la speranza di sopravvivere. Gropius andava allora col treno (trascinato dal treno, stretto fra le sue crocchianti giunture, un treno di bestie impregnato di sterco) lungo lungo e di esasperata lentezza, pianti prima e pianti adesso – allora, per la partenza, il rapimento, per il destino terribile; adesso, per la tenerezza della carne salvata e il ritorno sui luoghi della vita, non più col ricordo. Ma alla fine era solo; non più padre, il padre con la barba stretta al mento, grigiabianca nella magrezza; non più madre asciutta d’acqua e di carne sulle grandi ossa contadine, ingenua nella sua tristezza; non più sorella. Con lui partiti nel paesaggio invernale e morti uccisi per sempre, come? nelle camere di fuoco. Cos’erano gli anni, i mesi del ’43! Le gallerie, le interminabili gallerie sempre uguali; il ghiaccio a lastroni sul fiume; c’erano i topi morti nella neve con gli uomini morti.

Gropius tornato era solo amico di Ettore; viveva con fermezza ma senza speranza; quasi infastidito dalla vita preservata; il ricordo era più forte, un pugno continuo nello stomaco, sul fegato; era più forte delle possibili tenerezze concesse un po’ a tutti dalla vita risistemata. Era sempre presente a se stesso, come a guardarsi dall’alto dentro a un pozzo senz’acqua, in una luce scomposta. Così la sua voce e i suoi occhi si smorzavano nella sabbia dei sentimenti; tutta la persona esprimeva compostamente un’esperienza di vita garantita da orribili dolori. Attraverso i quali non si passa senza morire di dentro. Arriva Gropius. Anche nel caldo non sudava più; non si scioglieva più di fuori. La neve nemica della giovinezza, coagulandosi nei ricordi, gli aveva insinuato con durezza, in corpo, un freddo continuo, una sofferenza di gelo, così che era sempre pallido, rannicchiato nei panni. Beveva caffè per scaldarsi. Cento al giorno, mille alla settimana e quanti in un anno? L’eccitazione si esprimeva nella volontà di fare, di agire; sempre in moto, sempre pronto “per non restare solo”.

Si fermò accanto al bancone, bevendo un amaro e ascoltando le voci. Conosceva Geo e lo detestava (“con quelle labbra, e quegli occhi, è certamente un coprofilo”), (“in fondo è un fascista senza essere nemmeno anarchico”). Il suo male al ventre, continuo; sentiva lo stomaco come una pesante latta affilata, piena, legata a metà del corpo, che gli comprimeva gli umori, gli dava la sonnolenza e qualche volta dolore. Benché mangiasse nulla. La sua fedeltà nell’amicizia era di una tenerezza che angustiava (miracolosa); forse l’unico appiglio, per lui, naturale, al mondo dei sentimenti. Era il solo a conoscere l’affanno attuale di Ettore, il solo che potendo l’avrebbe aiutato.

Geo intanto taceva, oppresso forse da un’ombra di stanchezza o dall’irridente contraddittorio dei giovani e bellissimi antagonisti. Così, nelle luci delle vetrine e del negozio addobbato, reclinava il lento crepuscolo dei monti. La bomba atomica ha prima scarnificato la natura, distruggendola poi. Oggi l’uomo la ricrea a suo uso e consumo, secondo la necessità e non secondo la fantasia; la ricrea, non la riproduce (più).

L’umanesimo è finito; così quell’egrotante ordine fasullo.

– E se voi voleste, che non volete, perché intimamente sapete, voleste che la struttura –

– dico la verità, la società:

– ma vedi, non si può mutare dal di fuori, come tu vorresti. Conflagrare dal di dentro. È ancora questione di pazienza. La ragione (lucida) che s’adegua alle circostanze, per correggerle. Un bisogno di chiarezza; della lucidità che soltanto la scienza concede.

Allora rassegniamoci ai sofismi

– la nostra educazione accademica

– il pregiudizio del matrimonio

– l’aborto

– non mi sposerei mai più in chiesa.

Con Ettore si allontanano. “Con una donna si può solo convivere. Convitarla, essere l’ospite; io di lei o lei di me. Una porta aperta. Si dura di più, naturalmente, sapendo che ci si può lasciare da un momento all’altro, senza equivocare. La solitudine è guadagnata; c’è più respiro nella cosa”.

L’appartamento della signora, nel palazzo di un pittore famoso, buono e bravo quanto antico di vita e fottuto dalla storia degli uomini; si entrava in questa vecchia casa col timore del buio, con circospezione; e questa, propriamente, signorina, minuta minuta, piccola ma con un visetto arcigno, occhi sospettosi, quel sorriso cattivo, furbetto, che dice “non mi freghi”. Inutile comperare in queste condizioni, e di roba ce n’era. Nelle stanze di questo avvocato morto ultranovantenne mesi prima e ricco fino al collo, fino al dopoguerra, e via via ridottosi per affari sballati all’osso, o per inedia dell’età o per un finale disinteresse –

 

il suono delle campane nella notte, sdondolavano, due campane a contrasto, una disarmonia integrata. Il suono della solitudine nel buio, nel silenzio limpido enorme del cielo, fortissimo, senza vibrazioni; si ripercuote spezzandosi, si smorza. Pare che abbia lasciato un buco da cui spiove un residuo d’azzurro. Tutta la casa è un ammasso in disuso, polveroso, caotico, nel suo letto di morte; corridoi; un salone nudo al centro, il giardino circondato da un muro conventuale ha fra le aiuole un orologio – la torre di un orologio, retorica e burlesca, o addirittura tetra nella ruggine dei numeri, nelle lancette spezzate a metà. Le pareti coi segni dei quadri e delle tempere staccate; i quadri, le tempere accatastate alle pareti –

le grandi cornici degli specchi ammonticchiate, sui tavolini dagli zoccoli dorati centinaia di orologi, sui canterani, per terra, sulle seggiole, con ometti muoventi il corpo, solo la bocca, le braccia; uccellini cantano, l’acqua scroscia – un filo vetrato che s’agita fra il fogliame verdastro. Cose ingrigite dagli anni o dalla polvere,

c’è un quadretto di mano cinquecentesca, luminoso, lire centomila, senza cornice che non importa – ma la signorina sa tutto, dieci milioni gli orologi eccetera. L’avvocato le ha lasciato ciò che restava; la casa è ipotecata, è morto senza quasi denaro, l’ultima causa a ottant’anni poi un ottenebrarsi, lo sfacelo della volontà toccata dalla sclerosi, lo sfacelo nelle cose intorno; la terra man mano esitata, svenduta a bocconi – dopo averla conservata per tanti anni, difesa, aggredita, la lasciò infine con indifferenza, col gusto quasi del male; quel lunghissimo vecchio nel letto di morte, con zampe interminabili e braccia tutte a nodi, scure, pelose, – un orango nella tomba; due artigli paurosi; e c’era lei, la piccola opprimente infermiera; ha cento vene sul corpo, (non nel corpo) come tante tele di ragno scialbe, su un tronco; tutte in superficie, bluastre, lei stanca, lei anche lei più vecchia, al telefono del vecchio, alla porta del vecchio, alla medicina del vecchio, la pappa del vecchio, alla fine il vecchio era morto e adesso –

gli orologi accatastati su panche, per terra, in bacheche dagli sportelli sfiancati, alcune con i vetri spezzati, un odore di umidità, di muffa, di oscurità – le stanze con le travi di legno, finestroni sul cortile; il presepio settecentesco con le figure dai vestiti cincischiati, colori acutissimi, luci di oro appena spento – comunque scintillanti di carminio, ammucchiate nello scatolone rotondo, una sull’altra, una su l’altra, gambette teste e manine che quando Ettore le sollevò penzolavano in guizzi che le rendono ancora vive negli occhi. Occhi precisi, luccicanti –

la campana, tic tac don, i colpi del bronzo contro il bronzo, monotoni, con cadenze militari, simile a un richiamo telegrafico da sponda a sponda, da fiume a fiume, in quell’acqua azzurra d’acqua, di notte, oltre il mare. Le finestre sono spalancare e illuminate, c’è gente nei balconi, le solite voci che si intendono fin dalla strada. Mentre Gropius e Ettore passano di stanza in stanza, la signorina li segue, non stacca gli occhi, segue le mani che stringono, palpano, sollevano gli oggetti; la vocina li descrive, ne calcola gli anni, esalta la rarità, ne insinua il prezzo.

“Si può lavorare in questo modo?” – Ettore, e Gropius con lui, sa già che non acquisterà nulla, non è possibile avviare neppure l’ombra di un discorso. C’è rarità di pezzi in giro, dice la vocina; leggere i giornali, anche il rotocalco ne parla; sembra, essa stessa, subito un oggetto fra le cose;

ancora due stanze, una sala mezza vuota (poltrone sformate, sedie eccetera) con un ritratto di cane, un olio attaccato alla parete; ritratto orribile di un cane accucciato, le zampe avanti, il testone bianco, con iridi dilatate, sperse fra l’incubo e l’idiozia; il mito del buon pastore, del fratello dell’uomo; un grugno magro e perverso

l’altra stanza, quadrata, è zeppa di divanetti; altrove lampadari di ferro battuto, uno di vetro, a foglie fittissime arabescate, a ghirigori, fra il bianco e il rosso è abbandonato dentro a una cassa, affondato nei trucioli; qualcosa, così pare, di mortificato dalle circostanze eppure fino in fondo contrastante alla sorte di oscurità (di indifferenza) con un guizzo di luce, un riverbero, un giuoco sottilissimo nel cogliere i più esigui fermenti del riverbero, magari un filo, dalle incrinature della finestra. Vien naturale di sfiorarlo con le mani, con un dito, tracciare un segno nella sua sostanza, un segno nella polvere, un simbolo per propiziarsi la sorte. O un atto da ragazzi. Quando sono nella strada, oltre quel portone, fra le ombre della strada rotte da luci dondolanti; di nuovo sotto un ciclo calmo – (nella tranquillità dolente e rassegnata, terribilmente autentica, della notte, il corpo si compone, si adatta all’alta monotonia, a questo silenzio ed è come si disponesse, per il sonno, nella terra stessa, nella sua sostanza, fra le radici della terra, cosa morta fra oggetti morti, oggetto respirante e lieto fra oggetti dimenticati per sempre) –

vanno e la voce li accompagna, il saluto della donna, ironico ancora una volta; e inedito (indeciso). Neppure lei sapeva se dare confidenza – come uno spiraglio del cuore – ai due uomini in apparenza severi; o chiudersi in se stessa. Ed è questo atteggiamento da vecchietta disumana, con un piede nella tomba, che ha scelto per consumarsi in sordina.

Non è nulla.

La disposizione al ricordo di Gropius, il caldo della notte mentre vanno per le strade, – il cielo in tutto eguale alle luci rosse nella notte mentre si viaggia in treno.

Poi…

Quando s’alza la luce sulla città nell’impalpabile nebbia lasciata dalla notte fuggendo, o è piuttosto un fiato, o un leggero ansimare della terra, anche gli storni (velocissimi fra gli uccelli) orgogliosamente svegliandosi cantano e inondano il mondo di voci – e c’è l’uomo, che può cantare ma sempre con pena. Nel fiato leggero, nell’impalpabile nebbia, affonda come in una acqua morta il dolore dell’uomo.

Le case fra il verde dilatato, pauroso – l’angolo di ciclo rosso di fuoco nella striscia sottile come una ferita, una striscia depositata sul crinale di strane montagne abbandonate a una ottusa solitudine.

– Belle parole; tutte belle parole.

– I cacciatori sul fiume sparano ai tordi, il tordo si inabissa ferito dentro l’acqua del fiume, che è sporca, scorre via.

– Un tempo si viveva di più; adesso campiamo cent’anni in media e viviamo un giorno solo. Al più, due. È un giorno veramente.

Gropius non poteva aiutare Ettore benché volesse – e lo voleva; ed Ettore sapeva che Gropius non poteva aiutarlo pur volendo – era certo che lo voleva. Gli avrebbe ceduto intero l’acquisto delle robe vecchie, dalla signorina così equivoca per entrambi – nella secchezza del corpo e nell’avidità appena simulata degli occhi; ma non era un affare – né un negozio utile o un intento vantaggioso, il guadagno anche nell’eventualità che fossero riusciti a contrattare con la rigida guardiana di quell’harem in rovina sarebbe risultato alla fine troppo meschino. Per Ettore, inutile. Non era una soluzione, o almeno un palliativo (fugacissima remora) ai malanni. I mali duravano, i giorni passavano sia pure adagio ed Ettore non risolveva nulla – cioè non riusciva. Credeva di non esserne più capace. Momenti, alla sera, in cui temeva d’essere fisicamente disfatto. Era anche frastornato dal caldo e dalla persistenza biopsichica in una situazione incerta, contraria, assai pericolosa. Alla fine di questo mese c’era un vuoto dentro a cui annegare, se non riusciva a salvarsi. E la salvezza era affidata a quel denaro che non riusciva ad afferrare. Ci pensava spesso, altrettanto spesso se ne dimenticava, in una specie di altalenante indolenza (incoscienza) sentimentale – o s’adattava di proposito a non pensarci più. Questo pensiero infatti gli sembrava soltanto irritante e inconcludente. Era uno schifo di pensiero. Non serviva pensarci, non aiutava. Con Elisa. Con Elisa trascorreva le sere, tutte le altre sere, in una disposizione dei sentimenti rarefatta e libera teneramente; arrivavano a tenersi per mano, solo qualche bacio, lo sguardo –

il suo, il suo, una mescolanza aromatica, quasi che gli occhi di lei odorassero o buttassero zenzero. Lei lo amava un poco, o lo amava addirittura come una moglie, placata – come una moglie ritrovata, quindi con una struggente malinconia appena segnata da un residuo di rancore; Ettore, per la prima volta, senza la tensione esplosiva dei primi amori, o con la passione – ma certo con una perseveranza uniforme e tesa, come un’abitudine subito acquisita e ormai necessaria – trovava, nei suoi incontri quotidiani con Elisa (anche dopo le paure, il risveglio degli occhi aperti di nuovo sul risonante mare delle blatte che è il mondo; il pozzo della realtà, il sasso gettato, un tonfo, il cerchio che gira, la fine di tutto) una adesione alla realtà, maggiore vigore nei proponimenti. La madre stava per morire, ma non moriva.

Elisa partì per Londra, giovedì 17; giovedì la banca, per via normale, chiuse definitivamente le imposte all’ultimo residuo di speranza. Salutandolo. In quel giorno, molto amareggiato soprattutto per la solitudine a cui non era più abituato (sicché il suo dolore languiva) Ettore soffrì caldo e sete, soffrì a lungo dentro al suo cuore maturo.

Seppe da amici, poi, che anche Geo era partito per la campagna.

Resisti e sarai maledetto.

Il sibilo, il fischio, la condanna,

il treno s’avviava zufolando,

dietro trascinava le casse vuote

mille casse da morto da riempire,

le ruote s’arrotolano

la pioggia contro i vetri è

detestabile – una luce di lacrime,

il soffio di una candela.

Passano i paesi

la terra è livellata

dalla rabbia degli uomini,

non più grotte o rive delle montagne

non più finalmente la pace dei fiumi

– solo un nudo deserto

su cui l’uomo (forse piangendo o ridendo) si rotola.

Salvare la speranza.

Altri uomini

raccoglieranno i nostri capelli dal fango

interno c’è un poco di terra desolata.

Il cervello di Shelley che sfrigola sul fuoco.

Anche morire è duro, costoso, impossibile.

Non si può fuggire ancora

dobbiamo restare buttati qui.

Intatti (si fa per dire) irascibili e scuri

come i pini di Pisa.

 

II

 

A quarant’anni (è vicino) nel sommovimento delle viscere, nella risacca della vita, nel silenzio che intercorre fra la breve estate finita e l’inverno – cioè il prossimo freddo, il gelo della tomba; noi, nello strizzarsi dello stomaco, nel recere quasi quotidiano e nelle sudate veglie notturne, quando gli uomini che spazzano la strada alzano voci che sembrano splendenti voci e suoni nel vuoto, e nell’assoluto silenzio sbattono le voci sui coppi e rimbalzano e piovono:

– nelle veglie notturne, nel male dell’insonnia dentro allo sfinimento corporale, tutte le giunture lese, le mani magre, gli occhi indeboliti e vacui, quando le voci dei primi uomini nella strada spazzano il vento della notte, allora, nella risacca della vita, nell’assoluto silenzio del cuore, nella breve estate; a quarantanni, quando ci si guarda nello specchio (non lo specchio di vetro) ed è la somma delle nostre vicende passate che appare o l’impalpabile anelito della speranza, il crocchiare delle spente vicende ci sfilano dinanzi sulla faccia, sul collo – provatevi allora ad esistere, a insistere, a vivere allora. A ribadire la voglia insana (stupenda) che esorcizza la vitalità nei muscoli al tempo della giovinezza. Questa età è così lontana, con la sua voglia; noi viviamo in un rancore chiuso, come se qualcosa mordesse dentro, a denti aguzzi, il poco fiele rimasto.

Talpa dagli occhi strabici e dall’orecchio che non suona una voce direbbe: ecco il complesso dell’insuccesso; oppure Geo, senza languori ne donne, lieto del successo fra quattro mura, godrebbe affermando che “non riesce a capire”. Abbiamo altri esempi, direbbe – ma il fatto è che non si può scherzare. Anch’io dico che non si può scherzare con la vita, che è la nostra capacità, non tanto la volontà, di esistere. Senza questo soffio saremmo vuote forme dilatate, replete, braccia molli, pronti per la sepoltura. Ma dillo a altri. A Geo, per esempio, che forse addenta in questo momento il cucchiaio laggiù o lassù, col suo maglione, i libri sul petto durante la falcata delle ore dodici perché gli ospiti dell’albergo possano leggervi i sagomati titoli delle Presses Universitaires. Il fatto è che non bisogna aprirsi di norma ad alcuno (se no rubano anche il tuo dolore), ma tacere, cospirare, sabotare la voglia dell’amicizia, della carità laica, dell’amore (ancora). Essere sospettosi, volgari, alle volte violenti, senza scrupoli; ma neppure questo è possibile. Riesce all’imprenditore e arricchisce. Riesce all’avvocato, riesce al commerciante – con le tempie brizzolate, lavanda Dunhill sul collo, hanno la Lancia Flavia spider; riesce a tutti. Ma non a te buon amico, non a te. Non a te Ettore, non a me; non a lui. A te la società ti butta; a te, Gropius, ti uccide; se non riesce ad ucciderti, ti piange sulla spalla e tenta subito di ributtarti nel gesso, bravo se ti salvi. Se riesci a salvarti, vivi; puoi vivere, ma la pace è degli altri; di chi disfa la pace, a te, Ettore; a me, Ettore; a lui, Gropius.

Se è duro vivere, non si può vivere altrimenti – questa, così è la vita e le sfere del tempo suonano tracciano i lamenti e non insegnano la gioia, ma sono alla fine le uniche voci vere. Adattiamoci, occorre lottare. Vedremo un giorno anche i nemici morire. Scomparire per sempre, bene affossati nella terra, fino al collo, giù fino ai bianchi capelli. Senza pietà per loro, perché non avremmo (non avremo) pietà da regalare a noi stessi – o da dividere con altri. Nessun sentimento da spartire. Soli, davanti a quel vuoto, soli, noi da soli, anche nell’ora della morte.

Adesso Ettore è a casa, accende le luci, spegne le luci, sfoglia le pagine di un libro, apre il giornale, avvia un long play di Mahler, si lascia scuotere (ma resiste) da quella forza un po’ tenebrosa eppure precisa, una calcolata tempesta. Il sogno della morte, dopo il primo tempo del poema; und der Vogel der Nacht schwirrt – umbequem vor das Auge dir. Alle volte quella musica gli pare meno pesante, più appassionata dello spianato ossessivo canto di Wagner – o è la voce di Hoelderlin? Addirittura la voce di Hoelderlin che ha perduro o sia sul punto di perdere la sua tenera grandezza, la splendente Diotima? o quando rinchiuso nella torre ricorda il passato, con quanta dolcezza, in un momento di lucido orgoglio o di stupore? Ascolta il passaggio a mezza orchestra, flauto, violini, introdotti da due colpi di tamburi, il dialogare di contralto e tenore, protendersi, distendersi; un contraccolpo, il grigio dell’autunno, perdita del tempo; spento ogni fuoco, un fiume che si rifugia ripercorrendo il proprio cuore nel segreto della montagna. Der Menschen Worte verstande ich nie, aber… Pare che l’uomo sia, sempre, al limite delle foreste.

Sfoglia il giornale, spenta la voce –

“Il mercato denota oggi un certo fermento. Esso si manifesta con maggior concretezza su qualche titolo particolare su cui sembra concentrarsi tutto il desiderio di azione degli operatori. Le iniziative su STAMPATI, DALMINE, GENERALI, R.A.S., ETERNIT, sono state cosi copiose e insistenti da produrre sbalzi di prezzi di inconsueta ampiezza. Per le STAMPATI si tratta di circa l’8 % di ieri; per le DALMINE e le R.A.S. il progresso è nell’ordine di oltre il 2%…” – poteva tuttavia restarsene tranquillo, almeno per quell’ora, anche se il fondo del giornalaccio impossibile, così perfido acuto, lo disturba, lo distrae con l’illustrazione semplicemente maligna di una realtà senza soluzione, con parole sfarzose (soltanto parole sfarzose); una realtà conclusa in sé, restia, afosa. Ecco alla memoria, vero che lo può sfiorare, ancora il viso di Geo, tirato, vecchio, con la luce degli occhi schiusa in un colore opaco; vecchiezza precoce, monotonia di pensieri, divagare, motteggiare, fraseggiare. “Una divinità capricciosa” esordisce sempre parlando, o andando, o tacendo. Geo continua a divagare, sembra un uccello che si lecca l’ala su un ramo, l’estate brucia, il passero muore o muore all’inverno consumato, vive una stagione breve, libero dalle passioni, poi è secco. Ma Geo parla, accende la pipa, parla; se Ettore gli domanda: “Come avvenne ciò?” Geo bonzo non può neppure raccontare, può esprimersi con un monologo se è notte, o seduto dalla cattedra dispensare sapere con una voce dolce umana, falsa, una lega infetta.

Ettore dice: “si ha paura dei grandi uomini, degli uomini senza errore, di quelli che non sbagliano. Non sbagliano mai, poi bruciano il mondo”. Parla adagio, se non è inteso pazienza, parla a sé solo, divaga, qualche ricordo. Ma quel glorioso assiuolo lo trasporterà via il vento (è la sua coscienza che parla).

“La rottura dell’amicizia, la fine di un amore”; è ancora notte, Ettore disteso sul letto pensa al cumulo dei malanni e a tante cose ancora. Il silenzio, questo silenzio, è pericoloso; incrinato da fruscii sottili, a volte striduli, come un grattare sul vetro o dentro all’orecchio (leggermente allora); a volte un fischio. “Mi pensano” – ma è notte, tutti dormono. È il fischio di Ettore che pensa a se stesso, parla a se stesso, confabula, vive con sé, confidente, figlio, padre a se stesso amorevolmente; in uno stato di soggezione, di crudeltà delirante, di severità opprimente, di condiscendenza, di ricatto sentimentale, di persecuzione e assoluzione. La giornata, ancora una giornata, fu colma

“io dico…”

“tu dici…”

tutto concluso, le poche cose disposte; il dovere assolto, ancora assolto ancora una volta con l’angustia, dato e avuto, saldati i debiti di quel giorno, rimandati i crediti, ricevuto il denaro di quel giorno (nell’ordine dovuto); goduto anche per qualche istante, con una sensazione di gioia, una zaffata di sole affacciandosi a una finestra prima di buttarsi al lavoro. Non bevuto vino.

