Roberto Roversi. Un’idea di letteratura

Introduzione

 

In uno dei petali della sua Nuova poesia in forma di rosa (1964), Pasolini rievocava

 

un monaco di clausura / diventato pazzo, che cerca una clausura nella / clausura, per rifare di nuovo il cammino già fatto, / senza notizie biografiche, cicala nel sole della tomba, / a trasformare livore in malinconia – comunque / quella è la sua vita, e della sua vita / i suoi versi sono testimoni / che hanno senso in contesti / di dolore / nero.

 

Assistiamo ad un sortilegio (“benigno”), descritto da Stefano Benni in una lirica della sua raccolta Prima o poi l’amore arriva (1982):

 

A Roversi

C’è un buco nel portico / della città di Bologna / come l’inferno inghiotte / i giovani poeti. Un diavolo benigno / li travia. / Escono / trasfigurati, gridando / i loro versi al sole. / Se fuori c’è la nebbia / da quella libreria / si vede alla finestra / (per qual diavoleria) / il cielo. / I libri parlano / anche se sono chiusi. / Beato chi sa ascoltarne / l’ostinato sussurro.

 

A più di trent’anni da Pasolini, in una poesia intitolata Palmaverde (1996), un giovane poeta marchigiano, Gianni D’Elia, si rappresentava come un naufrago approdato

 

[…] alla riva / dell’Ulisse più umano si conosca in rima / ora in via de’ Poeti nomen omen / poco distante dalla stessa via / che per passione di vero stretti / come Roversi Elena e Roberto / unisce valore e cortesia.

 

Lungo l’arco di un trentennio, e nel salto di due, tre generazioni, è possibile ricavare alcuni riferimenti cifrati ad un autore singolare nel panorama della letteratura contemporanea: un testimone solitario, estraneo a gruppi o poetiche codificate, volutamente lontano dai manuali e dall’ufficialità, ma anche un rigoroso interprete delle trasformazioni politiche e culturali della società italiana dal secondo dopoguerra fino ad oggi.

L’attività poliedrica (infaticabile, vitalissima) di Roberto Roversi è stata costantemente circondata, da parte della carica istituzionale, da un’aria di trascuratezza, quando non di sospetto e di facili liquidazioni sommarie (l’unico volume monografico dedicato alla ricostruzione della sua opera risale al 1978, tra i “Castori” di onorata memoria). Perché l’autore ha seguito la via “clandestina” e “libera” nella pubblicazione dei suoi testi (attraverso una pratica capillare e assai organizzata di ciclostilati, fogli volanti, eccetera), tenendosi ai margini dell’industria editoriale: rendendo oggettivameme inagibile e impervio il mestiere del critico che promuove, lancia, studia o riflette sulle opere contemporanee che siano, perlomeno, ben visibili e distribuite. Ma anche perché dai tempi di “Officina” (1955-1959) fino ai suoi ultimi lavori, Roversi è stato ed è un intellettuale rigoroso e coerente, l’esempio di una generazione, come ricordava Calvino, che ha avuto «come problemi dominanti i rapporti tra lo scrittore e la politica». In altre parole, riprendendo una dichiarazione perentoria di Ferdinando Camon (1973): «Roversi è, in Italia, quanto di più lontano si possa concepire rispetto al letterato-letterato, e forse il più lucido, senz’altro il più coerente, ideologo-letterato».

Non si pensi, tuttavia, ad un percorso irrimediabilmente statico e pensoso, o frustrato, viste le molteplici involuzioni, le trasformazioni che hanno attraversato la società italiana in questi decenni. Come ho cercato di far emergere da questo profilo, che si presenta in una veste volutamente agile e divulgativa, una bussola di riferimento che traccia soltanto le linee fondamentali della sua vicenda intellettuale, Roversi ha saputo rinnovare la sua poesia, i temi e le forme della sua scrittura, gli interessi e le problematiche al centro del suo impegno teorico e pratico-organizzativo, senza mai rinnegare la spinta iniziale della sua (singolare) letterarietà: che consisteva, appunto, nell’investire prepotentemente la parola di una “passione politica totale”, di un umano interesse per il presente e la realtà.

Le scansioni, le articolazioni della sua opera sono molteplici e stratificate: si è proceduto ad una sintesi del suo percorso in senso cronologico. Il volume si divide in tre capitoli, ognuno legato ad una fase precisa dell’attività dell’autore: si ricostruiscono gli anni di “Officina”, entro cui confluiscono (e vengono rielaborati) gli esordi di Roversi; la ricca stagione degli anni Sessanta, che vedono il poeta praticare uno sperimentalismo di generi (dal romanzo al teatro alla lirica) e una lucida partecipazione agli avvenimenti del tempo; il terzo capitolo segue gli sviluppi della sua opera fino all’ultima raccolta di versi recentemente edita da Pironti (La partita di calcio, 2001).

Come è noto, chiunque scriva di letteratura contemporanea finisce per schierarsi apertamenre o meno verso la difesa di una poetica e di un autore. Quando, nel 1996, ho scritto la primissima versione del saggio, mi sembrava che il trattamento del linguaggio letterario sedimentato e che, come un fulmine, scattava dall’opera di Roversi, fosse il modo migliore di praticare un’idea tanto abusata quanto poco realizzatasi di “letteratura politica”; e che la scelta di affrontare, in poesia, i nodi intricati del nostro presente fosse un’ultima difesa da opporre alla disumanità del mondo, e soprattutto alla caritatevole condizione nella quale vive la letteratura tout-court, che rischia di abitare, come dovrebbe essere sempre più chiaro, un deserto ben delimitato che confina con il mercato, da una parte, e con l’Accademia, dall’altra. Oggi, più radicalmente, l’impressione è che la possibilità di riscoprire (o di scoprire) i testi di questo autore sia un’occasione per ricostruire e rientrare in possesso del nostro passato e per riflettere sul presente. Perché, citando Fortini che si rivolgeva alla poesia di Vittorio Sereni; poeta molto amato da Roversi, «per dare torto a questi versi non ci vuole nulla di meno d’una trasformazione, intorno a noi, della vita sociale che per un certo tempo li renda incomprensibili o muti».

 

Quando ho (ri)scritto, oggi, pensavo a Marcella, che era (è) la strada giusta. Ringrazio mio padre, homo musicalis e terribilis: il mio unico, vero “maestro”…

 

 

Capitolo primo

L’“officina” di Roversi

 

Premessa

 

Nel cogliere il senso dell’esperienza di “Officina” (1955-1959)1, e successivamente la sostanza della prima produzione letteraria di Roberto Roversi come modelli per un’analisi critico-ricostruttiva della tensione intellettuale, del periodo, non si dovranno trascurare i processi di destrutturazione e strutturazione che, a vari livelli, attraversano l’Italia in quel frangente storico2.

Un’analisi complessiva volta ad un’attualizzazione problematica della fase di profonda e straordinaria transizione in cui la rivista bolognese si trova ad operare (fase nella quale Roversi mette a punto, possiamo dire, il proprio apprendistato teorico e culturale, ideale e letterario), porterebbe in luce momenti attivi di elaborazione critica, ma anche ritardi oggettivi nei quali si muove l’intellettualità italiana, che hanno implicazioni sostanziali negli anni Sessanta e Settanta, all’epoca della rinnovata autonomia “post-tecnologica” della neoavanguardia e del radicalismo politico-culturale. Nei dibattiti che hanno visto impegnati gli intellettuali italiani, anche gli stessi protagonisti di quella stagione3, è talora evidente una tendenza emblematica e significativa della carente storicizzazione del passato, di una incapacità o non volontà di verifica dei conflitti che furono posti in quell’arco di tempo, e che la rivista ospitò, cercò di registrare e di investigare. La spinta di fondo è, invece, dell’“emarginazione”, della riduzione schematica degli anni Cinquanta. Si deve constatare l’istituzionalizzazione di uno dei più frequenti e fortunati discorsi critici della neoavanguardia (è, peraltro, un orientamento che ben presto va oltre lo schieramento del Gruppo ’63); la contrapposizione a-critica e riduttiva tra i “nuovi” anni Sessanta e i “vecchi” anni Cinquanta, conseguentemente liquidati come fase di impasses, di chiusure provinciali, di antichi rovelli, di risposte rozze e ritardate prodotte dalla cultura italiana. Si tratta di una lettura pericolosamente squilibrata per evidenti ragioni antagonistiche, ideologiche e (auto)promozionali, e che, oltre a rimanere alla superficie dei fenomeni culturali – al di qua di un’analisi dei fattori politici e sociali, del rapporto delle esperienze intellettuali con il terreno dei problemi reali, ma anche fuori dal confronto diretto con i testi e con la ricchezza di un’intera stagione letteraria – finisce da una parte con il sottovalutare le insidie e le involuzioni della fase d’oro del neocapitalismo, considerando apologeticamente i processi della nuova autonomia letteraria degli anni Sessanta; dall’altra, in un curioso e paradossale storicismo “alla rovescia”, sembra istituire un “punto d’avvio” per la cultura e la letteratura italiana: un “grado zero” dal quale ripartire, spazzando via ogni residuo del passato.

Come è stato detto, il “giro di vite” dei primi anni Sessanta, questa vivida, fermentante e irripetibile stagione culturale, non può essere intesa, nei suoi frutti contraddittori, senza affondare nel dibattito più ampio che si maturava intorno al marxismo e alla condizione sociale dell’intellettuale, nel contesto delle trasformazioni che si innervavano nella società italiana4. Da parte della “chiassosa” neoavanguardia, un megafono sempre acceso e (giustamente) fiducioso in una platea (e in un mercato) desiderosi di “novità”, si elaborava una precisa e capillare strategia comunicativa: si vorrà denunciare (condannare) più che conoscere criticamente la crisi dell’egemonia marxista nella cultura italiana, la frantumazione e la passività delle ideologie tradizionali; l’orizzonte angusto e provinciale degli anni passati, l’inadeguatezza dei vecchi strumenti conoscitivi e dei modelli interpretativi propri della cultura umanista, senza tuttavia affrontare le radici del “nuovo” presente. Radici che affondavano nei clima di una crisi ideale che si inaugurava nella seconda metà degli anni Cinquanta, nelle risposte culturali, ed ideologiche che allora si erano prodotte; in quella fase di transizione e di passaggio, insomma, dall’assetto pre-industriale dell’Italia del dopoguerra all’affermazione di forme politiche e di pratiche economiche riformistiche e razionalizzatrici tipiche del neocapitalismo.

Nonostante i problemi etici e politici, le questioni ideali che si aprivano, malgrado i profondi cambiamenti nell’intero orizzonte politico-culturale che perdeva i rassicuranti punti di riferimento dell’eredità post-resistenziale, una cifra ideologica rimarrà immune da revisioni o da analisi critiche, ed anzi verrà rilanciata come stemma del “moderno”: l’autonomia dell’intellettuale e la più o meno celata separatezza dai nuovi conflitti sociali; l’incapacità (o, ancora una volta, la non volontà) di analizzare criticamente la propria storia e la propria tradizione. Muteranno, come ormai sappiamo, le forme e le manifestazioni di quell’autonomia: non più impegnata ma a-ideologica e integrata; non più provinciale nei suoi riferimenti culturali ma dinamica e cosmopolita; senza vocazioni fragili ad una qualche extra-letterarietà e orientata ad un rimodernamento all’interno (e dall’interno) del “sistema”, chiusa in un ambito di lavoro specialistico e ambiguamente privilegiato. Una moderna separatezza, pluri-metodologica e mterdisciplinare, «filosofica e scientifica, musicale e figurativa» ma intrmsecamente ancora letteraria, che finirà per saldarsi con la vecchia5.

La visione di “Officina” come rivista ed esperienza anacronistica e ritardataria si deve dunque ad uno schieramento agguerrito che rifiuta il «travaglio […] morale» dell’intellettuale italiano, e che, mascherando i suoi profondi dissidi interni e i contrasti tra le sue diverse correnti, rappresenterà negli anni Sessanta la forza culturale egemonica, «la più radicale alternativa all’impegno»6. Il Gruppo ’63 e, prima di esso, la rivista “Il Verri”7, costituiranno il fenomeno rappresentativo dei cambiamenti strutturali della realtà e del sistema culturale italiano, dal decollo neo-capitalisdco alla politica del centro-sinistra, dalle difficoltà dello sviluppo della democrazia ai fenomeni di sclerosi e di crisi della dialettica sociale. Anche rispetto alle trasformazioni che agitavano il sistema culturale del tempo, il Gruppo ’63 si limiterà alla loro neutrale indicazione, alla registrazione oggettiva ed anche acuta, quando non all’apologetica descrizione. Mancherà una verifica critica, tempestiva e attenta dello statuto e della funzionalità (politica) della nuova piattaforma ideale e metodologica che prendeva piede in Italia sul finire degli anni Cinquanta, arricchita dagli apporti della cultura non marxista più avanzata dei paesi capitalistici sviluppati (dall’antropologia allo strutturalismo, dalla semiologia alla linguistica, dalla sociologia alla psicologia del profondo): che diventerà senza mediazioni la base teorica di riferimento della stessa neoavanguardia, e che pure gli ultimi due numeri di “Officina” avevano tentato di analizzare e di discutere attraverso la lente (sfocata e deformante) di una fenomenologia meramente culturale. Per questa passività critico-conoscitiva sulle nuove forme della condizione e della dislocazione sociale dell’intellettuale, sarà facile, in una situazione di ottimismi socio-economici e di evoluzioni/involuzioni (riformistiche) della politica; eludere senza troppa fatica i nodi e le problematiche rimaste insolute alla fine del decennio passato, dall’“eredità” della Resistenza alla crisi del ’56; tutti i travagli ideali, in sostanza, che appartengono all’intero arco dell’ideologia democratica del dopoguerra.

Il Gruppo ’63 apparirà “vittorioso”e “nuovo” perché nel suo statuto ideologico si inscrive programmaticamente la ripulsa per ogni impegno tradizionalmente inteso: la teorizzazione di una contestazione tutta linguistica e formalistica, lo slogan e l’orientamento (la poetica) più appariscente della neoavanguardia, vanno letti come la punta dell’iceberg di un movimento geneticamente lontano da ogni “assillo” ideologico vissuto come scomodo, ancorché irrisolto retaggio del “passato”. E che per questo, come è stato correttamente osservato, costituirà, dietro l’ampio sostegno dalla nuova industria culturale, «la forza intellettuale ad hoc per una produzione culturale capitalistica in cerca di rammodernamenti e innovazioni non troppo traumatizzanti, […] meglio accetta ad una società borghese desiderosa di apparire moderna senza troppi danni»8.

La neoavanguardia nemmeno si porrà gli obiettivi, e poco sopporterà i “tormenti” che “Officina” aveva cercato di rappresentare: la rivista è sì, e lo vedremo analiticamente, una preziosa testimonianza tutta interna al panorama culturale degli anni Cinquanta, al travagliato passaggio verso la “modernità”9. Ma soprattutto va considerata, con uno strabismo indispensabile, come esperienza capace di tradurre nei termini di una battaglia militante il patrimonio di una intera stagione in crisi e, al contempo, in grado di offrire spunti e occasioni di riflessione valide al di là di sterili contrapposizioni contingenti: sia nella revisione critica della tradizione letteraria novecentesca (dall’ermetismo al neorealismo); nella proposta di una poetica che coniugasse la lezione del plurilinguismo e della libertà stilistica con un nuovo “impegno” (il “neosperimentalismo”); sia, più esplicitamente, negli ultimi due numeri del 1959 (e con un’acuta presenza dello stesso Roversi), col tentativo di registrare le trasformazioni politiche e culturali dell’incipiente neocapitalismo.

È in questo cortocircuito tra resistenze passatiste, ipoteche ideologiche, avanzamenti e sviluppi, che va inquadrato l’apprendistato di Roversi all’interno dell’“officina” bolognese.

 

1. La rivista10

 

Analizzando più da presso la prima serie della rivista (1955-58, per un totale di dodici numeri a periodicilà irregolare), emerge con chiarezza come il suo indirizzo prevalente di ricerca sia esplicitamente letterario, teso ora ad un recupero critico di momenti centrali del Novecento italiano, ora alla “polemica sui due fronti” (nella revisione del “novecentismo” e del neorealismo), ora all’indicazione in positivo di una nuova poetica (la “terza via” dello sperimentalismo).

Il quadro in cui la rivista si inserisce registra le incrinature e i segnali di cedimento della piattaforma culturale del dopoguerra. Le analisi e le proposte di Pasolini, Leonetti e Romanò (i più attivi collaboratori in questa prima fase dal punto di vista dell’elaborazione programmatica del gruppo), denunciano, direttamente o implicitamente, la definitiva inadeguatezza della poetica del neorealismo e del sistema dei rapporti tra ideologia e letteratura, cultura e società: si raccoglie problematicamente l’eredità dell’engagement così come era stato teorizzato all’indomani del dopoguerra. Il 1955, data di nascita della rivista, è l’anno della querelle sul caso Metello; del rilancio, sulla scorta della pubblicazione delle opere di Lukács (1953) e nell’ambito del “marxismo ufficiale”, della battaglia per il realismo come tendenza; della riproposizione dello storicismo come asse filosofico di riferimento (si pensi alla tensione teorica espressa per tutta la prima serie de “Il Contemporaneo”, la rivista animata da Roberto Guiducci che si pubblica proprio fra il 1954 e il 1956)11. Ma soprattutto, sul piano delle battaglie di poetica, si assiste, in termini quasi immutati, alla ricostituzione dei due fronti della contrapposizione tipica della stagione post-bellica, tra un “novecentismo” nostalgico (o appena “aggiornato”) e il (neo) realismo.

Sin dal primo numero, la strutturazione di “ Officina “ è orientata nel tentativo di presentarsi come gruppo culturale “militante”: accanto alla pubblicazione di poesie firmate dagli stessi redattori (Pasolini, Leonetti, Roversi, ma anche Romanò), e da alcuni “ospiti” cooptati e coinvolti per lo più da Pasolini (con alcune presenze che, come vedremo, risulteranno contraddittorie ed equivoche di fronte all’impianto del gruppo dei “fondatori”), la rivista si pone l’obiettivo di verifìcare criticamente le due egemoniche tradizioni letterarie italiane, l’ermetismo (o il “post-ermetismo” fatti confluire nella definizione di “novecentismo”) e il neorealismo in crisi, attraverso saggi monografici e schede su problemi letterari o storiografici a cui sono dedicate le due sezioni “La nostra storia”, in apertura; e “La cultura italiana”, solitamente collocata in chiusura dei fascicoli, prima delle “Appendici”.

Pare subito evidente che la polemica condotta sul fronte del novecentismo, sull’«ontologia letteraria del Novecento»12, sull’equazione letteratura-vita, è più sentita e sensibilmente presente nei vari scritti, a causa della formazione giovanile dei redattori che viene vissuta come ipoteca difficile da smaltire. Per questo, numerosi saggi sulla tradizione ermetica italiana si colorano di un’ossessione autocritica e autochiarificatoria (Romanò parlerà al proposito di continui «trasalimenti autobiografici»13), che condiziona la riuscita dell’analisi critica. I limiti e le carenze del discorso antinovecentesco di “Officina” sono d’altra parte addebitabili al clima oggettivo di insufficienza speculativa dell’intellettualità di sinistra degli anni Cinquanta, e sono stati messi ampiamente in risalto da Franco Fortini, che indica in questo uno dei ritardi maggiori imputabile a tutta l’esperienza della rivista14. Nel Pascoli di Pasolini o negli scritti di Scalia, in quelli più eccentrici di Leonetti, nelle Analisi di Romanò, nelle Schede di Roversi, assistiamo al tentativo di formalizzare una battaglia critica realmente alternativa al dibattito contemporaneo sulla “liquidazione” delle poetiche del “disimpegno”. In questa fase gli sforzi e le elaborazioni del gruppo sono finalizzate ad una revisione della tradizione ermetico-novecentesca che si esaurisce e si arresta ad una lettura del livello formale (e di superficie) dei fenomeni letterari, e non delle ideologie ad essi sottese. E soprattutto risulta incapace di analizzare le radici politiche del novecentismo (crisi dell’età liberale, fascismo, caratteristiche dell’“imperialismo” italiano)15; rinunciando in partenza ad un’analisi delle matrici storielle del decadentismo europeo, ad una indagine sul suo rapporto con il novecentismo italiano: «la […] polemica [della rivista] contro la destra novecentesca – dirà in seguito Fortini – era in ritardo di dieci anni; quello che la faceva parere nuova era la simultanea polemica contro l’impegno e il socialrealismo»16. Non è necessario soffermarsi sulle eccezioni rappresentate da quegli scritti (legati sempre e come a doppio filo ad un terreno di analisi prettamente letteraria), che cercano di allargare il discorso sulla poesia italiana attraverso sondaggi anche originali su autori centrali della letteratura (della narrativa) del decadentismo europeo, da Proust a Kafka a Joyce17. Piuttosto è il caso di riferirsi all’orizzonte ideologico a cui il gruppo si richiama espressamente nelle sue revisioni, nelle polemiche letterarie anti-novecentesche.

Vogliamo dire che nella teorizzazione di uno storicismo da rilanciare nella critica letteraria e storiografica – che è poi il sostrato che accompagnerà le proposte di poetica per una nuova responsabilità “storica” e “civile” da affidare alla letteratura – la rivista risente del clima politico-culturale del periodo, e in particolare della condizione del gramscismo degli anni Cinquanta. Lo storicismo officinesco si inserisce senza rotture nella linea allora dominante di un recupero parziale e insufficiente della lezione di Gramsci, lontano da una coscienza organica della sostanza reale (e profondamente critica) della riflessione più politica dei Quaderni18. Si trattava di un orientamento che, come per altri aspetti, è cifra ideologica comune che si manifesta sin dall’inizio con divergenze profonde all’interno stesso della rivista e con una limitata uniformità di vedute e di tenuta. Definendosi in contiguità con lo storicismo idealista rammodernato, tipico della critica di sinistra dell’epoca: assai infiltrato, come è stato osservato, da un crocianesimo resistente, tanto da poter essere efficacemente definito “crocio-gramscismo” (G. Scalia)19. Era il tentativo, uno dei più interessanti e vivaci di quegli anni, di «correggere Croce con Gramsci», come dirà bene Roversi20, o di corrodere “dall’interno” l’idealismo (Leonetti). Da questo punto di vista, la composizione teorica della rivista è “omologa”21, specchio ed esempio della tendenza generale dell’intellettualità del tempo, che di Gramsci, come ormai sappiamo, recepiva strumentalmente il discorso culturale e prettamente letterario (la nozione di “nazional-popolare”, la linea da rilanciare Vico-De Sanctis, eccetera), più che quello critico-politico dei discorsi sugli istituti della cultura tradizionale e sulla storia dell’intellettuale italiano. Il caratteristico anti-novecentismo e anti-avanguardismo officinesco di ispirazione storicistico-realistica, che ha nel pensiero di Romanò il suo rappresentante più attivo, ma di cui in genere risente un vasto settore della rivista, si impegna a rilanciare figure come De Sanctis e Renato Serra (Scalia); oppure, dal punto di vista più strettamente letterario, una tradizione pre-novecentesca “alternativa” (Leopardi, Pascoli, Carducci) e in particolare quella di stampo vociano (Sbarbaro, Boine, Rebora e soprattutto, per quanto riguarda Roversi, l’esperienza poetica di Pietro Jahier)22. I “maestri in ombra” della poesia vociana resteranno un punto di riterimento costante del discorso di “Officina”, modelli di una poesia civile ed impegnata. Anche questo recupero critico, d’altra parte, si riduce ad un richiamo non approfondito in funzione anti-ermetica, e confluisce in una proposta letteraria e di poetica, come alternativa ai due fronti, per dare non a caso i risuitati migliori nei testi poetici dei redattori, e propriamente, come è facilmente verificabile, in quelli dello stesso Roversi e di Leonetti («noi siamo i vociani minori»). Lo storicismo e l’ethos vociano saranno, insieme alle riflessioni pasoliniane sull’insegnamento di Contini e di Auerbach, Longhi e De Lollis (di Curtius e di Spitzer), e accanto alla sua teorizzazione del plurilinguismo e della “libertà stilistica” (il processo verso la prosa, la tentazione poematica e narrativa, la “confusione” degli stili), la base e il supporto ideologico della proposta officinesca della “terza via” spermentale.

Accenniamo soltanto all’elemento più esteriore della contraddittorietà (dell’equivocità) con cui è condotta la polemica e la revisione critica sul novecentismo: l’inadeguatezza o l’ambiguità che guidavano le scelte delle “firme” da ospitare sulla rivista. Un “imbarazzo” che sarà evidente anche sull’altro fronte della battaglia, quello condotto contro il neorealismo. Scorrendo i nomi e gli interventi che appaiono nella sezione dedicata ad accogliere testi e contributi (per lo più poetici), troviamo la presenza di autori ermetici o comunque vicini all’area noventesca come Ungaretti, Bassani, Bertolucci, Penna, Luzi23; fino ad alcuni dei poeti scelti nel numero del 1957 da Pasolini, a formare la Piccola antologia sperimentale: tra essi spiccano Arbasino, Elio Pagliarani e Sanguineti, i quali, come è noto, andranno di lì a poco a costituire o comunque a partecipare attivamente al Gruppo ’63. A parte le presenze di Volponi, Moravia, Calvino, Gadda e Sciascia, autori che hanno, in quella fase della loro personale ricerca intellettuale, punti di contatto più diretti con i percorsi dei singoli redattori (e che tuttavia appaiono sulla rivista con interventi occasionali o altamente individualizzati, senza incidere sul discorso generale del gruppo)24, rischiano di essere convocati nel corso delle pubblicazioni scrittori e poeti che, in un modo o nel suo opposto, rappresentavano quella «letteratura al tramonto che si doveva combattere», come apertamente dichiarerà Roversi25.

C’è da fissare un altro aspetto sintomatico della “crescita” officinesca: lo iato che passa tra gli scritti critici dei redattori (Pasolini, Leonetti, Roversi, Romanò), e i loro testi poetici pubblicati sulla rivista, testi che talvolta risentono nei contenuti, nei temi come nella forma adottata, degli stessi limiti che essi si sforzano di individuare (e di denunciare) nella polemica critico-teorica condotta sui due fronti; sono, in definitiva, i segnali più appariscenti di una sostanziale incapacità di “fare il vuoto” nel panorama culturale e letterario contemporaneo. La rivista, per i suoi limiti di eclettismo e per i connotati di una conformazione neo-accademica propria di un sodalizio di provincia, persegue un discorso critico che si ripiega e rischia di precipitare ben presto entro i termini tradizionali della creazione di una poetica, un’autonomia e un’autosufficienza tutta letteraria, nonostante alcune meritorie prese di coscienza e una serie anche considerevole di anticipazioni illuminanti che appaiono, in modo frammentario, nei singoli interventi dei redattori. I risvolti della polemica officinesca con il novecentismo (schematizzando: l’italianismo, la limitata apertura comparatistica, l’iper-letterarietà), si ritrovano inevitabilmente nelle modalità con cui viene condotta e nei risultati a cui giunge la critica al neorealismo e alla letteratura dell’impegno.

Come abbiamo accennato, lo spazio dedicato dalla rivista alla polemica nei confronti del neorealismo appare proporzionalmente ridotto: gli aspetti ideologico-politici ad esso legati risultano affrontati quasi sempre nei termini riduttivi e strumentali, ai margini dei dibattiti del tempo. La conferma, tra l’altro, del “ritardo” officinesco, sta nel fatto che Pasolini e Fortini sceglieranno altre sedi e diversi momenti per ridiscutere in termini realmente innovativi e illuminanti, o comuque più approfonditi, la stagione dell’impegno: l’uno con la pubblicazione di Passione e ideologia (1960); l’altro con la raccolta di saggi de I dieci inverni. 1947-1956 (1960), e ancora con la Verifica dei poteri (1965). Una cronica disposizione dell’elaborazione critica officinesca constava nell’esaminare con molta più frequenza la produzione poetica della letteratura italiana del Novecento piuttosto che quella narrativa (le eccezioni sono rappresentate dalle note di Leonetti e Roversi): saranno sporadici i riferimenti ad autori-chiave della stagione del romanzo neorealista come Pavese, Calvino, Beppe Fenoglio. L’attenzione rivolta a questi autori risulterà comunque insufficiente alla formulazione di un discorso organico sulla narrativa neorealista (l’appendice riservata alla pubblicazione di stralci dal romanzo di Calvino, I giovani del Po, si risolve in un fatto casuale e per altri versi contraddittorio, e naturalmente non è in grado di colmare questa lacuna)26. Sulla rivista, del resto, c’è solo qualche accenno alle prove narrative degli stessi redattori, che possiamo definire genericamente contigue al clima dell’impegno (o di una sua rielaborazione): Ragazzi di vita di Pasolini (1954); Fumo, fuoco e dispetto, il romanzo di Leonetti pubblicato nel 1956 nei “Gettoni” di Vittorini; le “novelle erudite” di Roversi, Ai tempi di re Gioacchino, edite nel 1952. L’interesse prestato ai luoghi rilevanti del dibattito contemporaneo in cui è impegnata l’intellettualità marxista, dai periodici come il “Contemporaneo” e “Società”, “Opinione” e “Città aperta”, dalla prima serie di “Tempi Moderni” all’esperienza di “Ragionamenti” («palestra del centro-sinistra», come la definirà Fortini), risulta occasionale e non pregnante. In generale, la rivista sembra cercare con affanno collegamenti e raccordi con altre sedi in cui era consistente l’analisi teorica sui temi legati alla problematica politica e culturale del tempo (dal “realismo” alla critica marxista, dal nascente “marxismo critico” alla polemica contro lo stalinismo). Non a caso, nella sezione dedicata alle riviste, la redazione sceglie di analizzare un solo interlocutore, il gruppo torinese di “Momenti” (che poi confluisce nella breve stagione di “Situazione”), che è sicuramente attivo in quel dibattito ma si presenta come esperienza provvisoria e periferica.

La scheda in proposito è firmata da Roversi. Appare nel secondo numero del 1955 e costituisce l’esordio saggistico dell’autore sulle pagine di “Officina”. Si colgono i limiti del periodico nel contenutismo volontaristico (un «populismo di maniera, retorico ed extrapoetico […] oppure gravat[o] da una prosasticità gonfia e non illuminante»), nella mancata maturazione di una nuova coscienza morale e, soprattutto, nell’assenza di un nuovo linguaggio che smuovesse e sapesse rinnovare i termini di una operazione “democratica e progressista” da affidare all’attività letteraria. Nella critica alla rivista si possono cogliere – come in una proiezione di “gruppo” – gli orizzonti che “Officina” tentava di perseguire, distinguendosi dalle contemporanee revisioni intorno al neorealismo (ribadendo la necessità di verificare le “nervature”, il proprio rapporto con la tradizione letteraria, con il passato, il fascismo):

 

C’è invece una ambiguità, [nell’attività di “Momenti”], che dipende dalla contraddizione fra un’apparente forza polemica, più volte esibita, e una insufficiente solidità umana e teorica. Un punto di vistosa debolezza si potrebbe identificare in una certa ostentazione di aver violentemente rinunciato all’educazione e alla cultura di origine borghese, con i limiti e le illusioni in essa contenute27.

 

Si tratta di un’esigenza sofferta e prepotente che Roversi testimonia sulla rivista e nei suoi discorsi coevi, con un contributo di riflessione (anche silenzioso e “sotterraneo”) che probabilmente costituisce il motivo più sostanziale dell’originalità della sua collaborazione all’interno del gruppo (e in particolare per la prima serie delle pubblicazioni):

 

Tutto d’un pezzo, nella sua intensa dedizione alla letteratura come mezzo per comprendere e persino rifare il mondo, Roversi era angustiato dal fatto che gli intellettuali italiani nati negli anni successivi al primo conflitto mondiale non avessero trovato il tempo, né mostrato il coraggio, di discutere la loro educazione fascista. Quella generazione (Roversi, 1923, Serra 1920, Leonetti, 1924, Pasolini, 1922) era giunta a maturazione sotto un regime che non si era preoccupato tanto di censurare nuove idee quanto di ignorarle. Ciò che non era ben visto, per il regime non esisteva, […] Roversi voleva che “Officina” dicesse proprio questo; lo infuriava che improvvisamente nessuno fosse più fascista, o che addirittura non ce ne fossero mai stati28.

 

Si veda un suo intervento del 1977, in cui si ricostruisce l’educazione sotto il fascismo patita insieme con Pasolini e con i giovani della generazione 1920-1924:

 

A me, dei problemi toccati e poi discussi, interessa raccoglierne alcuni specifici. […] Perché oggi possiamo guardare a un passato che ci introduce all’ultimo momento di quel fascismo (1940-1943) […], senza un qualunquismo liquidatorio che ha sempre buona e pronta cittadinanza dalle nostre parti e che per me si condensa nella frase largitaci da un giuggione sciocchino, anni addietro, quando scrisse furbescamente che nel periodo dei fascisti sarebbe bastato arrivare in bicicletta fino a Chiasso per essere bene informati, bene defascistizzati. [Il riferimento, ad Arbasino, torna nell’intervista in appendice al presente saggio, ndr]. […] A me pare che quel periodo sia stato fino ad ora raccontato con segni di un realismo spicciolo, frettoloso o polemico, e credo che ci sia ancora molto da rileggere e da riflettere per approfondire la verità dei fatti29.