Il signor Verde, neppure un amico, non tanto un amico, appena un conoscente ma con simpatia, bell’uomo arzillo, furbo negli occhi, un corpo dolcemente rilassato; fu lui

– i baffi spessi e un volto appuntito; quasi invecchiato ma abbastanza sicuro di sé senza molti rimpianti (tuttavia: chi può conoscere fino in fondo la misura di un cuore dell’uomo?); povero con dignità, fermo nei principi, conoscitore esemplare del mestiere: ottocento inglese e francese, liberty italiano (da rivalutare); piuttosto sedie e cassapanche che tavoli o letti; meglio se armadi;

in quei giorni (fu lui) preso con una euforia che non trasmodava ma si esibiva in una piega appena più sorridente delle labbra e in qualche parola aggiunta alla scala del vocabolario – a contemplare un nuovo acquisto di merce, verificarlo con l’occhio, valutarlo in cuor proprio, per una stima del prezzo che equivaleva pressapoco a una esaltazione veritiera delle proprie facoltà di commerciante artista improvvisatore e di critico acuto ma poco famoso; di esperto, come si dice; era una verifica delle proprie doti e un soddisfacimento dell’occhio (come quasi sempre, dopo ogni acquisto, gli capitava), alle volte addirittura di tutti i sensi intenti a toccare o piuttosto a sfiorare gli oggetti con la mano, o piuttosto col polpastrello un po’ curvo, leggermente scarnito, tenuto eretto e rigido come lo scultore –

il bel polpastrello di vecchio, non l’ottuso duro arteriosclerotico polpastrello e in esso l’insensibilità dell’anima artistica e degli specifici mezzi di comprensione e verifica; l’ardito palpitante polpastrello infervorato dalla vena, dalla perplessità che chiama e recalcitra; da una razionale invadenza; il tramite, il pretesto del cervello che cerca e crea, pensa e ribatte e si ferma, indugia, pensa, si china e riflette su gli ottoni tetri dei lumi

su levigate splendenze di giade

su marmo

su un dorso curvo di statuina –

su non i tetri ottoni

o le borchie di modellato argento

non frigidi letti o

come l’anno passato, da marzo

ad aprile, ad esempio,

dopo l’acquisto in Amiata –

quella terra rossa rossa di sangue nella casa perduta fra gli alberi, in mezzo a rocce (autentiche), forse era un castello ma certamente una rocca di sogni defunti e un cumulo di cadaveri; il passo su lui che gocciava amarezza e urla ghiacciate si stendeva sibilante in mezzo a un’ombra colorata sul piancito di coppi slabbrati ma non fino in fondo consumati. Letti e seggiole erano accatastati in due sale all’ultimo piano di questa casa, o castello, o palazzo decrepito, fra gli alberi; – le finestre si spalancarono crocchiando in un tanfo e sembrava che anziché sul cielo liberamente verde e vivo (ma non più distratto), per un attimo le assi si spalancassero sopra ossa disarticolate (la tenebra che si squarcia, il rigore della tenebra ferita orizzontalmente dalla luce, la tenebra che si apre per un momento come la pancia gonfia di un pesce; leggera è la lama di luce, il filo del suo taglio, e questo buio si dilata, puzzolente e freddo) le finestre si aprirono con un urlo sulla distesa del mondo odoroso goduta dall’alto, laggiù lontano, sulla pienezza asciutta della terra, fra voci come canti o come un pianto autentico virile, sbruffare di mandrie, ruote di treni che passavano; sulla pienezza della vita, nel frastuono buono, fra le passioni che accendono la faccia, le lucide incontrollate vivificanti passioni.

Come si respira a fondo e quale liberazione dagli incubi. Un vecchio ha sempre la morte sulle spalle e non può dubitare neppure un istante di essere vivo, di poter vivere eterno –

la vita non è preparazione alla morte ma è salvezza dalla morte, ma è una prova per la vita;

– la vita è vita (questa è una verifica) e la morte è morte.

Un uomo è molto simile a un topo indeciso,

enorme, un gatto o un topo,

striscia lungo sopra dentro il muro

soffoca in se stesso –

inelegante, stupido, inutile

piccola belva dell’abisso.

La morte scompare con la vita

e non c’è morte nella vita

e non c’è inoltre vita nella morte

nella vita c’è vita eccetera.

Così su quel paesaggio (di cui Verde parla molto adagio, con pause, a Ettore incantato) – un affiorare di contorni, e mai come allora inteso e goduto, da questa partenza di buio e di freddo dei sentimenti (tutto era coagulato in lui come il duro midollo di un larice) –

in quel momento gli apparve non come un mondo da trasformare, non il deposito, l’alveo, il fremito di fini abbietti e non per questo meno rigidamente razionalistici; per un momento gli apparve un mondo incolume, vittorioso, preponderante; sì, anche per un solo istante ancora, per un momento prima della deflagrazione sentimentale five, four, three, (attenzione, erano i pensieri di un ateo recalcitrante); la luce, lo stuccarsi feroce del sole sulla terra, sbriciolarsi di giallo nei contorni verdi, mescolarsi di rosa al blu, il turchino lavato (terra toscana esaltata con i ricordi insieme a un sole della giovinezza); risonante bianco, il fervore dei contrasti; nulla fermo, tutto in movimento, un continuo incastrarsi, stendersi, ritrovarsi.

Il polpastrello indugia, si china, accompagna la mente e invita l’occhio (era lui innamorato) sul vetro sul cristallo piegato, avvoltolato; su candelabri e lumi da parete nel più limpido stile liberty.

“Un orrore – mormora Ettore – è provocazione; l’irrazionale trasborda in un arzigogolo da giovanotto coi baffi; è proprio uno stile da squadre d’azione (ma all’italiana)”.

“Invece è uno spettacolo di arditezza tecnica e l’esaltamento di tutte le doti…”

Interrompe Ettore: “Comprese quelle del bastone”.

“… umane, ribatte il signor Verde; perlomeno delle doti inerenti a questo genere di operosità. Aver tempo per questo… avere tempo e pazienza per riconsiderare il passato con le nostre forze; non accettarlo come lo abbiamo avuto, sopra il davanzale, insieme alla prima neve. Come lo vogliono gli altri”.

“Il prossimo è porco” aggiunge, poi si corregge “Ma bisogna sopportare gli altri e un poco amarli, ci vuole sopportazione, si può trovare intanto qualche galantuomo; e si può trovare qualche buon pezzo nella casa degli altri”.

Dice: Gli anni mi hanno insegnato a diffidare – soltanto questo. Come vede è molto poco. Tuttavia questo scetticismo si traduce in un aumento d’amore, in più affetto disponibile; Ma per chi? Siamo troppo vecchi per le donne; e non è altrettanto vero che bisogna amare in questo modo gli uomini”. Lampade e lampadari luccicanti con tenerezza e senza ostentazione (sono strumenti pacifici), accarezzati da una luce che entrava dalle finestre in casone; appallottolati per terra sembravano file di soldati in uniforme, fra il rosso e il verde e il giallo e il giallognolo, una mescolanza di colori che gronda felicità. Antonio Verde ascoltò le parole di Ettore, mai da mesi come in quel pomeriggio presente nei suoi affetti a se stesso in una rigidità controllata contro gli eventi imminenti.

Lo ascoltò senza consolarlo

disse soltanto “vedo che siamo tutti soli” ed Ettore sapeva che, secondo dopo Gropius, potendo lo avrebbe aiutato. Ma chi riesce nella nostra vita, pur volendo, a perdersi dando un soccorso spontaneamente; l’aiuto al tempo giusto? Solo nell’adolescenza spesso la mente (o il sogno) si arresta a questo risultato esaltante, godendo che si compia senz’altro seguito che quel tremito dei pensieri molto simile all’esaltazione amorosa, ma più tenera, possibile, disinteressata. La bella stanza, la bottega era circondata di voci, di rumori, di una luce misurata; ma lì dentro, fra le pareti dipinte di grigio, rivestite di chiodi e di oggetti, polverose liberamente e vive; lì dentro si viveva placati. L’uomo aiutava Ettore a vivere (era un compenso alle colpe della sua vita) ed Ettore si inorgogliva un poco di riuscire – dopo tanti giorni – a trovare una risolutezza nei propositi che se non è ancora la salvezza è almeno, così pare, un principio di essa o un allontanamento provvisorio dalla resa dei conti. Possono accadere tante cose. Prender tempo, ma il tempo passa.

“Ma come? ci può, deve essere! un modo. Lasciate che pensi”.

La riflessione di quel vecchio è molto simile a un sonno. Sprofonda in se stesso automaticamente; è uguale ad uno che allunga una mano in un sacco quasi vuoto e con l’altra trattiene un lembo, un bordo floscio, ne distende l’imboccatura. La fatica dell’atto, la mano cieca che cerca – così è lui, al buio della coscienza. I ricordi sono i più duri a scovarsi, le idee vivono dentro a ricettacoli come il gheriglio delle noci, a volte impenetrabili senza il ferro di una volontà spoglia. Il vecchio, nella luce della stanza, è tutto al di là, sperso in se stesso, in un colloquio doloroso, a volte sembra persino straziante.

Ettore ne ha pena, vorrebbe svegliarlo se dormisse – vorrebbe chiamarlo, scuoterlo con cautela o con un affetto che nasce. Gli pare un sonnambulo, dentro a un cerchio di soffocazione.

Ma queste sono deduzioni incongrue, impressioni affatto veritiere. Nella tranquillità del vecchio, Ettore inconsciamente riversa il dramma dei suoi giorni, rifiuta in essa i cattivi persistenti pensieri. La contamina ed invidiandola, la odia. Cerca di turbarla, violentarla; se la finge disperata. Riesce a conservare, a trattenere una apparente pace momentanea soltanto a scapito di questa clandestina operazione di scasso. Lo capisce e se ne vergogna, ma senza paura o senza turbarsi eccessivamente. È affascinato da questa capacità di concentrazione – come sia possibile isolarsi in sé, col solo aiuto della volontà che ubbidisce e sollecita. Sembra che siano trascorse ore e invece sono ancora pochi i minuti di questo silenzio riempito dal sonno. Luccicano gli occhi irrequieti del vecchio sfarzoso, di questo elefante non imbrocchito (come dice di se stesso, con la galanteria di un complimento rivolto ad altri, e invece…); nuova vitalità si rovescia negli oggetti che riprendono ad animarsi nella luce. Ettore se ne accorge – prima erano quasi spenti e anche la luce si era affievolita. O è un giuoco dei suoi sensi turbati. Non pensarci, ascolta il vecchio che parla.

“Un resoconto dell’abisso” – ridono, ritrovandosi. Il vecchio spumoso e galante, grande vecchio

– prego, egli dice, dal passato un poco tempestoso; il vecchio saggio e irruente, senza macchia sulla coscienza e senza paura alle spalle

– prego, egli dice, con molte macchie e con molta paura, se permette (devo ancora morire).

– E chi non l’avrebbe vivendo in questi tempi? In tempi senza più morte è certo, ma con tutte le novità rimandate e con l’angoscia dei beni perduti ancora così vicina?

Prego, egli dice, c’è solo un’angoscia vicina ed è la nostra; un solo bene perduto, ed è il nostro. Nessuna morte, speriamo, per entrambi.

Dice Ettore: visitarti per illuminazione di un’ispirazione felice era significato lucidità ripescata, vigore e anche consiglio sicuro

– prego, egli dice, non c’è forza che già non ci sia in qualche parte del nostro organismo; né tanta lucidità in un momento incerto per voi fino all’orgasmo (invece è solo una fuga dal livore che si ha, in queste situazioni, per la fortuna degli altri che crediamo sbagliando tutti felici). In quanto al consiglio sicuro, poi! Sentite me… È certo che in questo affare mi aggiusterò per merito vostro, lo sento;

– prego, egli dice, aspetto adesso che mi baciate la mano.

Ettore: e io, io guarisco da questa lebbra vergognosa intanto

– prego, egli dice, ascoltatemi. Abbiate pazienza. Calcate le orecchie, o se volete calatele. Insomma, ascoltate bene. Non sono neppur sicuro, molto sicuro, che la mia proposta possa piacervi, o piaciutavi una volta, piaciuta a voi, che possa essere avviata con gli altri, questi di cui vi parlo. Eccola:

ho pensato a quel che si potrebbe fare –

è questo:

“A pensare al nome (ride), al nome soltanto (ride, non divertito a quel nome, è certo, ma rivedendo, è certo, tutta una scena intera o una serie di atti); si chiama, uno dei due, Robur Davidson – una specie di San Robustiano dei nostri campi. Un nome così strano, direi piuttosto piccante, con tutto un sottinteso d’educazione e di principi in chi l’ha messo. Pensate che è un inglese con padre inglese. Quel padre inglese che uomo doveva essere, che gabbamondo. Nessuno è gabbamondo come gli inglesi, quando vogliono. Se la ridono, ecco. Se la ridono di tutti. Se ne fregano di tutti. Tirano diritto, vivono a modo loro, fanno ciò che vogliono. Sono i soli che vivono ancora in vecchi castelli; gli inglesi, lo sapete, vivono in vecchi castelli, in tetre umide celle, operai contadini impiegati sacerdoti nonché i divi della city; non hanno strade ma sentieri, sentieri da capre. Arrostiscono appena la carne non salata. Un popolo fenomenale;

grossolano un poco tocco

senza umanità, cattivo

ma salace. Così per me lei è in queste mani. Ascolti

 

– ricapitola tutta intera la storia. Lo sguardo mentre parla è simile a quello di Emanuele Kant nell’incisione di Birck allo scrittoio, la mano alla penna, un astrolabio diamantino accanto (io ci ho i miei lampadari, dice Verde) ma l’occhio, l’occhio è perduto, correndo nella notte dei pensieri, nella rissa della mente che si esalta.

C’è un’ombra alle spalle, conficcata dentro al cuoio della poltrona che sembra d’altra persona, e non si muove se lui si muove e non si scuote se, parlando, egli scuote un poco la testa. Gli occhi, perduti, la sottile scintilla dello sguardo è altrove – così nel ritratto di Kant inciso da Birck che esorbita oltre la cornice del foglio, esaltante parabola di mistero, chiusa in se stessa, carica di significati e preclusa alla folla. In un ordine matematico, fuori dalle passioni, dal tempo. La mano sinistra di Kant scuote insensibilmente, quasi morsa da un tremito (è la tensione dei fasci nervosi) l’astrolabio che si lamenta aggirandosi in sé, scuotendo le rilucenti palline dei mondi. Tutto ciò dentro a una stanza, ma c’è un ciclo sopra, la scoperchiata volta, una sedia, un tavolo, due libri appoggiati a una pezza di tenda e l’astrolabio che incanta il sonno operoso, drammatico dell’uomo.

È tutto detto ed Ettore se ne va.

Passò tranquilla la sera, dormì fino al mattino. Ah, tutti i bottoni della giubba di Kant sbottonati (questo fu verso l’alba il sogno breve di Ettore, un incubo breve, filosofico). E ancora un’altra divagazione: pensa che cosa erano le locande italiane al tempo di Goethe e di Stendhal. Il silenzio delle salette di legno, le finestre sulla luce – tra i prati la strada non solcata da crepe, tutta una strada da scoprire, seguita da siepi di bosso. Arrivare a Ferrara dalla campagna, il bianco del marmo levigato esplode fra il verde lavato dalla guazza e il silenzio delle voci che cantano. Adesso si mangia da cani; basta addentare.

In questo tempo, in questi giorni, due incidenti. Proprio davanti all’appartamento di Ettore, o se si vuole stanza, oppure rifugio, la casettina bellina fu rapidamente demolita e con un frastuono cominciarono a edificare un palazzo. Certo orribile – pensava e temeva Ettore; volgare, certamente stupido, stupido; stupido soprattutto, un oggetto inutile; la presunzione deforme che si sostanzia. Non era possibile aspettarsi di meglio.

Poi installarono un ventilatore o aspiratore elettrico a pale danzanti e a sibilo uniforme, in una officina vicina, sulla tettoia o vetrata dell’officina; durava per il giorno come il ronzare di un branco di vespe fisse nell’aria, pertinaci nell’attentare alla quiete o a quel preciso languore dei pensieri cui Ettore qualche volta doveva concedersi. Ci si sfama in fretta adesso, in stanze buie e affollate, fra il tanfo della benzina delle macchine che arrivano o parcheggiano e il sudore dei camerieri frastornati, lucidamente pazzi o soltanto poveri imbecilli.

Il silenzio è perduto.

Anche nel chiuso della stanza non c’è più silenzio. Dalla strada, per la finestra, salgono:

– rumore di vetri rotti

– forse un bricco sul fuoco

– scappamenti di 50 cc. montati sui trespoli dei garzoncelli (da linciare);

– una betoniera s’agita, sballa la pancia di balena arpionata, la grossa vescica; i sassi che scivolano in essa fanno arricciare la pelle

– batte una donna sul tagliere

– altra donnaccia canta

– i fruttivendoli, il mercato del pesce, un carretto, voci di terroni (deliziose)

– macchine, clacson, il postino che suona; il telefono

– piange un bambino (è Picchio stupendamente ardito, e solo)

– tutti gli operai del cantiere vicino battono.

Certo è una bella giornata di sole. Gli operai del cantiere battono, suona il telefono, voci di terroni adirati, piange un bambino, altre donne sul tagliere, un telegramma da lontano, piange un bambino, voci di terroni, una giornata di sole, il telefono suona. Alla stazione ferroviaria; la stazione di una città così grande è essa stessa una città – al bar mentre aspettano, Gropius accenna quasi con fastidio a Ettore – la trafittura del cuore esulcerato è ancora un fastidio nel cuore – che da quel marciapiede laggiù, quello, il numero sei, partì a forza una sera del ’43 rastrellato; poi Ettore gli raccontò chi sono i due che aspettano, chi deve a momenti arrivare; anche Verde deve venire ma non si vede; aspettano due inglesi, due tipi inglesi, soci in affari e magari legati da un amore. Abbastanza giovani ma non più giovani, abili e molto fortunati

– “quella fortuna, che è sorte che gira e che a me è mancata proprio in queste ultime prove” –

vengono in Italia per investire denaro, acquistare oggetti, trafficare; a Londra mesi fa dissero a Verde che vorrebbero aprire una succursale in Italia e piuttosto di avviare un sito nuovo con qualche difficoltà preleverebbero una ditta di nome buono e di credito. Le prospettive combaciano addirittura. Così (conclude) Verde ha telefonato a Parigi dov’erano da un mese, entrambi euforici e ben disposti.

Vendere a loro se potessi. La mia offerta è onesta, attraente sotto l’aspetto economico, non dovrebbe deluderli. Roba c’è nella bottega grande, nel magazzino dal piancito al soffitto tutto è liscio, accatastato; ogni angolo è zeppo, ogni oggetto appare al suo posto, legittimamente. Neppure un graffio nella bella facciata; il marcio è dentro a me, conficcato così in fondo che io solo lo vedo.

Ecco Verde che dice “badate, badi, lei, badi

m’ascolti, ho detto, ricorda?

m’ascolti sono, come dissi,

tipi strani

sembrano (o sono) un po’ volubili

leggeri e trasandati

ma come tutti gli inglesi,

nel senso che

non cadono alle prime impressioni

e non bisogna deluderli,

fingono di mai interessarsi

sono pignoli noiosi

e badano al sodo. Faranno

sudare le sette camicie, ma

conoscendoli come li conosco

(compreranno anche da me) penso che

l’offerta possa, se bene illustrata,

con malizia della ragione – non è

rhum che vogliono – illustrata, descritta e sottoposta, interessarli. Io metterò la voce ma il lavoro spetta a voi. Da smaltire con calma ho detto, lo sapete bene. Senza neanche farvi accorgere che vendete – come se regalaste piuttosto e con dolore. Con noncuranza parlare, così. Ecco il treno, andiamo, andiamo”. Davidson secco grigio furbissimo; Mac Namara secco furbissimo grigio. Poche parole e una curiosità morbosa, gli occhi in moto, un sorriso stempiato sulla faccia, aperto a forza di coltello, e coagulato; acuti, documentati, conoscevano Ettore e il catalogo da lui preparato per la vendita Berlioz cinque anni prima, un’asta famosa e un catalogo eccellente. Ricordavano che faceva ancora testo, soprattutto per le serrature medievali e i boccali del cinquecento, ma sapevano anche, ahimè (volano le notizie) dell’acquisto a Lodz, le porcellane incrinate e manomesse durante il trasporto, la perplessità di attribuzione sicura del servizio grande. Appena avviati a parlare e con un sol cenno della voce erano già al fondo delle cause, pescarvi dentro, della situazione di Ettore. Naturalmente i due non sapevano, non potevano immaginare che la situazione di Ettore fosse in questi giorni così critica; tuttavia erano al corrente delle ragioni per cui egli intendeva vendere.

“Vendere con rigore”

“Chi vende svende, almeno in questo lavoro. L’ideale sarebbe acquistare soltanto”

“Certo vendere con rigore; non svendere. D’accordo, è da gentiluomo”.

Tuttavia anche all’origine del suo malanno fecero appena una allusione, quasi ad avvertirlo calcolatamente che loro sapevano, perché anche lui sapesse.

A pranzo. Tutta la città ai piedi, una luce che impiastricciava ma che lassù, mossa l’aria come whisky in un bicchiere, frusciava via in un alone. Non c’erano rumori anche se si scorgeva per i viali e fra gli alberi il passaggio delle macchine e delle persone

– “la città è sempre bella” disse Davidson

– “più bella ogni volta” aggiunge Namara – “forse è la mancanza di un fiume a renderla così vibratile. La fantasia è eccitata ma non soddisfatta; cerca un appagamento, magari di fermarsi a una cosa ovvia come l’acqua, un complemento mica tanto banale, invece… Sento una perplessità dolce che tranquillizza il corpo e non lo sopraffà con scosse violente… Se ci fosse il fiume tutto cambierebbe; e potrei non amare più così, in questo modo, questa stupenda città”.

“Città stupenda davvero; che stupeface gli occhi, venendo qui, arrivando, siamo sempre di umore buono, disposti a sorridere, pronti anche agli affari, certi che essi affari saranno fortunati. Contare sulle dita”. “Una città favorevole”

“Piena di oggetti. Gonfia di latte. È ricca”.

“Di roba da rivalutare, però”

“Dite benissimo – incalza Verde – solo rivalutando possiamo sperare di sopravvivere. Che vecchio inutile mestiere è il nostro ormai, coi marziani dappresso. Bah, gli oggetti certi, gli oggetti sicuri, al giorno d’oggi sono introvabili. Il nostro mestiere si svolge nella finzione – abbiamo la maschera. Non nell’inganno, che è un’altra cosa, più deprimente ecco, nell’irrealtà. Trasformiamo, finendo per crederci, un pignattino in una gemma…”

“A prezzi da infarto”

“O a prezzi da infarto”.

Così mangiavano. Non certo voracemente, o ghiottamente, con tutto quel prosciutto intorno che pendeva dalle travi; ma con gusto, con un gusto grandioso, con una tranquillità che produceva gentilezza, gesti lentissimi, per assecondare i sensi nobili e non per foraggiare il corpo o, più semplicemente, per riempire la pancia. Adagio, assaporando nell’aria quell’ora, e dentro a quell’ora il silenzio e l’estate.