 

Altri scritti officineschi affrontano i problemi discussi nelle polemiche del tempo, soprattutto le questioni legate a tematiche culturali, come per il rapporto tra marxismo e eredità del decadentismo30; i vizi ideologico-valutativi della critica letteraria, il “prospettivismo estetico” della cultura di sinistra; la polemica “sui due fronti”; la revisione delle forme novecentesche che eludevano la crisi; l’esame delle «teoriche normative e le pratiche precettistiche» proprie del realismo socialista31, contro l’applicazione meccanica della nozione gramsciana di “nazional-popolare”; i nessi tra crisi privata («il mondo inferiore, personale») e crisi storica («il mondo sociale e storico»)32. Ma si può concludere che, in generale, mancava una verifica organica dei nodi più intricati dei dibattito contemporaneo. Quello stallo, quella crisi, si porrà sulle pagine di “Officina” come problema quasi esclusivamente letterario, culturale. Sul nesso tra crisi privata e crisi storica, tra linguaggio e realtà in cambiamento; sui rapporti ideologia-letteratura, politica-ricerca intellettuale, cultura-società, la rivista opera sintomaticamente una revisione critica dell’esperienza vittoriniana del “Politecnico” che, in questo contesto, appare significativa di una oggettiva ripresa da parte del gruppo di (false) antinomie risalenti a un decennio prima (autonomia, separatezza e superiorità della cultura/direzione politica) e, nello stesso tempo, si profila come il sintomo di uno sforzo volontaristico, un generoso richiamo a problematiche superate e anacronistiche, ma agenti nel caratteristico ethos officinesco. Il riferimento alla figura di Vittorini si trova nello scritto di Scalia del 1958, Per uno studio sulla cultura di sinistra nel dopoguerra, e nell’intervento di Leonetti, Due versi sulla rivoluzione (1958): in generale i contributi su questi temi di Pasolini, Romanò, Roversi e degli altri redattori-collaboratori sono frequenti e produttivi. La critica, la verifica della stagione dell’engagement non approda nell’indicazione, sommaria e ricorrente in quella stagione, dell’alternativa opposta, nel suo contrario: realizzando, come riconoscerà anche il più critico Fortini, l’estremo tentativo di evitare la “catastrofe” neoavanguardista, la dissoluzione completa del neorealismo, la «fagocitazione neocapitalistica»33. La polemica con il neorealismo, in questo contesto, si intreccia di frequente con quella contro la cultura del “disimpegno” (l’ermetismo), e in questi casi la critica all’autonomia, alla letteratura come microcosmo concluso in se stesso appare più articolata, indagata nelle sue implicazioni stilistiche e socio-linguistiche, ma anche nei suoi risvolti storico-politici. Sfuggendo, specie nei risultati poetici, alla contrapposizione riduttiva tra novecentismo e neorealismo, per creare un contesto espressivo e linguistico più ricco e articolato che trasformasse, utilizzandoli, elementi dell’una come dell’altra poetica (il “neosperimentalismo”.)34. Alla fine, l’esigenza di un nuovo rapporto con la realtà; il bisogno più intimo, non esteriore e consapevole di un collegamento tra poesia-cultura e società, e quindi la presenza di istanze extra-letterarie, di motivazioni morali e politiche (la ricerca di un ethos), permea e caratterizza tutta l’elaborazione della prima serie della rivista, con una teorizzazione incessante di categorie dall’evidente sapore romantico e pre-moderno (il passaggio dal “dentro” al “fuori”, dal “piccolo” al “grande mondo”, la poesia “extra-lirica”, “impoetica”). L’intera riflessione del gruppo rischiava di ridursi ad un discorso ansiosamente o disperatamente individuale, ovvero, al massimo, si risolve nell’indicazione equivoca di un lavoro intellettuale “serio”, rigoroso (Roversi); gobettianamente inteso (Fortini, Leonetti e Pasolini), che ha fatto parlare di un ritorno ai termini di una rivista come il “Baretti”35.

Un’operazione di critica all’ideologia e all’idea tradizionale dell’intellettuale umanista, lo scavo nel proprio passato esistenziale, storico e politico (l’«educazione sotto il fascismo»), era oggettivamente impraticabile da parte di una rivista che, dirà con coerente autocritica Roversi, «era fatta d[a] letterati»: non a caso, l’attività politica degli autori sarà vissuta (come per Franco Fortini o per Gianni Scalia), parallelamente a quella saggistico-letteraria elaborata su “Officina”36. Dentro questa oscillazione tra ritardi e autocritica si misura il confronto dei redattori della rivista con la “svolta” del 1956.

 

2. Il 1956

 

Si può agevolmente individuare la contraddizione fondamentale del gruppo raccolto attorno ad “Officina” nella sua tenace iperletterarietà, nella tendenza a considerare il discorso letterario (e propriamente poetico) come il terreno primario su cui misurare anche le istanze, le problematiche politiche e sociali (del passato e del presente)37. Questo limite si approfondirà in un contesto storico e culturale profondamente mutato all’indomani del ’56, provocando l’esaurimento della prima serie e il tentativo di rilancio del 1959, e poi, inevitabilmente, la crisi e la fine della rivista.

Il caratteristico storicismo, l’ethos officinesco, verrà scosso dalla crisi del ’56, dai mutamenti che accompagnano il decollo neocapitalistico38. Si assiste allo sforzo dei redattori di partecipare, discutere e registrare i nuovi fermenti di questo frangente storico. Confermando i limiti risalenti alle radici della formazione del gruppo e mettendo in risalto, alla fine della prima serie e nel corso dei due numeri dei 1959, nuove e contraddittorie tendenze che risultano ancora una volta esemplari di una generale temperie culturale degli anni Cinquanta. Già in alcuni scritti della prima serie c’è da registrare qualche isolata eccezione alla letterarietà di fondo: ci riferiamo alla scheda di Roversi sul “Mulino” (nel n. 3, settembre del 1955).

L’articolo segna il tentativo da parte di un redattore officinesco di analizzare una moderna rivista, di gruppo, «intesa in alto loco come la più rappresentativa della nuova generazione», che risentiva delle nuove aperture culturali caratteristiche della stagione neocapitalistica, del «centrismo illuminato», e si presenta basata su un’«extraletterarietà» socio-economica e storico-polilica interdisciplinare. Sull’assunzione di «tecniche ideologiche aggiornate» e del neo-positivismo come orientamento principale: «da una fervorosa serietà a un risentito conformismo: questo, a voler schematizzare, ci sembra il diagramma dell’attività (rivolta alla discussione politica e a studi storici, economici, sociologici) de “Il Mulino”». La rivista, analizzata da Roversi con un tono aspro e con intuizioni illuminanti, si segnala per un «celato e facile disprezzo per la ricerca letteraria» (quando, secondo termini vicini a Vittorini, la «ricerca letteraria [è] autentica e sempre rivoluzionaria»); e pare maturare, «alla distanza, un tono, o un periodo “ministeriale”»:

 

Né certo basta rinculare in un centrismo oscillante, tutto cauteloso e puntuto, per avere pace e per convincere: questa posizione può preludere a una debacle morale che va difilato al qualunquismo39.

Il fatto è che l’eco della crisi politica e culturale originatasi nello schieramento marxista a partire dal 1956, anno degli avvenimenti di Polonia e di Ungheria (autunno), dei dibattiti sul XX congresso del PCUS (febbraio), e infine sulla strategia togliattiana “delle riforme strutturali” espressa dalla svolta dell’VIII congresso del PCI (dicembre), risulta significativamente smorzata e quasi inconsistente. I problemi connessi con questi ed altri eventi venivano discussi dai redattori «fuori dalla rivista», come dichiarerà Roversi40, o al massimo attraverso polemiche spiccatamente letterarie (La posizione, di Pasolini, è dell’aprile del ’56), o con veri e propri testi poetici (la pasoliniana Una polemica in versi, insieme con la risposta di Fortini in Al di là della speranza, sono datate rispettivamente 1956 e 1957). I redattori sembrerebbero non maturare la consapevolezza della crisi aperta in quei mesi, e i nodi politici contemporanei, quand’anche discussi, non vengono vissuti dal punto di vista di una battaglia ideale ma si riducono a terreno di discussione di poetiche individuali (Pasolini), con un cifrato letterario-colto che, dal punto di vista formale, segna un’involuzione rispetto alla chiarezza degli scritti dei primi numeri. Proprio in quella fase, d’altra parte, si stavano consumando e accentuando, all’interno della rivista, le distanze ideologiche tra i percorsi intellettuali dei redattori, segno della generale dispersione, della frantumazione del marxismo italiano del periodo: tra le prime aperture alle nuove istanze scientifiche e metodologiche di Scalia (Per uno studio sulla cultura di sinistra nel dopoguerra, del 1958, in cui si richiamano indirettamente le esperienze di Barthes, Goldmann); il crocio-gramscismo acuto di Romanò; la mitologia popolare, l’anti-modernismo provocatorio di Pasolini41; lo sperimentalismo teorico e culturale di Leonetti; l’inquieto rovello morale di Roversi, che appare la figura più isolata del gruppo.

Il “civismo lombardo” di “Officina” muta, in direzioni plurivoche, con il passaggio alla seconda serie. Non è necessario soffermarsi sull’analisi dei significati che rivestono i cambiamenti di formula, di gestione interna e di strutturazione che riguardano la rivista (l’istituzionalizzazione del gruppo redazionale a sei unità, allargato definitivamente anche a Fortini; il nuovo titolo, per il primo numero, di “rivista della nuova letteratura” che emblematicamente non sostituisce ma affianca il precedente “fascicolo di poesia”; la sostanziale esclusione degli ospiti esterni, con alcune eccezioni esemplari; la diversa struttura e il cambiamento delle sezioni che compongono il periodico; una gestione attenta alla presenza delle recensioni, degli “allegati”, accanto alla pubblicazione dei testi poetici). Assai interessante a questo proposito è il rilievo di Roversi, che considera il mutamento più rilevante, il passaggio a Bompiani e la relativa riorganizzazione editoriale (con la possibilità, ventilata per interessamento di Pasolini, e dopo la rottura con Longanesi, di confluire nella “corazzata” Einaudi), come «l’occasione esterna per un ripensamento e una verifica critica interna della prima serie […], che contribuì a portare in luce contraddizioni oggettive, che erano rimaste latenti al fondo della rivista»42. La ricerca di una maggiore omogeneità, di un più diretto intervento e di una ulteriore “responsabilizzazione” dei sei redattori per la formazione di un gruppo di tendenza “militante”, non si traduce in una svolta radicale che la situazione richiedeva, ma produce un complesso di vecchie e nuove contraddizioni che porte­ranno alla crisi definitiva del già precario equilibrio officinesco, insieme con alcune anticipazioni che meritano di essere esaminate.

Intendiamo dire che gli ultimi scritti di Romanò, di Scalia, di Leonetti (La struttura di una rivista, La poesia come cultura), e soprattutto di Fortini (Lukács in Italia) e di Roversi (mentre Pasolini pare più defilato in questa fase), rappresentano senza dubbio delle intuizioni problematiche. La rivista sembra investita, e tenta di registrare la nuova piattaforma culturale-metodologica che iniziava a penetrare nell’intellettualità italiana del tempo, come anche gli apporti della cultura non marxista più avanzata dei paesi capitalistici sviluppati. La presenza delle nuove metodologie che fanno irruzione nel panorama italiano: la sociologia nord-americana (importata inizialmente dalla “cultura padronale illuminata”), l’antropologia culturale, la psicoanalisi e la psichiatria; la semiologia, la linguistica, il formalismo e lo strutturalismo, che diventeranno nella stagione degli anni Sessanta le discipline egemoniche e di maggiore attrazione; l’empirismo e la filosofia neopositivista43. Il prologo alle future forme di saldatura tra il marxismo e le filosofie empiriste del linguaggio; la problematica industriale della “questione settentrionale”, che andava facendosi centrale nelle riviste che proprio allora si costituivano, dal “Verri” al “Menabò”. Si discute e si analizzano, all’interno del gruppo, lo sviluppo delle scienze umane, le problematiche legate al linguaggio e alla comunicazione (Roversi); l’apertura degli orizzonti culturali, attraverso il recupero critico di esperienze intellettuali europee o italiane fino ad allora trascurate, come le estetiche di Della Volpe, la riflessione sociologica della scuola di Francoforte, la filosofia materialista di Storia e coscienza di classe del Lukács autre di Fortini; l’interdisciplinarietà sociologica-linguistica di Barthes o di Goldmann (al centro dell’attenzione di Scalia, e anche di Leonetti e di Fortini).

Il tentativo dell’ultima “Officina” di dare una direzione attiva a queste nuove aperture ideali e metodologiche, di cercare uno sbocco critico e coerente alle istanze di opposizione morale che pure si esprimevano nei confronti delle involuzioni politiche del momento (“tradimento” della Resistenza, blocco democratico-progressista che si avviava a prendere i connotati del “centro-sinistra”, svolta della politica del PCI), si ripiega ben presto in un senso di smarrimento. In particolare, rispetto all’avanzata neocapitalistica, sfuggiva ai redattori la dimensione organica di “reazione” e di “revisionismo” politico di quegli anni (con adesioni spesso senza tenuta dialettica e vere discriminanti: Scalia; e con eccezioni esemplari: Roversi). Le istanze e la partecipazione polemica maggiormente ancorate all’attualità che si auspicavano di elaborare vengono sostituite, ancora una volta, da una politicità letterariamente mediata, in una chiave culturalistica a tratti esasperata. Si assiste ad un rilancio anacronistico (e inattivo) delle funzioni tout-court liberatrici della cultura umanistica; o dell’autonomismo del lavoro intellettuale riqualificato su nuove basi all’insegna di un riformismo tecnico-produttivo (Scalia), non più “artigianale” ma anticipatore delle future forme di separatezza intellettuale. Oppure, all’opposto, la rivista elabora la proposta di un «nuovo impegno, all’altezza della situazione»44, fondato su una solitudine orgogliosa e inquieta, su un’opposizione individuale che rifluiva quasi per necessità nell’alveo tradizionale ed esclusivo della poesia, della produzione creativa che resiste in quanto struttura categoriale privilegiata ed inglobante. Il senso di disfatta e di impotenza (Leonetti: La liquidazione; Un atto di rinuncia, 1959) con cui si vivono le trasformazioni in atto (Scalia parla in proposito del «trauma dell’intellettuale di origine contadina e piccolo-borghese di fronte all’irrompere dell’industria»)45, pare diventare l’unico collante rispetto ai contrasti ideologici sempre più aperti tra i redattori (tra Fortini e i “bolognesi”, ma anche tra Scalia e Romanò). Ed è esemplare la critica che Roversi rivolge a Scalia di riformismo e mitizzazione dell’industria, e dell’accusa opposta di «ritardo pre-industriale»46.

Qui emerge la singolarità (l’intensità) della posizione dell’autore. Roversi si farà portatore, insieme al solo Romanò, di un’istanza minoritaria, ma inequivocabile, di risentimento morale e di opposizione critica alla fase trionfale del neocapitalismo, contro le aperture indiscriminate al nuovo contesto socio-politico e culturale. Tanto da dichiarare in seguito che la crisi della rivista non andrebbe legata alla rottura con Bompiani (al celebre epigramma pasoliniano)47, e nemmeno si poteva riferire alle polemiche tra Pasolini e Sanguineti48; o al “disagio”, certamente diffuso e circolante nel gruppo, per il successo nazionale dell’autore di Ragazzi di vita (1955), che aveva agevolato l’identificazione della rivista con la sua figura49. La fine dell’esperienza di “Officina” va riportata alla «frattura, [nella nuova serie], fra chi propugnava una ricerca più accentuata nella direzione letteraria e chi “tirava” piuttosto verso i temi ideologici»50. Ne è testimonianza l’articolo roversiano più significativo del tempo, Lo scrittore in questa società(1959).

La nota in questione, come osserva Ferretti, sembra riallacciarsi alla Scheda sul “Mulino”, del 1955. Anche m questa sede, infatti, Roversi riprende il riferimento al neo-positivismo, inteso come ideologia rappresentativa della «strategia razionalmente coattiva del nuovo momento pseudo-liberale», apparato teorico del neocapitalismo. Una ideologia ufficiale che viene descritta come «moderna, irritante, sinuosa, dinamica […], capace di vantaggiosi connubi […] e di scaltra capacità di aggiornamento, per cui non esiste contraddizione, tutto si coagula in un livido, innocuo conformismo». L’autore rileva la pericolosità, per il mondo della cultura diviso, debole e ritardatario, nel contesto della «tragica involuzione delle sinistre», di

 

[…] armistizi o concordati all’apparenza non disastrosi, di collaborazioni e contaminazioni pratiche, sottoscritte dagli intellettuali con qualche leggerezza o per calcolo sottile, tramite cui il potere ha provveduto a coartare, con il controllo effettuato attraverso gii uffici-studi dei suoi organismi – banche, industrie, case di cura, case editrici, anticamere politiche – un’ideologia ufficiale.

 

Cogliendo la nuova forza egemonica, tentacolare e capillare del nuovo corso politico-economico e degli apparati ideologici che lo esprimevano:

 

Non può essere contestato, rni sembra, che la struttura della società capitalistica, come si è articolata da noi in questo ultimo decennio, avvolgendosi in contraddizioni spietate e maligne, ma sempre fissa ai propositi ultimi che non vuole né può dimenticare, consenta, con il gesto paternallstico o il gentile ricatto, uno sfruttamento che solo all’apparenza sembra liberistico; nella sostanza invece è razionalmente coattivo51.

 

Egli oppone alle “insidie” del neocapitalismo una «nuova responsabilità dell’uomo di cultura» (una «contrapposizione più consapevole, quindi più operante, più cattiva e scaltra, alla condizione attuale e agli organismi politici che la determinano»); recuperando, ancora una volta, il mito (non verificato) di un’autonomia culturale; intrinsecamente rivoluzionaria, di una “repubblica delle lettere” corporativa e separata, risentendo dei riferimenti critici che si andavano facendo sulla rivista alla figura di Vittorini e alla sua attività intellettuale, dal “Politecnico” al nascente “Menabò”. D’altra parte, l’alternativa indicata da Roversi (non a caso suffragata da una citazione da Giulio Preti sull’apertura «verso un mondo diverso che si può e si deve costruire»), pare oscillare tra la necessità di «un’attiva intransigenza, l’operare, il dubbio, la contrapposizione più consapevole»; e un atteggiamento aperto e problematico, guardingo e “scaltro”, nei confronti di ipotesi «di rapporti non mondani, ma ideologici», di «contatti organici e non tattici con i rappresentanti del pensiero borghese, con la persuasività sostanziale, con le novità e revisioni attuali dell’ideologia neo-capitalista, dei suoi sviluppi tecnologici e del processo di riflessione sociologica».

La posizione di Roversi si palesa, indubbiamente, come la voce del gruppo più critica nei confronti di questa fase “trionfante” del capitalismo in Italia: il suo secondo contributo di questo periodo, Il linguaggio della destra, che appare nell’ultimo numero della rivista (maggio-giugno 1959), affronta – a livello testuale, con un’acuta e originale indagine degli aspetti linguistici della cultura egemonica del tempo – “l’altra faccia” di un’Italia avviata a vivere la sua stagione di ottimismi neocapitalistici, cogliendo la massiccia e sottile persistenza della «vecchia destra clericale, autoritaria, repressiva, o pesantemente paternalistica»:

 

Voglio notare come il linguaggio della reazione e della convenzione si ripeta, nel tempo, congelato in una fissità monotona e disarmante. Anche oggi, leggendo i fogli quotidiani e ebdomadari o le opere di molti autori ottocenteschi, sicuramente cattolici e senz’altro minori, accade di fermarsi su un tipo di fraseggio controriformista […]. Codesto invito all’ordine ‘‘naturale”, diventa di proposito, maliziosamente, un invito paternalistico all’accettazione delle statu-quo, degli ordinamenti prestabiliti dall’alto, dunque a una noia rassegnata e non operosa, a una umiltà bugiarda, all’ipocrisia retribuita […]. Da ciò, pressoché generalizzato, quel tono perentorio, apodittico, proprio da chi parla dall’alto agli uomini abbandonati quaggiù […]. Questo integralismo è ancora tipico – senza alcuna particolare diversità di tono – della pubblicistica di parte nera, sia democristiana e più generalmente della destra legittimista (non c’è una differenza sostanziale). […] Il linguaggio è sempre cruschevole […], metaforico, intollerante; ideologicamente sopraffattorio […]: sicché gli spiriti più vigili (i pesci che vivono nelle acque profonde, secondo la metafora di Mauriac), i più sinceramente insoddisfatti […], folgorati, sgambettati, annichiliti hanno dovuto abbandonare il campo o ridursi in un angolo, dopo una avvilita resistenza52.

 

Alla fine della sua attività la rivista risultava, per il suo impianto di fondo umanistico e pre-industriale, ma anche per il mutato orizzonte politico-culturale che la investe, una esperienza a-prospettica e di terza forza, anacronistica e ritardataria: tal che la sua fine coinciderà, come è noto, con l’esplosione e il successo del Gruppo ’63. Eppure, con le parole di Romanò, si deve rilevare che l’ultima “Officina’’, nel contesto generale dell’intellettualità e degli anni in cui operò, si pose l’obiettivo di «trasferire il proprio discorso dai termini dell’analisi letteraria, sufficienti in un primo tempo a garantirle uno spazio e un significato, a quelli dell’analisi fìlosofica e sociologica come premessa di un impegno politico, di un’opera di trasformazione della società» nel presente53. Questi spunti sono chiaramente riconoscibili, lo si è visto, soprattutto nelle riflessioni di Roversi.

Per ora, riprendendo la testimonianza di Fortini, possiamo concludere l’excursus sulla rivista affermando che l’eredità di “Officina” sta nell’instaurazione sofferta e conflittuale, all’interno del mondo intellettuale italiano e dei percorsi vari e variati dei redattori, del «mai concludibile discorso sul rapporto tra azione politica e azione intellettuale e morale». Costituendo dunque un “fronte” (uno «spartiacque») e una testimonianza ideologico-letteraria decisamente alternativa alle contemporanee teorizzazioni della neoavanguardia:

 

Certamente: i fatti di Ungheria, il primo uomo nello spazio, i grandi muri di una guerra che non si faceva da una parte all’altra, i palazzi abusivi, le fabbriche abusive, le rapide speculazioni, l’arricchimento del nord lo spopolamento del sud e la grande migrazione biblica di quegli anni – magari questi fatti e problemi non ci sono con nome e cognome in “Officina”; ma la rivista è lì a dimostrare che ha fatto da spartiacque, per la sua parte, perché altri li potessero cogliere qualche chilometro a valle con maggiore rapidità e più esattezza. Naturalmente nell’ambito di una specifica ricerca. È questo un impegno, un nuovo impegno, che vorrei conteggiare a favore54.

 

Con le parole di Pasolini: «Niente dovrebbe essere più datato di “Officina”, e invece niente lo è meno»55.

 

3. Necessità di poesia. Gli esordi

 

Durante gli anni di “Officina”, l’apprendistato di Roversi si confronta e coincide con l’«esplosione e l’affermazione pubblica» di Pasolini:

 

Intanto lì dentro ho più imparato che fatto […] a parte un fare pratico che mi incombeva e un poco mi ammazzava; la ragione è che gli altri marciavano con un frenetico passo, in un caso, e nell’altro con zampate che ad ogni colpo lasciavano il segno e non finivano di stupirmi; mentre io arrancavo venendo da un forsennato e duro viaggio fuori e dentro me stesso, viaggio che non mi pareva né mi appariva ancora concluso. Imparavo liberandomi, imparavo guardando, imparavo ascoltando, imparavo anche facendo qualcosa; per conto mio ma con una violenta tensione del fare […]. Quando la rivista finì, il sottoscritto per quanto poteva era sicuramente migliore; e del lavoro speso, delle fatiche comuni – che ci furono –, deve essere grato anche agli altri, in quel momento56.

 

Nel particolare, in merito alla produzione poetica che pubblica sulla rivista57, l’autore esprimerà a più riprese un giudizio assai critico e severo, ma significativamente preciso, che ci permette di fare un passo indietro nel recupero della sua educazione giovanile (comune a quella di Pasolini e di Leonetti, grazie ad un’amicizia che partiva dai tempi della frequentazione del liceo Galvani di Bologna)58;

 

La mia poesia di allora nasceva dalla speranza che si potesse passare dall’Italia bucolica all’Italia industriale (già in atto) con violenza sì, ma senza trauma rivoluzionario. Questo favoriva la nostalgia e la lamentazione novecentesca, la sopravvivenza insomma di un’educazione precedente.

 

Dove, tra le righe, si colgono due degli elementi caratterizzanti il sostrato esistenziale e l’ideologia poetica non solo di Roversi, ma di tutto il gruppo di “Officina”: la compresenza conflittuale ed equivoca di un’educazione poetica “novecentesca” che connotava i redattori, e il tentativo contemporaneo di produrre una battaglia critica e polemica contro quella stessa tradizione letteraria; il mito, l’istanza tipicamente pre-industriale (il contrasto città-campagna, eccetera), che ricorre in tutti i testi poetici in questione (in diversi modi, il tema “bucolico” è centrale nelle prime opere poetiche, o poematiche, di Pasolini e di Volponi)59.

Prima del 1955, anno di nascita della rivista, Roversi aveva pubblicato presso l’editore antiquario Mario Landi di Bologna, delle Arti grafiche di piazza Calderini (lo stesso che in quegli anni, nel 1943, dava alle stampe le prime Poesie a Casarsa di Pasolini), le plaquettes Poesie (1942), Rime (1943: “30 esemplari”) e Umano (1944: “50 esemplari”). Vere e proprie prove di apprendistato e di tirocinio scolastico a cui seguiranno negli anni successivi, fino al 1950, altre piccole raccolte che appartengono alla “preistoria” della poesia roversiana: Omaggio ad Elena Maarcon (1946), Quattro poesie (1947), e ancora Quattro poesie (1950), mai più raccolte in volume. Dopo l’esperienza della Resistenza, che diverrà evento centrale sul piano esistenziale e politico, Roversi avvia la libreria Palmaverde (1948): comincia da questo momento un’attività di organizzazione culturale che risente del clima di fervore e del dinamismo tipico dell’immediato dopoguerra, che faranno della sua “bottega di libri” un luogo di incontri e di intensissima promozione editoriale60. Si trattava, evidentemente, di un’esperienza artigianale e provinciale da cui sarà influenzata la stessa “Officina” (la libreria sarà, tra l’altro, il luogo d’incontro tra i redattori)61. Come ricorderà Volponi, «non va dimenticato che essa [la rivista] era molto “bolognese” dentro la cultura “bolognese”, svincolata dall’asse delle decisioni importanti delia vita culturale e politica del Paese, che non era più cispadano-romano, ma iniziava a gravitare nel territorio del triangolo industriale lombardo»62. Per le “Edizioni della Libreria Antiquaria Palmaverde” appaiono in quegli anni alcuni fascicoli di una collana di “opere nuove e diverse”, “Il Circolo”, che comprenderà testi di Roversi e di Leonetti63. Nel 1954, per “I quaderni di Galleria” delle edizioni Salvatore Sciascia di Caltanisetta, vengono pubblicate le roversiane Poesie per l’amatore di stampe64. A testimonianza degli scambi e dei contatti culturali tra i poeti officineschi, vengono editi nella stessa sede i componimenti di Pasolini, Dal diario (1945-1947); Un giorno d’estate di Romanò; Arlecchinata di Leonetti. Dobbiamo retrocedere al decennio precedente per cogliere i prodromi delle interazioni e dei rapporti tra i futuri redattori.

A Bologna, nei primi anni Quaranta, «l’ultimo momento di quel fascismo: 1940-43»65, Roversi frequenta l’università assieme a Luciano Serra e Fabio Mauri (quest’ultimo sarà il “segretario editoriale”, presso Bompiani, della seconda serie di “Officina”); stringe legami di amicizia e di sodalizio letterario con Leonetti e Pasolini. Tra le lezioni di Roberto Longhi, le sollecitazioni che derivavano da Contini, viene a maturazione una “passione letteraria” segnata da un’esigenza rigorosa di «mettere ordine nel passato», di «fare prima i conti con i Padri», misurandosi con i classici italiani ed europei66.

«Non solo per l’inesperienza sentimentale, ma proprio per le circostanze esterne, ambientali [il regime], noi non avevamo altro da dire che la nostra passione letteraria», annotava Pasolini67. Di questa condizione parla lo stesso Roversi, alludendo ad una sorta di “necessità della poesia”, arma esistenziale, prima che ideologica, per fronteggiare lo “stato di attesa” nella quale era sospesa la sua generazione di «giovani nati tra il ’20 e il ’24»: tutti educati nella piccola borghesia provinciale «discreta e tranquilla»

 

[che] ha patito e dovuto sopportare nel periodo della sua prima formazione culturale tutte le possibili omissioni; non tanto la violenza di una educazione autoritaria ma la scaltra ubiquità di una calcolata reticenza, le vaste sacche di silenzio che, questo è il punto, non si potevano né circoscrivere né tantomeno riconoscere ma che producevano disagio (una insoddisfazione lacrimosa, senza identificazione, che scavava dentro a ciascuno intaccandolo solo esistenzialmente), […] Dunque: per questi giovani (per la maggior parte di questi giovani) non si può parlare di antifascismo, ma di insoddisfazione nei riguardi del fascismo inteso come potere delle istituzioni […], un’opposizione letteraria alle istituzioni letterarie del fascismo; un’opposizione all’ermetismo che era un codice ermetico del potere, dopotutto […]. Del potere, ho detto, non del fascismo. Perché un antifascismo esplicito e concreto dentro alla cultura, e tale che ne manomettesse gli archetipi e ne squilibrasse le volte maestre non c’era. […] Certamente: si coglievano in giro borbottii maldestri, angustiati con ironia, provinciali, e quasi sempre legati a schemi e a riferimenti letterari. […] In una lettera di alcuni anni dopo a Serra, Pasolini scriveva: «Da che cultura proveniamo? Mi si drizzano i capelli in testa a pensarci… L’informazione era un miscuglio di atroci dati retorici: il nulla… Lo sforzo che abbiamo dovuto fare noi per uscire da quel nulla, da quella condizione mostruosa, sembra, ora, quasi miracoloso». La sola forma di resistenza possibile all’accettazione globale di una realtà chiusa era dunque l’arte, la letteratura. Ma non come vita, secondo la mistica secca degli ermetici, a cui bastava difendersi con questa torva soddisfazione; ma come l’unico riferimento in atto, reperibile, identifìcabile e da utilizzare per rovesciarvi dentro e provarvi la discussione e l’insoddisfazione68.

Da qui parte la collaborazione a gruppi e giornali universitari come l’“Architrave” («la rivista del GUF di allora, non bene allineata, con un po’ di fronda dentro»: Roversi vi pubblica brevi saggi su poeti contemporanei, da Saba a Sandro Penna a Carlo Betocchi69); “Il Setaccio” (Pasolini ne è il redattore e l’animatore), e soprattutto l’idea-passione di una periodico letterario che verrà significativamente intitolato “Eredi”. La rivista, che ha un’importanza non trascurabile collegandola alla successiva confluenza che Roversi, Leonetti e Pasolini realizzeranno un decennio dopo70, si basa su un programma poetico ben definito, che così riassume Luciano Serra: «doveva rappresentare la continuità della poesia classica filtrata nella poesia moderna di Ungaretti, Montale, Sereni»71. Mentre Pasolini definisce la loro volontà poetica come un “arcaismo eredistico”72.

La poesia giovanile di Roversi si ispira dunque alla lezione più severa e rigorosa dei classici italiani, che funge da decantazione di possibili derivazioni ermetiche e novecentesche (la critica farà i nomi di Leopardi, Carducci, e indietro di Petrarca e Dante, con un riferimento sintomatico a Tommaso Campanella):

 

Il 1943 era un anno tremendo. Quella di Campanella mi sembrava la mia condizione. Pubblicai in trenta copie il libretto azzurro scuro delle “Rime”, dedicato appunto al frate, con un testo rubato ad altri e che io cito a mente: “a Th. C., vir qui omnia legerat / omnia meminerat / prevalidi ingenii / sed / indomabilis”. Mi è restata quella dedica come un punto fermo. Dopo, prendendo nel tempo a stampare altri libretti, la dedica al frate macigno, al frate tremendo e che splende, è rimasto come segno buono e costante, un indice propiziatorio che ha inglobato un secondo richiamo altrettanto lancinante per me; e chiamando i due richiami per nome. Infatti: a Th. Da quel frate che non dorme si è sviluppato il costante amore e l’attenzione di lettura per gli autori meridionali, per la cultura meridionale, che deve sempre    scavarsi la fossa anche per morire… per quello scrigno di tesori appannati che è la cultura oltre Roma73.

 

E altrove:

 

Dicevo che come lettore sono in qualche modo autorizzato ad accostarmi anche questa volta al grande frate, perché l’ho scoperto e letto, con affanno e passione, io giovane giovane, sotto le bombe. Autentiche bombe di guerra. […] Allora la sua voce riusciva a superare senza difficoltà l’ossessivo rumore delle bombe sventagliate sopra la città. Di volta in volta ero illeso ma la morte di ora in ora poteva sopravvenire e noi tutti eravamo inerti di fronte al fato. Solo le parole, non le pietre, mi potevano salvare. Il mondo in cui vivevo stava andando in rovina. Cosa ci restava? Ebbene, la voce ammonitrice ma sovrana del grande frate, suscitatrice di stimoli di resistenza ad ogni costo, di volontà disperata ad ogni costo, sovrastava ogni incubo e riduceva alla buona ragione (prosciugata fino alle ossa) anche la più sconquassata disperazione. In quel frangente, un libretto di rime da me pubblicato in trenta copie, è a lui dedicato. […] Così torturato e oppresso, [Campanella] continua […] ad alimentare la ragione con continue riflessioni sui grandi problemi e a scrivere […] poesie. Potenti laceranti lancinanti, di indomita resistenza, di riscossa e di speranza dentro ai più acerbi lamenti; quali dopo Dante, credo, la nostra poesia non aveva più ascoltato. […] Delle sue opere – tante andarono perdute – le prime edizioni sono straniere, soprattutto tedesche. Sempre, pare, l’Italia ha l’orecchio spento74.

 

Appare caratterizzata dall’adozione scolastica di formule e modi tipici dei tragici greci (di Omero, dei lirici tradotti da Quasimodo), dalla passione per il classicismo sette-ottocentesco, soprattutto quello di area tedesca: «i miei tedeschi degli anni primi, da Hölderlin di Diotima a Goethe narratore a Schiller a Wackenroder a Trakl»75. E ancora:

 

[…] la lingua tedesca l’avevo imparata come seconda lingua; le primissime letture che non fossero quelle scolastiche le ho fatte […] su testi di autori tedeschi: […] prima Hölderlin che Ungaretti, prima Goethe che Leopardi, prima il Rilke delle “Elegie Duinesi” che Saba […], e ci aggiungerei uno finissimo, che non vedo più ricordato, Hans Carossa; ho fatto la mia tesi su Nietzsche, andavo in Germania…76.

 

L’originario classicismo permette di individuare già in questa fase una costante delle future prove poetiche degli anni Cinquanta; l’effetto stilistico predominante, volto all’accentuazione retorica, risale ad una sorta di monumentalità eroico-tragica nella descrizione di personaggi e di stati d’animo, alla “razionalizzazione” preventiva dei mezzi retorici, alla selezione dello «strumentario offerto dalla tradizione»77:

Oh uomini scolpiti dal dolore

(Rima I)

 

Le rime mie son rivolte verso l’uomo

con l’ansia di tuono

(Rima IX)

 

Il suo, potremmo dire, è un rapporto geneticamente laico con la realtà, rivolto ad un mondo di valori terreni che non esclude una propensione etico-religiosa, un rigorismo di tipo calvinistico nella rappresentazione delle sofferenze e delle pene dell’esistenza interiore (ricorrente il senso di morte che ha fatto parlare di influssi da Manzoni e da Kierkegaard, o da Leopardi e dai vociani)78. Adombrando per questa via, nella ricerca “dura” e “petrosa” di solennità e di vigore, tra pathos ed elegia, le tragedie storiche che si stavano consumando (la guerra, la morte):

 

E questa sorte che sì m’attravaglia

(Rima II)

 

Ho arsura della vita!

Ma ormai smarrita è la mia sorte

e forte su di me verrà la morte

(Rima III)

 

Per sempre morte

e morte con eterno lamento

null’altro provo o sento

(Rima IV)

 

Non odi, Iddio Signore

lamento disperato

(Rima XVII)

 

Siamo lontani dai contenuti e dalle forme delle poesie successive: nelle quali, come vedremo, la coscienza di una frattura storica e ideale (l’esperienza della guerra, della Resistenza), permetterà a Roversi di investire con quella stessa tecnica compositiva (basata ancora su moduli scolastici, classicistici e retorici, ma già narrativi e comunicativi), non più o non solo personaggi e stati d’animo, simboli di una condizione esistenziale, ma una materia umana e un paesaggio – per lo più contadino – che via via, seguendo il processo di maturazione intellettuale, saranno definiti e caratterizzati con maggiore spessore storico e ideologico, con una più elaborata strumentazione espressiva. Così come siamo distanti, naturalmente, in questa primissima fase della sua ricerca stilistica, dal rifiuto consapevole, dalla “verifica” intorno all’ermetismo: rifiuto che sarà evidente, ancorché conflittuale e contraddittorio, intorno agli anni di “Officina”, e che porterà il tessuto espressivo e linguistico delle sue poesie al recupero deciso e organico di forme proprie della tradizione pre-novecentesca, e in particolare della poesia dell’Ottocento classicista, “civile”, non solo italiana (da Foscolo a Carducci, da Pascoli ai vociani, dai tedeschi alla lirica di Lee Masters, tradotta in Italia nel 1943 e mediata da quella di Pavese). Sul piano dei contenuti, attraverso le modalità e gli stereotipi «ostentatamente […] strapaesan[i]», di cui parla Fortini, si profilava la predilezione per «una materia che fu del “verismo”, paesi e persone, famiglie e passioni di una provincia fuori dalla storia»79, risentendo del fascino e della compostezza (del rigore) del classicismo, e mettendo in evidenza, peraltro, una dimensione espressiva ben definita e personale, costante: la forma narrativa, la volontà di racconto, la tendenza al poema tipica di un certo settore della poesia del tempo (si vedano l’assunzione di elementi didascalici e moralistici, il periodare ampio e solenne, «la serie controllata e oratoria» della sintassi)80. È, in sintesi, il sottofondo espressivo e ideale che teneva assieme le esperienze del “neo-sperimentalismo” teorizzato in quegli anni da Pasolini81: il «tono innografico, profetico»,

 

[…] il senso di un’estrema libertà stilistica, una lingua […] classicista nella sostanza, con le tangenti però della dilatazione semantica, del pastiche […], una lingua che tende ad essere abbassata tutta al livello della prosa, ossia del razionale, del logico, dello storico, con l’implicazione di una ricerca stilistica esattamente opposta a quella precedente, […] che produce una riadozione e il recupero di modi stilistici pre-novecenteschi o tradizionali nel senso corrente del termine […], rientrati […] nei confini del linguaggio razionale, comunicativo82.

 

D’altro canto, Pasolini faceva risalire al periodo precedente la “crisi”, e cioè prima del ’45, anche la formazione, nei poeti officineschi, di quello che egli chiama «lo spirito filologico che ci deriva dalla lezione continiana, […] una poetica esigenza di chiarezza scientifica, […] una inquieta presunzione di logicità», a cui per il poeta sono da collegare «la nostra antologia di poesia popolare, gli studi bibliografici di Leonetti, […] le “novelle erudite” di Roversi»83. I racconti del ’52, che confluiscono nel volume Ai tempi di re Gioacchino (frutto, tra l’altro, degli studi giovanili di Roversi sul Risorgimento italiano84), testi passati quasi inosservati dalla critica del tempo, costituiscono la prima prova letteraria dell’autore in cui si sente, se pure mediata da una calcolata e sofisticata operazione letteraria, l’eco della Resistenza, la presenza di tracce consistenti della guerra di Liberazione.

È lo stesso Roversi che, in una intervista rilasciata a Vittorini nel 1960, descrive il modo con cui quei fatti storici segnarono la sua esistenza; delinea lucidamente la particolare mistura di esaltazione e dispersione etica e culturale, psicologica, che provocò la partecipazione a quegli avvenimenti:

 

La guerra mi portò, rovinosamente, lontano. Ero senza idee e senza forza; solo, senza “maestri” e ignorante; ignorante con disperazione, e consapevole. Seguendo con rassegnazione i bandi dell’otto settembre fui in Germania con la Monterosa; poi, in Italia, finalmente, coi partigiani piemontesi. Non feci nulla; patii soltanto con tutte le torze, ma non più con rassegnazione. Ero a Savigliano, appostato col mitra, nella notte d’aprile, ed ascoltavo il passo dei tedeschi in ritirata e il canto da cruco, duro, triste, che l’accompagnava; poi a Cuneo a sfilare davanti a Parri, con tutta la gente felice, in quei giorni che sono il più bei ricordo della mia vita85.

 

L’eco e la memoria di questi momenti si fanno sentire lungo l’interà opera roversiana: dall’interesse poetico degli anni Cinquanta per il paesaggio naturale e umano, per gli eroi comuni che incarnano il destino collettivo tra il “buio fuoco della guerra” e “la nuova luce” della Resistenza (le Poesie del ’54 e le prime liriche officinesche); dalla descrizione, più avanti, di un’Italia della campagna e della provincia stravolta e corrotta da forze avvertite ancora come oscure e misteriosamente potenti (i componimenti di “Officina”, da Il margine bianco della città a Periferia); fino alla rappresentazione furente e risentita delle violenze e degli “strazi” dell’industria neo-capitalistica che distrugge e calpesta (i poemetti di Dopo Campoformio dei primi anni Sessanta). Significativamente, in un recente intervento, ripercorrendo i fatti storici e culturali, che fanno da sfondo alla sua attività letteraria nel periodo di “Officina”, egli individua con precisione l’inizio di una fase di restaurazione e di offensiva ideologica (caratterizzata dal «dominante clerico-fascismo e dall’anticomunismo grossolano e intollerante»; «dalla distruzione fisica di una generazione d’italiani compiuta attraverso le condizioni materiali di lavoro del primo decennio dopo la Liberazione»)86, proprio intorno agli anni in cui pubblicava il suo primo libro narrativo (1952), quella raccolta di racconti che poi, rielaborati, andranno a costituire il romanzo Caccia all’uomo (Mondadori, 1959)87:

 

È da qui, intorno a questo periodo, che la data (del ’45) comincerà a slittare e a diventare una “celebrazione” di cose definitivamente accadute, quindi col suo rituale, col suo livellamento a una stanca retorica e con la contemporanea perdita o discarica di passione, sia pure così conquistando un consenso, in contemporanea, più generalizzato, più allargato ma più sbiadito.

 

E ancora:

 

Cominciava a configurarsi, una celebrazione legata alla memoria dei fatti accaduti, tenuti come esemplari e da cui si poteva sdipanare in letteratura una mitologia che finirà per allinearsi, di conseguenza e in ordine, agli altri monumenti nazionali, dai Mille a Caprera88.

 

Dove si legge il riferimento indiretto alla crisi e alla decadenza della letteratura resistenziale, l’esaurirsi della poetica del documento e della cronaca della variegata narrativa neorealista, la condizione di impasse in cui si dibatteva la cultura e l’ideologia dell’engagement. È in questo contesto, dunque, che Roversi inizia la stesura delle sue “novelle erudite”, Ai tempi di re Gioacchino. Libro particolare e dalla difficile lettura critica, «nuovo caso dello stilismo dei chiosatori emiliani» (come lo definisce Pasolini recuperando una frase di Contini), «la più insolita e non neorealista opera della letteratura della Resistenza»89. Si vedano il tono alto e solenne del linguaggio, che sembra derivare dalla sua contemporanea produzione lirica; gli artifici retorici (la struttura del taccuino, del memoriale); la prevalenza, nel tessuto stilistico, dell’elemento lirico-evocativo, ma indirizzato ali’introspezione psicologica; gli arcaismi linguistici: manutengolo, pertugio, masnada, uose, froge, fracido, eccetera; la disposizione dialogica spiccatamente popolareggiante (nel dare la parola ai briganti – impersonificati da Boccone – protagonisti della ribellione sotto l’occupazione francese del Regno di Napoli – il “nemico”, generale Manhès), Una prosa in sostanza distante, impassibile, sorvegliata e accurata; un’ispirazione fondamentalmente divisa tra una tendenza realista, con il conseguente tono documentario, da memoriale; e l’iniziale propensione per un linguaggio sintetico, dinamico e narrativo:

 

Il 3 e 4 agosto toccammo Feroleto e Serrastretta e, infine, dopo essere saliti sul Montenero, giungemmo a S. Giovanni in Fiore, nella Sila boscosa, dimora sognata da troppi, mesi. Nel Neto ci bagnammo.

(p. 15)

 

Il gracidio di una sega non molto lontana; il tonfo di una secchia che a intervalli sbatte contro l’acqua del pozzo. Intanto la nebbia svanisce come un fumo leggero…

(p. 133)

 

Un’inclinazione lirica con accensioni di immagini e di squarci paesaggistici («…il vento cresceva, gli alberi si scuotevano nel buio come corpi deliranti», p. 55); un’immediatezza di tipo veristico a cui fa da controcanto un’eleganza a tratti leziosa, o levigata: «Ricordo il mattino che portò la neve. Ogni cosa si addolcì, sbiancando, e pareva protesa. La neve cadeva senza peso. Il paesaggio mutava. Tutto diventava chiaro nel silenzio» (p. 77). Un bilinguismo (un bistilismo), insomma, ancora non compatto e uniforme, irrisolto, che interessa piani verbali compresi fra una dialettalità appena dissimulata (i dialoghi tra briganti e popolani: «Filippo di Liso gridava: “Ditemi dov’è andata la carità di Dio… Guardatevi. Siamo miserabili, pezzenti, senza speranza di vita migliore… E ora pure da morti vogliono umiliarci come cani”», p. 139), e un’aulicità di media tensione: «…quelli si avvicinavano; si udiva già il rumore dei passi, si scorgeva il fiato che si disperdeva in una nebbia sottile, uscendo dalle gole affaticate. – “Lo uccideranno” – ansimava. “Caterina”, e voleva gridare…» (p. 133). Sono gli elementi più vistosi della ricerca stilistica che Roversi compie in questa opera, volgendosi a superare la prima fase della sua espressione letteraria risalente all’ante-guerra (la scelta della dimensione narrativa, dopo un tirocinio operato tutto su materiale poetico, è un riscontro assai indicativo), per avviarsi all’adozione di uno stile personale e di un linguaggio definitivamente «degradato a pura strumentalità»90. La calcolata operazione letteraria che sottende la struttura narrativa e la trama dei racconti, il sottoporre al filtro lontano dello spazio e del tempo un contenuto di coscienza recante i segni profondi della vicenda bellica (e della sua stessa esperienza in quel contesto); il recupero, per l’ambientazione degli episodi o dei bozzetti, del clima storico del primo Ottocento (del periodo dell’occupazione napoleonica nel Sud o in generale in Italia) rappresentano, pur in maniera assolutamente mediata, la prima manifestazione di un progetto stilistico ed espressivo volto al recupero, in letteratura, della storia, che si allontanasse e si distinguesse dalle poetiche neorealistiche, «puro documentario di impressioni e di scarsa epicità»91. Le vicende narrate riguardano episodi – tra realtà e finzione – che devono testimoniare, nelle intenzioni dell’autore, un esemplare catalogo per la denuncia della violenza e dell’oppressione sul popolo, in polemica con le riduzioni e le mistificazioni ottimistiche della vulgata neorealistica («…la nostra guerra è qui, tra questa miseria, questa morte e la libertà», p. 122), in un generoso e solido tentativo di “presentizzazione” della storia. Il risvolto di copertina di Caccia all’uomo, il romanzo del ’59 che rielabora quei racconti e li raccoglie in una struttura unitaria, precisa quanto in essi «covi, compresso e come inutile, sotto tutte le contraddizioni e la terribile incoscienza popolare […], un bisogno di ribellione autentica». Da questo assunto si diparte la ricostruzione della vita materiale, concreta, dei paesaggi e dei personaggi nella Calabria del primo Ottocento, operata da Roversi con una passione e un’abilità narrativo-descrittiva poco meno che scientifica (si vedano i deittici, la serie documentata dei toponimi)92. Sul piano stilistico, è evidente la tensione di correggere il sottofondo espressivo del suo apprendistato lirico (il gusto per l’idillio, per il vagheggiamento estetico ed elegiaco, per la solennità e l’“eloquenza”), e di modificare le strutture improntate all’autobiografismo statico e monumentale (è un processo che, come si vedrà, interesserà le Poesie per l’amatore di stampe, del 1954). Il varco più idoneo che si presenta al poeta per allontanarsi dal suo primo tempo letterario è di natura direttamente ideologica: la “rabbia” e la «spina di furore»93, l’interesse per l’uomo nella sua condizione storica di «pene infinite e infinite illusioni»; «una precisa passione per creature e passioni modellate dalla lotta sociale»94, che implicava l’opzione, il giudizio e lo scatto morale («era una scelta sia di campo che di vita, per me, partecipare con chi era stato calpestato, che è molto più che essere oppresso»)95. Nelle liriche che compongono la raccolta dei 1954 questa evoluzione dei contenuti si dispone ancora per il tramite della «servitù volontaria alla “letteratura”» di Roversi (Fortini)96. Una tenace letterarietà («come schermo, maschera, punto d’appoggio convenzionale») che caratterizza il tessuto espressivo e stilistico delle poesie, testimoniata soprattutto dal Libretto di appunti, posto in coda al volume, che riprende liriche composte intorno alla fine degli anni Quaranta, in forma di diario minimo e privato. Si consolida la vocazione al bozzetto, alla tecnica ritrattistica (all’“evento raccontato”), con cui Roversi investe una galleria di personaggi e di eroi anonimi a cui si riconoscono pienezza e dignità, grandezza umana e voglia di riscatto97. La raccolta, dai contenuti unitari, va a costituire una vera e propria epica popolare (Il carrettiere, Il vecchio marinaio, Rachele, In memoria di Rigoberto Smeraldi, Mara, Di una giovinetta appena morta), la cui messa in scena piega la struttura delle singole poesie all’adozione di trame narrative abbozzate (come accadeva nelle poesie di Pasolini, o nei “poemi” di Volponi), che danno frutti di fresca incisività immaginativa e verbale.

Nel campo delle scelte formali assistiamo a continui scarti interni: dal descrittivo all’affresco, dall’idillio “eclettico” (con formule ricavate dai modelli di Leopardi, Pascoli e di Lee Masters, per le frequenti poesie funebri), alla scoperta definitiva di un Ottocento italiano (europeo) mitizzante ed energico. Un classicismo narrativo e didascalico98, in generale più disposto alla scioltezza discorsiva, filtrato attraverso un sottile gusto post-ermetico (un ermetismo non “metafìsico”, ma “colloquiale” e “narrativo”, tipico di Saba, del primo Montale e del primo Caproni, o di Sandro Penna, autore preferito da Roversi nelle sue letture giovanili99):

 

Vedi

le lampare più non escono in mare

al tramonto.

 

Fino a qualche ricognizione nell’area codificata di un crepuscolarismo più ambientale che psicologico (con tangenze significative, ancora una volta, con la prima produzione di Caproni):

 

Un vecchio suonava il flauto,

tristi erano le note:

poi tacque e all’improvviso

la sinfonia del ‘Barbiere’

sprizzò nel cielo d’aprile.

(27 aprile 1947, dal Libretto di appunti)

 

Vidi un uomo azzimato,

rosso di gioia nel vento nuovo

camminare svelto verso l’osteria

sulla soglia una meretrice

molle nel corpo florido.

Fumando l’attendeva.

(20 aprile 1947)

 

Si precisano, tuttavia, le tonalità caratteristiche del poeta, lo sturm, il suo tipico umor nero, e le tematiche privilegiate; si impone il particolare personaggio roversiano, il “contadino-eroe”, specchio di una secolare emarginazione subita da masse anonime e indistinte, colto nelle sue attività quotidiane di una vita rustica e agreste; topos che si arricchirà via via, a partire dalle poesie di “Officina”, di un più risentito e consapevole consenso etico-ideologico (di tipo classista e più particolarmente nazional-popolare), di una maggiore partecipazione da parte dell’autore. E, già da queste prove, si profilava la diretta visione-denuncia del nostro paese di quegli anni: «case non ancora finite / e già in rovina». Dal punto di vista espressivo e formale, l’esito conclusivo di questa prima fase della sua ricerca poetica e stilistica è il definirsi sempre più sicuro dell’idillio “rustico” sul piano epico-tragico: una poesia che si fa inno ed epopea; i! vigore, la compattezza e la comunicatività di un linguaggio che chiude ormai alle affabulazioni liriche tipiche del “novecentismo”, alle esitazioni autobiografiche, e ripropone, invece, con un’istanza sperimentale interna alle elaborazioni officinesche, i modi e le forme rudi, elementari e narrative dell’Ottocento o del primo Novecento (da Carducci a Pascoli, dai vociani ai “protoespressionisti”, dai tedeschi a Cesare Pavese). Il tutto su un piano consapevole di fermo rigore polemico e di intransigente opposizione morale:

 

Vivevo accompagnato da una sensazione di frastuono degradante, dentro a una geografia di spacchi aperture frane; sentivo o mi pareva che tutto crollasse per cambiare, a causa di un mutamento forsennato […]: mi accorgevo di essere partecipe e complice di un preordinato sfracello. Crollava, si rovesciava la campagna […], si riempiva di polvere, si ingozzava la città stravolgendosi. Era tutto un Texas, per me, non a causa di una guerra che era già lontana […], ma perché squallida frontiera per gli avventurieri del miracolo italiano: i palazzi abusivi, le fabbriche abusive, le rapide speculazioni, l’arricchimento del nord e lo spopolamento del sud, la grande migrazione biblica di quegli anni. Ma anche così disossato come un pollo, io vivevo con una rabbia veloce nelle idee che non era però disordine; e d’altra parte ero già sicuro che non volevo vivere adagiare nel cesto delle buone intenzioni, come i gatti100.

 

Roversi opta per una poetica “rappresentativa” e civile, moralmente impegnata e inflessibile, razionale. Legata, con tutti i limiti espressivi e certe palesi ingenuità teoriche, alla storia di quegli anni. Le successive poesie pubblicate su “Officina”, ma anche gli scritti e gli interventi politico-culturali, o comunque lontani dal terreno prettamente letterario e di critica poetica, nascono indubbiamente dal “trauma”, dal nuovo corso della società italiana che si inaugura alla fine degli anni Cinquanta. Cedendo, in quei primi testi poetici (Il margine bianco della città, Il tedesco imperatore, Periferia) alla rappresentazione-celebrazione nostalgica dell’autentico e robusto mondo della campagna, della provincia italiana (in contrasto con la moderna e corrotta città), chiamato a incarnare il destino collettivo della ricerca (frustrata e tradita) di libertà e di riscatto101. Appena adombrando la consapevolezza delle profonde trasformazioni indotte dall’industria capitalistica102. Elaborando altrove, all’opposto, un’evidente tensione comunicativo-razionale, un’istanza narrativa di fondo103, a esprimere la “protesta” per un presente “disumano”, al di là degli struggenti richiami al passato:

 

Al lume di petrolio nelle stalle

o in piccole osterie, avventano

l’animo alla politica.

L’Italia è vecchia. Sognano rivolte,

il giorno del giudizio.

Parlano fino a domani.

 

Il mondo mal fatto si sta rifacendo

i ricordi sono bocconi amari,

strappano, non servono;

sapienza è sputare il passato

come un’acida cicca tra le pietre104.

 

L’esemplare passaggio di questa evoluzione ideologica e, assieme, stìlistico-espressiva, è costituito dal poemetto dei 1958, qui ancora incompiuto, Pianura Padana, in cui il discorso poetico di Roversi si fa esatta delineazione di situazioni, rapido racconto preciso e netto, tutta evidenza oggettiva (incomincia a profilarsi un procedimento strutturale caratteristico della sua poesia: il ritmo martellante e prosastico, l’ossessiva inclinazione iterativa)105. Il paesaggio attraversato dal fiume è vissuto senza più esitazioni idilliche e nostalgiche, ma come sede (e metafora) della storia italiana recente, delle speranze e delle delusioni contadine:

 

Li morde una volontà di restare

non di fuggire,

mortificata la violenza

nella pazienza adunano la speranza

per i giorni a venire

anche il pianto ora è vecchio,

inutile:

tutto da incominciare.

 

Il riferimento finale alla tragedia dell’alluvione del Polesine (1951), unica testimonianza lirica dei tempo, dopo un climax espressivo e del ritmo narrativo che corrisponde alla violenza del corso dell’acqua106, è il paradigma della volontà di una denuncia contro-corrente del nascente “miracolo italiano”: «questi mutamenti epocali stabilivano la fine di una civiltà dentro alla quale anch’io ero nato e che non si sarebbe più ricomposta»107. Non è un caso che il componimento sarà pubblicato sul numero 2 de “Il Menabò”, con i testi che andranno a formare La raccolta del fieno, e soprattutto con una Notizia su Roberto Roversi stesa da Elio Vittorini, che testimonia della definitiva “apertura al presente” del poeta:

 

La raccolta del fieno è già, per me, una piccola personale finestra aperta, direttamente, su quel mondo che cercherò in seguito di intendere ancora meglio e di partecipare con più coordinazione in Dopo Campoformio [1962-1965]. […] Il dopoguerra finiva, era finito rapidamente, nei suoi necessari entusiasmi, nelle sue ultime violenze e si metteva in moto una diversa violenza, torbida e costante, inesorabile; meno manifesta ma atroce perché non lasciava scampo… dato che era finalizzata a compiere uno sterminio da anno zero contro la civiltà, il mondo, la cultura contadina. Il grande paesaggio padano spolpato ogni giorno di qualcosa; masticato, aggredito, vomitato, sconciato, sopraffatto; macchina fredda di ferro per produrre soldi, senza più acque e ciclo. In brevissimo tempo fu spazzato via, al riparo da un’indifferenza quasi generale, un mondo che rappresentava l’unica montagna contro l’invadenza del nuovo capitalismo. Arraffone spietato e cialtrone. Non ci fu pietà per nessuno. Alla fine restarono solo le ruote di carri, gli alari dei camini e i gioghi dei buoi appesi nei musei-cimiteri allestiti in fretta per raccogliere le spoglie ramazzate sul campo di battaglia. […] Sembrava un film di Ford, con il settimo cavalleria, quando gli eroi superstiti si aggiravano fra i morti indiani e fra i carri che ancora bruciavano. […] Chi vince e opprime con la prepotenza versa sempre, dopo i genocidi, queste lacrime di coccodrillo. Tutto sta a non lasciarsi incastrare, almeno nei sentimenti…108.

 

La prima fase della sua attività, rispetto a cui, in diverse circostanze, lo stesso Roversi esprimerà giudizi severi rivolti alla sottolineatura dell’immaturità e del ritardo complessivo m cui era calato, si chiude con la consapevolezza che fosse necessario (urgente) un diverso atteggiamento verso il reale, per affrontare un contesto profondamente mutato come quello degli anni Sessanta109:

 

[la mia ricerca] si svolgeva allora con una fatica inquieta e abbastanza maldestra, perché ero ancora (e molto) impacciato vorrei dire da una bieca limitatezza d’orizzonte […]; mi sembrava, ed era in realtà, di dover uscire da un bozzolo, col sacrificio della pelle; o da una prigione […]; e che la letteratura non servisse, non servisse a nulla, non aiutasse affatto questa “transumanza” compiuta in solitudine. Ne avevo dunque fastidio, una nausea curiosa, mentre era il pungolo delle sollecitazioni politiche che mi serviva, frustrandomi, per farmi sollevare da tutta quella biacca – e da una insoddisfazione che non mi rendeva lieta la vita110.

 

Note

 

1 La rivista, “fascicolo bimestrale di poesia” (come recita il retro di copertina), viene stampata a Bologna: comprende per la sua prima serie (dal maggio del 1955 all’aprile 1958), dodici numeri; la seconda “Officina” vive fino al 1959, con la pubblicazione di due fascicoli. Il formato: mm 215x140; 40 pagine per 300 lire. Il responsabile ai sensi di legge è Otello Masetti; l’amministrazione e il finanziamento sono affidati, per tutta la I serie, alla Libreria Palmaverde di Roversi; la periodicità è irregolare.

2 Cfr. come utile orientamento divulgativo, tra gli altri, Giampiero Carocci, Storia d’italia dall’Unita ad oggi, Feltrinelli, Milano, 1975 (per i capitoli XXXVI, La ricostruzione capitalistica e il “miracolo economico”; XXXVII, L’Italia del centrosinistra), pp. 337-364.

3 Ci riferiamo, in particolare, al grande seguito di discussioni e di interventi che suscitò, a partire dalla metà degli anni Settanta, la pubblicazione del volume di Gian Carlo Ferretti sulla rivista: Officina. Cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta, Einaudi, Torino, 1975. Il volume, frutto del lavoro meritorio di Ferretti, studioso attento ai processi dell’intellettualità italiana dal dopoguerra ad oggi, contava di un articolato saggio introduttivo (che seguiremo, nella ricostruzione delle vicende officinesche), di lettere o documenti inediti e, soprattutto, di numerosi allegati originali, una serie di testimonianze preziose rese dagli allora redattori nel 1973-74. Per le discussioni originate dalla pubblicazione del volume, si vedano Il dibattito su Officina, con gli interventi di Leonetti, Fortini, Guido Guglielmi, Volponi e lo stesso Ferretti, in “Aut Aut”, n. 151, 1976, pp. 73-90; i saggi di Ottavio Cecchi, Officina e storicismo, in “Il Ponte”, a. XXXI, nn. 11-12, 1975, pp. 1483-1499; Alfredo De Paz, Officina vent’anni dopo (discussione con G. Scalia, B.. Roversi e P. Bonfiglioli), “Il Foglio”, 16 luglio 1975; Paolo Volponi, “Officina” prima dell’industria, in “Belfagor”, XXX, n. 6, novembre 1975; Roberto Di Marco, “Paragrafi materialistici su Officina e oggi, “ Il Ponte”, a. XXXI, n. 10, 1975, pp. 1185-1201; Roberto Roversi, Gli anni di Officina, “L’Unità”, 21 aprile 1974; Sergio Pautasso, L’alternativa di Officina, in “Rendiconti”, nn. 29-30, gennaio 1977, pp. 309-313. Ora la rivista è disponibile, con una ristampa anastatica della serie completa, in un volume delie Edizioni Pendragon, Officina, Bologna, 1993.

4 Per questo aspetto, ma un po’ per tutto l’inquadramento politico-culturale del periodo, si veda, di Arcangelo Leone De Castris, L’anima e la classe. Ideologie letterarie degli anni Sessanta, De Donato, Bari, 1972, pp. 20 e sgg.

5 Ivi, p. 26.

6 Ivi, p. 27.

7 Sulla neoavanguardia si veda, per tutti, Roberto Esposito, Ideologie della neoavanguardia, Liguori, Napoli, 1976; Lucio Vetri, Letteratura e caos. Poetiche della “neoavanguardia” italiana degli anni Sessanta, Mursia, Milano, 1992; Renato Barilli, La neoavanguardia italiana, Il Mulino, Bologna, 1995; Maria Corti, Neoavanguardia, in id., Il viaggio testuale, Einaudi, Torino, 1978 (pp. 118-130); Angelo Guglielmi, R. Barilli, Gruppo 63. Critica e teoria, Feltrinelli, Milano, 1976; Edoardo Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano, n. e., 2001; Fausto Curi, La poesia italiana d’avanguardia, Liguori, Napoli, 2001; Umberto Eco, «Il Gruppo ’63, lo sperimentalismo e l’avanguardia», in id., Sugli specchi e altri saggi, Bompiani, Milano, (1986), 1990, pp. 93-104.

8 G. C. Ferretti, Officina, cit., p. 112. Si rinvia all’intervista di R. Roversi, in appendice al presente saggio, in cui si ribadisce: «Nella neoavanguardia non c’è alcun riferimento alla guerra. […] Quelli di “Officina”, come me, erano usciti tutti da lì, l’avevano fatta, […] avevano subito dei lutti, delle perdite. All’interno della rivista le rovine della guerra erano evidenti, ci si muoveva tra i calcinacci. Il Gruppo ’63 si muoveva invece in un albergo con le camere ben riscaldate, i lampadari accesi, la televisione. Non è un fatto solo generazionale. […] Direi che molte polemiche e qualche risultato letterario del Gruppo ’63 sono stati positivi. […] Ciò che non accettavo era il loro “smanazzare”, quell’agitarsi violento sul tavolo della letteratura, con l’intento di buttare tutto per terra. In una frana ci sono le pietre che cadono, ma anche il polverone che può offuscare la visione della realtà».