La conversazione si svolse a più piani, secondo un accordo delle coscienze – Verde tutto ridente, questa volta festevole, in una forma meravigliosa come lo definì Namara; col bel viso da romano fermatosi sui campi di Virgilio e non svaccatesi al ponentino fra i ricci duri capelli africani, nelle rovine di Roma, dentro Roma in rovina, ma lontano da Roma, per fortuna lontano da Roma; Verde racconta di nobili famiglie, del suo viaggio in Amiata (di cui in precedenza fu dato ragguaglio furioso), descrivendo la terra di quella terra, i luoghi, le case con tanta pazienza e fedeltà che ognuno l’ascoltava.

 

L’alba mezza smorta nell’aria, un’alba mezza smorta, sul fiume un’alba stesa nel suo letto defunta; mezza smorta sull’acqua polverosa, entro cui sprofondavano d’egual colore egualmente grigi i piloni del ponte; le case radunate spente anch’esse, un’aria cimiteriale, non un diverso colore, ma tutto, dentro e fuori, dello stesso colore fuligginoso, addirittura tetro; colore di occhi sbarrati. Fra alte gole, altrove, si spegneva l’acqua in pozze che odoravano. Le case con i lumi accesi.

Si spegneva la vita dentro a questo ricordo d’inverno? O era soltanto il malessere del corpo stanco, l’attimo prima del rilassamento, dopo una giornata d’attesa? Queste immagini (o era un incubo?) frastornavano Ettore battendoci contro – il quale d’altra parte, e proprio per quel giorno, aveva una ragione per intendere come bene avviato l’inizio dell’affare, se non altro nel proposito dei due inglesi, nella loro volontà di concludere, solo che la prospettiva offerta gli apparisse a un primo sondaggio, a un palpabile riscontro, almeno provocante.

La provocazione nasce dalla confluenza di sottilissime reazioni a un oggetto o un obietto ben distinto e definito dai sentimenti

“così dicono che egli concluse potendo concludere”

“ma i sentimenti a quale obietto (oggetto) protendono la propria sostanza se le categorie…”

“tuttavia ancora un’obiezione; occorre una coscienza più sottile dei propri limiti, delle necessità dell’operare, della verifica delle azioni intraprese. È come per un operaio specializzato, che deve controllare il proprio lavoro, osservarlo, tenerlo lontano da sé, amarlo con rancore, usarlo e provvederlo – ma può forse e soprattutto deve agire così anche l’uomo disinteressato nel lavoro, cioè colui che nel lavoro (è romantico, è romantico) non deve ubbidire che a se stesso nell’impiego del tempo e della tecnica. Può accadere egualmente di fallire o rovinare rovinosamente come Ettore, per un semplice errore – o, se si vuole, per il cumulo degli eventi contrari. La sfortuna, la cattiva sorte. Può accadere, a chi è solo; e chi è solo sbagliando (nel calcolo) azzoppa. Così Ettore era ferito.

Non aver amici è segno di debolezza e di un cattivo carattere – non è un trionfo sulla sorte. Non è una forza. Non c’è una vittoria della morale sulla vita. Ah, insomma… La vita è un insieme di regole, e chi non sta al giuoco, ebbene paghi. Un insieme di regole almeno consuetudinarie, fra cui questa: bisogna accettare che qualcuno prenda qualcosa da te, con qualche sacrificio (che è poi adeguamento) se… C’è un altro fatto: se vai liscio e ingrandisci la casa, bene. Ma se piove e ti allaghi, o il terriccio smotta e t’invade, se infine soffri, hai un bel chiamare. È la prima volta che hai bisogno? prova a chiedere sottovoce, per non svegliare chi dorme (hanno il sonno leggero, gli altri); o urlare – e bello mio, non trovi nessuno. Eccoti piantato come un palo; sei un bei solitario, stravagante magari, così solo soletto, senza nessuno vicino. Hai un bel chiedere e pregare sottovoce. Sei soltanto ridicolo, così pieno di vergogna e tuttavia così raggiante ancora di una fiducia residua. Che cosa c’è che manca allora? L’errore è dentro all’uomo? Nella sua diversità, nel turbamento dei suoi sensi inappagati? o è la società che macina grane? dura, farraginosa, spietata senza alcuna attrazione?

Ettore si nascondeva anche a se stesso. Riconosceva i propri torti (con cattiveria anche) ma questo non lo calmava. C’era altro da fare.

È utile, se il tempo concesso alla meditazione è esiguo oppure è calcolato o prescelto, questo tuffo al cuore della coscienza, se non altro per scoprirsi a ripetere le meditazioni ovvie degli altri che noi ci ripetiamo a noi stessi, in queste pause cardiache, con malcelata dolcezza, convinti in quel momento di scoprirli noi, per la prima volta. Pensare a se stessi equivale a riflettere a:

– nessuno ha parlato di denaro, nessuno ne parla, ne vuole parlarne, tutti coinvolti nella loro pacifica segretezza. Denaro chiama denaro e chi non ne ha si sbatta. Questa è la morale del tempo, ecco la morale di questi anni grandiosi. Allora è altrettanto vero:

– nessuno ha parlato con te, nessuno ti parla. Che cosa sanno gli altri di te? Che cosa dovrebbero cercare? Sì, vogliono le tue amarezze private con cui cibare il loro cane, il racconto della disgrazia della tua vita, hanno un bastoncino di vimini con cui si divertono a stuzzicarti il naso. Tu sei la coda tesa del gatto o la pancia rovesciata del delfino.

Nembi rivoltati si fermano sulla montagna, sulla fessura della sua spalla, quasi sopra il profilo curvo, un po’ goffo, spelacchiato; intorno c’è la burrasca, il muggito del libeccio, gli alberi stesi a terra, scomposti. Ma qua, nel centro del mondo angariato, lo specchio azzurro che dura spande il suo sole, una rugiada si mescola al sole. Così ci si illude di vivere, al caldo, al sicuro, con questa tranquillità sulla testa, e sia pure una tranquillità episodica, rubata all’amarezza degli anni e alla solidarietà con gli altri. Per te è intera la pace della coscienza, tu sta’ tranquillo dunque e vivi. E così lui, e lui. Se i pensieri tardano, o il corpo si rattrappisce alla morsa del reumatismo, o improvvisamente paonazzo nel sangue si consuma, o s’arresta il cuore; ebbene? è un altro che muore, non io. Io vivo, io. Io sono felice, oggi. Io posso andare, muovermi e partire. Ma dentro a una stanza, mentre fa i conti sul tavolo, eccolo il contemporaneo. Come crocchia la sua solitudine; com’è sola la sua solitudine. Non si può per il momento interrompere, gli pesa sullo stomaco e si attorciglia ai pensieri che diventano stanchi e pesanti. Pensieri ovvii, ripetuti, da uomo vecchio.

Si è sempre allo stesso punto.

Quando cerchi di risolvere qualcosa per te, ti trovi davanti questo muro; non tanto l’indifferenza, quanto una partecipazione compromessa, ambigua; sei un oggetto da studio, una cavietta, al più morendo puoi regalare i tuoi occhi. Nemmeno: essi stessi consumati, lisi, frustati, non vedono più neppure per te, finalmente chiusi. Occhi da sotterrare per sempre, altro che regalo!

Ancora sull’uomo. Adesso costruisce di fretta case in vetro; piantate là in mezzo resistono ai venti. Altre più vecchie cadono, altre ancora sono abbattute, disfatte con malagrazia perché nuove case, su quelle, crescano in prescia leggere – esse enormi, dipinte di verde. Ma ricostruiremo anche le putride vecchie sporche antiche città italiane? il muschio macerato nei vecchi giardini puzza; i ciottoli delle strade in salita,

i portoni decrepiti, il silenzio

punge e non è più silenzio né pace di morte

ma è solo il putridume della morte, il suo sconsolato disastro;

solo i vecchi ci vivono per morire

e poche voci di radio.

Un ferragosto ad Arezzo

una notte di dicembre a Urbino (nevicava, nevicava). Le sporche inutili città italiane in sfacelo, come la cadente tristissima (e ahimè povera) Pisa, così lontana dal mare; quando il libeccio cresce dal Tirreno e si avventa divagando per la campagna, essa si accascia senza reagire sottomessa, scossa dal vorticoso giuoco delle onde lontane che non la toccano più; avvoltolata in una nube di polvere, rifiuti, fogli strappati di recenti mortori – e fino a San Rossore declama la sua spenta grandezza. Voi accontentatevi del cielo! Allora io scelgo la disperata (è meglio) città dell’avvenire (disperata secondo le gazzette). Nella geometria dei suoi vuoti e dei rilievi rapidi aguzzi, nel bilanciato rigore delle strade, nella rarefazione degli umori che la circondano e l’investono con ogni cautela, è riscritto il successo aggiornato dell’uomo.

Là dove l’ossessione astratta del microbo sostituisce, rifiutandola, la vecchia angoscia del cuore –

o vivere a Recanati, pensate, in un pomeriggio di pioggia, diciamo di febbraio;

o per le strade di Ascoli antica, salendo per una delle sue rue in salita o Castelsangro se

batte la neve in una notte d’inverno

e mentre gocciano gronde

e la piana si fa bianca

cadono dentro nella cassa del petto

i gracchi dei legni che marciscono

voci di morti conosciuti chiamano.

Vivere a Venezia, fuori dal sole della goghiana arsura d’agosto; viverci per vivere, adesso; vivere! in novembre. O lassù, su quel crinale sperso, vivere in quella villa o addirittura in questo paese, basso con la sua testa chinata fra l’erba in un deserto di arbusti corti. Potate quelle vigne.

È meglio il silenzio scontato e provocatorio, metodico, del laboratorio; il freddo delle belle sale nude. L’uomo perde il furore e acquista una ragionata lucidità; non si preoccupa del futuro, il passato è tutto pieno di segni, un giuoco della conoscenza non una pentola d’angustia. Anche la morte non ha più senso. Il morte, si potrà dire

È raggiunta l’indifferenza che una volta, solo una volta, rallegrava i santi e li inorgogliva.

Oggi ho rauca la voce.

 

– Domani pioverà, osserva Ettore dal letto. Lampi secchi illuminano l’aria e il rombo sfarfuglia in scintille e pare calato in basso, a coprire (o a soffocare) la terra. Così dopo giorni e giorni, settimane, pioverà. No, per il momento è solo il ciclo che si dilata.

Il giorno dopo è sabato. Con Namara e Davidson venuti da Parigi, i due inglesi scattanti

“da noi in Inghilterra siamo più attenti alle cose degli altri”

– con Davidson e Namara, e con Verde va a Mantova al Mantegna. Nell’estate del *, sotto un cielo tutto eguale e caldo, verde, integro, forte, l’Italia delirò per il Mantegna rinato e sconosciuto. Bivaccò nella piazza Sordello, riempiendo di carta e di bucce di limoni, di giornali spiegazzati, il selciato aguzzo, nemico; fra i miasmi pesanti del Mincio arruffato e all’erta fra le canne; fra le zanzare mosche pappataci che sortivano dalle macchie, da cannucce cannelle marcite di cui il paesaggio virgiliano è pieno; dai suoi gorghi verdastri, dalla sua indolenza contagiosa. Anche sul Po vuoto d’acqua branchi di minuscoli pesci brancolavano lungo la riva.

“Bellissimo” dice Namara. Annota, snoda frasi su un foglietto, fermo accanto alla pala di San Zeno. Caratteristiche in senso integrale, pensando al tempo troppo perfetto in cui furono pensate e compiute, le quattro formelle in basso; i piedi della madonna con le unghiette gentili, così tirate e lustre e gentili fanno tenerezza, così umane (com’è possibile adesso dipingere piedi che debbono soltanto fuggire?), laccate da aria di vento di sole, da giovinezza di fede. Orrido invece il San Sebastiano col festone di frutta sul cranio, un grottesco bullo da festival della canzone

“la città nello sfondo è senza vita, troppo ordinata; è vuota di vita; sicura di sé mentre i barbari” –

contro il fuoco dei barbari rosata serena azzurra tranquilla.

Dov’è la sua forza, l’appassionata paura, la sfolgorante angoscia, l’urlo del terremoto? Spenta, non ha luce, non s’agita non teme; non ha più luce, se non la polverosa e posticcia che piove dall’alto, in un girare di chiome d’alberi, di luciferini colori. Le pietre? le pietre? le pietre? le pietre soltanto non bastano. A Londra

 

“a Londra nel ’44 cosa restava più? c’erano muri di pietra, altrettanti di cartone, anneriti; i segni di una sconfitta, carbone di morte. Che cosa restava più? la volontà dell’odio, soprattutto questa violenza. La forza del fuoco che chiamava, che chiamava… Questo ordinato disordine!”

Ma in Ettore tutto comincia ad agitarsi quando Davidson incalza; nel ghetto di Varsavia

 

“nel ghetto di Varsavia, neppure là le pietre hanno resistito (le pietre non resistono mai), non hanno difeso gli uomini. Tutti all’aria, aizzati dai cani che fiutavano le pezze fetide e i passaggi nascosti. Nel cielo annerito ricordate la faccia del bambino, del bambino ebreo, uno stravolto antico bambino, un bimbo ebreo e braccia alzate, lo sguardo su tutta la faccia, secco e contenuto nella paura del dolore, un terrore senza più carne?

Anche lì le pietre non hanno tenuto.

Queste ordinate città della ragione, queste, dipinte per sempre dentro ai magnifici quadri. Detestabili. Così odio questi uomini che ci sono dentro, dentro a esse, troppo fortunati. Così sapienti e fortunati. Con i calzoni di panno fino tirati alle cosce. Questi bei corpi di atleti”

– mette in tasca la penna, stringe il quadernetto fra le mani, guarda gli altri, poi si avvicina a una finestra aperta sull’acqua del fossato. Arrivano gruppi di madame accaldate, con ciuffi di capelli cadenti sulle gote mortuarie, sporche brutte eccitate; americane col viso cotto dal sole s’avvicinano leggendo il catalogo, seguono le parole col dito, si allontanano. Due tedeschi giovani, lei carinissima (con la pelle di prugna, di colore eccitante, appena segnata da una prurigine di pelo, col petto che si appoggia senza un fremito alla camicetta o s’affloscia sul braccio appoggiato un po’ curvo a un bancone; il rilievo delle gambe sotto la gonna tirata, un luccicare un po’ disfatto, affaticato, che le avvolge i gesti; lo sguardo che cerca riparo dal vuoto sugli oggetti, con una foga piena di avidità) –

parlano fitto fitto vicini, guardandosi negli occhi, ma senza amore, o con un amore misurato, sopra la testa femminile di Rotterdam. Lei indica il naso della donna, il distrutto spento vivo occhio destro che dà ancora l’ultimo lampo, l’ultima luce palpitante prima di spegnersi, una consumata fiamma di vita. Non c’è più la bocca; – a che cosa servono le parole se manca la luce? – l’altro occhio, divergente, pare perduto a guardare il passato vicino.

“Was ist dies?” Risponde il giovane, l’uomo vecchio, il discepolo, il maestro della dura volontà; risponde e guarda, guarda se stesso riflesso nel vetro che copre il disegno, la ragazza, quel volto di secoli che piange per sempre:

“Und von der Rede verhallet der lebendige Laut”. Anche Davidson s’è fermato per ascoltare.

I due nemici si guardano.

In questo… fra lo sfolgorio di grevi suoni, di rustiche capanne – sotto la volta della camera degli sposi un pipistrello vola alto basso, striscia il muro, lo sfiora, si alza arrivola lento lento con un gridolino di scherno; le signore incipriate scappano, gli uomini addossati al muro sudano indifferenza, un custode con una canna rincorre l’usignolo cercando di fustigarlo nell’aria, zac, zac, i colpi a vuoto sibilano, il pipistrello cade, corre un altro gallonato custode, l’animale sussulta, sbuffa, viene raccolto e buttato. Le madame ritornano, turbate, distratte, ancora leggermente schifate

così è, così è

oh, così sarà

oh, così è stato

e il fischio che viene dal viale sul Mincio apre il silenzio come un paio di forbici strisciano seguendo il segno della spalla, del dorso, sul panno contadino. Sulla porta, fra gli occhi del duca con la famiglia radunata, fra le teste dei bifolchi del Texas, dei grevi tedeschi d’Hannover accompagnati dalle mogli sopravvissute, con i sandali esse ai piedi, le vene palpitanti sulle gambe – c’è lì, appare, c’è, è lui, la nuova immagine, il nuovo ricordo, non è l’immagine nuova, è la figura vera e protetta di Schumann. Ettore l’osserva, un filo gelato gli corre la schiena, sente di cominciare a tremare mentre un ricordo comincia a bollirgli dentro.

Una oscurità assoluta rotta da lampi. In un momento si rovesciano nel suo cuore le più assurde speranze, sgomenti, una minaccia, il rancore che chiede una vendetta e resterà insoddisfatto; una rovente voglia di uccidere mescolata a una stanchezza addolorata, la voglia di fuggire, di restare, di corrergli incontro, di scansarlo, di gridare, di tacere, di guardare, di chiudere gli occhi. Schumann è ilare, gettato dentro alla propria euforia. Il naso piccolo e tondo, leggermente gonfio in cima; il viso scuro per il bel sole italiano, i capelli colorati di un non-colore scialbo mescolato al giallo residuo, magre le gambe sotto uno short usato e impataccato. È lui è Schumann. L’uomo, l’ometto il personaggio torbido che balza dentro alla realtà da un passato lontano; passeggia a naso in su la celestiale aura dipinta; si sofferma, sorride, fa un cenno con la mano, con il dito, indica e parla; sfoglia il catalogo della mostra, cava il cannocchiale – è il cannocchiale nero, da guerra, Dienstglas 6 X 30, 1227856, H/6400 – lo adatta, ruota intorno, a gomiti sollevati, mentre la camicia comincia a sfilarsi dai calzoni – appare un vecchio omo oramai, sembra un uomo bonario da carte e da birra, con le rustiche mani per la zappa di un giardino casalingo al sabato sera.

Ettore si è affacciato a una finestra. Il ciclo e l’aria sono bianchi, sul lago si stende un fiato di nebbia che sfuoca i contorni, qualche uccello s’alza a volo, una barchetta indugia sull’acqua portando un vecchio accoccolato che pesca. Macchine vanno e vengono,

ah vita, vita come sei terribile e amata

Ettore sente un groppo nel petto, la stanchezza autentica e crudele di quando era ragazzo; cerca in un angolo la solitudine. Intanto girano le voci delle guide che illustrano, this is Mantegna’s work ecc. 1451, obiit 1504, sua manu pinxit…

Ritornano per la pianura sotto un ciclo aperto verso le montagne lontane; alcune stelle cadono sbriciolate, una esplosione.

“In altri c’è più rigore forse. In Piero più grandezza. Questo è un parere, è il mio – il signor Verde parla – Intendo la ragione, il dubbio, una disciplina tormentata. La volontà di soffrire, il dolore senza debolezza…” sfilano fra il verde carico d’acqua sorgiva i paesi, le mura sbriciolate, spuntoni aguzzi amuffiti, gli archi delle vecchie case, paesi imbandierati, le luci al neon dei bar o delle mercerie, bar aperti, mercerie chiuse; il tappeto dei biliardi, le luci basse sugli occhi, gli uomini i ragazzi i giovani tesi sul tappeto, altri sono alla finestra sbracciati; vecchi accendono il toscano sbruffando in una fiammata interminabile.

La strada si incunea verso il fiume che si sente laggiù, incassato fra gli argini disadorni ma dolcissimi, ogni tanto rallegrati da alberi, da rari cespugli. Si intravede lo sfarfallio dell’acqua che rotola a gorghi. S’alzano voci di pescatori o soltanto di operai in riposo, di braccianti che si rincorrono sulla riva, voci soffocate dalla maretta della notte. Hanno i piedi nell’acqua. Così è il viaggio nella sera d’estate, un viaggio di ritorno. I due inglesi guardano e ascoltano in silenzio, spossati da una sonnolenza dei pensieri che si fa sempre più insinuante fino quasi a eccitarli;

“chi dice l’Italia è bella?” – la voce di Davidson. Infatti è come passare accanto a città morte, vicino alle necropoli; si sente l’odore di erbe bruciate, il fetore del legno marcito, dell’acqua che stagna, mescolato al profumo del vento che viene dal mare – un odore appena nato, inebriante. Passata Sabbioneta, fra alari di pioppi che s’aprono come ventagli, al risucchio del vento la strada s’incurva e quasi si torce verso il fiume, poi di nuovo si inalbera, inturgidisce. Lì si poteva far siesta, pranzare, o piuttosto consumare la cena, dopo il pediluvio di colori e di chiacchiere del giorno

“sotto questo ombrello verde” dice Davidson

“riposarsi, mangiare, fumare la pipa; aspettare un poco” incalza Mac Namara con voce inebriata. È un giuoco. Ettore consente, lampeggia a sinistra, scende in prima la rampa fra gli alberi, si addentra nello spazio infiorato da alberetti di scorza tenera che trasuda; sulla ghiaietta che canta sotto le ruote e in cui il piede affonda c’è già la frescura della sera –

una notte tranquilla per tranquilli pensieri

per una lunga dormita (fino al giorno domani)

si può anche soffrire in silenzio.

Fra quel verde di trattoria all’antica

si può riflettere (sic!), rimeditare

contando i giorni sulle dita (gli andati e a venire)

quanti ne avanzano

togliersi la giacca

si può piangere, o sorseggiare a stomaco

vuoto il vino

“il nostro amico è pensieroso”

“il nostro amico ha pensieri?”

“ricorda male un affare, un amore?”

“a noi questa sera non vuole raccontare?”

Ettore si schermisce con un sorriso tirato, a levadenti; gli altri, inglesi più intelligenti degli inglesi, lo abbandonano conversando fitto e cavando gli appunti dalle tasche per controllare date e impressioni (così viaggiano, con questa minuzia arrogante – e preziosa). Mangiano, versano il vino e osservano compiaciuti, ingenuamente, il liquido che fermenta e lievita nel bicchiere – Ettore si guarda attorno. Una fuoriserie targata Verona appoggia il ventre al terreno; sembra un grosso animale che pisci, con i lombi sconnessi e le cosce corte allargate. Il bordo dei parafanghi è bianco di polvere, una consumata velatura è posata sulla vernice rossa. Essa è l’auto amante dell’uomo seduto solo, aggrottato, con i capelli brizzolati (ma è giovane), un vestito chiaro, mangia sfogliando un giornale, si alza, riparte silenzioso. Restano pochi sotto il lume dei lampioni che sfiatano; l’aria è greve, sa di fiume; un odore d’arrosto arriva sul piazzale dalla cucina mentre un vecchio in maniche di camicia, sbracato e calmo serve i clienti; alcuni uomini, quasi in mezzo alla pista, bevono e giocano a carte; poi il silenzio è rotto dalla voce della televisione che accende di funebri ombre una stanza della casa; le immagini sfiatano attraverso gli scuri socchiusi; è un suono violento, una canzone, un madison

“ci sarà la possibilità di ritornare” dice Davidson e sfiora con la mano il braccio dell’amico; questi guarda Ettore che non mangia

“fumare?” gli chiede, porgendogli un pacchetto. Ettore attinge ringraziando. Il sentimento d’angosciata sorpresa gli impedisce perfino di ricordare bene, d’avere immagini nette, di riportare a galla nomi e facce. È immerso in un tourbillon tempestoso, equivoco, oppresso, dalla insoddisfazione e dal rancore. Una mortale stanchezza. Un po’ d’affanno.