9 Si vedano, per questo punto, di Marco Forti, Officina e gli anni Cinquanta, in “Paragone-Letteratura”, 1975; di Giuseppe Muraca, Da Il Politecnico a Linea d’ombra, Lalli, Poggibonsi, 1990: di Angelo Romanò, Discorso degli anni Cinquanta, Mondadori, Milano, 1965, e di Mario Sechi, La figura del corvo. Percorsi letterari degli anni Cinquanta, Liguori, Napoli, 1990.

10 In questa prima parte indugeremo e ci soffermeremo anche a lungo (seppure schematicamente sulla composizione della rivista. Per due motivi sostanziali: perché l’elaborazione teorica espressa dal gruppo condiziona, come è ovvio, la poesia e la maturazione intellettuale di Roversi (sul piano ideologico e strettamente stilistico: dalle ricerche intorno al Novecento letterario italiano fino alla questione del rapporto tra “poesia” e “storia”, dell’impegno “civico” e poetico); e in quanto, all’interno di una ormai vasta bibliografia sull’argomento, manca una ricognizione sul contributo che il poeta fu effettivamente capace di offrire alla rivista. Analizzando soprattutto gli ultimi numeri di “Officina”, si vedrà come Roversi smentisca la vulgata che vuole la sua presenza nel gruppo legata ad un lavoro “oscuro” di redazione, all’ombra delle voci più incisive e acute (Fortini, Pasolini), e si imponga invece con interventi degni di nota, che avranno decise ripercussioni nel prosieguo della sua attività ideologico-letteraria.

11 Per un’analisi dei periodico e del dibattilo del tempo si rimanda a M. Sechi, Critica marxista, realismo e politica culturale, in Aa. Vv., a cura di A. L. de Castris, Critica politica e ideologia letteraria, De Donato, Bari, 1973 (pp. 93-133).

12 Pier Paolo Pasolini, Il neosperimentalismo, in “Officina’’, n. 5. febbraio 1956 (poi in Id., Passione e ideologia, Garzanti, Milano, 1960), ma anche in G. C. Ferretti, Officina, cit., pp. 215-216. D’ora in avanti, per tutti i riferimenti alla rivista, si rimanda agli estratti raccolti nei volume dello stesso Ferretti.

13 A. Romanò, in G. C. Ferretti, op. cit., pp. 24 e sgg.

14 Franco Fortini, Precisazioni (1962), in Id., Verifica dei poteri, Einaudi, Torino, (1965), 1989, pp. 27 e sgg.

15 «Nelle pagine di “Officina” c’era il Gramsci delle Lettere dal carcere e di Letteratura e vita nazionale, e non Marx; c’era “La Voce” letteraria (contestata o meno), e non quella degli interessi politici e sociali; non e’erano le riviste di Gobetti né un discorso di fondo sul fascismo»: R. Roversi, in G. C. Ferretti, op. cit., p. 77.

16 F. Fortini, Precisazioni, cit., p. 28.

17 Cfr. la scheda di Leonetti e di Roversi, sui “Gettoni’’ einaudiani, Digressione per i Gettoni, in “Officina”, n. 4, dicembre 1955: si esaminano «[il filone letterario] interiore, della memoria e della recherche proustiana, del ritrovamento di una “durata” o di una ragione – nel tempo perduto; oppure dell’atroce metamorfosi e della tana di Kafka, del misterioso castello; oppure della precisa esasperazione trascrittiva della corrente segreta (Joyce): con la limitazione, per esso, che la vita intima più non conclude, abortisce, come argomento», ora in G. C. Ferretti, op. cit., pp. 211-212.

18 «Lì abbiamo avuto difficilmente, se guardate le tappe, il tentativo di verificare se era possibile o se era fattibile il riferimento a Gramsci, se avendo Gramsci dietro si potesse fare un’operazione letteraria che facesse saltare la poesia del Novecento, la letteratura del Novecento. Quale era allora la situazione? Lo sapete tutti bene se guardate le date; sono di una certa importanza. L’edizione di Gramsci è in corso, ma solo nel ’72 esce il Gramsci dirigente politico; fino ad allora di Gramsci ci sono gli scritti sui problemi culturali […], che sono idealistici, l’anti-Croce compreso… […]. Chi lo poteva capire allora, non si sa; proprio perché il riferimento a Gramsci era qualcosa di inedito e di smontante, utilmente in parte. Ecco perché “Officina” non è priva di senso. È chiaro che in quel periodo il riferimento a Gramsci era tutto gestito sul chiodo mistificato», Francesco Leonetti, Il dibattito su Officina, in “Aut Aut”, 1976, cit., p. 83.

19 Gianni Scalia, in G. C. Ferretti, op. cit., p. 13.

20 R. Roversi, in G. C. Ferretti, op. cit., p. 13.

21 Cfr. Donatella Marchi, Officina (a cura di D. Marchi e Katia Migliori), con una Presentazione di Roberto Roversi, Edizioni dell’Ateneo, Bologna, 1979, pp. 21 e sgg.

22 Sono, come è noto, i “maestri in ombra” del Novecento indicati da Pasolini. Su Jahier si veda un successivo intervento di Roversi (in “Paragone-Letteratura”, ottobre 1965), nel quale si mette in risalto, del poeta, «la sua fisionomia democratica, la sua tensione didascalica […], il suo fervore pedagogico, da ape operaia, il suo impegno di vita piuttosto che un progetto letterario», p. 107; sulla figura di Clemente Rebora: R. Roversi, Nota su Rebora, in “Paragone-Letteratura”, aprile 1966, pp. 90-93.

23 «Tipica è la tempesta in un bicchier d’acqua scatenata nel secondo numero; Scalia passava in esame la rivista fiorentina “La Chimera”, esponente del “campo avversario” dell’ermetismo, con osservazioni critiche in coda per Mario Luzi. Più o meno allo stesso tempo, Pasolini scriveva al poeta toscano invitandolo a collaborare a “Officina”. Il 16 novembre Luzi rispose, chiedendo se non sembrasse un “evidente paradosso” offrirgli una “finestra” sulle stesse pagine da cui era stato criticato. La replica di Pasolini non è nota, ma sul quarto numero di “Officina” apparve una composizione di Luzi, Conversazione durante il viaggio», Barth David Schwartz, Pasolini Requiem, Marsilio, Venezia, 1995, p. 438.

24 Il riferimento è soprattutto al Gadda del Libro delle furie I, II, III e IV (poi Eros e Priapo), pubblicato sulla rivista dal n. 1 del maggio 1955 al n. 5 del febbraio 1956 (la serie degli “episodi” salta solo in occasione del n. 4, 1955, e si provvede a rimpiazzare gli inediti di Gadda con una sua Lettera 1940: a livello grafico, gli interventi dell’autore sono evidenziati con un tipo diverso di caratteri).

25 R. Roversi, in G. C. Ferretti, op. cit., p. 36.

26 Sul romanzo (pubblicato sulla rivista, a caratteri microscopici, tra il 1957 e il ’58) e sulle sue difficoltà di gestazione, si veda, tra gli altri, ii volume di Domenico Scarpa, Italo Calvino, Bruno Mondadori, Milano, 1999, alla voce Romanzo, pp. 214-215.

27 R. Roversi, Scheda su Momenti, in “Officina”, n. 2, 1955, pp. 77-78: il contributo non è incluso nell’antologia redatta da Ferretti.

28 B. D. Schwartz, Pasolini Requiem, cit., pp. 434-435.

29 R. Roversi, «I giovani di Vidiciatico», in Mario Ricci, Pasolini e il “Setaccio”. 1942/1943, Cappelli, Bologna, 1977, con due note di Roversi e di G. Scalia (corsivo dell’autore).

30 Cfr. la scheda di F. Leonetti, Il decadentismo come problema contemporaneo, in “Officina”, n. 6, aprile 1956, ad apertura del fascicolo.

31 P. P. Pasolini, Il neosperimentalismo, in “Officina”, n, 5, febbraio 1956.

32Cfr. la scheda di Leonetti e Roversi, già citata, Digressione per i Gettoni (1955).

33 F. Fortini, in G. C. Ferretti, op. cit., p. 464.

34 Sono i termini (la “ricerca di una terza via”, il rifiuto dell’alternativa tra ermetismo e neorealismo, eccetera) che contrassegnavano, come è noto, i discorsi coevi intrapresi dalla rivista del salentino Vittorio Bodini, “L’esperienza poetica” (1954-1956), per la quale si veda, di Gianni Scalia, la relativa Scheda, in “Officina”, n. 1, 1955 (per un inquadramento più organico, cfr. Donato Valli, in id., Cento anni di vita letteraria nel Salento 1860-1960, Milella, Lecce, 1985, pp. 133-164). Sono conosciuti i contatti tra Bodini, Pasolini e i singoli redanori officineschi: si attende alla ricostruzione documentata delle testimonianze scritte e del loro epistolario, del loro carteggio, per il quale si può consultare l’Archivio Vittorio Bodini, custodito presso la Biblioteca Interfacoltà dell’Università degli Studi di Lecce, con l’inventario a cura di Paola Cagiano de Azevedo, Margherita Martelli e Rita Notarianni, Archivio dello Stato, 1992.

35 Cfr. Romano Luperini, Il Novecento, Loescher, Torino, 1984, t. II, pp. 727 e sgg.

36 R. Roversi, Il mestiere di scrittore. Conversazioni critiche, a cura di Ferdinando Camon, Milano, Garzanti, 1973, p. 164 (corsivo dell’autore). A proposito della presenza, nella rivista, di un anti-posizionalismo di ascendenza pasoliniana, Fortini parlerà del «caratteristico ed ambiguo “impegno” officinesco, disimpegnato dalle forze politiche e reali. […] Un’operosità letteraria che tende a considerare inalterabili gli attuali rapporti sociali» (cfr. Id., in Verifica dei poteri, cit., pp. 28 e sgg.).

37 «In fondo l’italianismo, il piccolo limbo letterario […] era tutto dovuto a quel che era la cultura italiana di quel periodo, quella almeno intorno a “Officina”: una cultura di estrazione rurale, che non aveva ancora letto l’economia o la sociologia, che non aveva risolto i suoi contatti con la cultura europea, che non sapeva intervenire sulla nuova realtà italiana, molto dinamica a tutti i livelli, in quegli anni dello sviluppo industriale», P. Volponi, “Officina” prima dell’industria, in “Belfagor”, XXX, n. 6, novembre 1975, p. 723.

38 Si veda, come testimonianza preziosa del periodo, il volume curato da Giuseppe Vacca, Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956. Un’antologia di scritti del Contemporaneo, Rinascita-Editori Riuniti, Roma, 1978. Ma anche, di Alberto Asor Rosa, Intellettuali e classe operaia, Einaudi, Torino, 1988; m. sechi, La figura del corvo, cit.; a cura di A. L. de Castris, Aa. Vv., Critica politica e ideologia letteraria. Dall’estetica del realismo alla scienza sociale 1945-1970, De Donato, Bari, 1973.

39 R. Roversi, Scheda su Il Mulino, “Officina”, n. 3, 1955, pp. 111-112, ora in G. C. Ferretti, op. cit., p. 185. La rivista, storica esperienza del liberalismo “illuminato”, attiva ancora oggi, contava tra i propri collaboratori Gino Giugni ed Ezio Raimondi; il direttore era Pier Luigi Contessi.

40 R. Roversi, in G. C. Ferretti, op. cit., p. 77.

41 «Particolarmente accadde che il più bravo allora, Pasolini, […] oppose a Gramsci le sue buie viscere [sic], quello che si doveva opporre a Gramsci era tutt’altro, era il rigore di classe, era la posizione di materialismo storico-dialettico. E quindi su quelle viscere che erano mistiche e religiose, la borghesia si è trovata d’accordo. Questa è una cosa in cui Roversi ha ragione», F. Leonetti, Il dibattito su Officina, in “Aut Aut”, 1976, cit., p. 83.

42 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 167.

43 L’empirisrno è, in quegli anni, al centro di una verifica in campo marxista nei saggi di Giulio Preti, Praxis ed empirismo, del 1957; Cesare Cases, Marxismo e neopositivismo, 1958: sulla rivista manca qualsiasi riferimento a questi lavori.

44 Così Francesco Leonetti, nel suo articolo La struttura di una rivista, in “Officina”, n.s., n. 1, 1959 (pp. 13-16, ora in G. C. Ferretti, op. cit., p. 371): «In che cosa consiste ora il “nuovo impegno” non lo sappiamo già; a mio avviso si può supporre, semplicemente, che risponda al proposito di una letteratura di opposizione, e che sia la scelta di un ethos (invece che la diretta scelta di una politica); nella convinzione che la letteratura è liberamente in rapporto con 1’ethos: con cui è, per altro verso, in ugual rapporto problematico con la politica» (corsivi dell’autore).

45 G. Scalia, in G. C. Ferretti, op. cit., p. 101.

46 Ibidem.

47 Cfr. P. P. Pasolini, A un papa, in Id., Umiliato e offeso (epigrammi), ‘‘Officina”, n.s., n. 1, marzo-aprile 1959, pp. 36-39 (ora in G. C. Ferretti, op. cit., pp. 375-377).

48 Cfr. di quest’ultimo, Una polemica in prosa, in risposta a Pasolini, “Officina”, n. 11, novembre 1957, in G. C. Ferretti, op. cit., pp. 327-339.

49 Cfr. R. Roversi, Conversazione in atto, in “Lengua”, n. 10, 1990, p. 48: «Non bisogna  dimenticare, perché anche questo è determinante, che Pasolini, con il passare dei giorni, assumeva sempre più rilievo nazionale: questo squilibrava il lavoro di fondo della rivista… l’ordine del proprio lavoro… che tendeva a diventare non più una rivista con Pasolini, ma la rivista di Pasolini. Le collaborazioni alte passavano attraverso di lui». L’ipoteca di cui parla Roversi è attiva, ci pare, ancora oggi: «L’esordio della rivista ha coinciso con l’esplosione e l’afferinazione di Pasolini. Questo fatto […] ha scompaginato le carte nel nostro lavoro (dentro alla rivista e intorno ad essa, in quel tempo) e ha prodotto un certo coaugulo nel modo come “Officina” viene consumata adesso dai critici e dai lettori “postumi” – se ci sono: si vede, cioè si legge “Officina” tramite Pasolini; Pasolini è stato, ed era, la personalità più rilevante, senza dubbio, ma tuttavia questa “angolazione” di lettura è un modo, non dico irregolare, ma parziale – se si vuole, naturalmente, arrivare a intendere tutti i problemi teorici e sfiorati da “Officina” stessa e non fermarsi ai palinsesti di un unico e noto scrittore», R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 166 (corsivi dell’autore).

50 «Così via via si era anche creato (o determinato) non vorrei dire tanto un dissenso quanto un disagio politico (ideologico) fra noi», R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 167 (corsivo dell’autore).

51 R. Roversi, Lo scrittore in questa società, ora in G. C. Ferretti, op. cit., pp. 372-374 (p. 372).

52 R. Roversi, Il linguaggio della destra, “Officina”, n.s., n. 2, maggio-giugno 1959 (contributo non incluso nell’antologia di Ferretti), pp. 57-62.

53 A. Romanò, “Tre lustri dopo”, in G. C. Ferretti, op. cit., p. 475.

54 R. Roversi, «Mi ricordo questo futuro», in G. C. Ferretti, op. cit., p. 478 (corsivo dell’autore). A questo proposito, riprendendo un discorso dello stesso Fortini, è essenziale registrare le «discriminazioni ideologiche, politiche e letterarie che si impongono all’intellettuale italiano fra il 1956 e il 1959», e che provocheranno, nei percorsi dei redattori officineschi, una sostanziale autonomia nell’affrontare le stagioni successive. Ma l’eredità di “Officina”, apparentemente dispersa (Ferretti parla, a questo proposito, di «sei strade divergenti», riferendosi a Fortini, Roversi, Leonetti, Pasolini, Scalia, Romano), pure torna negli anni Sessanta, come vedremo, in quanto riferimento ideale delle rispettive esperienze ideologiche e più strettamente letterarie, tra “abiure” e rilanci. Ma cfr. infra, nota 23, p. 87. E, in tempi più recenti, le testimonianze raccolte in P. Volponi e F. Leonetti, Il leone e la volpe. Dialogo nell’inverno 1994, Einaudi, Torino, 1995; e in F. Leonetti, La vita e gli limici (in pezzi), Manni, Lecce, 1992 (ora l’autobiografia, ampliata e aggiornata, è stata ripubblicata con DeriveApprodi: Id., La voce del corvo. Percorso di vita 1945-2000, Roma, 2001).

55 P. P. Pasolini, “Una rivista polivalente”, in G. C. Ferretti, op. cit., p. 472. E concludeva: «[…] sono i destini particolari e singoli [dei redattori della rivista] che, ripeto, integrano il suo quadro laconico, enigmatico e imperfetto, anche se tanto degno di lode», p. 473.

56 R. Roversi, in G. C. Ferretti, Officina, cit., pp. 477-478.

57 In ordine cronologico: Il margine bianco delle città (Oltre le vecchie mura), Il cavallo, Domenica sul Po, Golden Smoked Herrings: n. 1, maggio 1955; Il tedesco imperatore, Periferia I, II, III, IV, V, IV: n. 6, aprile 1956; La raccolta del fieno: nn. 9-10, giugno 1957; Pianura padana I: n. 12, aprile 1958.

58 Leonetti parla al proposito di un terreno letterario e di letture connotato più da un’educazione classica che da una consapevolezza contemporaneistica: «Roversi e io venivamo dai classici letterari del Settecento e Ottocento», in G. C. Ferretti, op. cit., p. 468.

59 Si veda, in particolare, l’insistenza del tema che percorre le raccolte di Pasolini, da Le ceneri di Gramsci, 1957, a La religione del mio tempo, 1961; Le porte dell’Appennino, 1960, di Volponi (con due componimenti pubblicati su “Officina”: La vita, n. 5. febbraio 1956; Le catene d’oro, n. 8, gennaio 1957).

60 Si rinvia all’intervista di Roversi con Gianni D’Elia, Conversazioni in atto, in “Lengua”, n. 10, 1990, pp. 24 e sgg., dove si ricostruisce «[…] il clima di quei primi eventi, di quei contatti dentro ai quali, in quegli anni furiosi e squillanti, la mia esperienza di lavoro è cominciata. Un po’ per caso, un po’ con parecchia immaginazione» (pp. 24-25).

61 «Quella bottega di libri […] ha un’importanza che va oltre il sodalizio Roversi-Leonetti, perché ha dato vita, dal 1954, alla rivista “Officina”, e in vita l’ha tenuta, come base anche di Pasolini e di Romanò, fino al ’58»: Elio Vittorini, Notizia su Roberto Roversi, in “Il Menabò”, n. 2, 1960.

62 P. Volponi, “Officina” prima dell’industria, cit., p. 723.

63 Nella stessa collana promossa dalla Libreria Palmaverde vengono pubblicati la prima copia leonettiana de La cantica, dal titolo Antiporta. Manoscritto di un giovane, e i suoi Poemi; di Roversi, i racconti Ai tempi di re Gioacchino, che confluiranno, successivamente elaborati, nel romanzo del 1959 Caccia all’uomo (La Medusa. A. Mondadori); un’opera di Luigi Bartolini. Il pittore e poeta marchigiano è al centro dell’attenzione di Roversi e di Pasolini sin dai tempi bolognesi de “Il Setaccio” e di “Architrave” (si veda, di Pasolini, l’articolo “Umori” di Bartolini, in “Architrave”, n. 7, maggio 1942, p. 6: ora in M. Ricci, Pasolini e il “Setaccio”, Cappelli, Bologna, 1977).

64 Si tratta dell’editore che pubblicava nello stesso periodo la rivista “Galleria”, per la quale si veda la Scheda di Roversi, in “Officina”, n. 3, settembre 1955, non raccolta nel volume di Ferretti: «A noi pare che ora “Galleria” si rafforzi come “centro” di un gruppo di giovani scrittori meridionali, e dunque acquisti il mordente di un intervento attivo nella nuova letteratura. […] Occorre che anche svolga un proprio discorso critico: solo così può contribuire alla chiarezza, pp. 105-106. La rivista e i Quaderni di Galleria erano co-diretti allora da Leonardo Sciascia: l’autore siciliano sarà, con Calvino e Vittorio Sereni, una presenza ricorrente, interlocutore costante nella vicenda intellettuale di Roversi (oltre che su “Officina” lo ritroveremo con interventi e note su “Rendiconti”, per tutti gli anni Sessanta).

65 R. Roversi, I giovani di Vidiciatico, in M. Ricci (a cura di), Pasolini e il “Setaccio”, con due note di G. Scalia e di R. Roversi, cit., p. 177 (corsivo dell’autore). E si veda anche il volume collettaneo, a cura di G. Scalia e Davide Ferrari, Pier Paolo Pasolini e Bologna, Pendragon, Bologna, 1998, nel quale si ricostruiscono gli anni bolognesi della formazione del poeta.

66 Si legga una testimonianza di Pasolini, riportata nell’introduzione di Nico Naldini a P. P. Pasolini, Un paese di temporali e di primule, Parma, Guanda, 1993: «Longhi era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo silenzio era una completa novità. La sua curiosità non aveva modelli… Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione». E sull’attività di critica d’arte espressa sulle riviste bolognesi del periodo, che evidenrernfure segnò la cultura giovanile e l’“apprendistato” di Roversi e Pasolini: «L’influenza determinante di scelte così ponderate, e fino a un certo punto organiche in materia d’arte, credo derivasse in primo luogo dalla lezione di Longhi, e non soltanto per l’autorità che egli esprimeva nell’ambito accademico ma piuttosto per le posizioni non conformiste che via via si andavano manifestando attraverso la sua opera, attenta alla ricognizione filologica dei passato non meno che ai “segni” premonitori della nuova realtà artistica», M. Ricci, «Testimonianza su Pasolini e il “Setaccio”», in Pasolini e il “Setaccio”, cit., p, 10. La decisione del titolo della rivista, Officina, si deve tra l’altro alla volontà di rendere omaggio al “maestro”, autore nel 1934 della famosa Officina ferrarese. Ma, per quanto riguarda Roversi, è necessario ricordare la sua assidua frequentazione, i rapporti intessuti, per tutti gli anni Quaranta, con Antonio Meluschi e con sua moglie, Renata Viganò, negli ambienti strettamente legati all’antifascismo politico-culturale della Resistenza e dell’immediato dopoguerra.

67 P. P. Pasolini, La posizione, in “Officina”, n. 6, aprile 1956, p. 245 (ora in G. C. Ferretti, op. cit., p. 242): «Circa dal ’40 al ’42, a Bologna, ci eravamo riuniti “ in un gruppo di ragazzi, tra il Liceo e l’Università […]. La libertà, nel senso politico, andava per noi – inconsciamente – ricercata in varianti più originarie e impegnanti di quella moralità obbligata e ormai ufficiale: non sapevamo ancora che cosa fosse l’antifascismo (era questione di pochi mesi: ed eravamo adolescenti), e l’avversione al fascismo che era in noi implicita si manifestava così in assurde e ideali esigenze moralistiche».

68 R. Roversi, in M. Ricci, op. cit., pp. 178-179 (corsivi dell’autore). I giovani, l’attesa, s’intitolava un articolo di Pasolini apparso sul “Setaccio” nel novembre del 1942, a. III, n. 1: «Abbandonata senz’altro la facile pompa di una giovinezza intesa come gagliarda o fresca prepotenza, ci ritroveremo dispersi ed umili, in mezzo alla folla che ci soverchia. Coscienti […], non abbiamo nemmeno timore di ammettere l’impotenza, o, almeno, l’acerbità, di questo nostro stato d’attesa. […] Come si è visto non abbiamo proprio niente contro cui batterci, contro cui rivoltare le nostre armi o la nostra gazzarra. Non chiediamo altro, a noi stessi, che di essere dolorosamente coerenti alla nostra attesa, e, agli altri, di non umiliarci nei nostri altissimi impegni», ora in M. Ricci, op. cit., pp. 49-52.

69 Cfr. R. Roversi, in “Lengua”, cit., p. 27.

70 Naldini parla di “Eredi” come «esperienza preparatoria e comunque anticipatrice per molti versi di “Officina”», in Id., Pasolini, una vita, Torino, Einaudi, 1989 p. 30.

71 L. Serra, introduzione a Pier Paolo Pasolini. Lettere agli amici (1941-1945), Guanda, Parma, 1976, p. XV.

72 «Quanto alla letteratura […]: adesione a un novecentismo che ci determinava – in qualità di iniziati e fiduciosi –: sì che anche qui il latente antinovecentismo consisteva analogamente [all’antifascismo], in una ricerca di “varianti più originarie e impegnanti” di quella convenzione stilistica (ermetica), con immissioni, ancora, di istanze moralisriche e vagamente religiose», P. P. Pasolini, La posizione(1956), in “Officina”, cit. «“Eredi” seguiva la formula resa classica da un secolo di piccole riviste in Italia: contributi dai fondatori e dai loro amici, prese di posizione sulle politiche culturali e le inevitabili repliche, dibattiti, un misto di erudizione e polemica», B. D. Schwartz, Pasolini Requiem, cit., p. 209.

73 R. Roversi, in “Leagua”, cit., p. 37.

74 Id., Il frate insonne letto sotto le bombe, in “Alias-Il manifesto”, n. 9, 8 agosto 1998, pp. 22-23 (il lungo articolo commentava l’uscita, presso Einaudi, dell’edizione completa delle Poesie di Tommaso Campanella, a cura di Francesco Giannotti, pp. CLX-694, Torino, 1998). Al frate calabrese (1568-1639) sono dedicate, con il rimando cifrato a Th., gran parte delle opere di Roversi.

75 Id., Conversazione in atto, in “Lengua”, cit., p. 42. Si può ipotizzare, ancora una volta, che su questa (precoce) predilezione di Roversi per autori e momenti della letteratura e della cultura tedesca abbia giocato un ruolo fondamentale l’attività critica svolta sui periodici giovanili del tempo, da “Il Setaccio” all’“Architrave”: si avvicendano, soprattutto sulle pagine de “Il Setaccio”, traduzioni (a cura di Ginevra Bemporad) e interventi su Goethe, Hölderlin, Schiller, il Quasimodo traduttore (e sui classici, da Saffo a Euripide a Orazio). Segnaliamo la presenza, venata anch’essa da un “inquieto” antifascismo, di Paolo Grassi, poi direttore del Piccolo di Milano, con il quale Roversi collaborerà negli anni Sessanta per la sua attività teatrale: «Per cinema e teatro, si deve aggiungere che esistevano, a Bologna in particolare, una circolazione di idee, una serie di rapporti personali tra studiosi della materia (Guido Aristarco, Renzo Renzi, Paolo Grassi, Vincenzo Bossoli, Ferdinando Di Giammatteo, Lamberto Sechi, Luciano Damiani), che consentivano, […] nelle pagine di “Architrave” e attraverso l’attività del Cineguf, di tener vivo il dibattito, procedendo a scelte critiche oculate, fuori e contro la marea dilagante, della produzione di regime», M. Ricci, op. cit., p. 19.

76 Id., in “Lengua”, cit. Il poeta è laureato in filosofia (1946), con un lavoro sull’autore tedesco.

77 Per utilizzare il rilievo di Mengaldo sulla “lingua” di Fortini, anch’essa, come è noto, influenzata dal classicismo tedesco, da un «precoce senso della oggettività», in Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Mondadori, Milano, 1978, pp. 829-830.

78 Cfr. Giuseppe Zagarrio, Roberto Roversi, I Contemporanei, Marzorati, Milano, 1977, vol. VI, pp. 1529-1563 (ora in Id., Febbre, furore e fiele, Mursia Milano 1983, pp. 387 e sgg.), p. 1532.

79 F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni. Roversi e Volponi (1959), in Id., Saggi italiani, De Donato, Bari, 1974, pp. 92-93.

80 Si rinvia, anche per i riferimenti diretti alla poesia di Roversi, al saggio fondante di Walter Siti, Il neorealismo nella poesia italiana. 1941-1956, Einaudi, Torino, 1980: «C’è nella poesia neorealista un intero repertorio di stereotipi, di luoghi comuni usati per la loro ben nota efficacia emotiva e persuasiva. Come è ovvio, la topica è propria della tradizione oratoria, giudiziaria e civile (e il luogo comune è un indispensabile fatto tecnico, non un difetto)», p. 144; «I classici, ai di fuori da ogni umiliazione crepuscolare, sono il […] segno di una severità antisentimentale che si oppone alla falsa totalità del sentimentalismo neorealista», p. 200.

81 Cfr. P. P. Pasolini, La libertà stilistica, in “Officina”, nn. 9-10, giugno 1957, pp. 341-346, dove si individuavano le caratteristiche formali ed espressive, il terreno comune di stile e di atteggiamento che connotava la sua poetica e i percorsi di Leonetti, Massimo Ferretti, Roversi, eccetera: coloro che iniziavano «il loro apprendistato fra il ’30 e il ’40».

82 Ibidem.

83 Ibidem.

84 Cfr. R. Roversi, in “Lengua”, cit.: «Mi interessava la storia del risorgimento soprattutto, letta la prima volta al liceo sulla documentazione interminabile ma per me ragazzetto affascinante del Tivaroni. Quei fatti minuti, sottratti alla pompa dei velluti e delle medaglie e delle barbe dei vincitori […]. Chiesi e ottenni di diventare assistente alla cattedra di storia del risorgimento ali’università di Bologna. […] Il mio proposito modesto ma convinto era di indagare sul serio, voglio dire in profondità e con continuità, la storia da fanfara e da bandiere al vento (ma in realtà da tragedia e da morte) di quegli anni, disponendomi non dalla parte del vincitore ma sulle carte del nemico. […] Volevo indagare sulle violenze ripetute e sui ripetuti massacri compiuti dalle truppe piemontesi soprattutto in Abruzzo, negli anni dell’annessione… […]. Da quel momento, da quelle letture, da quelle notti passate su documentazioni appassionanti, ho imparato come una verità mai più dimenticata a diffidare delle parole dei vincitori», p. 22.

85 Id., in “Il Menabò”, n. 2, 1960. L’autore ha operato nel 1995 in contatto con il «Comitato provinciale di Modena per il cinquantenario della Resistenza e della Guerra di Liberazione», in occasione della mostra fotografica Dalla parte della libertà – Guerra e Resistenza in provincia di Modena, aprile 1995, curando la trascrizione in versi dei condannati a morte della Resistenza, ribadendo nella sua nota introduttiva (A un amico molto giovane) la «necessità di mantenere e alimentare la memoria, attraverso un esercizio di conoscenza e azione, dentro l’oblio di oggi, e nel dialogo tra le generazioni affidato anche alla leggerezza e alla gioia dei vent’anni. […] Queste pagine accolgono le parole dei Condannati a morte della Resistenza secondo un ordine che può far pensare alla versificazione. Non è così. Quelle parole sono state raccolte e attentamente trascritte; quasi il vento le avesse portale fino a noi, a continuare la comunicazione di allora, dentro l’oblio di oggi», Id., Siamo andati sui monti più alti, Modena, Istituto storico della Resistenza e di Storia Contemporanea, 1995 (in seguito l’operazione sarà rivolta ai testi dei partigiani europei, in Se tutti i mari del mondo fossero inchiostro, 1996). Ma, come vedremo approfonditamente, il tema della Resistenza, tra memoria e oblio, coscienza del passato e critica del presente, sarà uno snodo fondamentale del suo percorso poetico e ideale. Si segnalano anche le prefazioni. da parte di Roversi, a due volumi recentemente editi dall’editore Pendragon, che ripropongono, in chiave diversa, testimonianze e ricostruzioni stonografiche del tempo della Resistenza: di Claudio Visani, Arriverà quel giorno… Lettere dal fronte e dai campi di prigionia 1943-45, Bologna, 2000; Chiara Ghigi, La nube ardente. Autunno ’44 a Monte Sole, Bologna, 1995, sull’eccidio di Monte Sole (per il quale si veda, di Roversi, il testo di commento alle immagini del lungometraggio Un film per Monte Sole. L’uomo la terra la memoria, per la regia di Carlo Di Carlo, prodotto dalla Provincia di Bologna, 1994, realizzato per Rai Uno).

86 Si veda, per l’inquadramento storico di quella fase, e come riferimento espressamente indicato da Roversi, il contributo fondamentale di F. Fortini, I dieci inverni 1946-1957, Feltrinelli, Milano, 1960.

87 II romanzo vince il Premio Salento come migliore “opera prima” nello stesso anno, 1959: eccezione nel curriculum di Roversi (che, in effetti, non si rivolgerà più a premi o a concorsi), e testimonianza di un legame “sentimentale” che l’autore intrattiene con il meridione.

88 R. Roversi, in Officina, a cura di D. Marchi, cit., p. 14.

89 Luciano Caruso e Stelio Maria Martini, Roversi, La Nuova Italia, Firenze, 1978, p. 47.

90 R. Roversi, Introduzione a Dopo Campoformio, Milano, Feltrinelli, 1962.

91 Id., in Officina, a cura di D. Marchi, cit., p. 15. Ma si rinvia ancora, per questo punto, e nella indubbia circolazione intertestuale che i racconti di Roversi intrattengono con le contemporanee prove poetiche, al volume di W. Siti, Il neorealismo nella poesia italiana,cit. E si tenga presente, naturalmente, sulla letteratura neorealista, il lavoro di A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Einaudi, Torino, 1988.

92 Si può pensare, quanto alla tecnica ritrattistica volta all’esatta (e accesa) descrizione dei paesaggi (come modo stilistico presente anche nella sua produzione lirica del tempo), a certi evidenti stimoli che gli derivavano dalle lezioni di Roberto Longhi: vero e proprio “maestro” di stile, se si pensi all’influenza del critico d’arte sulla poesia coeva di Pasolini o, su un versante diverso, sugli esordi poetici di Attilio Bertolucci. Ma la pittura, nella poetica di Roversi, è universo presente fin nelle ultime opere: numerosi i volumi di sue liriche corredate (“commentate”) da litografie e incisioni, tavole e disegni (per tutto questo si rimanda alla Nota bibliografica in appendice al presente saggio).

93 F. Fortini, «Roversi e Volponi», in Saggi italiani, cit., p. 93.

94 Ibidem.

95 R. Roversi, Conversazione in atto, in “Lengua”, cit., p. 28.

96 F. Fortini, op. cit., p. 94.

97 Si veda, per tutti, l’incipitdel Ritratto del vecchio Celso (il componimento sarà presente, in una successiva redazione, in Dopo Campoformio, 1962): «Il suo viso è di bronzo / come i vasi cavati dalle tombe. / Dicono che Celso è avido, spietato / ma io lo vidi piangere, una sera / all’urlo di mio figlio / trafitto dalla vespa. / So che nella notte sale per il viottolo. / […] / Nelle sere d’estate / siede sull’erba, immobile, a guardare / il ciclo, Dice: “Sono disgraziato” / e nella voce trema una terribile / malinconia. Dice: “Sono vecchio, / morirò quando la terra grida / al passo di lupo dell’inverno”. […] / La sua pelle è secca per le ingiurie patite…».

98 Un classicismo che, come è chiaro, interessa soprattutto le liriche più antiche raccolte nel Libretto d’appunti (1947) dove, talvolta, sono ancora presenti i temi del pathos autobiografico, del tormento ulteriore, della solitudine esistenziale al centro dei suoi esordì giovanili. Ma qui turbati e mossi da riferimenti più diretti alle vicende legate alla guerra che coinvolsero la sua città, Bologna: «Vecchie pene / dolori di oggi / e paura del futuro / incidono sulla pelle solchi / che non si cancellano»; «Bruciavano le torri di Bologna / alte sulla pianura / e il ciclo era grande come il mare / […] / Non dimenticherò quel grido di battaglia».

99 Su Penna, cfr. R. Roversi, in “Lengua”, cit., p. 28: «Mi sembrava che questa sua estrema leggerezza da fiato nel vento… […], questa sua semplicità davvero straordinaria, così assoluta, nascondesse qualcosa, rimandasse ad altro. […] Era per me, […] una poesia atroce e dolcissima, da sangue su una lama che vibra. […] In tre versi è più che delineata, stabilita una situazione esterna e interna, il mondo delle cose che scompaiono, il mondo del sentimento e l’uomo, carne che ride e che soffre. […] Omero che anziché la spada usa l’acquerello». Quanto a Caproni, più che dal primo tempo della sua produzione poetica, da Come un’allegoria a Finzioni (1936-1941), imparentabile con la lirica giovanile di Roversi per il gusto bozzettistico ed impressionistico (e inoltre, per i primissimi esordi roversiani, si rimanda al ‘“neoclassicismo” elaborato nel Terzo libro del poeta ligure, nei Lamenti composti proprio intorno al 1943-48), crediamo che molto di più si potrebbe ricavare da un confronto (stilìstico e psicologico-ideologico), con la sua opera in prosa di argomento resistenziale, singolarmente eccentrica alle vulgate neorealistiche. Cfr. di Giorgio Caproni, i racconti Giorni aperti. Itinerario di un reggimento al fronte occidentale (1940-42); Il labirinto (1944-45) e Il gelo della mattina (1949-1954, pubblicato tra l’altro dall’editore Sciascia di Caltanissetta, lo stesso delle Poesie per l’amatore di stampa di Roversi), ora raccolti ne Il labirinto, Rizzoli, Milano, 1986.

100 R. Roversi, in G. C. Ferretti, Officina, cit., p. 478.

101 Siamo in presenza di un retaggio ereditato dal “ritardo” della propria formazione ideale ed espressiva vissuta sotto il fascismo, che Roversi individua nelle prime prove poetiche di Pasolini (ma la dichiarazione vale, ci pare, come proiezione personale): «La componente più fonda è una suggestione dolorosamente decadente che si accompagna a una certa tensione religiosa; anche il mondo popolare di Pasolini è subito definito se non ancora rifinito nella sua persistente difesa di valori tradizionali “buoni”, “antichi”. Dunque riconoscibili e confortanti. Da qui la conseguenza di una continua presenza morale, di una sollecitazione e di una ricarica morale; come se soltanto in quel mondo fosse e si adagiasse la parte “giusta” della vita, il modello unico che si oppone e ci oppone alla morte e all’angoscia di ogni possibile distruzione», Roversi, in M. Ricci, op. cit., p. 179 (corsivo dell’autore). E Fortini, sul “primo” Pasolini (ne I poeti del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1988, p. 171): «In un primo tempo è stato quello del passaggio dalle illusioni della Resistenza (o dall’illusione rivoluzionaria) all’abiezione restaurativa […]. Il compianto per un passato che è autenticità e patria vera, questo tema tipico del decadentismo, è, ad esempio, attivo fin nelle sue prime poesie come pathos dell’infanzia e della morte precoce, della provincia perduta e nascosta (cui si contrappongono la coscienza, il sapere, e le “inique corti”, la città sentita come peccato)».

102 Si tratta, in quelle poesie officinesche, di una irresolutezza testimoniata anche sul piano della ricerca espressiva e formale, dove è ancora evidente l’oscillazione tra i due versanti del “novecentismo” e del neorealismo idillico o profetico. Si vedano il caratteristico andamento descrittivo (di un mondo vegetale, animale e paesano, secondo i connotati di un verismo provinciale e campestre, dal profumo pascoliano o del primo Caproni) : «Dentro le case tra i filari / d’uva, di canapa, / tra i canali ancora intrisi di vele, / le donne accendono il fuoco / […] gridano ai vitelli, / immergono le secchie nei pozzi. / La campagna è gioia, luce» (Periferia II, 1956), ora in G. C. Ferretti, Officina, cit., p. 238. O il filtro, la vera e propria decorazione, l’intarsio prezioso condotto attraverso moduli stilistici e lessicali riconducibili al gusto ermetico (l’analogia, la predilezione degli astratti nell’aggettivazione e nei sostantivi), propri di una tenace sopravvivenza novecentesca: «Venti lontani, corse / precipiti in abissi di cielo, / dileguare di mare / – e il canto delle pinne come il battere di un cuore sfrenato. / Abissi dove non giunge / il vento di novembre», (Il margine bianco della città, 1955), in Id., op. cit., p. 141. Precisa Fortini (Roversi e Volponi, cit., p. 94): «Questa esitazione si manifesta, ad esempio, nella aggettivazione, che ora è esornativa e decorativa ora esplosiva e stridente; oppure, ad un livello più alto e importante, nel giro delle immagini, tese ognuna a scoppiare, al punto che stai per veder saltare le cerniere sintattiche e logiche, ma inserite in un complesso pensato e sentito come idillio o elegia […]. Questa contraddizione contro la quale [Roversi] si arrovella […] non e fra “novecentismo” residuo e “novità” comunicativo-razionale, ma fra tipo di organizzazione dell’intero poema e tipo di espressione nella singola immagine».

l03 Si legga l’andamento epico della “narrazione in versi” della giornata tipica di un contadino ne La raccolta del fieno (1957, in G. C. Ferretti, op. cit., pp. 287-288): «Inchiodo nella cassa tre mogli. / Ora affila la falce seduto. / i piedi aperti, distesi / sulla polvere fresca: / stretti in un piccolo nido i forti pensieri. / Arò, pagando il trattore / coi fari accesi sul campo, in ottobre; / a neve ha insaccato il maiale / stendendolo morto, lavato / sul tavolaccio coperto di sale / con l’acqua bollente / al grande fuoco d’inverno».

104 R. Roversi, da La raccolta del fieno, cit. E si legga Caproni, in una lirica di poco più tarda: «[…] / Ma io i ricordi / non li arno. E so che il vino / aizza la memoria / […] / Così come il mare / fa sempre, col suo divagare / perpetuo, e sul litorale / arena le sue meduse / vuote – le sue disfatte / alghe bianche e deluse», I ricordi, (vv. 26-28; 34-39), 1963, dal Congedo del viaggiatore cerimonioso.

105 Fortini parla al proposito della tipica procedura stilistica della poesia di Roversi, volta alla «ripetizione di uno schema, metrico e psicologico», in Saggi italiani, cit., p. 94.

106 «I campi sfiorire dentro il mare, / le onde strappare i rami / dei cedui, case crollare, / i visi attorno ai tronchi / infuriati di schiuma, / le grida perdersi sulla duna, / cadere il fondo cielo / come una piuma. […] / Gridano gli altoparlanti / nomi sull’erbe affogate. / La sera è ingorda, bagnata, bastarda; / scoppiano scintille, i fuochi stentano, / affidati ai bastoni / pastori dalla secca faccia / fischiano in delirio alla pianura. / Tutto intorno è mare» (in G. C. Ferretti, op. cit., pp. 348-349). La poesia, ripresa in Dopo Campoformio, 1965, è annotata da un commento di Roversi sull’«allusione scritta alla rotta del Polesine, altra sciagura nazionale e altra kermesse burocratica».

107 R. Roversi, Conversazione in atto, in “Lengua”, cit., pp. 40 e sgg.

108 Ivi, pp. 39-40.

109 Si leggano le parole di Vittorini, “Il Menabò”, 1960, cit., con cui si parla di «Roversi, il quale sorvola sulle poesie ch’è andato scrivendo. Sorvola sul romanzo Caccia all’uomoche Mondadori gli ha pubblicato quest’anno. Egli insiste a dire che sa “di non aver dietro niente” di cui vantarsi». Fortini ha parlato di Roversi come di colui che, tra gli altri redattori-collaboratori, testimoniò più tardi «d’un reale superamento di “Officina”», puntando su una maggiore indagine scientifica, cercando di rendere più rigoroso quello che sulla rivista era ancora nebuloso, in G. C. Ferretti, op. cit., p. 466.

110 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., pp. 177-178 (corsivo dell’autore). Questa consapevolezza autocritica è vissuta in sede creativa (dai racconti al romanzo all’evoluzione delle sue liriche) e si incrocia, come abbiamo cercato di dimostrare, con la contemporanea collaborazione officinesca.

 

 

Capitolo secondo

Verifica dei linguaggi

 

Premessa

 

Nell’operare un recupero critico della attività di Roversi nei primi anni Sessanta, dovremo affrontare per necessità le implicazioni ideologiche e la coloritura profondamente politica della sua opera: l’incidenza e le ricadute evidenti che la crisi attraversata dall’intellettuale italiano del tempo genera sulla produzione letteraria coeva. Vogliamo dire che le risposte che si forniscono alle trasformazioni indotte dal sistema neocapitalistico nel settore specifico dell’apparato culturale, dal rilancio riformistico della funzione intellettuale (la neoavanguardia) al radicalismo teorico-politico del marxismo critico e della “nuova sinistra”, passando dalla particolare forma di impegno e di “sperimentalismo” che accomuna il percorso di Roversi a quello di altre figure attive in quel momento storico (da Pasolini a Volponi, da Fortini a Calvino), sono da esaminare non solo in quanto riflesso della pianificazione ideologica prodotta dall’industria culturale, o dell’ avvenuta integrazione dell’intellettuale nelle strutture del potere economico. Ma, prima ancora, vanno intese come conseguenza dell’«incrinatura della totalità, della caduta del monolitismo» del marxismo italiano e internazionale, effetto della crisi aperta nel fronte del movimento operaio (e della riflessione teorica ad esso legata) a seguito dei fatti del ’561.

Il dissolversi del collante ideologico dell’antifascismo e di tutti i valori-riferimento immediatamente identificabili (paleo-capitalismo, sviluppo, democrazia), apriva un vuoto di direzione politica ma soprattutto di ordine e di natura ideale. Rispetto al marxismo si cade, come è stato detto, in un forte “disuso scientifico” della sua sostanza teorica2. Era l’esito, storicamente determinato, della «lunga incubazione antimarxista della cultura italiana»3, del travaglio che l’intellettuale aveva testimoniato sin dall’immediato dopoguerra:

 

È per questo che, a partire dal ’56, quello spazio aperto che, in conseguenza di quella frattura (non più sanabile con l’ottimismo umanistico del realismo socialista), il marxismo italiano stentava a colmare con una nuova e più elaborata visione della funzione rivoluzionaria della cultura, si andò colmando tra noi in direzioni diverse: tutte riconoscibili tuttavia nello sforzo di testimoniare, e insieme definitivamente espungere, l’equivoco “strumentale” della poetica del realismo e il “ricatto” eteronomo e illiberale dell’impegno e della cultura che lo animava. Fu il tempo, certo, di una più coraggiosa e aperta curiosità culturale, e del consumo appassionato (ma spesso approssimativo e ancor più ideologico) di tematiche e autori sinora quasi sconosciuti in Italia. […] Ma fu soprattutto il tempo in cui la “libertà” del confronto e della discussione ideologico-letteraria sembrò respirarsi come un’aria di liberazione da vincoli e limiti sopportati ma non necessari, anzi solo allora scoperti come ingombranti e dannosi; una libertà dal marxismo, e non nel marxismo; una libertà premarxista4.

Sul terreno della produzione poetico-letteraria dei primi anni Sessanta, si è correttamente rilevata – anche sulla base di uno studio sull’ attività editoriale, in riferimento al “mercato delle lettere” del tempo – la presenza egemonica di due posizioni, due correnti opposte, «eguali e contrarie […]: la nostalgia di una formale unità e la disponibilità ideologica, il culto della tradizione e la frenesia dell’avanguardia, la tendenza a parlare del passato per eludere il presente e a parlare del presente per eludere il passato […]. Implicita, inconfessata o camuffata, la dicotomia si riproponeva quasi automaticamente» (Gian Carlo Ferretti)5. E dunque nella letteratura del periodo pareva incontrastata e inesorabile l’egemonia dell’intunismo nostalgico, del neo-novecentismo o di un realismo “popolare” appena rinnovato; e, dall’altra parte, la liquidazione strumentale del panorama letterario preesistente (la “morte delle ideologie”), il rilancio esplicito della poesia come “arte di laboratorio”, il restauro del terreno dell’autonomia della letteratura (del linguaggio) come unico campo di fungibilità culturale. Come è evidente, il quadro, che per necessità presentiamo m chiave schematica e assai sintetica, delle correnti e delle poetiche prevalenti nel tempo, si intrecciava strettamente con la crisi del marxismo e dell’intero sistema di riferimento culturale e ideale che aveva accompagnato la crescita, problematica e contraddittoria, dell’intellettuale del dopoguerra.

Lontana e in polemica con entrambi i poli di quella dicotomia riduttiva e “forgiata” dal mercato editoriale (ed è talvolta una battaglia teorica fondativa e primaria, come nel caso di Roversi sul Gruppo ’63), agisce invece, seguendo vie più silenziose, un’area della letteratura italiana conflittuale e variegata riconducibile tuttavia ad alcuni motivi di fondo, che comprende esperienze intellettuali e poetiche distinte, variamente influenzate da istanze “civili” e da una strenua volontà conoscitiva: pratiche di scrittura inspirate, in diverso modo, ad uno sperimentalismo non solo esteriore e non tutto formalistico.

E dal primo manifestarsi di quei motivi che dobbiamo partire per operare un bilancio critico e ricostruttivo dell’opera di Roversi nella (lunga) stagione degli anni Sessanta.

 

1. Dopo Campoformio

 

Se, anche per Roversi, vale la convenzione critica per cui il tempo dell’apprendistato, gli esordi di uno scrittore sono condizionati da una eterogeneità di fondo (l’irresolutezza e l’oscillazione tra acquisti espressivi, ideali, e ritardi soggettivi), nel suo percorso è effettivamente riconoscibile, in uno con l’immersione nella realtà degli anni Sessanta, la motivazione esistenziale, oltre che letteraria, che lo spingeva ad una verifica dei propri strumenti conoscitivi e formali:

 

[…] Riconoscevo che adesso tutti i problemi che avevano dato sostanza (una vecchia sostanza) al nostro “vecchio” discorso e che scaturivano dalla Resistenza (temi gramsciani, temi di palingenesi sociale mal digerita, impegno “grosso” ecc.), erano ossa […] (parlo di temi, e problemi); e quindi cercavo di considerare argomentando le nuove basi su cui potere organizzare un altro, diverso, o nuovo discorso per gli anni che venivano; e la conclusione a cui mi trovai era questa, espressa con semplicità; la nostalgia del passato, inteso come termine di riferimento […] in altre parole tutto l’armamentario resistenziale, che aveva fatto da collante alla nostra turpe coscienza (inquieta per dubbi e timori) non serviva, non poteva servirci più. […] Ora occorreva pensare nuovo, fare del nuovo, mutare la pelle. Sempre seguendo lo stesso impegno, e avendo magari la stessa forza. Erano i tempi a mutare; e noi dovevamo cambiare, non invecchiare6.

 

E altrove, sull’“eredità” della Resistenza, «punto di partenza per elaborare tutta una serie di rovesciamenti»7:

 

Bisogna rivolgerci alla Resistenza, non con la tenerezza abbastanza equivoca della memoria, ma con la coscienza che quelle istanze sono tuttora operanti ed aperte. Si devono guardare le difficoltà che ci stanno davanti, non le delusioni, che sono dietro. Il problema, in sostanza, è quello di intendere la lotta di Liberazione non come un fatto definitivo che avrebbe dovuto dare risultati immediati, a rapida scadenza (prospettiva che ha determinato tante delusioni negli intellettuali del dopoguerra), ma come un punto da cui partire […], come una spinta autentica per lavorare nel tempo. Una Resistenza […] avvenuta ieri, e non vent’anni fa; una Resistenza non storicizzata, non declassata a referto d’archivio o a luogo di semplici “rimembranze”, proprio perché considerata ancora come un momento attuale8.

 

Si trattava di una propedeutica operazione da compiere sul proprio passato ideologico e culturale, sottoponendo a verifica, con una prepotente tensione innovatrice e con piena consapevolezza, nel vivo della ricerca e del confronto con il presente, ogni fase della sua formazione, senza mai rinnegarla9. In un intervento del 1966:

 

Proprio gli Anni Cinquanta, con la loro data emblematica del 1956, rappresentano il momento-chiave di questa nuova presa di coscienza, l’apertura verso una maggiore dinamica operativa. Chi considera il 1956 come anno delle illusioni cadute, della fuga nell’idillio nostalgico-consolatorio, si condanna all’impotenza (è accaduto, del resto, a non pochi scrittori italiani) o a una patetica lagna. Il ’56 rappresenta in realtà lo sbocco di un marxismo ancora incrostato di rigidezze e ritardi, la presa di coscienza della necessità di impostare un programma di lavoro più rigoroso, serio, specialistico, a tutti i livelli, da quello letterario a quello politico. Ecco perché oggi si può avere fiducia (e si deve avere fiducia) in un marxismo sempre più agonistico, non compromissorio, scientificamente agguerrito e ideologicamente problematizzato su tutti i diversi terreni di ricerca culturale e di battaglia ideale10.

 

[…] È evidente che c’e stata una frattura negli anni Sessanta. […] Fatti o uomini rappresentativi che prima incombevano […], adesso sembrano storicizzati o arcaici o terribilmente stanchi; […] si veda ad esempio Pavese […]. Anche Gramsci, il Gramsci tradizionale, iconografico (che ci bastava), ci sfugge; […] ci occorre un Gramsci autre, che stiamo scoprendo. Il mondo stride, non come l’upupa della leggenda ma come un organismo che si muove, si svolge e rivolge, non dà tregua spietato. Ci si accorge, mutando le prospettive del mondo e distaccandosi dai termini tradizionali che lo pacificavano oscuramente, che anche i nostri strumenti, che addirittura si rifanno a Dante, è nella realtà dell’operare che non servono affatto. Che cosa ci manca? di che cosa abbisogniamo? Di tutto, direi; e non è una constatazione di comodo, una constatazione di oggi11.

 

A tale temperie ideale (lontana, come si sarà capito, da ogni teorizzazione su un “grado zero” da cui ripartire), si ispira anzitutto l’intensa attività della sua rivista fondata nel 1961, “Rendiconti”, su cui torneremo, Ma anche la produzione poetica coeva risente di un mutato clima psicologico.

La prima edizione di Dopo Campoformio (Feltrinelli, 1962) comprende, con delle varianti piuttosto limitate ma con aggiunte sostanziali, le poesie che Roversi pubblica sul “Menabò” (La raccolta del fieno, n. 2, 1960)12; i componimenti precedentemente apparsi su “Officina” e, infine, alcune anticipazioni di nuove liriche. La collocazione della raccolta nella collana diretta da Bassani (la “Biblioteca di Letteratura”), sembra riproporre un discorso poetico comune, avviato intorno all’esperienza della rivista bolognese, che ora assume il significato di un «rifiuto del falso miracolo economico» trionfante (tema centrale nelle opere che affiancavano quella di Roversi: di Fortini, Poesie ed errore, 1959; e di Volponi, Le porte dell’Appennino,1960)13. Tornano i contenuti e le figure prevalenti, che abbiamo evidenziato nei suoi esordi poetici officineschi, affidate ad una struttura compatta e unitaria (poematica), ad un linguaggio sempre più dinamico, tendenzialmente antilirico. Le incisioni rapide e oggettivate del paesaggio, in una Emilia recente o lontana; la struttura narrativo-memorialistica; i profili e i “ritratti” dei personaggi (il pescatore del Po, il carrettiere, il bracciante emiliano, il muratore, il marinaio Antonio, il meridionale emigrato al Nord), soprattutto i suoi «uomini vecchi che muoiono»; le larghe e realistiche descrizioni di una definita geografia regionale attraversata prima dalla guerra e dalle speranze di riscatto, ora dalle industrie e dai “tubi della Schell”, dall’“autostrada del Sole”14.

Una sorta di «autoritratto fantastico, di ex giacobino che dopo Waterloo o Campoformio […] cova disprezzo e bile, confinato in una cittadina dello “stato della Chiesa” […] osservando da quella la trasformazione del mondo contadino e la corruzione» delle città15; i mutamenti (l’annientamento) delle campagne, «le attraenti e ripugnanti libidini cittadine»16, l’imbarbarimento del “moderno”: «due insomma i “Risorgimenti” traditi: quello dei carbonari, dei mazziniani o di Pisacane; e quello dei partigiani»17. Una Spoon River emiliana, testimonianza postuma di un mondo (e in vece di un mondo) scomparso, sconfitto, spazzato via dai “progressi” della storia:

 

Occorre intanto partecipare al dolore monotono ed estenuante già conosciuto, tanto più crudo quanto l’attesa è avara. […] Non saranno certo il neofuturismo che s’affaccia con un plurilinguismo da crociera turistica; la disponibilità o l’indifferenza morale; questo clima da gran ballo sotto il ciliegio, a fargli mutare proposito e bandiera, […] a dare meno vigore, se qualche merito c’è, a questi versi – a questo solo poema18.

 

Il “nuovo” incalzava, e Roversi ne individua, dentro un cupo pessimismo morale, le mostruosità e i torti, di là da ogni tentazione all’estetismo e al populismo, al ripiegamento nostalgico (retorico o elegiaco) pure in voga, nella produzione letteraria del periodo: «Io mi torco e contrasto / mentre penso agli anni che non tornano»; «Tutti patiamo i pugni / di un destino farnetico» (Ippodromo, dall’Appendice); «Un mondo nuovo affiora ribollendo / dalla schiuma aspra del dolore» (da Il tedesco imperatore):

 

Crescono giovani aspri, amare mandorle

in un tempo d’inferno, di lampi

e sorprese telluriche nell’aria

grigia che illividisce ogni città;

il sangue arde dentro i cuori straziati

dall’unghia dei mostro che si torce.

Ma quale mondo apparirà

dopo la pena necessaria!

(da Una terra)

 

Il fatto è che nella raccolta si avverte un crescente senso di rifiuto e di protesta, una carica ideale, una consapevolezza del reale sempre più intensa, via via che i testi si avvicinano in senso cronologico agli anni Sessanta19. Quando essi diventano espressione diretta del mutato atteggiamento ideologico nei confronti del passato (il rimpianto e la nostalgia, la mitologia contadina, l’elegia che si convertono nell’ansia di denuncia e di testimonianza civile); e filiazione immediata, violenta e “furente”, della rinnovata condizione “psicologica” e “linguistica di opposizione al presente (la condanna del miracolo economico, la “restaurazione”, il “tradimento” della Resistenza, il “nuovo capitalismo”, la devastazione ambientale):

 

i ricordi sono bocconi amari,

si strappano, non servono:

è sapienza sputare il passato

come acida cicca verde tra le pietre.

[…]

solcato il mare dalle petroliere,

nell’acqua grassa i pesci

galleggiano con il ventre scoppiato,

e rombi di scavatrici, fuochi, grida,

martelli, tonfi fondi nella terra.

(da Una terra)

 

Ci riferiamo alle sezioni con i componimenti scritti ex-novo, che non a caso costituiranno l’asse portante dell’edizione successiva del 1965 (Einaudi): Lo Stato della Chiesa, Il sogno di Costantino; La bomba di Hiroshima, Prima dell’autunno, sul fiume Leuter, in Germania; Le lupe dorate20. Si veda per tutti l’incipit dello Stato della Chiesa, il poemetto pubblicato sul primo numero della sua nuova rivista, (“Rendiconti”, 1961), «vero salto di maturità e di coscienza» nel percorso dell’autore, per usare le parole di Ferretti:

 

 “Mai anni peggiori

di questi che noi viviamo,

né stagione più vile

coprì di rossore la fronte asciutta italiana;

cadavere fulminato

giace essa riversa sull’erba di una trazzera.

Così la sera del nostro vivere umano

quando la morte sprofonda nel fuoco della gola

e resta poca gente, sola

a vegliare con gli occhi asciutti e a ricordare

 

o più avanti, nella sezione Il sogno di Costantino21:

 

La partita non è perduta, la nostra vita

non è bruciata ancora, annichilita,

disfatta, ramo secco.

[…]

Il nostro cuore è schiuma della terra,

bruciato da una raffica è fango della guerra,

la vita soltanto a noi è affidata,

a noi con le radici è abbarbicata.

 

Da qui, da questa spinta di moralità bruciante, nasce il grigiore e l’uniformità stilistico-espressiva di un

 

[…] libro lento, magari mal scritto, monotono, con pagine di pietra, buttato in un’oggettività esasperata e dolente, di tristissimo umore, di molto fiele, d’altrettanto forte ribadito amore, con molti squarci epici (nel senso di un racconto totale) che non è dunque, e non vuole essere di proposito, un libro tenero, ben fatto o nuovo (nel senso che [vo]rrebbero), ma […] un libro di opposizione, un libro di contrasto politico […] [con] il ritratto dell’Italia rotta e adirata che ancora resiste […] e non è splendente ma grigia, non celeste ma nera, struggente come una brace. […] [Racconta la] storia di un solo lungo errore, […] un ritorno sui luoghi, […] il nuovo oblio, la smemorata indifferenza, l’inconscia rinnovata volontà di male. […] [L’autore indica] come strumento della propria poesia la “povera, buona, vecchia lingua italiana”, fino in fondo consapevole che non si darà nuovo linguaggio e nuova invenzione se non salteranno per forza di idee i cardini delle strutture che si oppongono22.

 

Il paesaggio, protagonista e non solo sfondo di queste liriche, è descritto con “furore espressionistico” (una “frenesia” visiva grezza e realistica, cruda e violenta: «strade rose / dai fischi di vapori»; «i cipressi spaccati / sulle rive»; la «pianura accesa»; «L’erba è gialla di pietre / […] / I vigneti abbattuti»), nello stesso modo in cui la natura, l’ambiente, sono inesorabilmente travolti dall’industrializzazione selvaggia e incontrollata. Nella raccolta si avvicendano come fotogrammi squarci di «fabbriche nuove / necropoli di morte»; un campo di grano desolato e distrutto che «è lo stesso / di quella città giapponese / dove era scoppiata una bomba»23.

 

Se l’apparente grana antiletteraria, l’essenzialità contorta della parola, la selezione del singolo vocabolo pare desunta dalla scelta della «povera, buona, vecchia lingua italiana», per realizzare una poesia “semantica” e “civile” («…Se parlo… / compatite il mio povero italiano, / la voce che sa di pane e di sale / e dice male parole troppo vere», Pianura Padana; «La parola che usi / è scarna, povera», Il sogno di Costantino), ad un esame più attento va registrata una «totale disponibilità linguistica […] di fronte alla quale perfino la lingua di Pasolini può apparire […] immediata»24: dal concettismo metaforico «più incauto e quasi barocco» all’impressionismo simbolistico («in fradice foschie / e lenti soli»); dagli «esiti di pittura metafisica» al ricorso al pascolismo dei dettagli; dall’«ungarettismo metafisico» («Un mare di pena / è la mia carne»), a influssi montaliani e da Saba (o da Penna e Caproni). Vanno segnalate le prime tracce evidenti di una ricerca maggiormente definita intorno ad un plurilinguismo che si esercita a livello lessicale (con inserti di termini stranieri, dall’inglese al francese; espressioni vicine al parlato accanto a vocaboli aulici); un’«energia sintattica» che smuove e arricchisce il linguaggio poetico dell’autore (è un processo che approderà, in modo compiuto e “vertiginoso”, alla scrittura delle Descrizioni in atto, 1963-1973)25. È da questo momento, in definitiva, che il dato linguistico, formale, della parola di Roversi, inizia ad imporsi con prepotenza alla vista (all’ascolto) del lettore, in uno con lo statuto referenziale, potentemente comunicativo, della sua scrittura. Uno sperimentalismo realistico e stratificato che accompagna l’immersione delle sue opere, il giudizio e il pensiero nel e sul presente:

 

È duro, è tremendo andare contro il proprio tempo, scorgere il marcio il fragile la follia la devastazione la morte; denunciare senza ritegno, continuamente, senza più ormai (oggi è chiaro) quel vecchio superato “scandalo della speranza”. Oppure no, sarà più giusto dire parlando di Roversi, non contro, ma dentro il proprio tempo, nella direzione, quale che sia, della realtà, non come un brillante causidico ma piuttosto come un moderno analista che acutamente riceve, “registra”, incamera dati e fatti, li converte in giudizi […]. È come se la cifra di una razionalità addirittura statistica parlasse da sé: le cose procedono in questa direzione, la linea è questa, la nostra storia è così: non altro. […] Meglio il giudizio, insomma: l’atto giudicante del pensiero sui “dati” dell’oggi. A parte ogni acritica mimesi (ancora naturalismo, pur nei gradi aulici dell’avanguardia); a parte ogni mediato procedere per sotterranee correnti e provvisoria epoché26.

 

Le poesie che appaiono nel 1965 nella nuova edizione Einaudi di Dopo Campoformio (Zum Arbeitslanger Treblinka, Iconografia ufficiale, La bomba di Hiroshima27) compongono, come annota Fortini, «l’arco della sua lirica “storica”, dai tempi preindustriali e prebellici a quelli odierni, con l’alta fiamma atomica sospesa sul gracile paesaggio umanistico» («ci sarà pace al sole / per l’ebreo che brucia e il povero italiano?»). Si leggano, come d’esempio, i primi versi di Iconografia ufficiale:

 

La diga del Vajont è in Val Cevina

a dodici chilometri da Belluno.

La diga del Vajont è la più grande diga ad arco del mondo

alta 265 metri consente di invasare fino a un massimo

di due milioni di metri cubi d’acqua dal fiume Piave

per alimentare la centrale idroelettrica di Sovertene.

 

Si tratta di un componimento che testimonia dell’evoluzione stilistica del poeta. Un poema sorprendente in cui, tra il parlato che sfiora il prosastico, dominano un ritmo narrativo incalzante (che ricorda il precedente Pianura Padana, 1958); lo scatto dichiarativo e di denuncia; l’utilizzo (il montaggio) di lacerti verbali tratti dalla cronaca giornalistica («il dolore del Paese, messaggio del Papa»); la presenza di dati, referti burocratici, nomi (dal presidente Leone all’ingegnere Gildo Sperti, dai toponimi – «Valesella Longarone Pirago Rivalta» – alle imprese coinvolte), numeri, cifre (secondo un procedimento ricorrente fino alle sue ultime prove degli anni Novanta e oltre). Roversi immerge la sua poesia nel presente più incalzante di quegli anni (e secondo un attaccamento al paesaggio che fa della sua lirica una testimonianza drammatica sulla distruzione ecologica del tempo)28.