“Doveva capitare, un giorno o l’altro, attraverso il tempo”. È l’inizio del colloquio con se stesso? la valvola di scarico aperta con fatica, l’acqua che fuoriesce opprimendo. Il rumore del tuono. Capitare? che io di ieri e tu di oggi, noi e gli altri, prima o dopo, in un modo o nell’altro, ci trovassimo di nuovo con questa sgustosa faccia umana rivoltata all’indietro, cacciati con un calcio a guardare fra gli occhi socchiusi – come nei films del ricordo; o ci trovassimo di fronte alla necessità di chiedere alla fermezza (in un pacifico mattino d’estate, fra lo svariare di emozioni)

e al coraggio (ancora),

questa volta più difficile e necessario,

non un atteggiamento da eroe improvvisato ma da uomo (sia pure non più giovane uomo) che sa rispondere e non grida ma parla.

Non era una vendetta che

si presentava a lui (come necessità) seduto in mezzo a due amici,

né un rimorso di colpevoli errori

(“settanta metri cubi di legname

per restituire la pista ai velocisti”

dice la voce dello specchio televisivo)

ma il bisogno di recuperare per questa evenienza non preventivata

– fra tante altre necessità più urgenti

– una coscienza più ferma, una lucidità ordinata, la misura, la volontà di ben fare, la chiarezza nelle idee, la conferma d’avere capito (ma cosa?)

non era tutto finito?

Ettore cerca di inserirsi nella conversazione.

Il vino si scioglie nelle vene e il cibo italiano è buono, troppo buono dice Davidson accarezzandosi il ventre con una garbata imprudenza. Gli occhietti di Mac Namara stralunano nella bella faccia britannica spazzata, e spezzata, dal sole.

Per i viali si viaggia senza incontrare un’anima, senza vedere luce da case, da paesi, dai borghi appiattiti dentro alla terra. La stanchezza del viaggio mentre nei due inglesi si risolve in una sonnolenza a occhi aperti, quasi un leggero inebetimento, un sonno rifiutato, in Ettore si manifesta in un rombo nel cranio, da ammalato, in sincronia col motore lanciato a centodieci. All’apparenza euforico e ben desto, sottratto all’attenzione del sonno dall’impegno della guida, è anche eccitato dall’aria che entra a sbruffi dal finestrino, avvolgendolo in una trama di brividi benefici. Ettore guarda le luci del cruscotto, il contachilometri, la lancetta dell’olio; una insensibilità quasi furiosa. Sbadiglia, per un secondo si volta a guardare a destra e a sinistra appena intravede qualche ombra di casa, una prospettiva attraente (emersa da tutto quel nero); ma il fiume è lontano e la pianura diritta a perdita d’occhio appena interrotta dai filari degli olmi o dai noci provocatori vicino alle case. Davidson accende la pipa e con lo stesso fiammifero, consumato fino all’unghia, la sigaretta di Ettore. Non si parlarono finché arrivarono. Finalmente è nella sua casa, disteso nel suo letto, la finestra spalancata sullo squarcio di cielo; ombre di luci salgono dalla strada. È disfatto; in un barlume di lucidità prima di cadere addormentato dentro il cuscino pensa (o vede?) che

Davidson è geniale ma prevedibile, scaltro ma anche sentimentale, fragile; un inglese da MEC, europeizzato, con scarpe leggere e una civiltà (qualche rudezza) che diventa tutta malinconia, tutta malinconia

“sul continente il sole dell’arte sostituisce il whisky” mormora con uno sbadiglio. La sua forza è serrata dal sonno, il suo dolore addormentato. Il sonno, l’incubo del sonno, l’oppressione del sogno; il suo dolore è addormentato.

 

Un vento sulle tegole, nei viali romba, entra negli occhi, si calma, deborda rovesciando se stesso per terra. Verso sera scompare nell’aria, indolenzito, ci sono rughe nel cielo di un colore di panno lavato. Ora si può scrivere che

Ettore, anch’egli sbertucciato dal frastuono appena cessato, alla finestra

– egli dentro al vano aperto –

è indeciso se affacciarsi totalmente

o totalmente riemergere,

ancora coperto e agitato in un sudore appena espresso dal fragore del vento, per ore e ore scuotevano i vetri, la gente urlava a parlare, la città percorsa da un brivido con una avidità nei denti sembrava nell’ultimo giorno della vita. Verso sera, tutto rientrò nei consueti binari (secondo le convenzioni), la calma sopravvenne sulle groppe dei cavalli monumentali della grande piazza.

Nella sua stanzetta, un pre-office, qualcosa ricavato da acri di spazio, una scelta parsimoniosa; un nulla che capiva soltanto una sedia e un tavolinetto, una morsa serrata sulla carne dei pensieri – infine, il suo angolo di mondo, il solo angolo entro cui il suo cuore riposasse. E palpitando, dopo il caldo del giorno e il contorcimento dei panni nelle altane sventolanti sulla città, in questa decaduta città neoclassica sporca di fuliggine – con rabbia e con una specie di autoctona dannazione, come a rimestare una colpa in cui forse egli stesse affondato fino al collo;

salendo su uno sgabello, oltre gli scaffali dei libri con la mano tesa, dopo anni e anni; oh sì, anni e anni; così lunghi e pesanti da fare di lui un centenario da giornale; un veterano di battaglie; un avventuroso satanasso miracolato dalla sorte; tolse e aprì il pacco dei ricordi. Raggiunse l’archivio della memoria; quegli anni. Una pila di carte, fotografie, lettere e bigliettini. Altri documenti senza interesse. Un diario imbrattato su foglietti sporchi, sgualciti, incollati alla prescia, alle volte illeggibili; fazzoletti di carta e perfino due o tre buste di cerini con il risvolto bianco segnato da una frase, da un nome – tutto rovesciato lì dentro, al modo che uno vuota le tasche sul letto con la stessa irruenza.

C’era polvere sopra il pacco.

Ricordava la faccia di Schumann, quel mattino – 22 aprile ’45 – appena mosso da venature di freddo raso terra; la faccia di Schumann squamosa, il piccolo naso tondo ottuso dentro a un visino offeso. La paura sgretolava scintille dai suoi occhi, che erano abbastanza scuri (come li ricordava Ettore), da azzurri di prima. Non c’era nulla di particolare nel suo atteggiamento; un insieme di atti, quali alzarsi o seduto accavallare una gamba, guardarsi intorno, accendere una sigaretta, fumare; era forse nella rapacità con cui sorbiva il fumo il segno di un’angoscia che a stento riusciva a dominare – quel maledetto cruco.

In questa sala.

L’albergo è il Leon d’Oro o uno dei tanti Italia, Excelsior o Locanda major perduti nelle vallate alpine; alberghetti di nessun conto, familiari arcaici affogati in una noia paziente, consumati in un perbenismo ottocentesco e chiacchierone. Alle pareti i dagherrotipi dei primi bastimenti.

Il 22 aprile 1945.

Come suonavano a festa (ma era festa? piuttosto odio mascherato ancora per un momento, fatto astuto dall’attesa e dal dolore passato; un attimo per tirare il fiato prima di cacciare la botta); così in quelle voci un poco ci si perdeva.

Seduto al centro della sala dove erano stati radunati in fretta i prigionieri, Schumann, quando Ettore entrò gli venne vicino, salì incontro, dal basso, verso di lui –

 

Ettore soffia la polvere dal pacco, scuote gli elastici allentati

(chiamerò quest’uomo cane delle stalle

punirò la sua superbia col suo dolore

scalfirò un poco la rigida scorza

con la quale tentava un tempo

di urtare se stesso contro il mondo

di rovesciare le contraddizioni del mondo.

Lo renderò nudo ancora, e vuoto)

la polvere a ogni soffio si disperde in un alone dentro la luce. Gli elastici afflosciati non reggono più o reggono male, alcuni erano spezzati; il pacchetto è difeso e contenuto dalla carta ripiegata, indurita in un giallo sporco – e dalla stessa volontà che gli perdurava (per abitudine) di restare intatto, unito negli sparsi elementi, di preservarsi da una curiosità o dalla disperazione; esso, un custodito armamentario di facce smarrite, prigioni. Venendogli vicino, in quel giorno d’aprile, Schumann lo guardò senza parlare, incerto fra tentare un sorriso, accennarlo o aprirgli, fra le maglie che una sorte ambigua in quel momento gli serrava addosso, il segno della paura; perché la intendesse. Ettore cominciava a ricordare, la mano sul pacco, in piedi nella stanzetta o ripostiglio, o piuttosto nel piccolo antro protetto per i ricordi dai rumori

– questi risalivano ribollendo come vapori fra il fango della terra –

in una alternata vivacità di sensazioni; proteso di dentro, in un frugare persistente, indeciso, anche angoscioso. Sentiva in bocca il sapore di quelle giornate (il sapore di una zuppa). Fiori consumati che si spappolano. La morte in quegli occhi, certo; la paura della morte. Un tremito del cuore represso, che appannava gli occhi come il vapore di un fiato. Da azzurri fatti scuri, scuri; la sala – con una luce dalle finestre socchiuse, piena di ufficiali e sergenti, qualche soldato; prigionieri italiani; alcuni sui pantaloni militari hanno una giacca borghese; o calzoni privati sotto la giubba nera –

 

“ich will nicht sterben” una frase sicuramente filtrata fra i denti di Schumann come un sibilo o un rantolo; un secco proposito –

calzoni su scarpe grosse, da montagna. Una pace in giro e la voce di festa della campana là fuori (perché suonava?), per le stradette, un verde esplodente di prati sulla montagna scavalcante addosso, con picchi non toccati dal sole, viola, visibili antri, irraggiungibili. Non un borghese in giro; ma uomini in armi con visi magri; vedeva, dalla finestra, un ufficiale del disfatto esercito, di quella tragica infelice inferma misantropa truppa, partirsene a calzoncini corti, uno zaino sulle spalle, chissà dove voleva andare quel piccolino, maglietta militaresca, col suo passo d’uccello incoglionito, sul bordo della strada che dopo le ultime case del paese discendeva e svoltava. Allegro, tutto allegro partiva, con ingenua baldanza partiva l’ufficialetto credendo di tornarsene a mamma, i polpacci minuscoli si rilevavano a ogni passo, mezzo soffocato dal sacco, sollevando gli scarponi, via via, la testa rannicchiata contro lo zaino. Le mani alle cinghie. Il corpo teso in avanti. Partiva, se ne andava, dileguava, scivolava, svoltava alla strada, scendeva, si precipitava a casa. Così, cancellava ogni cosa. Lucido e innocente, si credeva; di ritornarsene con animo bianco al suo letto.

Dopo otto chilometri altri lo presero e fucilarono, subito, sull’erba.

In quei tempi che cosa importavano i quattrini? riacquistando lentamente la presenza fisica dei giorni di allora, Ettore prova un brivido di vertigine, quasi che precipitasse nel vuoto dopo un salto. Cos’erano quei giorni! Schumann nella sua divisa, con le mostrine verdi è di fronte a lui – l’esercito cruco disfatto; bruciata la baldanza, è un uomo spento in una angoscia

“ich will nicht sterben”

fuori passava un camion, cantavano seduti sul cassone, i fucili fra le gambe – era subito polvere il coro buttato contro i monti.

La splendida umanità di quelle facce, che contenuto furore nel canto. Molti di loro, ragazzi, cantando sembrava che piangessero di tenerezza nel grembo delle madri. Dove sono?

Ettore ne ricorda uno che mangiava un uovo sul pane, seduto su un gradino, al sole, il petto nudo, guardava il suo uovo e il suo pane sulle ginocchia, masticando lentamente. Beveva un sorso d’acqua da una gamella ammaccata, alzando la testa chiudeva gli occhi, il collo si gonfiava. Non una donna, non una ragazza per strada; non una alla finestra.

Nella sala gli uomini parlavano intorno ai tavoli

fumavano

faggi di luce filtrando dalle finestre rivoltavano il fumo a mulinelli vertiginosi.

L’ospedale dei lebbrosi –

Ettore, lui è vicino alla porta; Schumann di fronte, divorato dal male di sapere con certezza a quale filo la sua vita è appesa – o se è deciso e dove che morisse; intorno gli altri uomini condannati anch’essi o prigionieri con vergogna, immersi nell’infamia con una indifferenza opaca –

l’ospedale dei lebbrosi:

“Francesco e Pacifico percorrono insieme, evangelizzando, le terre d’Umbria. Una sera giungono a Trevi, che Dipoldo, duca di Spoleto, ha da poco ridotto a un cumulo di macerie. Intorno la desolazione. Solo di tanta rovina sopravanza, asilo di dolore, l’ospedale dei lebbrosi, che quel feroce ha risparmiato non per pietà ma per paura del contagio”.

Così simile era quell’oasi sperduta nel cuore dell’Italia, dentro la desolazione di un cuore bruciato, fra lacrime d’odio e baci di ritorno; il sasso fra le fiamme del mondo, la scaglia a punta che s’ergeva isolata a provocare. Eppure anche lì qualche dramma si concludeva. In questo luogo intronato di un silenzio grandioso mentre intorno, anche nei paesi più piccoli, si sparava. Ma anche lì c’era la morte in attesa – la quale stava per un momento appollaiata sui tetti anziché girare seminando zizzania; pronta tuttavia a precipitare. E ben decisa a far ciò. Intanto stava appartata, preparandosi a godere.

 

Ettore apriva il pacco, consumando questo annuncio di ricordi; quasi con fatica (nello svolgere la carta) con un magma nello stomaco che gli dava un principio di nausea.

Tutto il ricordo cominciava di lì.

C’era Schumann dinanzi a lui, parlava con gli occhi, s’era alzato e gli stava vicino – la sala della locanda, gli uomini intorno ai tavoli, fumanti e parlanti, soprattutto l’alone del fumo che fluttuava morso da una sottile corrente d’aria sollevandosi dai tavoli. Una danza di veli. Quegli uomini discutevano con una ottusa immobilità, ancora protetti da quei muri che davano fresco. Uomini giovani, per lo più uomini giovani e soldati; fra essi c’era anche qualche vecchio più colpevole e più iracondo, più disperato –

Schumann era un tedesco, fra le bande di fascisti italiani, atticciato, ringhioso, dallo sguardo in movimento, adesso era K.O., soprattutto grondava sangue dall’ansia degli occhi. Basta con gli ordini adesso. Soprattutto era solo, isolato, non più protetto dall’organizzazione del suo Reich. Capito? Wehrmacht kaputt. “Ich will”, invece molto probabilmente anche questo berretto dovrà cadere.

Il 22 aprile ’45. Quel 22 aprile. Si sfaceva la repubblica arroccata nelle prime propaggini delle montagne come uno spizzico di sale velenoso, essa stessa fermentante e tragica in una ossessionata ipocrisia. Fazzoletto di terra emblematico che nessuna forza reggeva, non il reame di un re fuggito e morto non la prosapia di un ministro pazzo (entrambi vili) – terra di consumate voglie e di forche. Sulle spalle la voluttà sadica dei cruchi. Al fondo di questa scena battuta da risonanti ombre di assassinati, la spietata farsa del diritto (quello accademico e polisenso), cruda nella sua opprimente realtà, durata come il rantolo di colui che non vuole spegnersi. Così si spappolò al modo di un fradicio frutto, giù in terra, brulicante di vermi, reame velenoso, un infetto tradimento della natura – la sua polpa gocciava. Quel giorno era uno degli ultimi giorni della fine. Altrove c’erano ancora per le valli e sulla pianura latitanti latrati di uomini cani. I tedeschi resistevano allo stremo. Fucilate perdute sulla carne degli uomini. Le ultime forche, altrove. Così in quel giorno, in quel luogo, in cui s’era ritrovata la pace con dolore – certo, con la disperazione degli anni – erano radunati affrettatamente da un pastore gli uomini delle bande sconfitte; per offrirli al giudizio. Magri, arruffoni, alcuni piangenti, i direttori del male, i sadici, gli uccisori, i lugubri giustizieri (essendo le truppe fasciste dirette e sopportate da’ tedeschi, ogni reparto consistente era accompagnato da un ufficiale di Hitler, indaffarato e scurrile, in sussiego, rigido, dava gli ordini secchi, distaccato per dispetto).

Così. Sui monti suonava l’aprile e per le pendici chiazze di neve semisciolta gocciolavano al sole, scuotendo la peluria dei monti, e un giallo duro e un po’ livido fra la neve; veleggiavano supremamente indifferenti le marmotte scivolando all’acqua che schiumava nei ruscelli. Lì nasceva il Tordino.

Passano gli anni nell’indifferenza, passano in una smemoratezza arcaica, arcigna, presuntuosa nella giovinezza. Passano gli anni, i mesi

 

– “non lo ricordavo così bene, in quell’ambiente”, dice Ettore a Gropius, gli occhi bassi, la mano intorno ad un bicchiere che non beve. “Non credevo che fosse possibile riprendere tutto in testa, in un momento. È una fatica Schumann, ad esempio. Eccolo con quella faccia; è lui lo so. Allora? Allora il colore biondo dei capelli, più biondo. Gli occhi azzurri, poi torbidi, un colore di stagno, come una vinaccia spumosa e il sospetto della paura che vibra proprio per la sospensione della sorte. In quel giorno tutto sarebbe stato possibile. Era finito tutto e niente era ancora cominciato. Tutto poteva ricominciare daccapo. Era il solo tedesco lì in mezzo, vestito da tedesco, in verde chiaro, Alpenjäger, in divisa – e tutto, pare, o è così, si lega a un filo (alle volte i ricordi hanno la cadenza di spietati suoni di tromba)

così non ho ancora aperto il pacco dei ricordi di guerra, ieri sera sono rimasto in piedi con una mano sulla polvere della carta.

Dice Gropius lui non può, assolutamente, aver rapporti col passato: un contatto prolungato lo ucciderebbe. È un ammalato, nessuno guarisce più. Non ha imparato che questo: di dover sfuggire altrimenti impazzirebbe. Morirebbe. E dalla morte non possiamo contare il tempo”.

– Sì, quegli anni.

– Imparare a non ripetere più, a non ripetersi; ma si fa esattamente come prima (con una sottigliezza meccanica). Ci si può aspettare lo stesso genere di morte. Mio padre potrebbe morire una seconda volta adesso sono pronti i vagoni piombati

mia madre potrebbe morire una seconda volta adesso sono pronti i campi spinati

anche mia sorella, la mia povera sorella, potrebbe morire una seconda volta

c’è del gas anche per lei su questa terra.

Io, mi vedi, io stesso (dice Gropius) non la scamperei questa volta. Tutti abbiamo imparato a soffrire e sapremo soffrire di più; ma anche i carnefici hanno imparato e sarebbero questa volta più pronti. Ancora più efficienti. Non ci sarebbe scampo.

– Io, dice Ettore, è strano ma ricordo soprattutto il sole di quel mattino; mi è rimasto impresso il sole (scusami); il peso della luce che riuscivo a sentire per la prima volta, dopo due anni, sulla pelle. Il suo peso. – Io, dice Gropius, ricordo la pioggia, il bagnato dopo la pioggia, sulle rotaie, sulle piazze lastricate dai sassi. L’acqua si fermava scremata fra i nostri piedi decomposti, era una poltiglia che sembrava oro, così gialla. Le rotaie brillavano tant’erano sfregate piallate strisciate; così erano consumate le rotaie dei treni che andavano al confine. Cadevano le foglie; questo cadere, questo staccarsi era una cosa orribile a vedersi.

Parlano, parlano, sono assorti, le braccia appoggiate al piccolo tavolo del bar, si guardano negli occhi; – Questa volta, adesso… È il pessimismo dell’avaro? Dobbiamo cercare, anche se sappiamo che sarà difficile o impossibile, cercare di custodire, ecco: preservare quest’ultimo guizzo di forza (volontà di vivere e non rassegnazione) che gli anni ci hanno lasciato. Anche in te, che non vuoi. È tutto qui…

– Pessimismo. Rancore. Povertà di idee. Meschinità.

– Non partecipare al battere dei chiodi in atto

– Gran costruire di case

– Correnti indotte.

Questo è un aspetto del problema; il più piccolo aspetto forse e tuttavia importante. Ma l’uomo in esso? Intendo: che cosa compirà di mostruoso l’uomo domani? La sua pace di oggi, la sua tranquillità fa paura. Gropius dice che: “l’aveva mio padre la volontà di vivere. Che fervore, te lo ricordi? Che fervore, quell’uomo. Forza, ecco la parola. Non una forza equivoca ma una forza contagiosa; un rapporto en plein air con le azioni. Ecco la vera forza. Forza, volontà di fare. Riusciva dove voleva. Ricordi l’episodio del cantiere. Ricordi? Quando gli riuscì di varare la prima piccola nave. Navicula, navetta, naveletta, navacula si diceva in famiglia sorridendo ma con presunzione; eccome! era un cargo, un barcone di ferro per l’Adriatico, per il trasporto di sabbia ma ci pareva una nave e forse era una nave, mio padre aveva costruito una nave, egli voleva che fosse una nave. La vedeva così. Eppure… Ho negli occhi, come tu Schumann, ritta in piedi, mia madre. Splendeva. Mia madre splendeva. Partecipava di quello sforzo, di questa volontà di intendere; anch’essa ardeva in questa fantasia. Eppure… Ho ancora di fronte agli occhi, sulla pelle delle mani la sua faccia, la faccia di mio padre quando fummo presi. La vanità della situazione, l’incapacità di adattarsi lo attanagliò subito, lo distorse, lo rese succube e timido (un poco vile); io gli dicevo “allora?”; pensa, ero un ragazzetto; rispondeva “aspettiamo”, ma la sua testa era un abbandono completo, un tronco nella corrente, chiunque lo poteva raccogliere. Quanto poco furore ci fosse alla fine in quel corpo di uomo – ecco cosa mi parve subito mostruosamente chiaro; come lui, come tanti fossero ben lontani dal cuore vero degli avvenimenti. Io, un ragazzetto! Pensavo che se si doveva morire, era una favola pubblica che correva di bocca in bocca, non era meglio, e subito più facile per questi uomini nel fiore, scegliere la propria morte combattendo? distruggere se stessi e magari le famiglie occhio contro occhio e fiato contro fiato di assassini?

Morire combattendo mi sembrava il solo modo di odiare.

Uno sfogo.

Forse è soltanto facile a dirlo”.

Come ogni cosa fosse immediatamente perduta – e lo era nella realtà – per loro, dentro di loro. È questo, proprio questo che mi ha angosciato per tanti anni, insieme al dolore per la morte della mia gente amata. Io restato solo. Come fosse possibile all’uomo perdere, da un momento all’altro, per la forza degli avvenimenti, la lucidità dell’odio o del disprezzo, la volontà, che è disperazione, di continuare a vivere… Era così, l’ho visto anche in altri. In tutti. Svuotati, erano uomini svuotati – e sorpresi. Dignitosi naturalmente, magari coraggiosi ma di quel coraggio repellente, pieno di timidezza, ossessivo ed egoista, che si compiace fieramente della ripulsa degli atti ma è senza punte. Un odio dignitoso e perciò, alla fine, servile –

parlo dei primi momenti dell’arresto, nelle stanze zeppe di gente, nei cameroni rigurgitanti pieni di un puzzo acido, di sudore; quando una sorte era indecisa e si poteva in qualche modo sperare – soprattutto mimetizzarsi; erano con un finto decoro, diritti erano, ma spenti. C’era sui visi un rilassamento che segnava rudemente le fisionomie, le rendeva incerte e contuse come quelle dei morti; ci spalmava sopra un grigiore che si mescolava alla perplessità degli occhi dilatati. Era una situazione, tutti eravamo in una situazione di difesa e (questo, proprio questo mi apparve poi chiarissimo, lancinante, dopo) con la convinzione d’essere irrimediabilmente perduti. Nessuno di quegli uomini si uccise o uccise – neppure in seguito si uccise; ciascuno morì per se stesso, adeguatamente rassegnato, col dolore del mondo scomparso; soffrì il doppio, ma morì in silenzio. Alcuni erano genuflessi. Ecco, da allora non avevano più speranza. Si adattavano a raccogliere le briciole.