La raccolta si chiude proditoriamente con la registrazione, la condanna di una società italiana che «non intende, tace / si compiace di marmi, di pace avventurosa, di orazioni ufficiali, / di preghiere che esorcizzano i mali […] / Tutti i morti ormai dimenticati» (La bomba di Hiroshima). In un tempo sprofondato nella «nostra ipocrisia, la nostra pietà che stride, / le nostre vereconde indifferenze»:

 

I ragazzi che hanno vent’anni di età

il loro riso è tremendo, furibondo

più della iena tedesca, più duro

a sopportare di un supplizio politico.

Non danno nulla, non vogliono

nulla sapere né altro intendere

[…]

Non riconoscono debiti, non vogliono

neppure conoscere la tristezza dei vecchi

né la voce, sola voce, voce di notte,

che dice di passate miserie.

(Zum Arbeitslager Treblinka)

 

La felicità, o meglio: il meditato oblio

che si usa con prudenza non deve distrarsi;

è domenica sul fiume e va goduta piena

(credetemi) questa tranquilla inerzia

(Prima dell’autunno, sul fiume Leuter, in Germania)

 

Scomparvero nelle piramidi di fuoco.

Quel tempo sporcò di melma le mani

dei sopravvissuti, dai gelidi cancelli

precipitarono ancora ancora

le mandrie nei macelli –

belare straziava la lama dei coltelli

in mano ai giovani carnefici.

Non è questo che voglio: ricordare.

No ritornare a quei lontani

anni a quei tempi lontani.

I cani erano più felici degli uomini.

I miei versi sono fogli gettati

sopra la terra dei morti.

È oggi che dobbiamo contrastare.

(Zum arbeitslager Treblinka)

 

La notte non finisce a Hiroshima.

(La bomba di Hiroshima)

 

Con un’oscillazione “maniacale” e ossessiva tra la desolazione esistenziale, il sarcasmo, l’autocritica, la coscienza dell’inefficacia della parola poetica e una resistente fiducia nel potere della scrittura, l’attesa e la speranza (è un tema che si sovrappone e confluisce nelle prime due Descrizioni in atto, III e VIII, pubblicate su “Rendiconti” nel maggio del 1963):

 

Inutile che tu stia a rodere

te stesso, a consumare le notti

lunghe come notti interminabili

[…]

La parola che usi è scarna, povera,

risuona suona è un colpo di martello

solo per un chilometro di strada,

Qualche orecchio l’ascolta.

È tutto, bada.

(da Il sogno di Costantino)

 

Mi inchino all’arte, alle parole sapienti.

[…]

La parola che pesa?

sottili riverberi, i giuochi, trame, aneliti

ammiccanti? a che servono lieti ragionari?

[…]

mentre ai tavoli dei caffè

i poeti discutono di principi immortali.

(Zum Arbeitslager Treblinka)

 

Azure gloom of a Italian night

È povero il suo inglese:

pomeriggi vissuti ad ascoltare

i dischi, le voci alterne

dell’uomo e della donna BBC,

il fruscio che debilita,

la punta del grammofono,

un progredire monotono

d’anima spenta in acque salse e nere,

immaginare cosa sarà la vita

(la propria vita) nei prossimi trent’anni

(Le lupe dorate)

 

I miei versi sono fogli gettati

sopra la terra dei morti.

[…]

Siamo troppo sporchi di dentro

per capirci, e troppo poveri d’amore.

(Zum arbeitslager Treblinka)

 

E, infine, dentro lo schema teatrale di un “botta e risposta” ravvicinato, l’andamento scenico e drammatizzato, tipico delle sue Descrizioni:

 

[…]

Non basta mischiare Dobb e job,

farneticare a volte in una ridda di nominate persone

o di fatti dell’intelligenza.

Certo per alcuni c’è lì una lucida evidenza

(anche se sotto è il vuoto).

Struttura, prevalenza della letteratura

sulla cultura, ideologia ma non politica

– “che è sta’ dannata politica” dicono

e chiedono “siate seri vi prego,

se siete poeti scrivete poesie:

per carità, è forse poesia la vostra?

Un consiglio? Tacete!

Non basta ripetere l’invettiva di Sartre

A’ l’origine de tout, il y a d’abord le refus

per farvi uomini. Siete senza respiro

ottusi, oscuri, trivellati

dalle avverse vicende”.

[…]

“Ma certo, amico mio, a voi manca

una qualifica: chi siete? intendo

un lavoro preciso, scrivete?

ah, no? scusate; ma scrivete

qualcosa, comunque? non scrivete?

e sempre quella penna in mano? Capisco.

Ad ogni modo, scusate, me ne infischio

e non mi impegno per voi.

Siete in salute e giovane (vi invidio)”.

Non basta dire che la vita è cattiva

Né caricarsi di odio per odiare,

non basta possedere per volere;

spesso il male che dura e ancora insiste

resiste perché non fu consumato,

e noi non fummo cosi tristi o saggi

o previdenti da soiirirlo ancora.

La nostra forza, è vile.

Così le costumanze scipite, così le voci

che feriscono, così la scialba euforia

di questo monumento di sassi.

Basta una mano alle volte per chiudere

un’altra mano e correre correre lontano.

Si deve ricominciare da capo29.

(III descrizione)

 

[…]

i giovani sapienti deprimenti

(tutti candidati a una cattedra austera)

riempiono furiosamente le giornate

e ridono a noi con una malizia nera:

“nuovi atleti vi sopraffanno oramai,

perché conservate, sotto le maglie sbiadite

vecchie speranze?”

 

Siamo in presenza dei due elementi fondanti l’intero arco dell’attività di Roversi: la risentita consapevolezza morale prima ancora che politica, l’intrecdo tra desolazione esistenziale e speranza; la diretta esemplificazione, la comunicadvità del suo scrivere. Sul piano formale, è opportuno accennare all’evoluzione che in questo frangente (1960-65) interessa il piano stilistico (linguistico) della sua poesia. Roversi testimonia direttamente, nel corso della stesura dei suoi testi, nelle scelte che guidano la strutturazione delle raccolte, di una precisa volontà di riordinamento postumo, di reinterpretazione di una fase poetica (ed esistenziale) trascorsa (e mai rinnegata, come dicevamo): un primo “tempo” letterario storicizzato, ricostruito nell’atto stesso dello scrivere, alla luce di nuovi eventi ed esiti creativi.

La “verifica” del passato (di un passato biografico, privato, poetico e storico) è insomma il motore che guida le scelte dell’autore in sede “editoriale”: si deve osservare, infatti, sulla base di un’analisi delle due versioni di Dopo Campoformio, una profonda volontà di superare e, insieme, di registrare l’oltrepassamento dei modi espressivi praticati fino a quei momento30. Accanto ai vecchi componimenti si impone (gradualmente) la nuova conformazione della sua scrittura. Il linguaggio recupera e rilancia un’inconfondibile tensione dinamica, narrativa e prosastica; una spinta “fenomenologica” dai tratti radicali (la registrazione del reale), che si pone accanto al giudizio, al commento. Il lessico subisce un allargamento (un abbassamento) delle sue potenzialità espressive, spaziando senza esitazioni dal parlato al gergo popolare, dalla citazione colta al toponimo (il procedimento del montaggio, il collage di inserti verbali di diversa provenienza). Il tema del paesaggio, ad esempio, subisce una radicale evoluzione: accantonando i richiami (struggenti) alla sua geografia privata (l’Emilia, Bologna, la “provincia”)31, la scrittura di Roversi si offre ad un potente decentramento, all’espansione del suo “raggio d’azione”. Vanno sottolineati il moltiplicarsi dei luoghi e dei riferimenti topografici, tra il presente e il passato, dalle città italiane a quelle europee; il conseguente superamento dell’egocentrismo (dell’autobiografismo) lirico, in direzione di una testimonianza “civica” e sociale, una sorta di radiografia del reale ancorata agli ultimi anni della nostra storia, che si verifica in questa fase della sua poetica.

All’immersione nel presente, all’autodissacrazione della condizione intellettuale, corrisponde il “deprezzamento” del linguaggio poetico, la sua “oggettività esasperata” (mossa, come s’è visto, da uno sperimentalismo denso e stratificato); la riduzione della letterarietà a mezzo di conoscenza e come strumento di “violenta” rappresentazione documentaria (Roversi avvalora la sua poetica citando Pavese: «L’atto della poesia è un’assoluta volontà di veder chiaro, di ridurre a ragione, di sapere»). Si profila, insomma, la caratteristica della sua scrittura, l’“ovvietà”:

 

[…] che a mio parere altro non è che un dato spesso fulminante e quasi sempre una provocazione inevitabile quando si ha il coraggio delle idee; e qualche volta perfino una provocazione che travolge […], sicché le cose da dire e da dirsi […] dovrebbero essere “subito” chiare a un tipo di lettore (che è quello che si cerca) e dovrebbero “subito” apparire torbide-nauseanti per l’altro tipo di lettore, eccellentissimo, che si vuole nauseare e provocare perché se ne vada al diavolo o almeno ci ignori32.

 

In contemporanea alla stesura della raccolta che “apre” definitivamente agli anni Sessanta, Roversi sta affinando la propria strumentazione espressiva e teorica. L’autocritica coinvolge, come s’è detto, la sua formazione ideale, la memoria di un tempo perduto: già si dispone, del resto, una verifica integrale dello status del lavoro intellettuale e del linguaggio letterario. Lo “sperimentalismo” che contrassegna l’evoluzione del suo percorso (dalla pratica saggistica al romanzo, dal teatro alla poesia), è condizione strutturale e indispensabile per affrontare (registrare) il nuovo presente.

 

2. Sperimentare con libertà

 

Il punto di definizione di questa fase della sua attività è certamente il romanzo del 1964, Registrazione di eventi, edito dalla Rizzoli33:

 

[…] Ho cercato una contaminazione linguistica del mio discorso […], anche dietro sollecitazioni in atto, che mi sembravano e mi sembrano legittime; dato che sono vivo e non morto, e che mi appisolo malvolentieri. Ho “cercato” cioè una persistente deflagrazione del discorso […]: mi proponevo […] di strisciare o strusciare due sassi per far scintille; di esasperare le mie contraddizioni per giungere o sfiorare, alla fine, un discorso più organico […]. Essendo consapevole […] d’avere addosso tuttora guasti di formazione, di cultura, di tradizione, ecc.; e non volendo compiere il nuovo apprendistato, forzosamente, dall’esterno, ma bruciando tutto dall’interno, cioè compiendo l’operazione del fuoco in dettaglio, e senza maledire34.

 

La narrazione si anima attorno alla vicenda dell’antiquario Ettore (proiezione indiretta e filtrata dell’autore), trovatesi in difficoltà economiche, caduto in un dissesto finanziario che deriva dalla sua incapacità di “adeguarsi” ai tempi, fino alla ricerca disperata (ma già presentita come impossibile) di un prestito, una svolta esistenziale. La memoria si sovrappone al presente. Lo scontro tra l’eco perduta di una realtà autentica (la Resistenza, a cui il protagonista ha partecipato) e un tempo disumano (il “miracolo economico”, l’oblio, la “restaurazione” del dopoguerra), precipita e si allegorizza nell’epilogo del romanzo, con Ettore che muore in un incidente automobilistico dopo aver riconosciuto e inseguito, alla guida di una macchina ferma nel traffico di una “gita” domenicale tutta anni Sessanta, il maresciallo delle SS che egli aveva risparmiato durante la lotta partigiana.

Il passato e la sua (drammatica) rievocazione è strumento per una saldatura, sul piano della denuncia civile e dell’intreccio, degli eventi narrati: tra la rappresentazione del presente e la volontà di testimonianza. Usi e abusi della memoria: così si potrebbe intitolare l’insistito monologare del protagonista sui temi dell’oblio, del rimpianto, del rifiuto delle consolazioni nostalgiche:

 

Dobbiamo cercare, anche se sappiamo che sarà difficile o impossibile, cercare di custodire, ecco: preservare questo ultimo guizzo di forza (volontà di vivere e non rassegnazione) che gli anni ci hanno lasciato.

[…]

Imparare a non ripetere più, a non ripetersi… se una cosa è certa eccola: finita la guerra abbiamo dimenticato in un baleno. Abbiamo dormito. È facile dimenticare, alle volte è anche giusto; spesso è così comodo. Il pungolo dei ricordo è irrazionale e soprattutto sentimentale: altro è avere storia dietro e dentro di sé.

 

Attraverso lo svolgersi dell’azione, il cui lasso si estende lungo un ventaglio vario e frammentario, tra soprassalti della memoria e sovrapposizioni temporali35, fautore si immerge nella dialettica sofferta e attualissima, in quel frangente storico, tra la crisi del presente, la scomparsa, la cancellazione del passato (l’oblio), e il rilancio di una volontà etica e civile di denuncia, di critica ai fasti del “nuovo capitalismo”:

 

Il traguardo verso il quale va la conclusione del libro dovrebbe essere non l’autodistruzione, ma una precisa presa di coscienza di una nuova o diversa situazione (già maturata) […]: la nostalgia del passato, inteso come termine di riferimento e trave portante; e non solo la nostalgia del passato ma l’uggiosa voce dei veterani (il io c’ero o l’ai miei tempi) […], non serviva, non poteva servirci più. Era già tutto assorbito, […] era nel nostro sangue. […] Registrazione si conclude con la rincorsa che fa il protagonista per inseguire un ufficiale tedesco: quella corsa all’indietro, che termina con la morte, è appunto il grafico emblematico di ciò che ho appena dichiarato. […] C’è da vedere, al di là della fine del protagonista, la necessità di reperire e coordinare tutta una serie di nuovi problemi per cercare di rimettere in moto il discorso della sinistra che si svolgeva impacciato, contraddittorio; direi vecchio. La mia proposta coglieva, lo credo ancora, un aspetto tipico della situazione (1973)36.

 

A sorprendere, accostandosi al testo, è l’impressione di una voluta e calibrata ricchezza di livelli espressivi, un’ardita e pure controllata elaborazione strutturale: l’«impetuoso avventarsi di soluzioni stilistiche diverse e contrastanti» (Ferretti), comune alle sperimentazioni coeve di Volponi (il contrasto, in Memoriale, 1962, tra un linguaggio subalterno e d’“accatto” da vero e proprio taccuino, e le “illuminazioni liriche” tipiche del Volponi -poeta); in sintonia con l’estrema mobilità strutturale del romanzo di Leonetti, L’incompleto (1964)37; vicino alla procedura dell’inserimento, nel tessuto narrativo, di elementi versificati che spezzavano il discorso (l’assunzioue ironica o straniante del tono lirico), che è metodo seguito nel romanzo di Roversi e nella Ricotta pasoliniana (1963). E soprattutto, in particolare nei casi di Volponi e di Roversi, si registrava uno sperimentalismo “ai limiti” della neoavanguardia38.

Gli elementi stilistici adottati dall’autore appaiono effettivamente contigui alle sperimentazioni teorizzate dai gruppi della neoavanguardia codificata (italiana ed europea): il monologo ulteriore, nello stratificarsi della narrazione secondo ritmi diversi (sulla base di quella che Guido Guglielmi chiama, nel risvolto del libro, la «disposizione orizzontale dei tempi, i tagli […], che segnano il ritmo essenziale dell’esperienza […], sembrano negare un impianto oggettivo dei significati»39); le svariate grafie utilizzate nei dialoghi; la tecnica robusta e insistita del collage, il montaggio di lingue straniere e di gerghi sertoriali; la “frana”, la discontinuità dei tempi verbali; l’alternanza, nella gestione del racconto, tra la seconda e la terza persona; l’abolizione, la forzatura della punteggiatura tradizionale. La rottura, infine, la continua interruzione del tessuto narrativo in blocchi lirici, in spezzature parentetiche (rievocative o descrittive):

 

Di qui il duplice sviluppo del romanzo; lirico ed etico. Il giudizio morale è l’antitesi dei fatti […]. La lingua presenta pertanto il seguente funzionamento. Da una parte il referente è sempre attuale seppur eccepito attraverso il filtro della soggettività, ed è un referente epico-storico definito sulla base di una posizione minoritaria – pour cause – della cultura di sinistra; dall’altra parte i significati subiscono la dilatazione di una intenzione deformante, di una tensione morale negativamente verificata. Ne viene fuori un racconto di immagini, dove la parola-immagine si sovrappone alla parola-oggetto senza obliterarla40.

 

Roversi contamina il tessuto stilistico del testo con l’immissione di termini classici (scientia, chieggono) accanto ad espressioni popolari (di prescia, moccicate, tornarsene a mamma), a calchi dal sermo humilis e plebeo con riecheggiamenti dialettali («go il menisco dio can, ahi ahi la gamba, il ginocchio marna», in corsivo nel testo). Un’autentica contaminatio generum: dalla canzonetta all’elencazione tecnico-burocratica di argomenti (secondo il linguaggio giornalistico parodizzato e immesso senza soluzione di continuità nel racconto, in funzione straniante); da una liricità essenziale e “pietrificata” («a vampate l’afa alzandosi dall’asfalto sbatteva contro i vetri chiusi, i vetri vibravano smossi da quelle dita invisibili», p. 18), a certi momenti di “canto” e di effusione melodrammatica, di maniera («oh struggente inutile / piena di rigore vita di ognuno»; «sempre più breve, sempre più grave è il peso della vita per chi vive, di questi giorni lunghi per un dolore, misurati per la tristezza della noia», p. 45):

 

Molte pagine di Registrazione di eventi sono forzatamente liricizzanti; […] la liricità un poco tenebrosa e ottusa si tenta di avvelenarla dall’interno, direi di “impiastricciarla”, con un “ironia mai scomposta ma uniforme; la parte descritta, che si riferisce a quell’ampio paesaggio di maniera e a certi personaggi che agiscono quasi in costume, è svolta prendendo a prestito il tono enfatico (abbastanza enfatico ma suadente) del melodramma: c’è Verdi dentro quel romanzo, e anche un bel Puccini. Alcuni critici […] non ne hanno tenuto molto conto quando hanno espunto questa liricità “esibita” in contraddizione a certe forzature “avanguardistiche’’ di altre parti: non hanno inteso, cioè, che mi proponevo proprio questo: […] di esasperare le mie contraddizioni […] per giungere […] a un discorso più organico […], in cui bruciassero veramente tutte le mie vanità41.

 

Dalla descrizione ambientale (della provincia emiliana presa come spaccato per intraprendere la registrazione dei guasti della “società del benessere”), alla introspezione psicologica; dall’evocazione di immagini storiche al piano narrativo-didascalico (il dialogo, o più spesso il monologo interiore). Si profila (si rafforza) il caratteristico incedere della sua scrittura: l’autore, tende ad assorbire, ad assimilare nel linguaggio utilizzato la “perentorietà” del discorso assertivo (il “giudizio”, il commento, la riflessione), e la descrizione, la raffigurazione del reale.

Il ritmo della narrazione prende la forma di una musicalità “atonale” e martellante, garantita dalle continue retroversioni temporali (le digressioni e le analessi), dalle ripetizioni (lo stile nominale, la continua autoasserzione che «dà forza alle cose evocate, alla materia, al suono delle voci, degli echi»), dal periodare sincopato:

 

fu investito dalla scarica delle Tetractys bicolore, delle Olivetti 302 alfanumeriche mosse da ometti scamiciati [….], il respiro della posta pneumatica si attorcigliava intorno al tubo ricurvo che sbavava proiettili di cuoio stracolmi di carta arrotolata, di assegni (p. 10);

 

ma io tu voi, essi, coloro, io che mi affaccio a questa finestra, o mi sporgo timidamente (perché la vertigine mi dà la nausea), io che guardo e ascolto, quanti giorni e giorni, e mesi, che quantità, vasta di anni, come acqua o vino, meglio vino che acqua, che trabocca da un fiasco, da una boccia, ho – un colpo di campana, battere di ore, ticchettare, scorrere di sfere, un lento afflosciarsi del sole (p. 155).

 

Ricorre con prepotenza il procedimento dell’elencazione e dell’iterazione delle microstrutture del discorso («la notte è carica di luce gialla, gialla e rossa, nera, bianca, gialla e azzurra e buia», p. 8; «suona il telefono, voci di terroni adirati, piange un bambino, altre donne sul tagliere, un telegramma da lontano, piange un bambino, voci di terroni, una giornata di sole, il telefono suona», p. 112), con evidente effetto polemico, volendo rendere per questa via il senso della reificazione delle coscienze invase dagli oggetti del “benessere”; la massificazione provocata dal consumismo trionfante, nel tempo e nel clima «del miracolo economico all’insegna dei mille frigoriferi, del calo della benzina e delle macchinette di piccola cilindrata»42:

 

case terreni fabbriche, vecchi ori quadri. O io ho inteso male e lei invece può esibirci quadri, ori, fabbriche, terreni, case? (p. 76)

 

navicula, navetta, naveletta, navicula (p. 144).

 

La sensazione che si vuole indurre nel lettore è chiaramente ascrivibile alla “nausea” esistenziale per la falsità disumana che soggiace dietro l’apparente normalità del presente: «che cosa compirà di mostruoso l’uomo domani? La sua pace di oggi, la sua tranquillità fa paura», p. 143. E si vedano, in questa chiave, le brevi catene di predicati: «ma la ragazza era (è un punto, questo) essa era (è, è stata) uccisa, assassinata, giustiziata»; i costrutti nominali («Oh struggente inutile / e piena di rigore vita di ognuno»), fino alle asciutte ed epigrammatiche scansioni di molte frasi, alla sparizione dei nessi: «Una autentica frenesia. Ho bisogno di te. Rise e venne. Sono qua», ad amplificare il senso di angoscia e di sgomento.

È netta, in definitiva, sul piano della “funzione” e della “funzionalità” dei procedimenti stilistici, la distanza che intercorre tra gli automatismi neoavanguardistici e la ricerca di Roversi:

 

Il termine “registrazione” fa pensare infatti a procedimenti di massima oggettività della scrittura automatica […], o alla scuola dello sguardo. […] Invece Roversi parla e agisce letterariamente dal versante opposto, cioè da una prospettiva soggettiva e con una lingua ostinatamente intensa […], ricca di fantasia ma soprattutto di giudizio morale e storico43.

 

Accanto al rigore e alla ricchezza sperimentale dello stile, alle difficoltà di lettura che certamente connotano l’impianto del romanzo, vanno posti un recupero il più possibile esteso di coscienza morale; la permanenza sostanziale, pur nelle sue infrazioni, della narrazione;

la volontà rappresentativa di una vicenda esemplare e di un personaggio recanti nel profondo segnali oppositivi e di denuncia. Il fondo civile della parola letteraria di Roversi resiste e si arricchisce, in particolare, di una precisa volontà di testimonianza della «solitudine economica»,

 

che a me pare più tipica, più scavata e dolente, più generalizzante, nella nostra società, di quanto sia la solitudine esistenziale:[…] la vera oppressione del sistema è l’oppressione economica. Come scrive Marx: tutto è oro44.

 

La sensibilità turbata, lo sdegno morale e risentito dello scrittore si indirizzano alla denuncia della potenza prevaricatrice del denaro, alla condanna della pervasività della sfera economica che altera e condiziona le relazioni umane, annulla la solidarietà. Roversi testimonia e indica, in direzione politica e antropologica, l’indifferenza morale che si accompagna al “benessere”, il servilismo e il cinismo (“l’alienazione”), come i reali “acquisti” della rivoluzione industriale italiana:

 

Così ci si illude di vivere, al caldo, al sicuro, con questa tranquillità sulla testa, e sia pure una tranquillità episodica, rubata all’amarezza degli anni e alla solidarietà con gli altri. Per te è intera la pace della coscienza, tu sta’ tranquillo dunque e vivi. E così lui, e lui. Se i pensieri tardano, o il corpo si rattrappisce alla morsa del reumatismo, o improvvisamente paonazzo nel sangue si consuma, o s’arresta il cuore; ebbene? È un altro che muore, non io. Io vivo, io. Io sono felice, oggi. Io posso andare, muovermi e partire. Ma dentro a una stanza, mentre fa i conti sul tavolo, eccolo il contemporaneo. Come crocchia la sua solitudine, com’è sola la sua solitudine (p. 120)45.

 

Alcuni tratti del romanzo sono riconducibili agli esiti surreali e “fantastici” di certa letteratura novecentesca: «il naso appesantito dalla carne» di un uomo; il vecchio «con zampe interminabili e […] due artigli paurosi» (p. 65; p. 90). Lo stile, anche in questo contesto, è messo al servizio del compito di una scrittura “civile” esasperata e insistita, affidando alla deformazione grottesca, alla lievitazione visionaria e alla tensione espressionistica nella descrizione dei personaggi, il compito di trascinare il lettore nell’“inferno” del reale46. È il segno definitivo, sul piano ideologico che si saldava alle nuove acquisizioni elaborate a livello espressivo, di un mutato atteggiamento psicologico che l’autore esprime attraverso una sperimentazione e una ricerca stilistica, e più strettamente linguistica, testimoniata, tra l’altro, dalle “inchieste” avviate su “Rendiconti”.

La rivista, aperta al dialogo e al confronto tra alcuni sodali di “Officina” (Gianni Scalia e Franco Fortini) e nuove forze intellettuali, si basava sul proposito di fondere in uno le urgenze etico-ideologiche di punta con le metodologie scientifiche più “rigorose” ed extraletterarie, Così Roversi spiega le ragioni fondative di quella esperienza, ricollegandosi ai trascorsi officineschi:

 

Con “Rendiconti” si è inteso – sia pure attraverso scompensi che un lavoro (così) impegnato produce –, ricercare nuove metodologie e aprire a nuove direzioni problematiche, predisponendo, o almeno ricercando, gli opportuni agganci; quindi si è tentata (e si tenta) non tanto un’opera (un lavoro) di aggiornamento, ma una vera e propria operazione di scavo, molto cautelosa e specifica, per la verità, e senza smanie; ma possibilmente precisa, persistente e attenta. Invece “Officina” è finita nel momento in cui avrebbe potuto cominciare, veramente, ad avviare un’operazione analoga. È mancata, allora, un’opera di ricognizione generale e di aggancio delle (e alle) novità sostanziali.

 

“Officina” era una rivista fatta di letterati. Da qui, a parte il particolare interesse che la rivista potè suscitare, il limite obiettivo della operazione intrapresa e dei risultati. […] Hanno avuto la prevalenza […] problemi inerenti alla letteratura piuttosto che problemi ideologici, che i problemi politici […]. E così si chiarisce il motivo per cui, appena più tardi, ho sentito di dover continuare un lavoro attraverso “Rendiconti”; “Rendiconti” infatti si pone nei riguardi di “Officina” non in una posizione divergente o contrastante, ma in progresso nell’ordine di una serie di problemi allora appena sfiorati o svolti in maniera parziale. O anche neppure toccati.

 

In “Officina” non è stato chiaro, non è mai stato chiaro il proposito di trasferire i problemi letterari a un diverso livello, di collocarli in una diversa e direi nuova posizione nei riguardi di una società che si evolveva con tanta rabbia e così in fretta (o sembrava); cioè non è stato prevalente l’interesse di creare i necessari collegamenti con i fatti sociali, con i fatti politici, con i fatti economici che parallelamente progredivano da noi (1973)47.

 

Il periodico si vorrà definire significativamente “rivista bimestrale di letteratura e scienze”, e si avvale della pubblicazione di interventi teorici e sondaggi, ricerche specifiche e inchieste, più che di testi poetici. Tra i collaboratori, vecchi compagni di strada di Roversi e gli intellettuali che consentivano contatti e scambi con le esperienze della “sinistra dissidente” attive negli anni Sessanta, spiccano i nomi di Fortini, Scalia, Guido e Giuseppe Guglielmi; Gian Carlo Ferretti, Leonardo Sciasela, Calvino, Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi; Mario Insenghi, Vittorio Sereni, Pagliarani, Giovanni Giudici, Majorino e Cesarano. Lo scritto che descrive con rigore le linee di riferimento ideali e metodologiche, stabilendo la collocazione della rivista (e dell’autore stesso) nel contesto politico-culturale del tempo, è costituito dall’intervento di Roversi, dal titolo dantesco La settima Zavorra,che appare sul numero 4-6 del novembre 1962:

 

Non amo il mio tempo, “questo tempo”; e non lo amo così come lo vedo, da noi qua, mentre presume di aver raggiunto forme perfezionate di civiltà propagandare invece le (logore) parole del linguaggio politico-burocratico-occidentale: libertà, democrazia, regime parlamentare; che secoli di storia hanno definitivamente usurato, coprendole di sangue, di una polvere fitta, di ricordi di dolore, di perfide contraddizioni. Nazionalismo, metafisica, misticismo. Non mi interessa vivere in questo paese; le vicende d’Europa, naufraga e perente, tuttavia ridondante di pretesti e di alibi, annoiano per disperazione o irritano per la loro periodica “inutilità”. Così qualcuno può scrivere: la rabbia di… Sia pure, con ragione; se divergendo da: rabbia in corpore litterae, nella fattispecie per opere cattive e patite per colpa dell’autore, indicasse: per la, o per una realtà autentica che, anziché opprimere, e dunque costringere all’azione, offende, e dunque addormenta e isterilisce – anche i propositi migliori. Rabbia politica, che è o dovrebbe essere sana e giustificata48.

 

Ritroviamo i temi e i termini interni al discorso letterario che egli andava svolgendo in quegli anni: dal reciso ritiuto della neoavanguardia alla crescente attenzione, l’intensa partecipazione verso le problematiche politiche più attuali (il centro-sinistra, la crisi cubana, il neocapitalismo). La polemica, condotta con uno stile che ricorda le ultime note pubblicate su “Officina”, coinvolge il panorama politico e culturale del periodo, dalla svolta più “ministeriale” che “riformista” del Partito Socialista alla descrizione satirica e risentita della classe dirigente del tempo («solo pensosa di dio e tifosa di calcio, […] dello stesso stampo della classe pre-fascista»); il nesso tra assunzione del centro-sinistra a formula di governo ed esplosione in contemporanea della neoavanguardia, vista come «liberazione dei fenomeni informali, neofuturistici ed ermetizzanri al livello dell’ufficialità». È tutta qui la descrizione circostanziata della condizione di crisi, lo stallo della cultura di sinistra:

 

[…] l’assenza quasi totale della critica letteraria marxista dal terreno della lotta ideologica e la sua partecipazione in atteggiamenti equivoci a tutti gli incontri mondani, […] in una esibizione spesso di un crocianesimo infetto e approssimativo […], senza alcuna programmazione specifica […], incapace di contrastare.

 

Nel particolare si ribadisce, frontale e senza equivoci, la critica rivolta alle neoavanguardie, ai «loro sistemi diacronici, […] le loro ricerche neo-dada, […] il falso illuminismo delle loro scorribande estetiche», che «[…] sembrano scoprire il mondo e invece lo ricoprono con uno strato di polvere, un sottile velo mortuario». Un gruppo presentato come epigono dell’“esecrato” futurismo, filtrato sotterraneamente dall’«ermetismo fiorentino del ’38, Strapaese e ’900», che utilizza una lingua «pettegola senza peso, vocabolaresca, cantata, recuperata per la necessità contingente», col fine strategico di riproporre un «nuovo ontologismo, una metafisica mimetizzata […]: una specie di fenomenologismo estemporaneo». Una manifestazione politico-culturale esemplare dei processi ideologici del tempo,

 

[…] moss[a] innanzitutto dalla vecchia convinzione […] che la politica sia da tenersi distaccata dalla letteratura […], e che il fatto letterario si misura dal di dentro, nella sua tensione linguistica e non affatto nel grado, nella misura della sua politicità, cioè della sua aderenza alla realtà immediata, sociale49.

 

E un’anticipazione interessante (per l’intuizione sullo specifico e per il corso della sua vicenda editoriale), veniva dall’analisi compiuta sull’industria culturale, sul passaggio che si verifìcava «dall’artigianato di vecchio stile […] a una struttura industriale consegnata alle regole», che non solo utilizza la letteratura, ma la programma, la controlla, attraverso il «condizionamento preventivo del gusto del pubblico, il battage pubblicitario». Roversi coglieva precocemente le trasformazioni sostanziali che avrebbero coinvolto in Italia «i rapporti fra produttori di cultura (gli autori) e industriali del libro, fra produttori e pubblico»; percepiva i processi reali che intaccavano direttamente la condizione dell’intellettuale, superata, ormai, la figura del letterato «interpretato e visto come quello di una personalità bizzarra, estrosa, […] estroversa, improvvisatrice, fuori delle regole di una pratica disciplina di lavoro; che divertiva e soltanto un poco angustiava i tranquilli circoli delle vecchie borghesie». La distinzione tracciata fra gli uomini di cultura è netta:

 

fra coloro che non intendono sottostare a pubblici impegni che non siano propositi di produrre opere accepibili e di successo, e coloro (ma sono ormai una piccola schiera) che persistono nel proposito di credere che non può darsi opera, comunque intesa, che non sia affondata entro una precisa problematica sociale; […] [interpreti di una pratica letteraria] intesa come ricerca, come opposizione, come analisi di situazione, […] come proposta ideologica o attività conoscitiva (un modo di conoscenza).