Ettore lo ascoltava assecondando con il silenzio il monologo imperioso dell’amico. Si parlavano faccia a faccia, quasi confidandosi, e tutta la città era nera. Anche le altre persone nel bar come piallate, attutite (fisicamente), o esse stesse stupite godendo questo momento di pace. Passeggiarono per la città fino a tardi, quasi fino all’alba. Gropius camminava stupendamente, in modo amabile e leggero – con quanta dignità; lento, senza voltarsi, accompagnando le deviazioni dell’amico, per svolta di strade e sentieri o vicoli inerpicati, sempre intuendole. Attraversavano la strada, volgevano a destra, andavano per i viali. Le case erano afflosciate, le auto parcheggiate accanto ai marciapiedi per chilometri e chilometri assomigliavano a pecore fulminate o sgozzate. Nessuna finestra illuminata. Ogni tanto apparivano e sparivano le sagome degli autobus che andavano alla stazione. Cera il vuoto intorno.

 

A mezzogiorno Ettore incontrò Davidson in un bar del centro, l’inglese era liscio e pulito con una gran voglia di meravigliarsi: “mi eccita l’aria, questo caldo sofisticato che sa di mare. Che pace!”

Bevvero un martini freddo, con Ettore che gli chiese che cosa poteva sorprenderlo e prenderlo in un paese come questo invecchiato, caotico, approssimativo e troppo semplicista per durare nella crescita.

“È un paese che si muove – risponde – Mi creda, è il solo paese d’Europa che si muove veramente, e in meglio”. I risentimenti di Ettore gli si agitavano nel ventre (aveva un gran bisogno di libertà, di indipendenza dalle beghe del mondo); non voleva polemizzare con l’inglese, o contrastarlo, così libero nel volo della fantasia; lasciarlo alle fantasticherie mattutine. Questo odorare col naso era proprio segno di un giubilo infantile, che finì per disarmarlo e per divertirlo. Si avviarono. La città

la città si azzannava la coda,

formiche (enormi) le correvano sulla groppa deforme

non restava di agitarsi e soffrire

eppure era così timida nella sua audacia

e così tenera nel suo terrore.

Cresceva su se stessa.

Non innamorata ma rassegnata.

Come una ragazza drogata con arte

ismita ma non intossicata

che si lascia prendere con una rassegnazione ilare

(e un po’ di partecipazione).

Dappertutto quartieri abbattuti.

Sulla collina a destra

un palazzone con le piccole finestre

cresceva, il ventre gli ansimava

– orfanotrofio, un refettorio,

un carcere per mille lacrime (per questo l’abbeveratoio)

fra il verde spento.

Si spegneva il verde nel cemento

schioccavano fruste di vento.

Per ore e ore Ettore in negozio mostrò all’inglese oggetti e documenti, pezzi rari e svincoli doganali, fatture, le vecchie fatture, le registrazioni recenti; infine passarono con un salto, da roccia a roccia, al magazzino (di qua dalle Alpi). La casa madre, secondo la tragica terminologia fiscale. Raccolto in una piazzetta a pochi metri dall’università, in un palazzo del quattrocento maleodorante, impregnato di muffa, prossimo a decomporsi, cadente, ma importante

“c’è roba buona” diceva l’inglese

“roba buona buona” diceva l’inglese

“interessante – ripeteva l’inglese apertamente – dove le porcellane?” Seduto su uno sgabello di fronte all’entrata, nell’aria nella luce di quella porta, come un tritone mingherlino semisommerso, ridicolo e tuttavia misterioso, adocchiava con Rocchio, controllò i pezzi rigirandoli fra le mani, asciugando il sudore con un fazzoletto nero che passava sulla fronte. Leggeva le marche, dava cricchi sul fondo, stropicciava indice e pollice sul bordo, palpandolo. Seduto su uno sgabello. Segnava qualche appunto sul taccuino e per riprendere fiato alzava la testa girando gli occhi per frugare sulle pareti, negli angoli in cui erano accatastati oggetti in disordine. “Capisco perché vuoi vendere” disse guardandolo, e ritornò all’ispezione minuziosa, assillante. Spostava lo sgabello senza alzarsi, con piccoli sbalzi “c’è roba – mormorava – anche da valorizzare, nulla di inutile. Capisco perfettamente. Il denaro, il denaro…”

Erano le tre del pomeriggio, Ettore aveva fame, arso in gola – non bruciato ma secco – le solite trafitture allo stomaco rapidissime; lampi di dolore che lo attraversavano da parte a parte, quando aveva lo stomaco vuoto. Passarono altre ore; il portone era aperto sulla piazzetta, si udivano i versi dei colombi, il cupo uggiolare, illuminati dal riverbero del sole che si sfaceva. Appoggiato al muro, il sole nel collo, Ettore

– lo stesso sole pareva proprio quel sole che colpiva di striscio Schumann, allora, copriva tutta la stanza. Ricordava che ci fosse lo stesso fervore di terra, odore di radici che crepitano sul grugno, d’erbe bagnate che si asciugano, d’acqua che viene bevuta a piccoli gorghi dalla terra, dai suoi sperduti anelli, dalle sue gole feroci. Il sole si mosse e l’ombra cominciò a entrare nel magazzino.

Una voce per l’aria e un girare di Comet che si preparava rassettandosi le penne, a colpi d’ala, all’atterraggio, si riusciva a scorgere il suono che schiumava nell’aria aprendola.

Erano le sette quando Davidson finì; uscirono e Ettore lo accompagnò con l’auto all’albergo. Alla sera, verso le dieci, si incontrarono con Verde e con Gropius, e con Namara, cenarono sul fiume.

Gropius era triste, abbacchiato in un modo rovinoso, forse era venuto di controvoglia per non mancare all’impegno preso in precedenza. Mangiò poco e mugugnò frasi brevi. Verde era scatenato, eccitato dalla dolce euforia dei vecchi che esplode alla sera, col fresco della sera; una resurrezione. I capelli luccicavano, la faccia crepata (come uno spaccato della luna, illuminato e scrutato sinistramente da un satellite) era più tirata, meno consumata, più umana. Così

disse del paesaggio e come esso cambiava mutando nelle proprie ossa. Alberi, fiori e orsi sono scomparsi e sta bene. C’è soltanto puzza di fumo e vernici, intorno, e petrolio. Gasoline fetido e denso che si espande nelle viscere e consuma le budella. Sta bene. Il carbone ci consuma il polmone. Sia pure. Ma non possiamo vivere, come in realtà siamo condannati, nel provvisorio tragico, nel grottesco della solitudine. Ogni volta che apro la finestra, per prendere aria dunque per conservarmi, non per godere o illudermi, ho l’angoscia dell’incertezza; della sorpresa nell’incertezza. Che cosa troverò davanti agli occhi? vicino al muro? di fronte al mio muso? che cosa sfiorerò con la pelle? la coda di un elefante, un manifesto di carne in scatola, l’imperativo “Vota” con il dito puntato o mi investirà il tonfo di una officina costruita di prescia nella notte? quali nuovi orgasmi? per quanti giorni potrò abitare nella mia casa (a cui io vecchio sono comunque e di buon buzzo abituato) prima che mi sfrattino per abbatterla? cos’è quell’enorme edificio in collina? appiattito palpitante come una vescica? ieri non c’era… È una prigione? un albergo? forse un convento? è in prospettiva il ventre di un uomo addormentato? Tutto è così provvisorio, per noi –

quel che è peggio, dice Gropius (unica frase filata borbottando nella sera) noi non possiamo condizionare nulla. Già, condizionare, cioè preparare noi stessi. Adattarci. Patire (nel senso di sopportare). Sopportare il fastidio della noia, il rischio della pena. Sopportare l’inutilità che è fragilità, che ci circonda. Riusciamo soltanto a sopravvivere.

Com’era ridotta Berlino nel giugno del ’45?

“Costruire, costruire” borbotta Namara “abbattere, abbattere. Anche bombardare. Per fortuna ci sono le guerre che spianano le città. Queste orribili città del nostro secolo” – si batte la fronte, ferito dalla cattiveria della frase. Sono tutti tesi, schiavi dei nervi, oppressi dall’afa, infastiditi dall’odore dell’acqua di fiume che il libeccio alza sminuzzando. A volte rumore di remi, di beata gioventù, le luci in piccole palle che corrono la riva – Namara dice, a Ettore dice che prendono in considerazione l’affare, con buone probabilità (dice) ma che rimandano l’impegno, un impegno preciso, forse definitivo – non una conclusione tuttavia – a dopo il viaggio di Davidson a Zagabria e a Lugano, di Namara a Vienna. Uno scappa e fuggì rapido. Gli ha appoggiato una mano sul braccio, lo guarda con simpatia, gli dice “pochi giorni la nostra assenza, fissiamo per il prossimo giovedì, ma non di questa, della settimana che viene. Forse addirittura martedì. Oggi, oggi è mercoledì, buongiorno – oggi è giorno di festa; aspettiamo”. Si scambiano frasi sulla prossima visita di Davidson, sull’impressione attraente, nice, del magazzino, warehouse, nella piazzetta scenografica, così raccolta e definitiva (da piacere ai forestieri) – Gropius è quasi addormentato, lo spirito torbido la mente allagata, Ettore beve a piccoli sorsi ma senza fermarsi. Accendono sigarette, le spengono (spengono le sigarette) tengono in bocca il fumo del tabacco impastato, una nauseante voluttà, deprimente ingordigia. Namara parla con Verde di Londra, della città che decade, avvolta in una noia dignitosa, del rigore metafisico delle sue strade. Così, una noia a piccole punte che impedisce di addormentarsi; diversa da Parigi che ha le calze rotte e la guêpière sfilacciata, e per copricapo quel ridicolo generale; sfilacciata, sotto la sottana di nylon. Un misto di tenerezza e di repulsione. Bucata, povera, la diletta Parigi; fottuta. Da un generale, pensate. Una violenza pubblica applaudita da questi cornuti di francesi. A noi ci salva la noia ancora per un poco; una presunzione nella fortuna che s’è fatta dolce anziché cattiva, ma che si frantuma a poco a poco. Forse un secolo, forse ancora meno. Sono ottimista in questo. E dopo? dove cercheremo la polvere della gloria che ci cade negli occhi per toglierci il sapore delle ore di sonno? Essa ci è indispensabile per vivere – la nostra ingenerosa indipendenza. Metteremo sotto bacheca l’Old George Hotel, il Castle and Ball o il White Horse at Westbury? mare ha difeso noi e intorpiditi per anni mille; ma per i prossimi diecimila? il terzo millennio? Già, per il terzo millennio!

Addio Inghilterra –

addio Inghilterra –

E addio Francia –

addio Francia –

ahi povera Italia

(con Spagna e Grecia fornisce le serve all’Europa)

affrettiamoci a vendere, affrettiamoci a comperare, vendere, acquistare, racimolare oggetti prima che tutto finisca (ma noi non finiamo?) Il piatto dell’Europa è destinato a conservare solo un poco di sugo e il resto dell’insalata.

Bevono, intristiscono lentamente, con un fervore che si rinnova, in questa umidità della coscienza – come se si avviassero a piedi nudi, fra vento e pioggia, in una dannata sera, a piedi nudi fra pioggia e vento nelle prime raffiche autunnali sulla riva – sulla riva lacrimosa e severa, tragica del mare.

 

La mattina dopo Ettore andò in banca e ritornò presto a casa. Il ventilatore dell’officina ventilava stridendo tra la ruggine non consumata (era il momento di rodaggio avevano ribattuto in protocollo a un violento reclamo);

a casa trovò un biglietto di Elisa. Lo amava, volava a rivederlo, tornava in aereo nel pomeriggio. L’amava? lo aspettava. E torneremo

Un biglietto senza odore, un cartoncino con un segno di mano o di dita a un bordo; la traccia (misteriosa e austera) della vecchia Inghilterra o il rombo dei gabbiani la riverenza di monsù, il rombo dei gabbiani che scivolano sulle onde infuocate. La lontananza produce uno stacco, il cuore nel suo sentimento si spezza in mille risonanze e risucchi (a volte misteriosi e come imprevedibili); quando si ricompone, dopo il dolore dell’attesa, la nuova figura, l’ombra della speranza che il ritorno ci porta è sempre più magra, più delusa e piangente. Palpava il biglietto nella tasca amareggiato, senza eccitazione dei pensieri, con una calma equivoca e svagata che sfiorava l’indifferenza.

Così era Ettore. Le ore d’estate passavano, scivolavano via leggere, un filo di sabbia nella mano, dal pugno socchiuso, calda essa sabbia e calda sul cuore; fuggiva via l’estate; le giornate scorciavano un poco, ogni giorno, anche se il caldo era opprimente e il cielo spento e grigio come un dente cariato. Orribile e forse nauseante. Per Ettore tutto restava in sospeso, incerto; anche se l’arrivo degli inglesi – immacolati – e l’interessamento (entusiastico) di Verde davano parvenza di una timida verità alla conclusione dell’affare. Tuttavia almeno per ora ogni atto restava vago, avvolto in una distinzione tesa, cattiva, dove parole e gesti assumono il peso di simboli, per lo meno di allusioni profonde, di avvertimenti. Mescolato a questo intreccio sottile, Ettore recalcitrante per natura, infastidito ed esausto, smaniava debolmente. Inoltre mai era stato tanto solo, dentro una solitudine serrata, una maglia invischiante, un fil di ferro teso che gli logorava la pelle. Mancavano sette giorni alla fine del mese, alla realizzazione o delusione della sua speranza – al momento, per Ettore, di una resa dei conti. Non essendo accaduto nulla nella sua esistenza e nella sorte della sua vita che potesse far sperare di mutare o raddrizzare gli eventi, l’ancora di salvezza, alleluja, poteva venire offerta, ufficiosamente, sola e isolata, essa turgida e detestabile, grondante acqua d’abisso, dagli inglesi; due inglesi che ancora riflettevano, taccuino alla mano, o che avevano già deciso spianando ogni morso di dubbio.

Risponderebbero martedì – a due giorni dalla fine. Ma che importava? In quel tempo, e in quel modo, ogni cosa si collocava al punto giusto; anche un probabile o improbabile rifiuto (per essi una evanescente ripulsa, un episodio di viaggio) sarebbe stato giusto e prevedibile. Al momento opportuno, io dico, a chiudere una vicenda e a liberarlo finalmente, finalmente da questo incubo – un ingorgo di circostanze; dalla cappa di eccitazione che lo opprimeva. Appoggiato al parapetto, guardava le armature di fronte, il palazzone cresceva, le sagome degli uomini protetti dai tralicci e le voci, il rumore dei montacarichi che trascinavano verso l’alto le ceste con le pietre ammonticchiate – un ardore di sole non consumato che svariava oltre i coppi delle case più basse, un morbido colore a ogni angolo. Pensando alla propria vita, la somma delle giornate spese, Ettore… Il risentimento finiva per tradursi in una angoscia irritata, in un fastidio che aveva la rabbia dello spasimo. Cancellare tutto con un colpo di mano, con uno straccio. È facile, spesso è molto comodo, soprattutto per gli altri nei riguardi degli altri, per i filosofi metafisici dire o ammonire: vivi; oppure: continua a vivere; oppure: resisti, ’sgraziè –

ma io tu voi, essi, coloro, io che mi affaccio a questa finestra, o mi sporgo da un’altra finestra, nello spazio ventoso e lacrimoso, appoggio i gomiti, mi sporgo timidamente (perché la vertigine da la nausea), io che guardo e ascolto, quanti giorni e giorni, mesi, che quantità vasta di anni, come acqua o vino, meglio vino che acqua, che trabocca da un fiasco, da una boccia, ho –

un colpo di campana, battere di ore, ticchettare, scorrere di sfere, un lento afflosciarsi di sole –

ho vissuto cercando di accontentare gli amici, di deludere gli avversari, di lottare con un po’ di forza, di contrastare con l’astuzia concessami, eppure –

afflosciarsi del sole sul mio petto, come se disteso io morissi. È la tristezza della solitudine, i pomeriggi di pioggia dilatati fino al confine del mondo, freddi e a tal punto vuoti. Eppure c’è un disavanzo enorme nel conto della vita. Aspettare che cosa?

Nella polvere, le vecchie città italiane si stanno consumando le ossa, sfacendosi, e le loro vibratili arterie sono grumi di fiele – intorno è una piatta pianura, arruffata scomposta giallognola, ottusa e caotica, su cui i pinnacoli delle fabbriche alimentano i fuochi fatui notturni mentre sformano i bicchierini di plastica, le cestuzze traforate, i mobiletti che si squamano ai primi caldi, coca cola fasulla che massacra il fegato, tutti i cavaocchi per le belle famiglie italiane (ma tu arriva a Lucera dopo l’interminabile rettifilo di venti chilometri mentre intorno il tavoliere brucia nel caldo delle stoppie accese e sul castello svevo issa ansimando la tua bandiera; di là guata e taci; guarda la sozzura dei secoli che s’addensa su Lucera, il cumulo risecchito di sterco, che s’addensa sulla spolpata città, sui vicoli sconvolti, sulle ossesse vecchie in consunzione, sui detriti, sul piscio, sulla coda straziata degli alti muli magri. Dimmi se lì c’è vita o se c’è rimasta la storia; lì solo la morte sfiata).

Il mio barbiere è un napoletano triste. È uno di questa razza magnifica e intrepida che si consuma e sta forse sparendo. È un vecchio, questo barbiere. Ma non è troppo vecchio il mio barbiere. Ieri, guardandomi negli occhi, ha confidato che emigra in America, speranza per speranza come un sasso contro un altro sasso, laggiù dice almeno qualcosa ancora da succhiare c’è. Qua signor mio – gli occhi azzurri, i larghi occhi azzurri erano sul mio naso, così la strozza che oscillava, incombevano nuotanti dentro a un gorgo di tristezza adirata (che deluse speranze di vita! ma che alte e future, ancora che nuove speranze!) – qua diceva anche la morte costa cara. Questa Italia fa schifo.

È proprio così. Anch’io faccio schifo, che guardo il vuoto della finestra e ascolto le voci, proprio io che sento e mi sento lontano da tutti, serrato in me, snervato dentro di me, ho solo questo sole, in questo momento, e sono peraltro amaro con me stesso, e vecchio per avere a volte il timore di una vita finita. Ribellarsi a questa idea, se si può.

Accende il grammofono, rovesciato sul letto. Elisa tornerà? da quale viaggio dietro nei secoli, da che viaggio della memoria? Sarà ancora la minuta figura, una graziosa palpitante vita, o una matura signora, una matrona dalla coscienza, saputa e distinta e così amaramente perbene, sapiente e un poco perversa, con la voce calda e faticosa (affaticata) delle donne mature? Essa ritorna, ma quando partì? quando? e da dove ritorna? È amore, un legittimo affetto, è moto della coscienza il suo? è amore, questo, per la ragazzina carina che ha baciato tre volte? Portarsela a letto… eh, no, un modo volgare per sfuggirsi e ingannarsi. Servirebbe a qualcosa? a lui, servirebbe? alle sue giornate piagate? o servirebbe a dare lucidità a questo sentimento dissipato, del tutto combusto? No, certo. A lui, Ettore, piace questa libertà nella tenerezza anche per Elisa leggera, e l’umore dei suoi giorni migliori, il tamtam del tempo in questi momenti; una perplessità, a volte, che non è angustia ma misura, e profonda dolcezza; la sua assenza di cattiveria psichica e una sensualità dolce e un po’ generica che si esalta, e si illumina, aspettando. Senza consumarsi. Forse egli non l’ama, ecco tutto (non l’ama più, non l’ha mai amata – che cosa importa); non ci ha riflettuto a fondo, fino ad ora; preso in quel limbo di pace nel momento più frastornato della propria vita. In una ridda di pensieri. Forse non l’amo, è soltanto imbarazzo con dolcezza – un ombrello che mi copre d’ombra – portarsela a letto – non per astuzia, o per una cattiveria dei sensi, ma così, senza provocarla; per affetto – o come una afflizione. Per illuderla. Ma questa è autentica spietatezza. È romanesca protervia. Una forma di gallismo tronfio e dimesso ecc. Cantano rondini e passeri sopra la città sfrecciando. Fu così che quella sera, sortendo dal sepolcro della camera dalla efferatezza di una giornata che si prolungava nella notte, Ettore, consumatesi nell’arzigogolo di ore interminabili, stillante amarezza, bruciato negli zigomi dal rancore repellente che gli schiumava dentro, telefonò diritto e preciso, autodeterminandosi ad agire, alla sapiente ed eccitante, dura in sé e lieve, stupendamente vitale, mara amara Alalia.

“Tu sei…”

rispose la madre. La madre fu superata, sbattuta in un angolo, zittita. Quando venne l’altra voce, la sua voce, un gemito, un po’ bassa, il corpo di Ettore si ritrasse formicolante, pervaso da una carica di elettricità animale e disarmante che gli pizzicava i nervi e gli faceva bruciare il petto. Una autentica frenesia.

“Ho bisogno di te”.

Rise e venne.

Sono qua. Sulla porta, diritta e alta, come stanno nei films americani le laccate attrici dagli orridi seni, straripante sterpaglia di ciccia e occhi di triglia. Lei no, lei era invitante e vera, accettabile in tutto. Si spogliarono e gli baciava la fronte; Ettore si ricaricava di energia come un accumulatore a cui è innestata la spina; abbandonato viveva. Riacquistava un po’ di ardimento, la frenesia vitale

– non dovevo lasciarti, disse.

– Non dovevi lasciarmi, rispose placata e lo assolse.

– Voglio che tu resti con me.

– Voglio restare con te.

Ettore era su lei che lo stringeva

– Ho pianto, gli disse, nei momenti vuoti della giornata; erano tanti. Con ira, con molta tristezza.

– Senza piangere mi sono consumato, avendoti persa e condannandomi a questa solitudine.

– Ora io sto con te.

– Ora tu resti con me.

L’amore è dolce, proprio come una rosa; è bello, proprio come una rosa; spesso è una battaglia – quando essa si rovescia sul tuo cuore e palpita, sbattendo le ali. Erano vicini, la sera scintillava piena di luce e di una risonante allegria che la scalmanava. Alalia dice che aspettava questa telefonata. Ho sofferto e una volta ti ho visto con una ragazza seduti a un caffè sotto gli alberi. So che sei serio, anch’io sono una donna intelligente io credo – ho sofferto un poco di più. Aspettavo di pensare. Di domenica era, giravo sola, annoiata; più che annoiata, disfatta. Ero stanca, il caldo, quell’afa continua. Vi ho osservati, volevo avvicinarmi, chiedere, sedere, mettermi tranquillamente a parlare con te e con lei, partecipare della vostra tranquillità di quel momento – era una pausa fra due tormenti. Non è così? Non sentivo altro, insieme al groppo della solitudine di quel giorno, ahi la domenica, della noia triste, della noia nella mia solitudine, non sentivo che un senso di tenerezza. Soprattutto per te. Correre da te, sederti vicino, abbracciarti. Mi capitava di scordarti un poco, durante la settimana, nei giorni di lavoro. A casa ero stanca, dormivo molto, irritata. Hanno compiuto una rilevazione nel quartiere di San Gregorio e adesso elaboriamo i dati, un subisso di lavoro, un mare di carta. Ho provato ad accettare la compagnia dei colleghi, che noia. Non sono più tanto giovane, almeno di spirito (forse per questo), almeno dentro, almeno nei pensieri, io con te sto bene. Con te ho queste pause del cuore che mi fanno vivere beata. Sono crisi benefiche, piccolissime scosse; se non altro per ore, per minuti. È un riposo, così eccomi ma sei sciupato e triste. Oggi sei solo, così solo dunque –

“Domani andiamo al mare” dice Ettore.

“Domani, certo; con questi giorni d’estate”.

“È una bella domenica, domani”.

Lei gli stringe la mano, fanno all’amore, parlano a voce bassa.

“Non c’è l’altra ragazza?” chiede

“Non mi pare, non c’è”.

“Pensaci”.

“Comincio a dimenticare, scordare, perderla. È troppo giovane, così diversa da me. Non so neppure ritrovare il sentimento che mi ha avvicinato a lei, in quel tempo – era forse tenerezza; un misto di compassione per me. Trasportato da una corrente, neppure era curiosità.

Dice che l’ha riposato e aiutato in un momento angoscioso, in cui anche tu mi angosciavi. Qualche volta ti odiavo. Era un momento di pausa, un bisogno di rivalsa, cercare di mescolare le carte, buttare il giuoco all’aria. In questi giorni, in questo mese dannato non ho concluso nulla – così come non ho concluso nulla o poco davvero in questi anni. Aspetto martedì con il cuore di uno che si affida a una bottiglia. Dal deserto mare.

“Non hai speranza?”

Ne ho una sola, fortissima – così dura (sai, resistente) che mi fa male a pensarla. È un blocco informe, soltanto pesante. Mi pare impossibile tanto è tempestiva; ma non c’è altro. Ho questa soltanto e vivo”.

La guardò appoggiandosi a un gomito. Come l’anno passato, nei giorni d’autunno; c’era nell’aria un odore amarognolo, d’uva sfatta, che esasperava i sensi; come piluccare il mosto. Ripensare alla calma di quei giorni lo innervosiva; se paragonava se stesso nella burrasca al tiepido omo benestante, in sé presuntuoso (nel consuntivo dinanzi allo specchio) e, seppure soltanto in apparenza, pacifico; attivo e con una vita mondana; se misurava la sua condizione sentiva il peso e la vergogna dell’ingenuità e dell’infantilismo mescolati al proprio attivismo. In futuro non sarebbe stato tutto da cambiare? La considerazione della propria situazione non lo feriva più né lo amareggiava; eran finiti quei giorni. Si limitava ad accusarsi. Ma gli altri? degli altri nessuno poteva più aiutarlo. Non il funzionario morto, che era morto; non il giovane funzionario vivo, che era vivo; non l’amico del padre; né la madre matrigna, una vecchia pestilenziale, non il solenne sepolcro della banca con la sua schiera di morti allineati. Chi voleva non poteva, chi poteva, e per di più con affetto, non voleva. Assolutamente non voleva –

sono sulla strada, la sera è vermiglia. Alalia si stringe al braccio con la protervia ossessiva, il piglio gioioso e magnifico ma un po’ materno che da la sazietà dell’amore, illuminati ha gli occhi d’un color d’acqua pescata nei fondali.

“Nessuno che possa vuole? come ti aiuterei se potessi”

Camminavano per un viale verso il centro della città, frastuono di voci in alto, voci e la gente alla finestra. I ragazzi correvano in un piccolo giardino alberato. “Gropius anche lui vorrebbe. Ecco il solo ormai che vuole. Chi altro? Ma anche Gropius, con te, come te, non può. Prima della guerra, allora avrebbe potuto eccome. Adesso no. Penso che l’ipocondria di ieri sera, quel silenzio scontroso, gli vengano pensando a questa inutilità. Quanto vorrebbe saper fare, e fare effettivamente, per gli altri, sentendosi ancora forte e utile”.

“È generoso” dice.

“Buono, nel senso di una pienezza di bontà. La bontà intesa come una qualità operativa che comporti rischi e impegni. Non basta dare, bisogna impegnarsi”.

“Oggi? un meccanismo arrugginito. Non è come essere condannati alla sconfitta? Intendo fin dall’inizio, a essere vittima della turbolenza e dei propri rancori? La speranza cede al mugugno”.

“Così è, può essere. Io lo amo ma tu l’hai scolpito. Con durezza, magari. Sarò dunque io, o sono io, sono io da tempo, che l’aiuto. È lui ad avere bisogno di me. È così. Lo so, lo sento. Lo so e lo capisco; lo ascolto”. Ecco fatto. C’est possible

 

III

 

In marcia al mattino per la via Emilia da Milano a Rimini. Alalia amara bellissima freschissima, giovanissima, con gli occhiali scuri, un fazzoletto in testa, un foulard di allegri garbati colori, è un Falconetto, le ginocchia segnate da un principio di sole, l’incanto bollente delle cosce, seduta sulla macchina lussureggiava, il corpo appena trattenuto da una veste leggera –

“un bacio prima di partire” dice.

Un bacio prima di partire. La bocca odora di caffè; il corpo si tende, si irrigidisce; il sole è basso, sfuso nelle prime ore del mattino. La via Emilia da Milano al mare è un lungo nastro scarlatto

si aprono vialoni d’oro che singhiozzano

per la meraviglia degli stranieri in

shorts, a torso nudo guazzano

in una stupefacente chiarità (su Austin o NSU Prinz)

stupefacente chiarità mescolata

di tormento, ma a fior di pelle; equilibrante

nell’africana crudeltà dell’aria

il vento si strusci –

che si placa spento dalla luce.

Assomiglia al filo di un frangente questa strada diritta, d’argento lucidato col Sidol, imporporata da echi di viole, mescolata al volo di pernici e al muggito dei vitelli. L’Italia bucolica, spezzata nel suo magro operare, soffocata nelle nebbie del fumo, ingobbita nella galaverna invernale, attiva e feroce, che ostenta con cattiva coscienza le sue piaghe di lebbra, che incanutisce esecrando, e reboante barocca si gonfia di camini e di muri – come una vecchia di Bari che torni da Detroit con oro intorno al collo grasso e abbia una smorfia di disprezzo e amore intorno alle labbra impillaccherate. Un obbrobrio. Attiva e feroce, un po’ stanca – e tuttavia: tu che puoi sapere e svelarti (con un residuo di pudicizia e d’amore) sei una terra di metani dissepolti (ma abbatti con cinquecentesco pugnale, amaramente, l’aereo di chi sovrasta), ostile dentro un mare immobile – nel porto di Genova dondolano per anni le bucce dei cocomeri non raccolti; percorsa da vene di fiumi disseccati; tu che puoi (se vuoi) sapere e volere, come ti apri a queste turbe precipitanti, in una attesa continua, tu colpita da un’ansietà che si trasferisce sulle ciglia in una pallida morte e, più spesso allora (ut dicunt) è solo un frenetico bisbiglio, un vociare, un cantare e incrociarsi di voci, lazzi e sberleffi e coltelli impugnati per delitti d’onore, e lacrime spesso, lacrime che solcano e scavano la pelle della faccia. Si scontrano sul tuo corpo canuto, o latina tellus. Centomila chilometri di strade in così poco spazio, un incrociarsi vertiginoso di bivi – sicché…

Ma oggi via per l’Emilia, e a chi corre più svelto il bacio della gloria; per il momento il più bravo è il biondino di Pavia (un cigarro gli pende dal labbro), poi incombe la Flaminia nera che conduce due assorti monumenti, lei donna è una duchessa in rosa, lui uomo è un pomposo secco, entrambi levigati di talco, li conduce l’autista a una villa nella campagna, dimora imperiale, a cui si accede per il viale dei tigli, fra il cantare di grilli e cicale innamorate (così dicono), dove valletti apriranno il portone al buongiorno signor duca. Così è la vita. Il biondino di Pavia ha la macchina a nolo, spider veloce, è solo, è un po’ pazzo – nessuno ha cuore stamattina di pensare ai mali del mondo. Prima l’autostrada, un frenetico diluvio di sole; poi le strettoie delle strade provinciali che durano intatte dal tempo di Cesare (un Cesare, soldato), le curve come nei campi, i sorpassi che sfiorano traendo nella scia un sibilante vibrare di ferro. Dire che cosa è questo mattino in questo angolo di mondo, pochi chilometri di strada e la rabbia di una vita consumata e battuta. Ognuno ha un viso disteso, la convinzione di una felicità (allegria ecc.) che deve venire. Sono in possesso delle chiavi, non possono chinarsi a raccogliere le briciole della sorte, o aspettare una sorte migliore che tuttavia si finga difficile. Presto, presto. Viviamo per la corsa, anche per questo correre domenicale, che è preludio all’agonia delle ore.

Avendo una donna accanto

(come possedere le chiavi della giornata)

puoi sfiorarle il ginocchio

titillarle il seno, sorridendo;

sfiorarle il ginocchio

accarezzarle il collo (che è un punto di volta

formidabile per cominciare a vincerla)

puoi appoggiare la mano

sulla tranquillità del ventre

puoi anche premere dolcemente.

Infine c’è il tentativo

scomodo per la posizione

(l’altra mano è intorno allo strumento di

tortura del volante)

di insinuarti sotto lo spettacolo della gonna. Che cosa chiedi alla corsa veloce, con la marcia ingranata in quarta per chilometri e chilometri, velocità di crociera 130, davanti una millecinque bianca targata Trieste, stivata di carico umano, due mucche generosamente grosse e canute? Ettore è con una donna giovane; fumando si lascia portare; a poco a poco l’asfalto comincia a vibrare a bruciare, le gomme si attaccano e si scollano con il rumore della stagnola che avvolge la cioccolata. Un rumore cantante, una sottile vibrazione, un brivido. Qua e là non più i campi né le case coloniche né i poggi nella foschia della solitudine agra, né le pile di fieno morsicate dai cani, né il ventre dei tori che gorgoglia. C’è solo un muro di case per chilometri e chilometri, il barbiere sulla strada, un paese si lega all’altro, intermittenti trafile di aneliti e di cuori che battono. L’Italia si sfalda e si scuote. Fabbriche bianche e villette a tre colori, col giallo uovo che uccide e il terribile blu dei capimastri ciociari arricchitisi con la margarina – una cattiveria, la sicura ignoranza mescolata alla speculazione che ha fretta. Calano i barbari domenicali portando dialetti che staffilano come pugni, grassi sbracati. Chiese abbandonate in vendita.

In marcia al mattino; è un mattino d’agosto che porta verso il mare, filando verso il mare, fra i rumori che si accavallano e una infinitezza di ciclo che ancora è bianco per l’alba non consumata –

“fare il bagno, fermarsi sul mare”. Una eccitazione di gioventù in libertà e di tranquillità rilassata, una autentica felicità senza rughe, sul volto di Alalia amara bellissima.

Gli parla di sua madre,

che tu sai ha qualche rancore verso la vita passata ma adesso è felicissima e mi è morbosamente attaccata. È esosa, in questo. Io la compatisco, poveretta; ma gli altri? lo so che non ha che me, nessuno ha tranne me, ha solo me. Mi difende coi denti, difende se stessa, in me, poveretta; anche al telefono (ma non con te, a te vuoi bene) ha una voce da cane da guardia svegliato dal sonno, rotto nella sua solitudine – per lei, con l’egoismo ormai patologico di chi non vuoi seccature –

parla svagata, col piacere di parlare e di ricordare in quel momento, d’avere altre visioni, guarda avanti a sé la strada, la fila di macchine quasi incollate. Dice che sembra di viaggiare in compagnia, così vicini, fra le persone che si conoscono.

 

Ci sono per la strada divertenti richiami pubblicitari, Zimmer frei, ragazzole che escono dalla chiesa e un aprirsi di campagna sulle gonne e sulle forme nelle gonne e la campagna, sempre dessa, che svaria fiati all’orizzonte appoggiandosi alle colline, un susseguirsi di cunette, un frusciare d’api, il cielo slargato dal volo dei colombacci che subito soffocano la fame cadendo diritti nella stoppia. Guidare è un’impresa, è una fatica (non più un piacere – ma la meta è vicina), le ore dell’alba – non sono più le ore calde del giorno, una maturità dolente, eight o’ clock, le macchine si inseguono scandendo rapidi spostamenti per cercare la strada. Tutte sono zeppe (o paiono) di gioventù, docili colli giovani si piegano nel sole, le braccia nude,

la stanchezza non è ancora

col suo occhio

a coprire le piaghe

di un giorno che finisce e

finalmente si calma

(secondo il pensiero dei saggi.

Ma infine: i saggi hanno pensieri?)

Questo è dunque l’esito di massa,

il perpetuarsi (pardon, il ripetersi)

della nevrosi settimanale

sotto forma di evasione

che durerà fino alla prima neve

– un balsamo è

dunque questa corsa

verso la salvezza del mare,

null’altro che un sorso

per l’asma che tortura la carne.

Predestinati dunque al silenzio?

Ma queste voci sono forse voci di noia?

A me pare, dice Ettore, che tutti si divertano un poco; e nel divertimento c’è un modo. Anch’io mi diverto oggi, cioè ho l’impressione di divertirmi (questo sollievo), ho la speranza che saprò divertirmi così, con te, per tutte le ore, e in questa speranza è il divertimento stesso, forse il prologo più libero e felice al divertimento; per se stesso il divertimento è deludente e noioso ma aspettarselo e cioè sognarlo prima e prevenirlo, prevederlo, oh sì anche a me pare sia giusto pensare che, così, in questa tensione d’attesa riempita dalla mente, il divertimento prenda forma come una evasione, un altro modo (diverso) di esistere. Io in quel tempo, con Schumann dietro la porta, in quel tempo con tutta la guerra finita (e c’era una montagna di giorni) o che stava per finire veramente, e in quel tempo ero molto giovane ma di una giovinezza consumata nelle radici, passata attraverso pericoli mortali, dunque una giovinezza che si sopporta a mala pena, con fatica, con orgasmo, nella volontà confortata dai fatti e dalle azioni stesse compiute, di crescere in fretta, cioè di consumare gli anni, gli ultimi anni di questa giovinezza, così come si finisce di malagrazia a volte l’ultima sigaretta per cominciare un pacchetto nuovo (il vecchio è gualcito dentro la tasca); o almeno la parte di anni che ancora dividono, così pare, dalla maturità, dal rispetto degli altri (ricordo bene la sensazione di ambiguità sentimentale), o dal calore verso se stesso che viene proprio – io l’ho sentito, l’ho saputo – da aver sofferto col ricordo. È avere storia dietro di sé; la consumata corrida dei giorni. Da giovani non si può. Altri invece ci passano dentro con il cervello quasi scoperto, una massa repellente pulsante, i pensieri sembrano vermetti che si torcono, un amalgama di vomito. Avevo un amico così, un tempo (poi è morto). Questi individui riducono tutto a sé, lo stirano, se ne confanno (l’indossano) egoisti e freddi ma alla fine sciocchi io credo, in questa grettezza disumana che li consuma. Alla maturità arrivano divorati e vuoti. Avevo un amico così, un tempo (poi è morto). Un mucchietto d’ossa; un mucchietto di polvere, ottuso secco. Avevo un amico così, un tempo.

Il pensiero gira inforno al ricordo di Schumann, a quei giorni e non vuole o piuttosto non può concludersi; non si ferma. Schumann è fermo e zitto. C’è un certo sole nell’aria, e dopo? anche le voci cambiano, anche la faccia degli uomini. Dove sono le magre facce degli amici? dove gli amici di allora? e gli amici che erano amici degli amici? I gabbanotti scialbati e frusti che coprivano le spalle, i mitra scattanti da cui l’olio gocciava come il vino; e fuori da ogni regolamento l’appassionata albagia, la volontà di morte che si rivolgeva in un frenetico desiderio di vivere, l’incostanza nei sentimenti e le malinconie profonde – il fuoco della passione per la cosa che si faceva. So quel che obiettano

(eh, sì)

dicono di quel tempo

o il sentimento di esso

lo svolgersi dei fatti

la situazione presente

insomma che la storia è irripetibile

che è meglio confondere Marco e Marx

rimandare ogni cosa a domani,

il pungolo del ricordo

è irrazionale e soprattutto sentimentale

Je ne suis point muable:

j’atacheray mon corps à suivre sa moitié

et chercher son semblable

 

Je change sans regretz…

 

Lasciato Schumann, egli andava dietro a quel certo sole nell’aria frizzante, con il tepore che la discioglieva dai veli. Il colore giallo che mescolava tutto discendeva dalla montagna, dai fianchi vertiginosi e si sperdeva fra gli alberi in basso. Ma adesso c’è questa campagna in mezzo a cui vanno, il frastuono delle macchine lanciate, una tensione che si fa tagliente e Alalia ha acceso la radio, the lion sleeps tonight, il coretto dei falsi selvaggi si infervora e viene voglia di inseguirlo mentre fugge a cantare, serrandosi nella foresta. Lei è piena di un tenero desiderio di abbracciarlo (fra le braccia), di dirgli cogliendo un momento senza vergogna ti amo ed è un sentimento di tenerezza agitata che vuoi consumarsi, forse anche di gratitudine (o in mezzo ad essa). Le ore tranquille della vita sono rare, così poche; si contano – e il rapporto con gli altri, poi… Eh sì, sul piano sentimentale. Basterebbe la prova con gli altri; perché cercassi di non lasciarlo più. Con lui sto bene.

“E Gropius?” chiede.

La colonna delle macchine procede a passo d’uomo, in fondo alla strada sotto il sole appare un gorgo e teste d’uomini, i ciclisti che passano. Il senso di euforia, la buona disposizione d’animo (del mattino) è conturbata dalla provocazione di questo andare in compagnia, a folle velocità o a passo d’uomo, dall’assillo dell’ombrosa protervia degli utenti domenicali impelagati fino al collo nel dovere familiare o nelle corsette erotiche – protesi in un’avventura che la modestia ammanta di un poco generoso torpore fin dall’inizio. La deambulante umanità nella misericordia del sole. Svolta a sinistra, di nuovo il carosello impazza.

“Gropius non è venuto, Gropius è in luna contraria. È un carattere difficile, traumatizzato, spigoloso, se ha ragione! ma scarica scintille alle volte. Più spesso è giusto ascoltarlo parlare. Così solo com’è non ha nessuno ed ha preso con gli anni l’abitudine alla solitudine e alla forma di raucedine che insorge dalla fatica di parlare. Vuole, alle volte. Ma c’è un residuo inevitabile di sospetto per gli altri…”

Lei dice, che cosa gli è rimasto da difendere, a lui che ha visto padre e madre morire, una sorella morire, morire mille altre persone, strappato e sbattuto e riconsegnato alla società che non ha saputo difenderlo, che non ha mosso un dito, che ha pianto una disonesta lacrima di pecora alla fine; riconsegnato al numero giusto della antica strada come un oggetto rimesso a nuovo (o smarrito), l’abito spazzolato, i documenti in regola, ogni tanto un personaggio ufficiale scopre una lapide, pronuncia un discorso e lo invitano –

ridato in pasto a una società che non essendo riuscita a divorarlo in un modo s’accinge al pasto usando la corda della dolcezza, della lacrima facile, del rimorso e di un guasto sorriso; a una società che non lo nominava né lo nomina, in un delirio di voci e di canti, non nuova questa società ma vecchissima ancora, presa tutta di sé, senza che lo riguardasse e difendesse. È dunque ancora allo sbaraglio. Io mi ricordo quegli anni cos’erano

 

– naturalmente ogni frase è detta con lunghi intervalli e indugi e lunghi indugi per il rispetto della guida; e qualche invettiva al prossimo. Siamo di domenica, in Italia.

 

– Certo (è Ettore), li abbiamo vissuti tutti. Sulle torri dei bastioni, a luci che inondavano, si ballava dal tramonto al mattino. Cera un’orchestra di giovani donne in un rione della città, suonavano e baciavano in bocca i ballerini. Avevano una rosa sul petto. Li abbiamo vissuti tutti. Contare le occasioni perdute. Io potevo andarmene al Mexico, nel ’47, dicevo di partire, avevo trovato un posto sulla nave, il lavoro c’era (anche), un lavoro non deprimente, costruzioni sul mare dalla parte del Pacifico. Potevo farcela a lavorare. C’era anche Gropius in mezzo a noi, allora ma non lo conoscevo. Che cosa potevo fare? Occasioni, propositi, tutto si accavallava, progetti di partenze. Come potevamo aiutarci? Se una cosa è certa, eccola: finita la guerra abbiamo dimenticato in un baleno. Abbiamo dormito. È facile dimenticare, alle volte è anche giusto; spesso è così comodo” –

– “poi c’è un residuo di sospetto per gli altri” (parole colte da una risposta della donna).

Via per la bella strada alberata, stretta come un foruncolo, accigliosa, con i tronchi che strisciano nell’aria quasi fossero fatti di poltiglia, e gli squarci del cielo si intravedono fra i rami. Il grande cielo azzurro (per un momento), ma sortendo al sole dal gagliardo galoppo c’è lo scintillamento d’aria smossa dall’acqua, il vibrare un poco vetroso, le righe di vapore sfilacciato che si perpetuano nell’aria stessa.

Fumano i camini come allocchiti giganti in disuso, i panni al sole, un fiume di donne per le strade che menano alla città o alla spiaggia.

Fiammelle isolate tubavano nel cielo e sembravano colombe di pace che bruciassero – con il loro armamentario di pace e con il loro grido strozzato. E via per l’alberata strettoia che mena al (procelloso) mare, al mare insonne, al verde verdissimo mare una lastra di smeraldo – eccolo lì abbastanza fermo, seducente, spappolato di onde, curvare il dorso con una malizia da vecchio.

 

Strisciava il piede sulla sabbia, come fa il portiere prima della partita per dividere lo specchio della porta; s’avviava verso l’acqua. Era un mare prurigginoso, venato di risentimenti, scarmigliato ma senza onde –

scipito si rivolgeva verso la riva. Dietro – dopo la sottile striscia di sabbia (promenade), il verde della pineta, la macchia bruciata degli alberi – si intravedono i recessi seminascosti, i tronchi azzurrognoli o scuri, l’inizio dei sentieri che inerpicandosi si inoltravano. Pareva che il mondo fosse inghiottito in essi – c’era, o con loro andava, la speranza di un riposo più duraturo, di una felicità sognata, una conquistata evasione. La pineta era solcata da una strada grande e nuova e un paese di ville villacce era cresciuto e di voci di canzoni e i bar sulla strada per un lungo tratto. Il luogo era stato azzannato sventrato da poco, così mucchi di detriti ai lati delle stradette cieche in una tristezza sparpagliata con l’ombra, la polvere, i rifiuti abbandonati

– la nuova Cortina

– c’era una barca in mezzo al mar.

 

Dentro all’acqua guazzava Ettore ammorbidendo gli umori delle ferite e a quel sale autentico addolcendo il sale refrattario del proprio affanno. Avrebbe voluto dire che… e lamentarsi ancora – invece guazzava con soavità e con un godimento fisico inesprimibile. Nuotando con sbruffate (ah le ore della giovinezza, di crema e pesca), cercando di tenere la testa alzata per non bagnarsi i capelli; poi cedette al fascino dell’acqua e si immerse, avvicinandosi un po’ per volta a Alalia fino a sfiorarla – Alalia era quasi immobile e si reggeva a galla con leggeri movimenti delle braccia e dei piedi.