 

Per poi concludere, non senza un tormentato riferimento autobiografico:

 

[…] agli oppositori ideologici […], cassati dai registri […], non resterà per il momento che la via dell’esilio, il contrasto all’angolo delle strade, la lotta armata, oppure isolarsi in una deprimente semiclandestinità […], vivendo come un naufrago sperando in una bottiglia50.

 

In questo senso si misura l’originalità dell’elaborazione teorica espressa da “Rendiconti” nel corso del tempo:

 

Nell’ambito delle riviste della nuova sinistra (intendo quelle politiche, da “Quaderni Piacentini” a “Nuovo Impegno” a “Classe e Stato” per fare degli esempi), “Rendiconti” dovrebbe avere una sua collocazione abbastanza precisa, perché pur essendo attestata sulle stesse posizioni, invece di elaborare una serie di discorsi politici (svolti in maniera molto organica da queste riviste), elabora una serie di ricerche metodologiche, nell’ambito di una disciplina specifica (o di alcune discipline) che vorrebbero e dovrebbero confluire nella stessa direzione51.

 

La conformazione della ricerca che si auspica di perseguire all’interno del gruppo viene esplicitata nell’introduzione ad uno scritto del 1966: «…non è che il marxismo sia in crisi, sono in crisi le interpretazioni del marxismo… ma il torso di legno duro rimane; soprattutto resiste, bisogna rivestirlo»52; altrove: «i problemi della letteriitura non sono rappresentati dalla letteratura ma dalla lingua»53. E infine, come dichiarazionedi poetica:

 

Così anche la poesia, lasciate le propaggini di parnaso […] siede a un tavolo e ascolta; impara e scorda di cantare. Si è fatta conoscenza e intelligenza, retorica delle idee, conguaglio dei problemi, scienza del linguaggio. […] La poesia si assume l’impegno di partecipare, con gli strumenti linguistici strutturalmente integrati, alle contestazioni continue dell’equivocità delle operazioni di ammorbidimento e cooptazione che i sistemi “ordinati” compiono contro lo svolgersi delle ricerche la libertà delle strumentalizzazioni e dei specifici interventi. Conoscenza del mondo (possibile) nella sua organicità; contestazione dei sistemi e degli istituti integrativi da qualsiasi parte si svolgono; ribadimento delle responsabilità pubbliche, cioè sociali, che tale strumento di comunicazione comporta. […] Una poesia semantica contro, o sostitutiva, della poesia sentimentale. Si richiede una tensione faticante, che non è curiosità ma determinazione, per capire il mondo che viene, non il mondo che va – che pare abbandonato per sempre (1965)54.

 

Con le analisi della rivista avviate intorno alle problematiche socio-linguistiche legate alla comunicazione, ma anche con la sua più recente produzione poetica e teatrale, Roversi sembra avvicinarsi a certi tentativi coevi di possibile saldatura tra esperienza del marxismo e metodologie di origine strutturalista:

 

a questo punto il discorso sul romanzo, a mio parere, deve ampliarsi a un discorso sull’informazione in generale, in ogni suo particolare, radiofonica, televisiva, giornalistica, libresca (ai fumetti, quadri, pubblicità stradale, eccetera)55.

 

E ancora, partendo

 

[…] da questa premessa, che toccava un “punto” di fondo nell’organizzazione del nostro lavoro: i problemi della letteratura non sono rappresentati dalla letteratura ma dalla lingua.  Ne è conseguito l’interesse preminente, almeno fino ad oggi, per i problemi linguistici e per le ricerche metodologiche56. La questione del rapporto tra dottrina marxista e strutturalismo, che la rivista di Roversi non sembra porsi nei termini riduttivi e mistificatori di un mero “aggiornamento” esteriore del marxismo57, si risolve produttivamente verso l’interesse per le discipline extra-letterarie58. Accentuando l’analisi linguistica dei processi socio-politici e culturali del presente: dal mondo della scuola59 alla condizione femminile, dal linguaggio giornalistico al “politichese”60. E rilanciando, in sede di riflessione sulle potenzialità della parola letteraria, i suoi caratteri di «scienza del linguaggio», il suo valore demistificante, di «conoscenza e contestazione» dei “codici” del Potere. Questa originale torsione del linguaggio letterario si riscontra nel primo lavoro teatrale di Roversi, Unterdenlinden (1965)61. La stesura della piéce è strettamente intrecciata alla contemporanea produzione poetica de Le descrizioni in atto. Nella quarta di copertina dell’edizione Rizzoli del 1965 (ed ora anche presso Pendragon, 2002), si riportava il testo della Dodicesima descrizione, dal titolo Corrispondenza su Marte:

 

Se Adolfo ritornasse che non poteva tornare

se Adolfo tornasse quando poteva ritornare

(effetto di straniamento)

se Hitler precipitasse fra noi, il poveromo, lo scheletro,

il suo stomaco d’invidia e il suo cervello di massacratore;

se Goering, Goebbels, Himmler, Fogelein fucilato…

Adolfo era bennato e a capo del grande reich,

morì bruciato.

Prima serie d’esempi. Ma adesso:

è meglio dare calce alle mura di Volterra che crollano così pare

o alzare alla Fiat un padiglione di Nervi gioiello d’architettura?

dovendo scegliere è meglio una petroliera dell’Eni

che s’avventura per i mari a gloria della nazione

[…]

meglio l’antico, il non perituro, la certezza il

passato duro e rustico

– la sicurezza della pietra ribattuta da una ruota, la faccia

di marmo della storia –

o l’equivoco progresso del tempo che sovrasta così rozzo

corrotto indecifrabile oscuro…62

 

Il dramma, messo in scena sul palcoscenico del Piccolo Teatro di Mulano nel 1967 (in una discutibile rappresentazione per la regia di Raffaele Maiello), presenta una trasparente chiave di lettura ideologico-politica, polemico-didascalica (e questo permetteva, ai non molti recensori del tempo, di avanzare con insistenza riferimenti al modo brechtiano). L’opera si avvale di un vivace sperimentalismo formale, di una sovrapposizione alternata e scattante di piani linguistici, con i quali si provvede allo smascheramento della violenza, della disumanità del presente. Un presente trascinato, in un cortocircuito visionario eppure verosimile (“assurdo” e “logico”), al cospetto del ritorno di Adolfo; copia, clone del dittatore nazista.

Assistiamo, in un effetto di straniamente e dentro «uno spaccato per niente allegorico»63, alla ripetizione dei suoi metodi mostruosi, delle sue manie e dei suoi tic; all’usurpazione insolente, volgare, rozza e arrogante del potere (delle case, delle persone) e, infine, all’ascesa, alla conquista della guida (economica e politica) in una Germania moderna e industrializzata:

 

Bormann: Merda tre volte! Questi giorni che non passavano mai, mai passavano, e questi ozi forzati. Tutto, qua dentro; tutto è fottuto qua dentro.

Adolfo: Ozio forzato? Piuttosto un momento d’attesa. Che cosa è cambiato intorno? Lo dica, Bormann, poveretto, su lo dica. Da quel che sappiamo…

Bormann:(pronto) Niente. Niente è cambiato. Niente. Ci aspettano. Chi è in alto resta in alto e tutto il resto…

[…]

Adolfo: […] E via questi baffi (esegue) e un altro vestito intanto (esegue).Pronti, così. Non è passato molto tempo, dobbiamo accontentare molte speranze, soddisfare the people. (Sorride), p. 9.

 

Una pièce a tesi, “monocorde” ed intensa, con una esposizione cruda e diretta della vicenda narrata, «senza uno iato, una risata, un’indulgenza qualunque»64. Il discorso procede secondo una voluta e calcolata forzatura del verosimile: come è stato osservato, Roversi abolisce i momenti intermedi, le scansioni dell’intreccio, per afferrarne il nudo scheletro65. L’intuizione, la trovata di un passato che ritorna; lo stratagemma della duplicazione del dittatore, perfettamente a suo agio nei nuovi ambienti dirigenziali, sembra portare il testo sull’orlo dell’“a-storicismo”: ma è, appunto, un «a-storicismo agonistico» (Ferretti).

«Unterdenlinden è un dispositivo da cui ricavare […] una successione di riflessioni, e non una descrizione plausibilmente realistica di un’ascesa politica. Ancora meno, evidentemente, una allegoria»66: l’esemplarità della vicenda narrata si dispone, tra realtà, precisa ricostruzione storica (storiografica) e finzione, sul piano della “dimostrazione” di una tesi. Al centro della ragione poetica, dell’interesse “civile” e polemico di Roversi, si situa l’individuazione (la denuncia) di un rapporto organico tra struttura capitalistica e nazismo, o, meglio, tra il nuovo capitalismo delle multinazionali e il risorgere dei nuovi fascismi.

Sullo sfondo della visione del grande capitale inteso tout-court come matrice, origine diretta e, più propriamente, come struttura di Potere convergente con il nazismo, si dipana la vicenda spaventosamente lineare (e agganciata, come indicano le didascalie, all’attualità più stringente: «nella notte tra il 7 e l’8 maggio 1965») delle incarnazioni di un redivivo Adolfo, capitano d’industria calato con successo nelle cerehie delle multinazionali. Fino alla sua scalata alla guida del governo, a riprova della natura reazionaria di ogni sistema che assume in sé, senza distinzioni, sulla base della violenza, dell’assoluta e programmata prevaricazione, il potere economico e il potere (il “controllo”) politico.

È significativo che l’uccisione (illusoria) del dittatore sarà compiuta da un giovane per amore e gelosia, mentre gli operai in sciopero generale attendono in disparte e “lasciano fare”:

 

Primo operaio: Lasciamoglielo fare. Assistiamo in silenzio, sperando che tutto accada come vogliamo.

[…]

Primo operaio: E adesso? È risolto qualcosa?

Secondo operaio: No, se ritorniamo alle aringhe.

Terzo operaio: È vero, andiamocene. (pp. 70-71)

 

Ma, in effetti, «il potere è scaltro», e come nelle migliori strategie dittatoriali si scoprirà che l’uomo assassinato è un sosia di Adolfo:

 

Adolfo: […] Vi ho buggerato. Lo sapevo, lo sapevo. Ma come! Gridavate abbasso l’aringa, di qua e di là; e fischi, e poi sporcare i cessi. Sono i primi segni del disordine che viene, i primi segni di una rivoluzione. Forse non dovevo stare in guardia? Ma chi conosce, fra di voi, l’arte del pagliaccio, un’arte sottile, difficile – che mentre ride fa piangere? La dote dell’ubiquità, il piacere dell’intrico? Chi di voi sa prevedere e collocare, collocare ogni atto al posto giusto, al momento giusto? Chi giuoca sull’anticipo, chi si spreme le meningi nelle veglie notturne? Vi abbandonate alla vostra voglia di vivere e vorreste fare i furbi! Guardatevi! Sorpresi, rincoglioniti. Lì, come poveri stracci. Vi ho in mano. Tutti insieme, una massa di povera vecchia carne. Vi sfilacciate, inermi, desolati. Ebbene? Ebbene! La vecchia storia ricomincia, a calci nel sedere vi incolonno e vi spingo e vi trascino al foro, al luogo delle rimembranze, a rispettare la patria. C’è un morto per terra. Piangetelo, seppellitelo. C’è un vivo di fronte a voi, più vivo che mai; applauditelo. Ma tutti insieme mi fate schifo. Sempre i soliti siete, mi par di ricordare. All’erta! Non sentite il suono delle nuove trombe?

Padre: (entrando con la Ragazza) Urrah! Bravo! È salvo, l’ha scampata. Adolfo è vivo. Finalmente! La storia, la vecchia storia ricomincia (p. 72).

 

Come osserva Picchi, se è giusto insistere sull’importanza di questo aspetto dell’opera, è altrettanto evidente che il senso complessivo della pièce trascende il suo intento più diretto di denuncia, e riguarda, ad esempio, «la violenza, la ricchezza,o il fasto, del potere. E cioè il terrore e la propaganda. […] Da questo punto di vista la parte visiva del testo di Roversi è un percorso dentro questa festa di morte, in questo banchetto di Trimalcione, banchetto nefando»61. Trascinando in scena, in particolare, dentro un corpus fìtto di citazioni dirette e indirette, illuminanti e incisive (da Marinetti a Eschilo, dal Mein Kampf a Nietzsche), l’armamentario aggressivo e volgare dei luoghi comuni, gli slogan, la retorica, la propaganda dei fascismi di ieri e di oggi (che si intrecciano e si materializzano nell’universo moderno, efficientistico, dell’industria)68:

 

Adolfo: Siete merda. Avete un giorno nella vita in cui correte a rotta di collo, poi vi adattate all’impiego, ai soldi del babbo, e non c’è gioia più grande per voi che applaudire chi rischia veramente; che cercare il vostro eroe. E questa è la conclusione: aringhe o no, mio bel somaro, ne avete uno davanti che presto o tardi, scocciato, vi darà due bei calcetti nell’osso sacro. E che per intanto vi fotte la ragazza. Col vostro permesso (Si allontana) (p. 61)

[…]

Adolfo: (seduto) Signori, benvenuti. Ci rallegriamo che la nostra fabbrica vi interessi, come organismo produttivo e per la sua struttura amministrativa e d’altra parte saremmo sorpresi che non vi interessasse. Per questo i nostri bravi operai esultano, e tutti lavoriamo con più lena. La fatica è bandita dal forte suolo tedesco. Strimpellano i martelli, s’alza un gran volo di seghe. L’aria odora, come sentite, di un ordinato fervore. D’altra parte questo vostro interesse, miei cortesi signori, è una sferzata sulla groppa della nostra superbia e nello stesso tempo raddrizza gli ottusi, se ci sono, sveglia chi dorme e infine dà la carica ai figli di brutta donna, per lo più marxisti, che badano solo alla fine del mese e a rovesciare il governo. […] Noi tendiamo a rendere tutto automatico, tutto ordinato, nel lurido abitacolo dei corpi. Tutto dico: braccia, culi, cervelli. Abolizione completa dei gabinetti, qua dentro; non si piscia né si evacua. No, signori, perdio. Aboliremo col tempo addirittura l’operaio, questa figura malsana e sudorifera, archetipo di ogni scalogna. Tutte macchine, dopo. Lustre, lucide, che suonano; ubbidienti, taciturne, pronte al servizio. Basta con la carne umana, costosa, malferma, incerta, titubante; così scarsamente produttiva. Automazione vuol dire per noi automazione totale (scandisce) to-ta-le. (pp. 29-30).

 

La freddezza del subdolo linguaggio commerciale dettato dalla logica del profitto:

 

Signor Tifling: L’analogia delle risposte è evidente, sia pure sollecitate in diverse condizioni di tensione motrice. […] Dalle risposte date ai tre questionari risulta che lei, con giusta misura, è razzista e odia i colorati, è ateo e detesta in eguai misura comunisti e cattolici, e infine ritiene una terza guerra generale la pulizia del mondo, l’olio sulla pece, il trionfo definitivo del nostro popolo. (Adolfo annuisce, gli altri battono le mani). Adesso dica, esaminando in un minuto questo bilancio, se crede di riuscire a incrementare le vendite, in quale misura e in quanto tempo. […] Per concludere, lei è insediato. Con questi risultati non ho dubbio ad affermare che il posto attribuitele per quanto importantissimo è ben piccola cosa per una personalità come la sua, con un quoziente di capacità dirigenziale uguale a 17,89, mai raggiunto da alcuno e superiore di 8 decimi alla tabella di Rupp (pp. 17; 19; 26).

Adolfo: L’alleggerimento forzoso delle unità lavorative sovrabbondanti è stato compiuto, mi creda, in modo balordo. Troppa pubblicità. Un fatto rumoroso, un casino (p. 28).

 

Il politichese, le teorie “scientifiche” della razza messe al servizio del fanatismo69:

 

Adolfo: La questione sociale è sterco. Grossolanità morale e spirituale del popolo miserabile. Occorre il senso della nazionalità. La dottrina ebraica del marxismo ripudia il principio aristocratico della natura e al posto dell’eterno privilegio della forza e dell’energia mette la massa del numero e il suo peso morto. Ma è compito nostro, oh sì, portare il nostro popolo a quella mentalità politica che gli farà riconoscere come la sua meta futura non consista nel rinnovare la spedizione di Alessandro, impressionante e inebriante, ma nell’alacre lavoro dell’aratro tedesco, al quale la spada deve dare il terreno (pp. 37-38).

 

[…] Diciamo che la nostra epoca, in una situazione d’emergenza, ha bisogno, e con una certa fretta, di livellare e liquidare. Abbiamo bisogno di una pulizia della razza. […] Il nostro popolo, una volta ripulito e messo a nuovo, è grande ed è destinato al futuro. Errori di calcolo lo hanno infastidito e magari danneggiato in passato. Ebbene, non si ripeteranno. Anche se ciò è accaduto perché si è fidato di autentici traditori. Ma adesso! Dinamismo, questo è il motto; leggerezza urbana e singola competenza; olocausto scientifico e dedizione della mente. Una terribile dolcezza sarà forse il segno della nuova era, e nessuna cosa inutile sarà detta. Si eviterà in tal modo il dolore della curiosità. Ne deduca che giornali, libri, tipografi e altre cose del genere si renderanno perfettamente inutili. Anzi, saranno considerate nocive (pp. 49-50).

 

Nessuna sorpresa. Puntelliamo severamente l’ordine delle cose e del paesaggio, noi; e puniamo il disordine che si esprime dalla cloaca delle contraddizioni. Eh eh! Ogni angolo è dunque presidiato, ogni pertugio esaminato, ogni atto controllato. Là dove c’è ordine, assoluto, c’è compiutezza di operazioni e benessere per tutti. Là risiede il sovrano decoro tedesco (p. 31).

 

Si cerca un capo di governo, un capo per questo governo, trascinatore di folle, un abile amministratore, salace narratore di storielle, autorevole, autodidatta, affabile, cortese, umano, casalingo, prestante, dolce coi ragazzi e tenero coi vecchi, di facile commozione, di lunga e proverbiale pazienza; che sappia intenerire le zitelle e dar colpi di maglio sulla crapa dei veterani, che si sentano ribollire alle orecchie il sangue delle battaglie. Che sia sano e adulto, dopotutto. Ma insieme un feroce mastino, perfido, senza il sentimento della tenerezza, senza cortesia. Un grande attore. E di lingua tedesca (p. 51).

 

La “reattività” linguistica del testo è dato indiscutibile: fa risaltare l’attitudine congeniale di Roversi alla scrittura scenica, e contemporaneamente testimonia dell’evoluzione del suo sperimentalismo formale70. Si susseguono e si sovrappongono, nell’opera, piani verbali che interessano la canzonetta e il proverbio; il linguaggio asettico dell’industria (e della terrificante “efficienza” politica del nazismo); l’immagine triviale e l’evocazione lirica; il recitativo e l’insulto plebeo71; il commento sferzante, i proclami e i programmi politici; i “codici” della pianificazione industriale e gli slogan pubblicitari:

 

Adolfo: Poi grandi cartelli sulle strade. Così: “Dal Mare del Nord diretto al vostro piatto”. Oppure, con l’immagine della triglia nel vassoio: “Vi aspetto sognando”. O: “Uccisa con dolcezza vi nutro con ebbrezza”. In un anno il fatturato è quadruplicato. (Applausi), p. 20.

 

La deformazione grottesca a cui si sottopone il protagonista è il viatico per la testimonianza della violenza (della volgarità) del Potere: nel tessuto dialogico dell’opera si avvicendano lo spregiativo, il diminutivo sarcastico (manine, cervellino, agnellino, vocetta, calcetti), i termini rozzi propri di un linguaggio “basso” e da strada. Gli insulti ricorrenti, ma anche l’anacoluto, le volute sgrammaticature, il gergo da bordello, dozzinale (Ci ho; mi piglio l’otite; stravacco; me ne impipo; me ne sbatto; bischero ammosciato; E noi spernacchiamo; Un raccatta-palle dei grandi; Ma però; Ti spicci?; mi scocci; se tu non smergolassi tanto; chiavica; puzzo; la mona tedesca; la ciccia; chi fischia crepa; mucchio di lardo; vacca; mucchio di bastardi; vecchio puttaniere; eccetera), che stridono con il linguaggio formale dell’ufficialità. Di nuovo, il materiale linguistico a disposizione viene trattato nella direzione di una denuncia civile e polemica dei “guasti” del presente.

Ed è con la pubblicazione di parte delle Descrizioni in atto su “Paragone-Letteratura” (1965) che il progetto linguistico di Roversi si ribadisce in tutta la sua intensità ideologica ed espressiva: ad una materia del contenuto, che reca segni sempre più “urticanti” di un confronto (oppositivo) al nuovo tempo di cui partecipa, si unisce definitivamente una forma adeguata ed efficace, “antitradizionale” e innovatrice.

Il rinnovato programma poetico da conseguire è chiarito dall’autore in uno scritto apparso un anno prima su “Nuovi Argomenti”, in risposta ad una celebre inchiesta sul rapporto tra “neocapitalismo e letteratura” (1964): il punto fondamentale da cui far procedere qualsiasi discorso sulla funzione (sull’utilità) dell’atto dello scrivere nel presente è comprendere che, nel momento in cui neocapitalismo e «letteratura nuova» vivono «in situazione di piena analogicità direzionale e di asserita comunicabilità economico-politica», l’unica alternativa, il solo compito a cui può assolvere una poesia “civile” e oppositiva, intrinsecamente ‘‘politica”,

[è] la messa in chiaro fenomenologica della realtà contro ogni mistificazione irrazionale o contro ogni razionale mistificazione; sì, ancora una scelta che implica, come sempre in verità, il destino dell’uomo. […] Un pubblico impegno di rottura e di frazionamento e smascheramento delle circostanze e delle persone72.

 

E si veda, allora, come dentro l’«esasperazione morale e stilistica» espressa dalle liriche73, i temi centrali siano l’aggressione “demistificante”, lo smascheramento di tutti i miti, i valori, le ideologie razionalizzatrici e omologanti del neocapitalismo; il rigetto del tronfio ottimismo dei ceti dominanti, la satira della cinica ambizione degli uomini di cultura; la denuncia dell’oblio, della violenza, del vuoto etico del presente (il rovescio, in sostanza, delle speranze resistenziali e “progressiste”);

 

E il vecchio spiaccicato sulla strada?

Fu (ricordi, certo in dicembre, o prima)

nei giorni della morte tranquilla di Kennedy

colpito da due tranquille pallottole

nei mattino tranquillo

dentro a un tranquillissimo sole

e la gente restò tranquilla

dopo un tranquillo pianto

(IX)

 

[…]

– la caratteristica del tempo è una misurata indifferenza,

tutto interessa un poco per brevissimo tempo,

ogni cosa muore, deperisce, sé consuma e sfoltisce

nel forno della memoria.

(X)

 

Perché l’uomo (verme;

giovane teppista checolpisce;

abile accorto statista che mentisce

con garbo, sorridendo)

domandavo come un uomo

riesca a dimenticare (la domanda è retorica).

Il denaro forse, o l’amore;

i debiti di gioco; e delitti compiuti;

l’ambizione che è una spuma del cuore

[…]

Dimentica perché è misero, è perverso,

è debole; uccide perché

è più facile compiere azioni di guerra

imparate in anni non lontani

che sciogliersi le braccia bruciando per il dolore.

(V)

 

Rifiutare i simboli il prestigio

le vecchie uniformi le cattedre

la regina che siede in una villa veneta con il ragno di noia

[…]

Non si è spostato l’ago della bilancia (ma si sposterà);

attitudine ai ricatti, per una fotografia

sedere sulla poltrona di marca con la nuova cravatta,

il torpore, ahi magniloquenza, l’ambizione

infine il burro rancido, la sciocca topografia

e sulla confusa esitazione stendere un pannodi lana.

Ma ecco, basta un giorno e:

grammatica e futuro finiranno

(XI)

 

Anche la fame d’ora innanzi uguale per tutti

si dirà piuttosto una scepsi alimentare,

decelerazione digestiva, nevrotica sazietà

(milioni d’analfabeti, recuperati coi tempo,

si fideranno intanto della buona fede dei dotti).

Un ministro socialista chiama

i licenziamenti alleggerimento di mano d’opera

– altrove con gli elettrodi ai coglioni

si convince qualcuno perché rispetti la noia svedese, l’ice-cream

americano, il miracolo tedesco o il sole italiano

e chi si perita con tristi occhi feroci

è un baco da ulivo irrorato dall’alto

(XII)

 

e una pietà di noi si distende sopra le forme immobili

(con noi) nell’attesa perfida dello spettacolo

– la consumata mente, l’usura, il sillogismo –

[…]

e tutti noi (il giro del dito è ampio)

degradiamo nella mistificazione

(X)

 

È un fatto, tuttavia, che in questi primi componimenti si avverta più forte e drammatico il senso dell’impotenza, dell’isolamento, della solitudine:

 

questa è la solitudine. È la paura

indefinita, dura,

di restare per sempre conficcati, al suolo;

d’essere solo, ignorato ignorante ignoto;

di sbiadire dentro a un’ombra

nel vuoto respiro dei tempo, per sempre

(II)74

 

La volontà di annullamento, il suicidio:

 

La morte dentro al mare è più economica, tranquilla

la più lontana,

l’uomo scompare non si deve piangere seppellire

custodire vigilare, una morte pulita,

il suo povero mito dimenticato.

Dicono è mangiato dai pesci

- mi pare, più semplicemente e con ragione, dicono che

giunto nel fondo l’uomo si apra e attenda

di scomparire divorato dal tempo. Laggiù tutto è buio

(XI)

 

Tutto scomparso, assopito, scancellato, annegato.

(X)

 

La sfiducia verso gli istituti politici e culturali tradizionali:

 

i vecchi maestri hanno insegnato a mentire,

a tradire; hanno offerto veleno alla fame.

Spezzavi il piane’ e morivi. Li vedi

oggi, dentro a questi giorni di pece,

in lizza spingere i giovani agnelli […] al macello

(X)

 

Il letterato che

 

sillogizza ma non opera

[…]

nel caldo della stanza

mentre fuori riapre al mondo distrutto dall’acquazzone

e rigurgita una cloaca con la gola di vacca

e si fa notte fra i lampi

(X)

 

L’apocalittica visione del reale:

 

[…]

in una sola morte

fra i vivi angustiati ai teleschermi

o delizianti agli stadi (senza gloria),

fra queste facce dagli zigomi rossi,

giacche beate, mucchi d’ossa, legni

e schiene dondolanti, capovolti,

ipocondriaci e affamati,

spazzatura della storia

(V)

 

Visi di uomini trapassati sbiancavano in polvere

non era vero più niente.

(X)

 

Eppure la scelta di campo è netta:

 

Così (alla fine di un discorso

persuasivo, poco argomentato)

la magra consolazione è ovvia certamente;

meglio finire in ceppi costretti al

silenzio o condannati a consumarci

in questa solitudine che si scompone,

meglio ancora, ancora meglio finire sotto il voltone

di un ponte abbandonato,

nello scalino invernale

della casa di Galvani,

meglio divorato dai cani

che (piuttosto che) finire sul palco del signore (spellarsi le mani)

a sostenere le code,

meglio spiaccicato sull’asfalto,

nudo in un vento di vecchiaia, gelido, che osannato

sul palco del vincitore.

(IX)

 

L’impegno civile è preservato da ogni nichilistica contemplazione della disumanità del presente. Lo sperimentalismo stilistico e strutturale (le infrazioni della metrica, il verso libero, il sostrato decisamente antilirico del linguaggio) si attesta, nella sua conformazione compatta e comunicativa, “lucida” e “fredda”, al di qua di un mero stravolgimento formale75. Da qui si alimenta la “protesta” di Roversi, estranea ad uno stanco e rassegnato ripiegamento crepuscolare e, allo stesso modo, lontana da una declinazione solo visionaria e allucinata dello sguardo che si getta sul reale: indicando come «compito (magari superstite)» della poesia, quello di

 

[…]

contestare stravolgere calpestare

Fino a ieri e salvo sublimi eccezioni

la viola di cristallo, la tenera allodola appassita, struggente

contese l’uomo al mondo col lampo di uno sbadiglio rosato

– oggi, strumento di scasso, oggetto di rapina,

disciplinata frusta, tavola bianca di schemi

e di severi decaloghi

(schivando tutti gli altri pericoli)

colloca in prima istanza ognuno al suo posto in attitudine

di…

(XII)

 

[…] persistere in un atteggiamento

così contrario alle regole, allo spirito del secolo,

alla buona creanza, alla grazia delle magnifìche rose

(XIV)

 

L’immediata realtà (la registrazione) del presente, gli inserti cronistici; lo scatto dichiarativo; il momento della denuncia (la testimonianza),tra il sarcastico e il grottesco, degli orrori del mondo; la distorsione ironica (espressionistica) e l’illuminazione critica sembrano, alla fine, “riportati” direttamente sulla pagina, nel testo, e non più letterariamente ricostruiti o declamati:

 

La fattura – soprattutto delle ultime e migliori [poesie] non differisce da quella di buona parte della (già riassorbita) avanguardia: c’è il piano didascalico-ragionativo ora in funzione aforistica ora imitazione di un dialogo; e c’è il piano evocativo-fìgurativo di immagini naturali o alla natura assimilate. Fra i due c’è un rapporto di alternanza. […] Il montaggio di elementi più complessi esige salti, talvolta è di ardua verificabilità; e quella sconnessione, trasversalità, getto obliquo (che è di tante clausole figurative e letterarie degli anni 1900-1915, tedesche e italiane, patria stilistica di Roversi, protoespressionisti e vociani, da noi Michelstaedter, Boine, persino certo Rebora) minaccia maniera e decorazione76.

 

In altri termini, il conflitto critico-ideologico che si matura verso (contro) il reale, la forte problematicità intellettuale e politica, la tensione morale, coinvolgono in pieno la strutturazione linguistico-formale della poesia. Si vedano, come procedimenti che torneranno a farsi centrali nelle successive Descrizioni, l’insistita ambiguità (strutturale) del modulo della poesia-prosa; il plurilinguismo, il sostrato magmatico della scrittura; l’alternanza dei toni e del registro poetico, con gli accostamenti di espressioni denotative o mimetiche, descrittive, ad un linguaggio profetico (epico), allegorico, giudicante; il ricorso costante alla deformazione grottesca (espressionistica) delle figure prelevate dalla realtà; l’accumulazione caotica, le “lucide” elencazioni, l’anafora perseguita fino al parossismo straniante; il pastiche; l’adozione, infine, di espedienti tipografici (la disposizione orizzontale delle strofe, o, all’opposto, la riduzione “monocellulare” del periodo), l’utilizzo di diversi caratteri, la riproduzione e il cumulo di numeri, cifre, nomi, sulla pagina letteraria.

L’opera di Roversi non potrà fare a meno, nei suoi sviluppi, di continuare a ricorrere alle (residue) possibilità dinamiche del linguaggio, ai suoi eventi strutturali ancora più interlocutoriamente significanti, comunicativi, la cui traduzione testuale e linguistica presupporrà un calcolo razionale (“scientifico”, “rigoroso”, “demistificante”) degli eventi del reale da immettere nel testo: un lucido processo di sperimentazione capace di introdurre il lettore, il suo sempre più selezionato destinatario, ad «un sentimento costante di orrore e furore» per il presente.

Anche la vocazione autocritica delle sue Descrizioni (sulla funzione e l’efficacia della scrittura, sulla condizione separata dell’intellettuale) non sarà assimilabile alla “discussione sulla poesia”, alle “esigenze metapoietiche” caratteristiche di un certo (ambiguo) “realismo della neoavanguardia” che tenta di definire, tra gli altri, Walrer Siti77. I percorsi coevi di Pagliarani, Sanguineti, Zanzotto e Balestrmi (o di Antonio Porta e Alfredo Giuliani) si attestavano infatti, ancorché ricchi di mediazioni filosofiche innovative (e di risvolti formali prossimi alle sperimentazioni di Roversi, come nel caso di Elio Pagliarani), ad un livello prettamente metaletterario della questione78. Si arrestano, cioè, in un crepuscolarismo “aggiornato”, stravolto e “postmoderno”, di fronte alla sfiducia (tematizzata o implicita) di mutare o almeno di incidere sul reale: l’aggressionc polemica (secondo modalità diverse), e la “vergogna” della poesia rimangono così ben entro i confini corporativi (metapoietici, appunto) della comunicazione in versi.