Non molto distante da riva, indugiavano dove l’acqua abbastanza alta li divideva dal gruppo delle madri impazienti, dei ragazzetti limacciosi e degli inesperti del nuoto – o soltanto dei più timorosi. Il caos pareva che ci fosse intorno, o una ordinata scena per la ghigliottina (fra risa e pianti), la suprema prova del supplizio; la prova generale per un supplizio carnevalesco. Una mimesi tragicomica. Nel suo fragoroso procedere la vacanza del mondo pareva scossa – pareva che si trascinasse alle spalle le scatole e i barattoli di un just married. Un avviarsi alla solitudine.

“Ti senti meglio?” gli chiese quasi schioccando la lingua, mentre nuotandogli a fianco lo sfiorava. Si vedevano le sue mani tremolare dentro l’acqua, il corpo sprofondato nell’acqua gemeva. Due o tre volte si era lasciato cadere a picco, e i capelli erano scarmigliati e densi per il sale. C’era poca gente in quel tratto di mare, trattenuta più a riva dal timore, dal rispetto delle circostanze, dalla paura del mare, da una congenita inesperienza del nuoto. E intanto –

intanto passava strisciando fendendo le onde, trapassava in un sembiante leggero, austera sì e assorta anche scabrosa e affilata, la nave; nera di carbone con la chiglia rossa che emergeva o sprofondava assaporando in alterna sequenza il respiro del mare. Si apriva la strada falciando le onde, buttandosi ai lati a destra e a sinistra il mare accartocciato – molleggiava con dolcezza. Una volta la sirena della nave fischiò a intervalli per tre volte, mentre due uomini a poppa, appoggiati alla murata, osservavano immobili e con una indifferenza sospettosa.

S’erano avvicinati, nuotando, alcuni forestieri che ansimavano forte, pasciuti e bianchissimi, tentarono un sorriso e come non fu accolto, nuotando a pancia all’aria, remigando indietro le braccia, lenti, un po’ delusi, si allontanarono.

“Le mani sporche” disse Ettore; lei era ferma distesa sull’acqua, dondolava e i piedi uniti con le punte laccate di rosso, le belle gambe e il corpo teso e docile, perfetto nel costume, gli occhi chiusi con forza contro il sole che dardeggiava – lei non ascoltava.

Dormiva forse sul mare.

“Le mani sporche. Sono tedeschi” – si passò una mano sulla faccia, fra i capelli – e pensava che era difficile per gli uomini come lui, di una scorza così restia, accettare pacificamente che il mondo fra un valzer e l’altro si riassestasse sulle solite tarlate picchiate dai vecchi chiodi tavole di legno; riprendesse la presunzione di un tempo, mai dimessa; la stolta dolcezza dell’indifferenza

après la guerre fini,

soldat anglais parti.

I malanni di Ettore erano di ordine pratico, stridevano per una forma di insuccesso o per la mancanza di denaro in quel momento (in cui ognuno è portato a vedere nero) – ed egli soprattutto soffriva della mancanza di una solidarietà anche fittizia, che gli avrebbe fatto ritrovare un equilibrio dentro di sé – e che un tempo, anni addietro, non gli sarebbe mancata. Che cosa era accaduto nel frattempo? Questa era una domanda plausibile, d’ordine generale che si rivolgeva con angoscia o con un’ansietà nell’angoscia. Senza rispondere. Nel fuoco della necessità e dell’onestà che si torce, nell’onestà della richiesta, sono combuste le ilari promesse ed esegesi di felicità sociale. Altro che miracolo. S’aggiunga che questo sentimento affidato a un avvenimento preciso e recente, concordato dalle circostanze avverse (e che ancora doveva esaurirsi o compirsi), si mescolava o serviva di base al groviglio di pensieri più recenti, che si contorcevano in se stessi, non appagati, compromessi, addirittura stridenti. Da questo ne consegue – portare con affanno la vita. Non ci si accorge di tanto fino a che non viene il momento. Dicono che sia la natura dell’uomo a consacrarlo a questo poco rassicurante disinteresse per gli altri, a questa condizione di sospetto e di lotta reciproca; a questa indifferenza.

Il fatto è che, in questo posto del mondo, e in quest’anno delle ciliege, la situazione è diventata insostenibile. Provare ad allungare una mano, se occorre; o soltanto a sfiorare piano per carità la spalla di un amico.

Il sussulto – e come si scrolla con dispetto. Telefoni arrivando, altro che voce; la voce legnosa che non aspetta che di spegnersi; come distilla con parsimonia sulla tua mano le perle perline fredde delle parole; e modera uno sbadiglio. Quando ti necessita la società si rivolta mostrandosi in bikini. Apri allora il canestro e affondi la mano (è questa una vergognosa ingenuità)

tempestato da morsi di vipere

le vipere si dimenano

o altrimenti ti dilaniano

anche se tu sei morto.

Continuano a ferire la tua mano inerte.

Anche i più ferrati fra gli uomini è naturale che provino sgomento, o una rinnovata angoscia che li bombarda, quando dopo prove infinite si trovano contro, proposte riproposte belle intatte, le vecchie magagne. La vigliaccheria, il pallore della paura, l’omertà fra imbecilli e le letterine anonime (arrivano puntualmente). In guerra e in pace. Oggi, dopo vent’anni. È inconcepibile come abbia ancora peso ciò che sembrava scartato dai furori non astratti delle generazioni morte.

I tedeschi sono di nuovo i soldati che sfilano rigidi dinanzi agli ufficiali raggianti. O che cosa è cambiato? Mano tesa al berretto. Di nuovo solcano i mari. Essi, i tedeschi; quelli –

con la testa, scuotendola come un viluppo di serpi all’indirizzo del gruppo diguazzante vicino alla riva. Si buttano una palla.

Il fatto è che non speravi; cioè, con timore; di veder più Schumann, di immaginarlo vivo e per la via in divisa come allora; con un male che è furia del cuore ed è una viva angoscia, di ritornare trascinato al passato, in catene; d’esserci costretto a tornare preso in una morsa di necessità.

Il mio insuccesso non nasce dalle circostanze, da un manifestarsi simultaneo di contrarietà; non sono il solo colpevole – anche naturalmente se non mi assolvo e cercherò di sopravvivere. Mi par d’intendere alle volte, come una estrema ragione, come la verità di un patimento storico (e non arrivato) che è la situazione del mondo che costringe al fallimento. È un alibi grossolano? L’esperienza non ci ha migliorati, viviamo fra l’orgasmo, una sorta di orgasmo dei sentimenti e delle opinioni e una naturale bontà che porta, o spinge, a sperare a vuoto. L’edulcoramento della lama. Così la società equivoca e immutabile ne approfitta (è naturale) e li espunge – è così? – questi individui, che come i galli sui campanili, di ferro, stridendo annunciano la tempesta; distorcendoli, divertendosi prima a farli soffrire. Un po’ come arrostirli a fuoco lento, questi sofisti sofisticatori, rompiballe di cassandre, rumoreggiano alle orecchie, distraggono il sonno. C’è un’isola deserta per costoro; e c’è la morte, se viene… “Ehi, tu, oh, tu Ettore” – lo chiamava danzandogli intorno vicinissima nell’acqua, quasi stretta a lui, con dolcezza. Il suo corpo, preso nella morsa del mare e del sole in alto profumava sciogliendosi.

 

Se vi viene voglia di stendervi, vi stendete. E stendere le gambe, anche; anche le braccia, dilungando il torso per spilluzzicare il grappolo di sole – affondare il calcagno nella sabbia, così distesi al sole; e se avete voglia di chiudere gli occhi li chiudete quando siete sulla riva del mare, ben serrati e il calore cola sul naso mentre un alone rosso cupo circondato da un cielo blu di notte copre gli occhi e vi sprofonda dentro alle occhiaie fino a farvi male. Se avete voglia di sognare un poco, o di ruminare fra voi, tacete. Potete, accendendo una sigaretta, cantare. O, più semplicemente, potete porgere orecchio alla voce del mare, quel lungo disfarsi delle onde sulla riva. Potete immaginare i gabbiani. Ettore, seduto su una chaise-longue, fumava e guardava all’orizzonte dilungarsi il vapore del giorno che a volte palpitava accendendosi. Alalia accanto a lui ben distesa e pigra leggeva L’Europeo – poiché teneva la rivista spalancata, Ettore aveva quasi sul viso la faccia giovane di un’attrice, una cascata di capelli chiari, leggeri anche nella fotografia, uno per uno, sulla copertina, dentro a uno sfondo uniforme come una fiammata –

laggiù nel mare, dopo un breve spazio di mare al di là di quel cerchio di nuvolette basse, sfilacciose e indolenti, c’è la Jugoslavia, poi c’è un’altra parte d’Europa, la mitteleuropa, le pianure ungheresi. Il juke-box cominciò a cantare, tre giovani e una ragazza, appoggiati a un tramezzo di legno, dondolavano con leggerezza, accennavano con le mani toccando l’aria seguendo la musica. Where do you come from urlava a colpi di chitarra elettrica vibrando e dardeggiando la luce poi la voce si spegneva fino a morire; subito dopo un suono di tromba alto e improvviso. Intorno a Ettore la gente stravaccata sulla sabbia riposava, i corpi abbandonati senza infrangere l’ordine, con simmetria – e sembravano morti; ma il suono di una tromba (alto e improvviso) sgombrava il campo da ogni sentimento di delusione o di tristezza. Anche Alalia calò la rivista in grembo e chiuse gli occhi. Senza che quel suono di tromba, spiegato, infastidisse nessuno.

Divagazione sulla solitudine; leggerezza dell’amore; sul ludibrio dell’anima. Tutto cambiò. Ah. Il mondo rovesciò. Gli smorti (e in parte intrepidi) pellegrini del cielo si tolsero le alucce e sul mattino di marmo calò olio bollente. Si odono canzoni equivoche (sovrapposte a quelle, più modeste, dei ragazzi) per i sentieri della pineta del bosco – e su questi, gli occhi esperti vedevano chiare le orme degli orsi. Oh struggente inutile e piena di rigore vita di ognuno. Era il periodo giusto dell’anno, la metà della vita. Che cosa aspettava? I grossi apparecchi di linea scendevano fra le colline e gli spiazzi di sole; questi grossi caproni incornavano l’aria vibrante, zac, festevole di luci, schiarita all’orizzonte da un tremolare di sonno. Entra un personaggio in spiaggia, è il Polifemo che si protende, un pel nero coperto di vecchiaia, un arzigogolo di rughe e di dure ferite, un rotear d’occhi e un puzzo di sudore

“ha per favore un fiammifero?”

il lampo di fuoco gli illumina una fronte devastata, il rauco ansimare della cervice. Lascia impronte sulla sabbia. Alalia guardava i giovani ballare e segue la mole pencolante dell’uomo che si allontana. Le sembra che Ettore parli

“come?” mormora voltandosi; scuotendo in tal modo dal collo alle braccia il peso di una stanchezza placida, una inerte tranquillità che incomincia a farle male.

“La solitudine” egli dice.

“E che è sta solitudine?… ho letto una volta… aspetta, ricordo… ho letto, ah ecco… è così: solitudine è assenza di peccato. È giusto? peccare è vivere, cioè partecipare… ritirarsi, rinunciare, è quella saggezza, questa antica sapienza… Venire con te è vivere”

“ma non è peccato, mi pare”

“non è peccato” Alalia è convinta, un po’ delusa che un’argomentazione così bene avviata, pardon, scada subito, senza peso

“intendo, che siano soli” dice Ettore. Con una voce ancora calma:

“Devo lesinare i soldi a quarant’anni. Quanto basta, a vivere? Io dico che la vita passa e l’uomo, ogni uomo finisce ammonticchiato in un angolo. È oggetto usato, da cincischiar sotto terra. Sarebbe adesso il momento buono per qualche giornata discreta – ma non vedi che iella?” Alalia dice parli così perché sei senza soldi in questo momento, in questo momento sei triste sei amaro, sei anche acido contro di te, passerà passerà, mercoledì sarà tutto finito, dopo la corsa col fiato grosso ti stenderai sull’erba a ripigliar fiato, dammi un bacio.

Il bacio è dato, semplicemente ma Ettore vorrebbe rispondere con questa voce, obiettare: il contrasto –

il contrasto è dato non da me, dal mio ingorgo di oggi, da questo secco che ho in gola, dal mio diario privato insomma. Là! Forse anche da questo, perciò – ma non soltanto da questo. La mia durezza, questo picchiare di dentro, usare le dita, ha cause fonde, è una nuova ira esplosa sovrapposta a una vecchia ira in disuso; qualcosa di feroce che si è svegliato. Il mondo è quello che è diobono, non c’è dubbio. Ma posso almeno cambiarlo se voglio pensarlo diverso; nuovo, ecco nuovo, almeno in me. Posso volerlo nuovo diobono, se lo voglio nuovo. Ridurlo a quella tal novità, che tutti chieggono e dicono: è una tal novità. Ma per fare questo (ecco un punto) occorre

eh! dirà qualcuno

l’alcuno che io so

occorre ingegno, quella applicazione rischiosa alle cose che l’insofferenza degli anni nega a uomini insoddisfatti e ai pellegrini della storia.

È questo il male?

“Lesinare i soldi… a quarant’anni… Quanto ho in tasca?”

“Vorresti essere come quell’uomo, quel vecchiazzo dal pelo?”

si fa presto a dire e a trovare una modesta soddisfazione per ingannarsi

“vorrei soltanto vivere, VIVERE, poter vivere, VIVERE, RIUSCIRE A VIVERE; e in un certo modo – con la tranquillità… Non posso leggere più neppure i giornali” “Io, anch’io non sono felice. Anzi, oggi lo sono, sì, mi sento, sono felice. Cioè, sono tranquilla, i miei pensieri calmi, con te sto bene. Godo questo mare. Ma io, anch’io non sono felice, come ti dicevo. Ho mia madre. La tua, tu, l’hai mandata al diavolo – o essa per te; tu potevi, io non posso. Ecco, io ho mia madre io; è vecchia, sai. È vecchia, sì lo so, ecc. eppure è mia madre, una vecchia cosa, un oggetto dell’uso, e me la tengo. Voglio dire che la preservo, le dedico qualche minuto, come so la nutro. È tutto? Ma è una spina nella vita. Fuori non sono tranquilla con questo pensiero (oggi lo sono), ho angustia per lei, una premura alla sera, quando è sola. So che piange, quando è sola. È questa la solitudine?”.

Ettore risponde che è anche questo, ma questo e altro ancora potrebbero essere cancellati se la società eccetera. Mi sento vuoto se dico e ripeto queste parole logore. Parole per vecchi problemi defunti. Questo è il guaio. Vorrei dire: la nostra consumata speranza e la volontà di… – già, di cambiar faccia al nostro mondo. Non fa ridere, dicono, un poco? cambiar faccia al…; diobono, zac, sono al limite della resistenza, prossimo al fallimento, salvato, se salvato, per la furbizia di due pederasti foresti. Cambiar faccia al mondo… Eh, sì

ma vedi, tu, dolce, lieta Alalia,

braccia di mare,

il mondo ha ragione, ha

il mondo ha sempre, sempre,

sempre, il mondo ha sempre,

sempre, il mondo ha sempre,

il mondo non ha perduto,

ha… il mondo ha – la faccia

di Schumann

“Schumann” egli dice.

“Schumann?” Alalia chiede.

“Schumann allora si rimise a sedere dopo che mi allontanai, nella sala piena di fumo, fra le facce contese, un po’ furbe e tirate, dei brigatisti italiani”.

“Si rimise a sedere?”

“Eh, sì – era di nuovo seduto, impettito, mi guardava mentre mi allontanavo, da dentro quella locanda.

Lui, Schumann, dalla locanda”.

“Ti allontanavi?”

“I camions passavano, uomini allegri con i mitra schierati passavano cantando ancora – e l’aria, quell’aria. Ancora oggi è un brivido di piacere a pensarla”.

“Aria fredda, quell’aria dei monti?”

“Aria che si scopriva dopo la morte, aria rinascente. Un supervivere, una goduria. Lo spirito dei sentimenti, ottuso, si distendeva; tornava a sospirare. Raccoglieva da terra come un affamato di cicche un piacere sottile. Non era quest’aria; altr’aria, altra”.

“Lo so, so, so, credo di capire…”.

“È così? Si ritorna a casa, la porta si apre, una ciocca di… – capelli, un pugno, sulla fronte della vecchia; ritrovare le carte come appena lasciate nel cassetto, col bello strato di polvere, una carta sopra l’altra, ordinate le carte, sicure ed eguali come alla partenza, anche una lettera nei cassetti. Indossare scarpe leggere… Quanti anni sono passati”.

“E Schumann?” Alalia ascolta fumando, col piacere di ascoltare fumando, fuma e porge i dorati orecchi, offre i lobi leggeri, distesa nella sdraio, soffocata dal sole. I vapori dell’aria schiariscono il cielo.

“Schumann non è più lì… Oppure; restò lì e io dopo, subito dopo scesi a valle. A valle si combatteva ancora. Due giorni di combattimenti non violenti ma ambigui e pericolosi – prima della fine. Contro i tedeschi in ritirata. Sparavano a zero… Schumann era lassù… ma è tutto confuso a volte, è un ricordo che brucia ma non è chiaro, non è più. Stenta a saltar fuori, non cresce… Schumann lo rividi dopo, lo incontrai dopo due giorni, era in fila, incolonnato. Mi guardava… Vederlo ora mi ha turbato, forse perché all’improvviso, come una frustata; ma perché con sgomento?”

“Con sgomento?” chiede Alalia.

“Sì, con questo sgomento – egli dice – ma non è solo questo. Lasciamelo dire: aggiungi una stanchezza arretrata, una fierezza calpestata, una giovinezza soltanto compianta (intendo non vissuta nelle sue ore liete). È anche questo, insomma”.

Oh, se è questo, così poco diverso dalla norma – sia egli fra la moltitudine che distacca i fiori del passato con mano calma per deporli adagio sulla tomba dei morti. Cerca questo? E gli occorre questa adesione, questa partecipazione così poco calcolata, profondamente spontanea? Perché –

ecco, perché se non è stanco della vita (e allora ecc.; altro movimento) deve vivere per operare in libertà.

La libertà? Ma che è sta libertà? in che modo si è liberi? solo nella misura in cui si crede la libertà un dovere. Eh, se fosse così semplice. O tutto così facile. Se bastassero soltanto le parole.

Infatti: ces pauvres espagnols dicono i francesi intelligenti e annoiati. Joaquim Delgado Martinez; Francisco Granados Gata muoiono di domenica. Alla domenica, Cristo, gli italiani si divertono. Perché gli spagnoli non muoiono di lunedì?

– Non è un moralista, ma un uomo in difficoltà in un mondo in difficoltà. È niente la difficoltà dell’uomo (di quale uomo?) in confronto alla difficoltà del mondo. Ma questo mondo è proprio il suo mondo? È una terra? Risponderò con queste parole (ma le parole soltanto non bastano)

– eh, la libertà è un prodotto della verità (non è un prodotto dei tempi). Si è liberi se si è giusti, e se la giustizia cioè la verità di ognuno trasforma la giustizia degli altri in una libertà per tutti.

Poi passeggiarono sotto gli alberi, poi si addentrarono nella pineta, calpestarono strani fiori bassi, grossi e maleodoranti, di una grassezza ripugnante ma di un color viola stupendo, reso più scuro dall’ombra sconvolgente di quel recesso; camminarono per i sentieri, sedettero sulle panche di legno – pareva d’essere lontani dal mare, dentro a una foresta, senza sogni, senza paura, vinti dall’inedia della vita. Il sole era all’altezza dei rami e si addentrava con strani effetti di luce – alle volte dilatato come in un barbaglio. Dopo un lungo giro in quel silenzio, e sotto il verde, ritornarono per il viottolo; la gente cominciava a ripartire.

Dopo pochi chilometri lasciando la pineta, lasciando il mare, trovarono il corteo delle macchine, di nuovo le ferruginose schermaglie, gli ispidi arpioni delle divagate speranze. Il sole, embè il sole arrossava calando. E via, via, via, ritornavano ululando nell’incandescente tramonto, scuotevano le penne – e fischiavano torcendo le note del cuore straziato, gli occhi appannati si apprestavano a scrutare il calare morire lento (il) peregrinare intimo e deluso del sole. Grandi squame gli erano intorno, di luccicanti raggi vitrei. Tutto il sogno si addolcì nell’attesa. Piovvero i fantasmi come spenti ammennicoli sulle spente palpebre – la donna intanto, lì vicino, scrutava.

Per entrambi essa viveva, nel suo minuto ardore palpitava ben fresca e ancora lunga la vita di entrambi. Via per l’Emilia toccata dal mare – dentro al luglio, a gola spiegata; un rapido riepilogo, propriamente da calcolatrice elettronica, un insieme affastellato di addendi, uno scuotere di zanzare dentro al cranio, per lui, Ettore, sono pochi chilometri di strada, bella strada brunita, mentre in terza, seconda, terza, quarta, stop, accodato, accetta l’attesa prima di scattare a un sorpasso. Il gomito al finestrino, occhiali appannati, un tipico zigolo del nostro tempo? o non piuttosto, come in effetti era, un uomo che si riposa un poco – e un poco dentro di sé si lamenta.

 

………………………………………………………………

 

E un poco perciò dentro di sé si lamenta. Tutto il sogno si addolcì nell’attesa e si spense. Alalia, lì vicino, scrutava. Era quieta. Palpitava ben fresca la vita per entrambi. Ettore pensava, rimuginando fra sé a come, ritornando a casa, sarebbe subito nella solitudine ambigua, un poco corrosa ai margini, che lo angustiava sempre. Il palazzo davanti gli impediva una parte di spettacolo del mondo – in quei giorni gli operai mettevano le tapparelle alle finestre dei balconi, addirittura la bandiera sul tetto dell’edificio.

Andando, deambulando nello scosceso tramonto d’estate, un occaso virulento e freddo d’adamantino coraggio, intrepido sotto il guaire della gente che correva al sonno. Già, dalla vita alla morte; il passaggio dalla vita alla morte. Gli guizzò innanzi, autentica, la sagoma di Schumann; impettita volava, solenne anche, la biga ruotata. Silenziosa anche, e più e più veloce, sorpassava rapida, lampeggiando col torbido faro sinistro; luce gialla ancipite. Eh, là. Proprio ancora davanti! ancora via la luce gialla, e con essa un uomo nero, l’uomo nero invecchiato a intorbidare l’affanno e il ricordo di altri; seppia inchiostrante sul mare; con la sua zazzera biondo-grigia. Nell’atto di spargere baldanza quella corsa pareva diffondere uno sgomento. O era soltanto ancipite; per lui, Ettore e per chi la largiva. Eh, via, lampeggiando veloce passava. Eccolo là, eccolo là che passava. Dietro a lui, appiccicate a un filo, mosse con malizia poiché la strada era larga, curata dall’ANAS, di un colore scuro che attutiva il riverbero del sole calante – la corsa delle macchine si scatenava. “È passato Schumann” disse.

Alalia, fumando, con una tenerezza pigra in cui era sceso il languore – e un po’ anche la vittoria – di quella giornata goduta, rumando scrutava.

“Finalmente vedremo questo Schumann” disse.

Ettore si dispose, anche nell’attitudine del corpo al volante, a una rincorsa. “Non far pazzie – pregò – guarda il finimondo”; davanti a loro si protendeva, incuneandosi e attestandosi, la fila delle macchine (come uccelli spaventati o addirittura spaventati bufali), tutti sembravano ossessionati, erano ossessionati dalla frenesia di tornare. Schumann scomparendo nelle curve appariva laggiù nella sua mole densa, sinistra, allorché la strada s’apriva in lunghi rettilinei –

perché lo inseguiva? perché Ettore lo inseguiva? poteva lasciarlo perdere; se ne sarebbe andato per sempre, scompariva. La volontà di afferrarlo. Ettore velocissimo spasimava nella sua decisione di corsa; il volto indurito; cercava la strada entrando e uscendo dalla fila delle macchine. Alalia, senza dire nulla, aveva gettata la sigaretta. Le cime delle siepi, per l’ora del tramonto, erano circonfuse di una luce violetta e sembrava che da loro uscisse un fumo, che respirassero. Anche l’asfalto odorava tendendosi sotto quel precipitoso correr di gomme.

Che cosa gli restava di tutte le esagitate ore passate? delle invernali vicende? il suo impellente destino? era un uomo che ritornava al o era già nel

– si apriva, e sprofondava, una voragine nella vita. E com’era solo in questo momento. Teso (proteso) nella corsa su una pista sbiancata d’inverno.

Era solo e incolume. Così si lanciava.

“Adagio” si lamentava Alalia.

“Raggiungeremo Schumann”.

La voce della donna era intirizzita. Le ruote stridevano, egli cercava strada a colpi di clacson, ben dati, pervicaci e affamati. Aveva la strada.

A Pietro in Lamis, dove la strada s’ingolfa per poco entro macchie di castagno, dritti e affusolati, ovverossia così severi e densi questi castagni nella compostezza del loro silenzio, e una baracca dell’ANAS si vede fra le foglie, ahi; fu? oltre il bivio di Campostella dove acqua gorgoglia che sfocerà nel Santerno

– ed Ettore era solo nella corsa mentre il sole fiottava sangue e bava. Una poltiglia dalla piaga del giorno. “Non arriveremo mai” diceva.

“Piano, piano, più adagio, ahi!” pregava Alalia. Fissava la strada. Fu dopo il bivio della Romanella, al Ponte dei Pugni, sortendo da una gibbosità della strada, che un poco (e certamente) ottunde la visuale. Dopo il dorso c’è subito una curva –

arrivando sul dorso, sorpreso dall’ostacolo, premette il freno – o fu il freno a scendere stringendosi precipitoso e solo; la macchina per un secondo si inerpicò nell’aria alzando il cofano

questo fuoco del sole che urtava il parabrezza e s’accatastava, era tutto un fuoco, un dondolar inerte per un secondo, poi la macchina puntò a sinistra, sgusciando s’inchinò, roteò, dondolò sfasciandosi contro il muro della villa Ottoboni. C’era il silenzio addosso e lo sbattere di palpebre delle cose e luci lucine rosse che andavano. Oh! e il silenzio d’acqua, pauroso, eterno, che circonda e difende la morte.

Una, sola! ottenebrata luce

e lei, spenta città, spenta

essa luce spenta, città

con le palpebre di sterpi rovesciate –

non più dormiva.

Lungo il procedere, avanzare a forza, il cammino e la strada

su che cuscino affondava dura?

Sapore della terra contro la bocca, in gola o contro la gola, nelle narici o contro le narici; qualcosa che serrava la gola, la freschezza della pietra contro cui la faccia appoggiava; e il silenzio

Alalia tranquilla e ferma essa è, rovesciata e scomposta come se fosse caduta dall’alto, le braccia nell’attitudine della disperazione lontane dal corpo, Alalia Alalia, Alia, Ala ferma dorme per terra.

Prima di morire.

Ed egli cominciò a soffrire con un urlo – intorno la gente seduta in un circo, oltre ai quattro volonterosi, guardava i cristiani morire. Il cielo diventò notturno, prima che la palla del sole scomparisse tutto nel cielo si ingarbugliò. Due uomini infermieri si chinavano a terra; raccolsero soltanto Ettore, sporco di un liquido quasi nero che era sangue nel vestito, che gli imbrattava il vestito ma non colava, si nascondeva sopra la carne che era una carta bianca; e lasciò per terra l’alone di un corpo una volta disteso, circondato, ancora e ancora, da vivo sangue distrutto. Sulla strada, avanti e indietro, si stendeva un filo di macchine ferme e luci accese, con la gente che fumava; gente discesa e appoggiata al cofano fumando parlava, chiedeva; cercava di intendere la meccanica delle cose, indifferente all’orrore o neppure sfiorata dall’ardore di conoscere – scrutando l’orizzonte stanca e angustiata. Un uomo grasso, con la faccia di vecchio avvizzito adesso lo osservava seduto accanto a lui. Era Alalia che moriva? Non potendosi assolutamente muovere cercò di parlare e gli uscì un lamento, un gemito. Si ascoltò esterrefatto, frastornato, con quel tetto lustro odoroso che incombeva su di lui, una fascia metallica che lo nascondeva a tutti –

– l’ambulanza correva trascinandosi nella corsa il suono spiegato come una bandiera nella polvere. Una strascicata bandiera. Passando incuteva timore; le macchine rallentavano scostandosi

la notte era intera

si consumava il dolore del giorno nella corsa da terra a terra

trascinando un uomo.

Alcuni alzando la testa dalla tavola

dentro ai lumi;

guardavano due giovani al davanzale,

la ragazza con un brivido.

Nella corsa nulla di tragico

non c’è sfida alla morte.

Solo, soltanto e con passione

un ennesimo compatimento per l’uomo.

Semplicemente una corsa, una progressione;

si spegne nella sostanza delle cose

(quando?)

l’ardore consumato –

se c’è salvezza alla fine, meglio. Ma non è detto; né importa, a questi due uomini vivi; infermiere che guida intento bisogna dire, con una indifferenza ridondante di abilità e cercando di evitare gli intrighi dell’asfalto logorato, che il ferito non gridi – l’altro, il più vecchio

il più concreto e quello che conosce più della vita e della morte di ognuno; seduto; è un calco di uomo, autentica maschera funebre, una forma di gesso – seduto guarda la faccia da ape dell’uomo che… Egli non sa dire se muore o vivrà, può solo aspettare e compiangere; o affrettare la corsa picchiando nel vetro alle spalle dell’autista o rassegnarsi con un sospiro. Fra lui che siede e la morte non c’è lotta; forse c’è una tregua rassegnata, una pace di secoli. La morte poi vince.

Semplicemente una corsa, un progredire

un costante progresso nel tempo e

Alalia è morta, è

distesa, egli è là a occhi

aperti scuotendosi, come se un coltello affilato gli aprisse la carne in un fianco, il caotico dolore di quel male che, forse, è soltanto un terrore del male.

C’è nella corsa nulla di tragico. Vede Alalia, lo schiantarsi dei vetri in scintille davanti agli occhi, un tanfo di sangue nella gola.

Qualche scossa più forte, penetrando in quell’orrore vacuo in cui sta sprofondato, gli dà un senso di male preciso in un punto preciso del corpo, un male meno difficile da sopportare, meno ambiguo di quanto non sia la tesa esaltazione dei legamenti sbattuti. C’è una forma di donna distesa nel sonno, morta nel sonno, distesa nella strada. Ferma è e quell’immobilità è di morte, più atroce se gridasse ma più viva, o se lamentandosi sinistramente agitasse le braccia. Morire, esausti e dissanguati come pesci strappati a forza dall’amo, buttati sull’erba e dimenarsi, così. Essa è là

“che c’è, che c’è?” voci, la macchina procede adagio, il paesaggio è notturno, sulla campagna l’odore del fieno, uno struggente odore che appanna la notte. “È scoppiata la tubazione dell’acqua nel sobborgo, la strada è allagata, non si passa, per ora non si può passare”

file di macchine ai bordi della strada, vocette di radio che si incrociano cantando invadono il silenzio.

Alberi si scuotono.

La macchina è ferma la sirena tace; essa non può contendere contro quel furore di oggetti costretti all’immobilità, all’impassibilità della tenebra. L’infermiere seduto come su uno scanno di chiesa ha aperto uno spiraglio da cui entra aria nuova. Ed Ettore –

col gorgoglio del lamento che non s’arresta, e non c’è scampo a questo lamento, anzi il lamento è la sua forza vitale, se si lamenta vive, e si lamentasse dunque, trova forza nel suo lamento e in questo lamento si placa – egli vede diciamo

sognando, macché sognando, vede e tocca con mano, con la punta esausta e residua del cuore sfiora gli angoli annebbiati di ricordi imponenti e non potendo ricordare così essendo impotente e perduto, così solo e senza volontà di ricordare, non sapendo come, è la vita che si ripresenta e viene avanti, una larga ondata di vita che lo sopravanza e lo spaventa. Arriva nel suo sogno che è purtroppo deliquio dei sensi, una aggrottata agonia, uno sperdersi a vuoto, incuneandosi nei legamenti, gli dà nuove battute.

Schumann intanto è ritto lì in mezzo a un prato, ancora in divisa ma col colletto sbottonato. È solo. No, non è solo, neppure è in mezzo (scivola via, scivola via, si perde) a un prato ma passa inquadrato marciando sicuro, spavaldo con decoro per una strada con altri. La strada costeggia il fiume (ricordare il fiume) e tocca un ponte di ferro distrutto, accartocciato nell’acqua, una confusa rete di ferro, tocca un ammasso di ferro nell’acqua che è il ponte; è prigioniero con altri tedeschi.

Così Schumann prigioniero finalmente passa. Ah, è finita. Ah, è fi… egli è inutile e dolce, guarda e non parla; i suoi occhi a colpi di spillo e l’ironia indifferente ecc. Il soldato americano ha il fucile a spall’arm non l’arma sguainata. Ettore è in piedi (oh!) sul greto del fiume, l’estate è limacciosa

(si soffoca) furiosa, l’ultima estate di guerra era quando la guerra era finita da due giorni appena (o forse un giorno, infatti);

infatti volavano ancora bassi i caccia

sul delta del fiume Po

là dove il fiume con un respiro crescente fra

canne, fra le canne si getta cercando il

mare. Fra le canne. I barchini

tedeschi sorvegliano le anatre allocchite nei mesi

passati quando… Tutto è finito.

Ettore era allora sul fiume,

con i piedi nel fiume,

era vicino al fiume, era al bordo della sua corrente, Schumann passava imprigionato con altri dignitosamente. Ettore sapeva chi era Schumann perché prima era stato con Schumann, molto tempo prima – per la ignara e squallida giovinezza che non ritorna, per l’erba di giovinezza che gli cresceva in faccia (sulla) e gli dava sonno; poi fu contro Schumann e Schumann fu contro di lui, si spiavano azzannandosi, gli lottò contro sparando anche, io gli ero contro; lo vedevo e gli ero contro, sparando anche gli ero contro, ecco Schumann prigioniero, la guerra è finita, Schumann è prigioniero, cammina vicino a un fiume, finita la guerra via, Schumann cammina ed egli Ettore –

ecco, ahi,

si dimena su quel lettuccio di crine fra le lamiere che lo soffocano, non sa come, conosce di sé soltanto questo male, lo sforzo di urlare si condensa in un sospiro, aprirsi e chiudere di palpebre. Ricade nel sopore che lo salva. Il vecchio intanto ha i gomiti sulle ginocchia, si sostiene la faccia fra le due mani, così stanco (o deluso) che fa pena a se stesso, così indifferente a se stesso da farlo quasi utile agli altri. Nella campagna, nella sprofondata solitudine della campagna, non c’è in questo posto che questo silenzio, l’odore grave e un po’ invitante del fieno il fiottare delle luci delle automobili ferme, le voci sommesse le radio accese. Migliaia di vive e indifferenti presenze. Un ondeggiamento sonoro, il vibrare dell’aria che si confonde e dilaga, una armonia di sonnolenza e tuttavia l’attitudine confortevole di tante presenze umane che si custodiscono, chiuse nelle auto, costrette, coperte e difese – questa gente vive.

Vicino ai piedi di Ettore, in quell’acqua sul fiume, ecco cosa c’è in quell’acqua sul fiume, così. Distesa ai piedi di Ettore, nell’acqua, la giovinetta uccisa.

La camicetta strappata sotto l’ascella, il sangue al collo e sul vestito, una macchia ripugnante, i capelli si muovono; gli occhi passavano oltre le cose. Ettore la guardava, buttata nel fiume – aveva un dolore cattivo che gli apriva la gola. Più in là passava la colonna dei prigionieri, là c’era il ponte di ferro distrutto, la foce del fiume (si udiva il ribollire del fiume) sopra i caccia passavano trascinandosi dietro le ombre. Non c’era gioia nell’aria (ma il segno di una inquietudine mesta)

non nel fiume dunque

neppure nell’aria né

sul ponte laggiù

né in Schumann scampato o in Ettore che decide.

Non c’era la gioia della morte nella ragazza uccisa – se c’è gioia nella morte.

Non c’era felicità in nessuno.

Ma la ragazza era

(è un punto, questo) essa era (è, è stata) uccisa, assassinata, giustiziata – tutti lo dimenticheranno

la colonna delle macchine si rimette in moto, frizioni gracchiano, qualcuno tenta inutili manovre, in lontananza come una vampata di calore l’alone della città. Per chilometri la strada si piega, strisce bianche dividono l’asfalto, l’ambulanza stretta in una morsa, nel suo procedere lento, l’insensibile e greve procedere di una colonna di macchine – chiusa in se stessa si dimentica del mondo.

La ragazza fluttuante nel suo pallore, scarmigliata con dolcezza, morta senza il rigore della morte; giovanilmente scomposta, essa dondolante nell’acqua logora di tristezza, l’acqua era sopra di lei, acqua di maggio o di aprile? (così calda e fragrante), ed essa era morta riposava straziata, si poteva osservare così.

Ahi l’ineguale sorte, ecco come ciò che capovolgendo la transitoria esistenza sfiora i bordi della vita, stride un poco e schianta, si disarticola e sé spronando sprofonda. Dentro all’acqua, zuppa, ma anche quieta, bianca sì e morta, immemore e un po’ cattiva, baldanzosa e avventata, per una morte patita nel corpo giovane e senza un male troppo grande. Un attimo, ahi ed essa (lei) così fissa nel ricordo

ed essa ritornante

poteva essere adesso (ed apparire)

di nuovo, quella forma consumata

apparire reale (presentarsi). Era un momento

della giovinezza ridondante

(come può essere allegra la giovinezza)

prima che un’altra morte

consumasse un’altra vita. Per

sempre.

Camminavano gli altri soldati

(di eguale età della ragazza uccisa) sul bordo del fiume, sulla cima delle foglie schiacciando con un crocchio gli steli, le dimenticate canne. Guardava quel viso, l’acqua scorrere sopra questo viso, un fazzoletto di acqua consumava per l’ultima volta il richiamo degli occhi che si spengono ad essa –

proprio oggi con gli ultimi spari la guerra è finita. Non c’è un suono di grida e di applausi o di espanse voci dal fiume? Ogni rumore distinto? anche distinto il gorgo dell’acqua che rotola (quel rumore di sassi), si attorciglia al ferro consumato del ponte abbattuto dalle mine? Il ponte dentro un ammasso di detriti consuma se stesso.

Calpestata, uccisa, assassinata.

Egli è dentro all’acqua con i piedi (ha le scarpe di corda) stanco è, un’ira si volge in una tristezza opaca – è senza gioia, senza la gioia per la guerra finita, per la morte avuta da altri, per la sua vita che vive. È tutto dimenticato? stivato, anche oggi e domani, con indifferenza e con malanimo, nella cera della coscienza. La sofferenza, e la morte, non inducono a perdonare, né a guardare il volto del passato con indulgenza. O con amore. Il rimpianto è infine soltanto commiserazione – o una forma di commiserazione (si poteva, in una selva selvaggia, incontrare il lebbroso). Finiamo a consumarci in un vagheggiamento di noi stessi; è il nostro dolore che teniamo, la nostra sola morte ci fa paura.

Diciamo: io sono stato fortunato di appartenere al mio tempo.

In quanto agli altri si potrebbe dire –

la loro presenza è una presenza viva, sono automi parlanti finché hanno bisogno; ecco una filosofia utilitaristica, a scanso di pedate nel sedere. È così che si giunge alla luce del cuore?

L’infermiere seduto, il mento appoggiato al palmo di una mano, il gomito sul ginocchio, furor vacui, infreddolito di torpore, intontito dal tragitto che per troppo tempo lo lascia in balia di se stesso (non ama considerarsi), ma con una ruvida delicatezza verso il corpo disteso davanti agli occhi, inutile ormai nella sua forza mancata – egli ascolta le voci di fuori, il vetro socchiuso, dentro a questa cripta. Il tanfo di chiuso e il sangue hanno un sapore dolciastro; i fiati si condensano. Ingorgo spaventoso, ne riparleranno domani le idolatrate gazzette; reduci dal week-end migliaia di automobilisti sono stati bloccati ieri sulla via Emilia, prima del raccordo anulare, da una serie di incidenti, fortunatamente non mortali se non uno – prima; poi nelle vicinanze della città da una falla nell’acquedotto di San Lazzaro che ha allagato la strada per una profondità di circa due chilometri. Il traffico è stato interrotto fino a notte alta creando un ingorgo di macchine caotico, e impressionante. Si calcola che almeno cinquantamila vetture abbiano, in quel momento, ostruito per intero l’antica via consolare e tutte le periferiche vie di accesso alla città, per quel lato ecc. ecc. –

un’ebbrezza, ahi, e sprofonda nella febbre che uccide almeno in parte, almeno per qualche istante il dolore, o è succube del dolore, o ne partecipa opprimendo; il brivido mescolato al gelo e a un principio di lucidità (è restia ma a tratti si impone) che è sempre e subito poi ribattuta nell’incoscienza; una desolata inedia sentimentale –

a quale forza concedersi? come, dentro a questa angustia, contrastare? dove è rappiglio umano che può sorreggere? Perduto per perduto; dentro al marasma delle cose, nel caos delle vicende della festa, soltanto una uniformità di condizione all’unisono con il corso dell’esistenza degli altri, può (e potrebbe) salvare.

Si alza un po’ di vento, appena un’aria. Ah, la sera in Emilia, in questa grande campagna distrutta; senza voci dentro al silenzio che finisce lontano. Finisce anche la festa in questo consumato lembo di mondo – in questa tragica domenica è il rancore residuo del passato che si sistema in un ordine, prima dell’assopimento totale. Recalcitra il cuore e spreme scintille di vita che stridono – la ragazza è distesa, con i capelli nell’acqua (così in un sogno si smuovono i capelli sull’acqua) ma prima? la guardava costernato (conservando ancora qualche brivido nella carne); la sera prima – mentre distinti si udivano i tonfi e i rumori e le voci dei tedeschi in fuga, senza fucile, non altro desiderio o angoscia d’esaltazione che fuggire (una esasperazione dell’improvvisa paura che finalmente si liberava); non altro desiderio che riuscire a passare alla riva opposta, oltrepassare il Po, guadagnare il Veneto

dort ist schon Heimat

il tuono di tanti piedi sulla terra, ma piedi che non cercavano la terra, che fuggivano la terra; il suono, il tonfo dei piedi in fuga, quasi correndo, un premere sull’erba, contro i sassi della sponda quasi a prendere lo slancio per un balzo definitivo o per una fuga ancor più prolungata; e ansimare si udiva, sospirare, qualche singhiozzo (nella notte tutto è possibile), i camions impantanati cercavano di liberarsi con i motori al massimo, lo sferragliamento di lamiere, soldati tedeschi si toglievano la giubba e camicia e si buttavano nel fiume, s’alzavano le voci da mezzo l’acqua, annaspare si udiva l’acqua smossa con la rabbia della paura o con disperazione – per altri era l’indifferente procedere della esperienza che non si consuma, che aiuta a raggiungere la riva; o nell’atto stesso di nuotare a ritrovare e a mantenere la tranquillità – acqua si alza, acqua scende, le mani scardinano l’acqua e l’afferrano come maniglie, issano il corpo esausto, lo costringono ad avanzare nella lotta, le scie sotto il riverbero della luna e il pelo increspato dell’acqua –

ah, l’arrochito urlo, la materna invocazione di tanti soldati tedeschi che annegano in mezzo al fiume Po in queste notti di luna; sprofonda la voce (hilfe) ah, giù su, gorgoglia, si inebria, procede, annaspa e decade in un borbottio miseramente vinto. Si ode anche quel tonfo, nella notte (quest’ultima notte) del cuore che si spegne. Il tac della morte.

Con la ragazza, rapido ma con tenerezza, l’aveva avuta (dopo i mesi di montagna, lei quietamente vinta da una tranquillità gioiosa) premendola appena sul fieno, la sera innanzi; pareva che lei mettesse un proposito serio e molto amor proprio nel darsi interamente, con una specie di frenesia; quasi che riuscisse a liberarsi in questo modo, lei povera ragazza felice, degli incubi della guerra. Tutto era accaduto rapidamente e senza preparativi. Era entrato in quella casa (con la porta aperta, egli pensava per un invito d’amicizia) per ristorarsi dopo il gran correre e lo sparare (la fatica e la paura) del giorno; liberato dall’incubo della morte e con la certezza (che dà una esaltazione verbosa) che queste erano le ultime schioppettate; lei, appena guardatala, aveva accennato , sciogliendo lo sguardo da un dispettoso sopore. Era la sua speranza di riemergere? un moto del cuore? un accendersi repentino? Certi atti rovesciano a volte una vita.

È morta, Schumann passa vicino, prigioniero incallito, sudato nel collo, sporco di polvere ma sapendo con certezza che sopravviverà. Guarda Ettore passando e neppure sfiora la ragazza. La ragazza è morta

– in quegli anni il tedesco fu legato ai quattro o cinque episodi, avvenimenti straordinari o tragici, della esistenza di Ettore.

Che monte di ricordi e che spaventose ali. Franano questi sassi racimolando gli sterpi affumicati di una vita; c’è odore di fumo nell’aria. Ahi, la morte.

E come tutto finisce.

Sempre più magro e pallido. Un foglio di carta bianca.

È la parola fine.

Si procede con qualche movimento brusco, nel fruscio dei motori riscaldati e bollenti, fra le altre macchine, immedesimati nelle identiche luci rosse.

Un’altalena di fari che si accendono e si affievoliscono sugli occhi gonfi (di sonno), sulle mani contratte sul volante, e sulle schiene sudate –

la città sembra difesa da una coltre fosforescente circolare che fluttua a mezz’aria; è vicina con le sue case annerite; ormai vicina, ma qua è ancora campagna, oltre il fosso c’è un lupo addormentato e lo squamarsi della terra che libera strane parvenze annidate nelle crepe –

e si lamentano quando Ettore si lamenta.

Alcune macchine suonano, intorno non c’è che lamiera lucidata, variopinta, per miglia e miglia non s’alzano che riverberi. Il vecchio seduto si scuote, riemerge, agita una mano, sfiora la guancia dell’uomo ferito

– la colonna si avvia snodandosi quasi rassegnata dalla stessa impossibilità di procedere, adattata a questa sorte –

attraverso la spettrale lucetta azzurra che ha acceso si china, guardando la fronte, sempre più magro e pallido, un foglio di carta bianca, la fronte la vede ferma sotto un ghiaccio bianco.

 

(Alla digitalizzazione del testo hanno collaborato: Chiara Bensi e Nicoletta Defranceschi)

 

 

 

 

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: romanzi
  • Editore: Rizzoli
  • Anno di pubblicazione: 1964
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