Il trattamento sul materiale formale ed espressivo, la spiccata declinazione autocritica sul fare letterario che l’autore persegue in questa fase; la riflessione socio-linguistica intrapresa con la sua rivista “Rendiconti”, sono, al contrario, acquisizioni esemplari dello “sperimentalismo politico”, dell’impegno “integrale” dell’attìvità roversiana. Il poeta è già, a metà degli anni Sessanta, un intellettuale avvertito del carattere non più solo culturale che stava assumendo, in Italia, la questione della “comunicazione” (vista come itinerario del linguaggio da prodotto sociale sino alla sua immissione – funzionale – nel mercato editoriale e negli apparati economici del “sistema”). La ricerca (delusa) di un rapporto attivo tra lo scrittore e un interlocutore collettivo è al centro della sua riflessione contemporanea. Il pubblico dei lettori viene definitivamente considerato come un «momento di conservazione e di consumo»; «disponibile, distratto, […] interclassista, lusingato e corrotto, inserito in una situazione […] involuta, nebbiosa, mistificata». «Non si deve scrivere “per” qualcuno, ma “contro” qualcuno»:

 

Penso che il fine della poesia […] consiste neil’essere all’opposizione delle istituzioni codificate e lungimiranti; di essere minoranza; di rivolgersi a minoranze (non di élites ma politiche); di svolgere tutti i possibili motivi di critica alle istituzioni – quali sempre si sono configurate nel loro lassismo e nella loro frigida impenetrabilità. Ne consegue che il discorso della poesia non può essere descritto che come un discorso politico; una ricerca di verità continuata, straziata e contaminata (andare col lebbroso); una polemica per quanto possibile coatta, mai generosa; un atto di coraggio (non dico un atto di fede)79.

 

Si tratta, ancora una volta, di un passaggio della sua ricerca intellettuale di stringente coerenza e rigore, che rivela l’intreccio tra acume teorico (la ragione) e “furore” civile e polemico (la rabbia)80, entro cui sembra consistere l’originalità della sua posizione:

 

[…] Esiste allora anche un pubblico (di consumatori) per i romanzi e le dolci poesie (che sono così dolci); di conseguenza sarebbe giusto dire, o semplicemente confermare, che si scrive per questo pubblico, per coloro a cui interessa un romanzo o piace leggere una dolce poesia; per un pubblico esercitato alla lettura, conquistato ad essa, o per mi pubblico sollecitato a questo tipo di consumi dai mezzi di pressione (oppressivi) tradizionali: giornali, settimanali, rai-tv, prospetti pubblicitari a domicilio, lotterie, concorsi, ecc. […] Altro che scrivere: si vorrebbe piuttosto buttare nel cestino perfino il proprio atto di nascita. […] Intanto nemmeno per un momento credo che si possa scrivere per qualcuno (sia pure il pubblico indistinto); ma semmai, per questa strada, che si debba scrivere contro qualcuno; credo che il pubblico, ad esempio, non si debba amare, non debba essere partecipe, ma un antagonista. E innanzitutto credo che si debba scrivere contro se stessi […]. Oggi è forse più esatto, o giusto, affermare che si dovrebbe scrivere al fine di compiere un’operazione (ennesima) di demistificazione nei riguardi di se stessi e degli utenti, […] per cercare (o tentare) una sorta di trasferimento o di occlusione verso la letterarietà della letteratura o dell’esercizio letterario; per confermare ancora una volta se possibile la fragile inconsistenza, la precarietà, la fondamentale contraddittorietà dell’atto dello scrivere, l’equivoco della sua incostanza, la sua bassezza la sua impotenza nelle circostanze. […] Ecco perché un discorso sul pubblico dei consumi non mi interessa più, oggi: né mi interessa nemmeno per un momento discettare sul destino e la missione dello scrittore (come quella del dotto). Io sento che è arrivato il momento di spezzare la penna sul ginocchio e perdersi nella tempesta, se non fossimo ancora (in definitiva) troppo vili per non continuare ad ammiccare l’un l’altro, ammiccarci fra noi, con cenni furtivi (1967)81.

 

Ma con queste affermazioni sul rapporto col destinatario e con l’industria culturale, sulla consapevolezza problematica del proprio mestiere di scrittore, siamo già in presenza di nuovi termini che appartengono alla fase successiva della sua attività.

 

Note

 

1 Ancora una volta, tra la vasta bibliografia sull’argomento, scegliamo di riferirci al testo di A. L. de Castris, L’anima e la classe. Ideologie letterarie degli anni Sessanta, De Donato, Bari, 1972, pp. 57 e sgg.

2 Ivi, pp. 57-58.

3 Ivi, p. 59.

4 Ibidem.

5 G. C. Ferretti, La letteratura del rifiuto, Mursia, Milano, 1968, pp. 68-81. Ma si veda, dello stesso autore, e come rielaborazione di quel testo: Il mercato delle lettere,Il Saggiatore, Milano, 1994 (Parte seconda: Il Gruppo ’63 tra industna e letteratura,pp. 157-169; Una poesia autocritica, pp. 243-262, con i riferimenti diretti ai percorsi, negli anni Sessanta, di Sereni, Pasolini, Leonetti, Roversi).

6 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 173 (corsivi dell’autore).

7 Id., da un’intervista a “l’Unità”, 19 giugno 1966.

8 Ivi.

9 Cfr. G. C. Ferretti, Confessioni, esigenze e proposte di un critico marxista, in “Rendiconti”, nn. 11-12, settembre 1965, pp. 366-367, per i richiami agli autori officineschi (Volponi, Roversi, Leonetti) alle soglie degli anni Sessanta.

10 R. Roversi, in “l’Unità”, cit.

11 R. Roversi, Introduzione a Le Descrizioni in atto, in “Paragone-Letteratura”, aprile 1965, p. 115.

12Quarentesei poesie,conlaNotizia su Roberto Roversi firmata da Elio Vittorini, già menzionata.

13 Cfr. G. C. Ferretti, Il mercato delle lettere, Il Saggiatore, Milano, 1994, pp. 295 e sgg.

14 «È finita la guerra”, questo / il popolo grida; gli anni si frantumano, / un mondo nuovo affiora ribollendo / dalla schiuma aspra nell’aria di aprile, / tacque; un uomo apparve sul palco, / parlò poche parole aprendo / la nuova storia», da Il tedesco imperatore, 1962.

15 F. Fortini, in Id., I poeti del Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1988, p. 191.

16 Id., Di Roversi [1962], «Dopo Campoformio», in Saggi italiani, cit., p. 139.

17 Id., I poeti del Novecento, cit., p. 191.

18 R. Roversi, dall’introduzione a Dopo Campoformio, Feltrinelli, Milano, 1962.

I poemetti sono altrove definiti «poemetti della fine», da Antonio Motta, Roberto Roversi, in “Italianistica”, n. 1, gennaio-aprile, 1995, p. 211. Con rara efficacia, Marco Forti presentava le «rapide e sintetiche concentrazioni poetiche di un mondo culturalmente sotterraneo», cui Roversi dà voce e autorità poetica, collegandole al testo di Danilo Montaldi, Autobiografie della leggera, edito proprio nel 1962 da Einaudi (è un accenno di M. Forti, in Le proposte della poesia, Mursia, Milano, 1963, p. 407).

Il romanzo-saggio di Montaldi raccoglieva, con un taglio sociologico e di inchiesta, cinque racconti autobiografici, scritti o orali, di «vagabondi, ex-carcerati, ladri […], i vecchi emarginati dai cento incerti mestieri e dall’esistenza precaria», attraverso cui si rivive il passato leggendario del Po e delle antiche campagne sul fiume, che fanno da sfondo ai componimenti di Roversi. Dall’appendice del volume: «Abbiamo cercato, con queste interviste, di operare, attraverso le tante personalità descritte, un tentativo di elaborare un approccio diverso alla realtà, per accostare alle radici i rapporti tra città e campagna, tra la nuova società e l’uomo vecchio, progetto rivoluzionario e gravame istituzionale», D. Montaldi, Autobiografie della leggera, Einaudi, Torino, 1962, p. 246.

19 «[…] Si veda […] come Roversi non si limiti a gemere sui due Risorgimenti “traditi”, come conduca l’arco della sua lirica ‘‘storica”, dai tempi preindustriali e prebellici a quelli odierni», F. Fortini, Di Roversi,cit., p. 139.

20 Dove è ancora evidente il tema privilegiato della dialettica (sofferta) tra presente e passato, città e campagna, vecchio e nuovo, gioventù (incarnata dalle lupe dorate, le giovani in città, immerse nei “miti” incalzanti del consumismo) e vecchiaia, per il quale si veda una nota di A. Romanò (in “Paragone Letteratura”, agosto 1965, p. 124), in cui si coglieva, di Roversi, «[…] il rovello lancinante, la disperata proterva integrità, il pervicace rifiuto del mondo, lo smisurato amore del passato, della virtù incarnata nel passato duro, rigido, manicheo, il senso dell’inafrerrabilità del tempo, il voler essere puro, incorrotto, compatto dentro la storia che è impura, corrotta, dissoluta». Eppure, a livello dell’atteggiamento psicologico (e anche linguistico) dell’autore, va rilevato che in questa sezione si sperimenta, tra il tono sentenzioso e la tensione descrittiva, il caratteristico incedere narrativo-riflessivo (la vocazione al commento) di Roversi, un sarcasmo violento e tormentoso esercitato contro il “progresso” del moderno, che sarà cifra ideologica costante dei suoi lavori successivi. A questo proposito Fortini accenna ad un possibile richiamo al «pallore di Parini, di cui una volta mi parlò Roversi stesso», Di Roversi, cit., p. 138.

21 Che si apre con un esergo emblematico tratto da Günther Anders: «Non ha più senso aspettare».

22 R. Roversi, introduzione a Dopo Campoforpnio (1962), cit. (corsivi dell’autore). La nota è più vicina ad un’acuta (auto)recensione di quanto si possa immaginare. Nel corso del testo, Roversi allude ad una critica, subita da parte “avversa”, che descrive i suoi poemetti come «cento colonne di piombo versificato». Nell’intervista in appendice al presente saggio si chiariranno l’autore della recensione (Alfredo Giuliani) e le reazioni di Roversi.

23 È, insomma, quella di Roversi, denuncia e testimonianza civile di una poesia tutta interna alla realtà dei primi anni Sessanta, incarnata in un “civismo” di ascendenza officinesca che si allontana radicalmente dalla contemporanea “abiura” poetica di Pasolini, dalla sua «pronunzia “ufficiale” di estraneità ilare e amara all’impegno» (“Ché / io, del Nuovo / Corso della Storia / – di cui non so nulla – come / un non addetto ai lavori…”, Nuova, poesia in forma di rosa, 1964; “NESSUNO DEI PROBLEMI DEGLI ANNI CINQUANTA / MI IMPORTA PIÙ!!! AH AH,LA PROVINCIA IMPEGNATA!! / AH AH, LA GARA AD ESSERE UNO PIÙ POETA RAZIONALE DELL’ALTRO / LA DROGA, PER PROFESSORI POVERI, DELL’IDEOLOGIA / ABIURO DAL RIDICOLO DECENNIO!”, Poema per un verso di Shakespeare,1964): «[…] anche il tema politico degli anni ’50 […] si disarticola qui in una generica ripulsa del “riformismo” comunista […], e insieme nella denuncia della fatale vittoria del Capitale, della sua anima “in Barocco”. Anche il tema dell’impegno civile, che comunque Pasolini tiene ancora a presentare come primario nella sua ricerca degli anni ’50 (“Venni al mondo al tempo / dell’Analogica. / Operai / in quel campo, da apprendista. / Poi ci fu la Resistenza / e io / lottai con le armi della poesia. / Restaurai la Logica, e fui / un poeta civile”, Una disperata vitalità, VIII, 1964), si illinea qui tra le esperienze superate perché deludenti, responsabili in proiezioni non chiarite e dell’avanzata neocapitalistica e della solitudine di quella poesia che aveva offerto al popolo la sua funzione salvifica», A. L. de Castris, Sulle ceneri di Granisci. Pasolini, i comunisti e il ’68, Cuen, Napoli, 1993, pp. 44-45. Ma, come dovrebbe essere chiaro, qualsiasi confronto tra l’opera di Roversi e la multiforme esperienza intellettuale di Pasolini è impraticabile per distanze ideologiche e di scelte espressive. Si è richiamata la posizione di Pasolini solo per delinearne la sua (provvisoria e proclamata) estraneità all’“eredità’’ di “Officina”, alla stagione dell’impegno, rispetto alla quale Roversi alimenta invece una profonda e, se pure rinnovata, continuità ideale.

24 G. Scalia, a proposito degli esiti dello “sperimentalismo officinesco”, indagato acutamente dal punto di vista linguistico, in Id., Critica, letteratura e ideologia,Marsilio, Padova, 1968, pp. 236-237. Sui rapporti tra la raccolta di Roversi e i percorsi coevi di Pasolini e di Volponi, cfr. Paolo Bonfiglioli, Errore e furore Dopo Campoformio, in “Palatina”, nn. 23-24, luglio-dicembre 1962; Giansiro Ferrata, Su Dopo Campoformio,in “Rinascita”, 27 marzo 1965; Giuliano Manacorda, Vent’anni di pazienza, La Nuova Italia, Firenze, 1972, pp. 407 e sgg.; G. C. Ferretti, Confessioni, esigenze e proposte di  un critico marxista,in ‘‘Rendiconti”, 1965, cit.

25 «A livello lessicale, hai la scelta di modi individualizzanti e nobili, con bruschi inserti popolareschi o plebei; a livello sintattico, il cozzo di modi aulico-esornativi e di modi asindetici. E quanta energia sintattica: tutta nei secchi passaggi fra effige e commento, nelle frane dei tempi verbali», F. Fortini, Di Roversi (1962), cit., p. 139.

26 Gilberto Finzi, Adolfo è vivo (recensione a R. Roversi, Unterdenlinden, 1965), in “Aut Aut”, 91, gennaio 1966, p. 81.

27 Il poemetto era presente nell’edizione Feltrinelli del 1962. La nuova redazione sposta e talvolta espunge interi versi, dando alla fine un’impressione di maggiore incisività rispetto alla versione precedente. Ma il problema della variantistica, per la raccolta di Roversi, meriterebbe un discorso ad hoc e pertinente. Qui si vorrebbero sottolineare alcuni acquisti espressivi che condizionano fortemente la disposizione stilistica dell’autore, chiudendo con ogni esitazione descrittiva (l’idillio rustico-campestre); trasformando lo stile oratorio delle sue prime poesie (il “neorealismo profetico”), in una sferzante e autentica tensione gnomica e di denuncia, ancorata all’attualità più stringente, o come testimonianza attiva degli orrori (degli errori) del passato.

28 Il poemetto ha per argomento la tragedia del Vajont (1963), solo recentemente riscoperta e “riletta” dall’operazione virtuosa di Marco Paolini (si segnala la sua “orazione civile” ideata e scritta con Gabriele Vacis, Vajont. 9 ottobre 1963; e il suo Quaderno del Vajont, una conversazione con Oliviero Ponte di Pino, Torino, Einaudi, 1999): «Questo testo senza interpolazioni, rappresenta il progresso […] dell’informazione dei giornali; l’accanita indifferenza; il lubrico e un po’ sconnesso linguaggio delle occasioni; e il referto della pronta indifferenza burocratica», dalla Nota a Iconografia ufficiale,in Dopo Campoformio, 1965, cit., redatta dallo stesso Roversi.

29 «Una quantità di volte, infatti, bisognò ricominciare da capo e anche i pochi passi compiuti sulla via di un’acquisizione di coscienza parvero vanificati»: Roberto Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Feltrinelli, Milano, 1963, p. 7.

30 Il metodo adottato da Roversi in sede di configurazione editoriale, di “impaginazione” delle raccolte di Dopo Campoformio (1962 e 1965), vale a dire il riportare, accanto a nuovi componimenti, le tracce e i testi che appartengono alle sue opere ideate e scritte in tempi precedenti, è lo stesso, a ben guardare, che sovrintendeva all’impostazione delle Poesie per l’amatore di stampe (1954), dove insieme alle poesie inedite si presentava un’appendice con liriche composte negli anni ’40 (e si pensi alle novelle di Ai tempi di re Gioacchino, 1952, confluite e rielaborate nel romanzo Caccia all’uomo, 1959). Si può concludere che Roversi non è poeta “da varianti”, bensì, più sottilmente, poeta di cristallizzazioni e di sedimentazioni continue, per cui ogni libro è (anche) montaggio di prelievi da testi precedenti, affiancati a nuovi stimoli, disposti a comporre nuove armoniche, nuove sequenze discorsive (e il rilevo sembra valere per il complesso della sua opera, tra prosa e poesia, teatro e romanzi, fino ai nostri giorni, con un procedimento di chiaro sapore sereniano).

31 Che pure si impone, nel complesso della sua opera (tra poesia, prosa e attività storiografica e saggistica), come heimat da preservare, memoria da difendere dall’oblio (e dalla distruzione ambientale). Forse solo Andrea Zanzotto, Pier Paolo Pasolini e Attilio Bertolucci, su versanti decisamente distinti, hanno saputo elaborare, nel corso del Novecento poetico, un tale attaccamento alla propria terra d’origine.

32 R. Roversi, introduzione a La macchina da guerra più formidabile, in “Quaderni del CUT”, n. 9, Bari, 1971, p. 4.

33 Dopo le analisi di M. Forti (Su alcuni nuovi romanzi, in “Aut Aut”, n. 86, 1965); di Walter Pedullà (ne La letteratura del benessere, 1973) e di R. Luperini (Il neosperimentalismo tra “Officina” e “Il Menabò”: Roversi, Leonetti e Volponi, ne Il Novecento, 1984), si può leggere in tempi più recenti l’agile ma incisiva analisi del romanzo avviata da Simona Luciani, La pazienza “cauta e astuta” di Roberto Roversi,in “Allegoria”, 33, 1999, pp. 231-236. Per le vicende editoriali del romanzo (che doveva essere pubblicato da Garzanti, dietro pressione di Pasolini, che invece rifiutò la sua proposta): «Non può essere che un sintomo di qualcosa di peggio che la mancata pubblicazione di un libro. Vuoi dire che noi non siamo abbastanza forti e uniti per affrontare la nuova situazione italiana, che siamo delusi e scoraggiati, che quello che ci importa è la morte e non la vita», da una lettera di Pasolini a Roversi, marzo 1964 (ma si veda, nella dichiarazione che segue, come Roversi smentisca l’amarezza di Pasolini).

34 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 172 (corsivi dell’autore).

35 «Certo è una bella giornata di sole. Gli operai del cantiere battono, suona il telefono, voci di terroni adirati, piange un bambino, altre donne sul tagliere, un telegramma da lontano, piange un bambino, voci di terroni, una giornata di sole, il telefono suona. Alla stagione ferroviaria; la stazione di una città così grande è essa stessa una città – al bar mentre aspettano, Gropius accenna quasi con fastidio a Ettore – la trafittura del cuore esulcerato è ancora un fastidio nel cuore – che da quel marciapiede laggiù, quello, il numero sei, partì a forza una sera del ’43 rastrellato», p. 112.

36 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., pp. 173-174 (corsivi dell’autore).

37 Si veda, per questo punto, il saggio di Eugenio Miccini, Ideologia avanguardia e altro in Leonetti e Roversi,in“Nuova corrente”, n. 34, 1964.

38 «Riconosco di aver subito il trauma dell’avanguardia. […] Ma le mie pagine […] erano lontane da qualsiasi canone precostituito di “indecifrabilità”, avevano sempre un senso di uscita, di comunicazione, si servivano della parola e ritrovavano la parola, per poterla porgere ad altri, per […] rinvenire in essa la possibilità di un senso nuovo, più vitale […], del discorso di comunicazione», P. Volponi, in Aa.Vv. (a cura di Rocco Capozzi), Scrittori, critici e industria culturale dagli anni Sessanta ad oggi, Piero Manni ed., Lecce, 1991, p. 170. Quanto a Roversi, al suo “sperimentalismo” formale e ai rapporti con la neoavanguardia, si rinvia all’intervista in appendice: «Ho sempre cercato di tenere gli occhi ben aperti su ciò che si. faceva, si proponeva, in ogni direzione. Registrazione di eventi non è certo un romanzo tradizionale. Tiene conto d’un bel numero di fermenti, di sollecitazioni, di lacerazioni interne…».

39 G. Guglielmi, nota editoriale a R. Roversi, Registrazione di eventi, Rizzoli, Milano, 1964 (il testo è stampato sul segnalibro che accompagnava il romanzo).

40 Guglielmi, ivi, che così concludeva la sua nota editoriale: «Per raggiungere la prosa, Roversi ha bisogno della lirica». A ben guardare, l’aspetto strutturale del romanzo individuato da Guglielmi (la compresenza, la sovrapposizione tra tensione fenomenologica, intenzione “descrittiva”, “deformante” e scatto morale; prosa e poesia; filtro soggettivo, livello gnomico-giudicante e immersione linguistica nell’attualità), sarà il sottofondo dello sperimentalismo roversiano, comune alle successive prove poetiche, teatrali e narrative, fino alle sue ultime opere.

41 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 172 (corsivi dell’autore). A questo proposito, va ricordato che Pasolini inseriva il romanzo di Roversi nel contesto delle «opere “iperscritte”, la cui ideologia non è il mito della poesia, ma quello dello stile, e quindi il loro contenuto non è la letteratura stessa, ma la vita storica con i suoi problemi, portata a un clima di tensione letteraria così violenta da presentarsi come una sorta di manierismo nell’accezione longhiana della parola: vi si possono fare i nomi più diversi, da quello di Vittorini a quello di Banti, oppure a quello di Roversi della completa poetizzazione della realtà operata nel suo ultimo romanzo» (in Nuove questioni linguistiche, 1964).

42 Id., risposta a 7 domande sulla poesia, in “Nuovi Argomenti”, nn. 55-56, marzo-giugno 1962, p. 82 (corsivo dell’autore).

43 W. Pedullà, La. letteratura del benessere, Bulzoni, Roma, 1973, p. 481.

44 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 174 (corsivi dell’autore).

45 L’incipit della citazione («Così ci si illude di vivere») accompagnava con una fascetta promozionale l’uscita del romanzo.

46 In questa chiave, nel vasto settore della fervida e variegata stagione della letteratura (del romanzo) “industriale” del periodo, segnaliamo le risonanze – su un diverso piano contenutistico e di atteggiamento ideologico – tra il romanzo di Roversi e la prova di Goffredo Parise, Il padrone, Rizzoli, Milano, 1965.

47 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 166; pp. 164-165 (corsivi dell’autore).

48 Id., La settima Zavorra, in “Rendiconti”, nn. 4-6, novembre 1962, p. 135 (corsivi dell’autore). Andrebbe compiuta un’analisi precisa dello stile e della disposizione linguistica adoperata da Roversi nei suoi interventi saggistici (quasi mai di sapore “occasionale”), nel corso del tempo. Assieme vicini e distanti dai modi “corsari” di Pasolini (per una sorvegliatezza formale che in Roversi accompagna gli slanci e la “protesta” più vivi; lo studiato spessore retorico ed epico che sorregge momenti di autentico disagio morale e di opposizione politica), i suoi interventi costituiscono senza dubbio uno di quegli episodi rari, nel contesto dell’intellettualità italiana, di saggismo militante e impegnato, “tuonante” o dolorosamente profetico.

49 E altrove (Il mestiere di scrittore, cit., p. 171): «Questi innovatori, in fondo, rendono letterarie anche le stesse dichiarazioni di guerra, che sarebbero poi quelle di procedere al di fuori o contro la letteratura. […] L’essere rimasto sostanzialmente un mero fatto “letterario”, cioè un flatus vocis belletristico, è secondo me il suo limite; partendo dal quale si può intendere poi anche la scarsa spinta in avanti che tutte le relative operazioni hanno ricevuto. Pareva il finimondo ed è finita in cantata» (corsivi dell’autore).

50 Pur essendo un topos, e diremmo un cliché che va ben oltre la riflessione sulle condizioni della scrittura, colpisce l’affinità con il discorso coevo di Paul Celan: «La poesia essendo non per nulla una manifestazione linguistica e quindi dialogica per natura, può essere un messaggio nella bottiglia, gettato a mare nella convinzione – certo non sempre sorretta da grande speranza – che esso possa un qualche giorno e da qualche parte essere sospinto a una spiaggia, alla spiaggia del cuore, magari. Le poesie sono anche in questo in cammino: esse hanno una meta», P. Celan, Allocuzione. In occasione del conferimento del premio letterario della Libera Città Anseatica di Brema (1962), in Id., La verità della poesia. Il Meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino, 1993, p. 35.

51 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 169.

52 Id., La lucida organizzazione del presente, in “Nuovi Argomenti”, gennaio-marzo 1966, p. 178.

53 Id., Il mestiere di scrittore (1973), cit., p. 168 (corsivo dell’autore).

54 Id., Introduzione a Le Descrizioni in atto, in “Paragone-Letteratura”, aprile 1965, p. 115.

55 Id., Dove va il romanzo, in “Libri Nuovi Einaudi’’, luglio 1971.

56 Id., Il mestiere di scrittore, cit., p. 168, corsivi dell’autore. Dovrebbe essere ormai evidente la profonda continuità degli interessi linguistici, e più precisamente sociolinguistici, che Roversi matura dalle ultime note pubblicate su “Officina” (Lo scrittore in questa società, e soprattutto Il linguaggio della destra, 1959) alle ricerche intraprese su “Rendiconti”, fino a tempi più recenti (in chiara sintonia con la contemporanea attitudine del Pasolini di Nuove questioni linguistiche, 1964 e oltre). Si veda, tra gli altri, l’intervento roversiano apparso su “La fiera letteraria”, in occasione dell’inchiesta Come parleremo domani?, 7, marzo 1965, in cui si ribadisce (in merito all’unificazione linguistica dell’Italia industrializzata e al suo rapporto con la “nuova” letteratura): «Credo che sia in atto soltanto un “trasferimento” linguistico, destinato a restare, ancora una volta, strumento, mezzo comunicativo d’élites. Una lingua di pressione, frastornante non comunicante; una lingua egemonica per gruppi egemonici. […] Una riproposizione irrazionalistico-mistica della letteratura. […] [Credo] che un nuovo spiritualisrno, indefinito ed equivoco, si accinga a riproporre ancora l’antichissimo cancro della retorica». L’attenzione, l’analisi linguistica del presente è legata non solo all’attività della rivista ma, come si vedrà in seguito, diviene atto poetico, tema e contenuto centrale che condiziona la strutturazione del linguaggio in versi (e di quello teatrale).

57 Per questo aspetto, all’interno di uno studio rigoroso sull’ampia fenomenologia intellettuale degli anni Sessanta, si rimanda ancora a A. L. de Castris, L’anima e la classe, cit.; e Id., (a cura di), Critica politica e ideologia letteraria, cit. (in particolare, Anna Clara Bova, Riforma scientifica e autonomia culturale: dal “marxismo critico” alla “critica dei valori”, pp. 135-179). Ma si veda anche, di un giovanissimo Cacciari, e nell’insolita chiarezza dell’esposizione, tutta calata nel dibattito del tempo, M, Cacciari – G. Dal Co, Lévi-Strauss: strutturalismo e ideologia, in “Angelus Novus”, nn. 9-10, 1966.

58 Nel contesto della ricerca di Roversi intorno ad un «marxismo sempre più agonistico, non compromissorio, scientificamente agguerrito e ideologicamente problematizzato su tutti i diversi terreni di ricerca culturale e di battaglia ideale», si vedano gli scritti e gli interventi di strutturalisti italiani o stranieri di punta, ospitati sulla rivista fino almeno al 1967, da Amerio a Valesio, da Rosiello a Sandri, da Calboli a Chomsky. Risultano poco omogenei alle inchieste sociolinguistiche di “Rendiconti’’ alcuni scritti che rilanciano e promuovono, secondo le mode del tempo, una ipotesi di analisi strutturalista di opere letterarie specifiche (è il caso degli studi di Luigi Rosiello, Le sinestesie nell’opera poetica di Montale, apparso nel n. 7 del 1963; Consistenza e distribuzione statistica del lessico poetico di Montale, nn. 11-12, settembre 1965, che rappresenta una prima indagine di linguistica statistica applicata in Italia ad un testo letterario).

59 Cfr. il fascicolo monografico di “Rendiconti”, nn. 22-23 del 1971, dedicato alla critica testuale della didattica, della manualistica scolastica: si compone di un insieme di scritti condotti attraverso un’originale adozione di strumenti di indagine sociologica e linguistica.

60 S’è fimminedda a quasetta mi fa. Se è femmina mi farà la calza, “Rendiconti”, n. 28, aprile 1975: il volume si presentava come un contributo ad “un’analisi della condizione della donna in Sicilia”, a cura di Maria Rosa Cutrufelli. Le pubblicazioni della rivista riprendono, dopo un’interruzione di un quindicennio, con alcuni numeri che comprendono monografie dedicate ad autori del Novecento (“Rendiconti”, n. 45, 1999, Per Giuseppe Guglielmi, sulla figura del poeta e traduttore, “compagno di strada” di Roversi sin dai tempi dell’Università di Bologna e prematuramente scomparso nel 1995); testimonianze e documenti inediti (n. 40, 1996, su Pier Paoio Pasolini: viene pubblicato un suo testo teatrale, “La sua gloria”, con il quale il poeta diciassettenne vinse i Ludi Juveniles).

61 Ora l’opera è disponibile, con le ricchissime note al testo a cura di Arnaldo Picchi, R. Roversi, Unterdenlinden, Pendragon, Bologna, 2002.

62 La poesia viene pubblicata, con il titolo Referto,in “Il Corpo”, settembre 1965, pp. 89-91. Il titolo dell’opera si ispira all’Unter den Linden (sotto i tigli), il viale di Berlino «che passa davanti all’Opera e alla Humboldt Universität e arriva fino alla Porta di Brandeburgo, di fianco al vecchio Reichstag, ora ricostruito e di nuovo sede del Parlamento. Un tempo era la zona delle ambasciate, della Cancelleria, dei caffè e dei ritrovi eleganti», A. Picchi, in R. Roversi, 2002, cit., p. 129. Unter den linden è anche un racconto che dà il titolo ad una raccolta di novelle di Christa Wolf, 1969.

63 G. Finzi, Adolfo è vivo, “Aut Aut”, 1966, cit., p. 82.

64 Ivi, p. 83.

65 Un facile riscontro in proposito è dato dai nomi dei personaggi della pièce,eccetto ovviamente Adolfo e il suo ristretto staff di collaboratori, tra cui spicca il “tuttofare” (Bormann, figura realmente esistita, il segretario del Führer): il Padre, la Segretaria, il Giovane, la Ragazza, l’invalido (singolare personaggio potentemente straniante, l’unico a recitare in versi); la Moglie dell’invalido (che ucciderà Bormann), il Primo e Secondo assistente, un Cameriere, i cinque Americani della commissione, un Arrestato, un Ministro, eccetera.

66 A. Picchi, in R. Roversi, Unterdenlinden, Note al testo, cit., p. 104.

67 A. Picchi, «Avvertimento, denuncia, comizio rivolta, annuncio di massacro, suono di tromba». Terzo commento a Roversi, in R. Roversi, Unterdenlinden, 2002, cit., p. 122 (corsivi dell’autore).

68 Opportunamente Picchi (in R. Roversi, 2002, cit., pp. 120 e sgg.), riprende un discorso di Enzo Traverso (La violenza nazista. Una genealogia, Il Mulino, Bologna, 2002, p. 9), sull’intreccio tipico del regime tra i temi dell’ordine, dell’efficienza e l’eliminazione pianificata dell’uomo (nel quadro di una visione del terzo Reich come espressione, compimento e manifestazione distorta ma interna alla razionalizzazione capitalistica occidentale): «Lo sterminio è apparso come uno dei volti della civilizzazione stessa, quando il contro-illuminismo si è alleato alla scienza, al progresso tecnico e industriale, al monopolio statale della violenza, alla razionalizzazione delle pratiche del potere». La chiave di lettura di Unterdenlinden è tutta qui: il cortocircuito tra presente e passato, il ritorno di un clone di Adolfo nel contesto del mondo dell’industria a noi contemporaneo (che si dimostra disponibile, quasi desideroso di un rinnovato “ordine” antico), vuole esprimere la sostanziale consanguineità dei due momenti: lo sfruttamento sistematico della mano d’opera (dell’uomo), la pianificazione, l’ottimizzazione dei processi produttivi ed economici; l’ingegneria sociale al servizio della conceotrazione di potere, delia violenza. Il paradigma politico del nazismo (dei fascismi), come sbocco più probabile del sistema di civilizzazione, della razionalizzazione capitalistica dell’Occidente.

69 Dai nomi ai riferimenti storici, dai rimandi cifrati al passato fino alle date poste in calce alle scene (ventitré, per un ritmo incalzante tra gli interni della residenza privata di Adolfo e gli ambienti dirigenziali, le platee di fronte a cui sperimentare il suo stile oratorio e la fabbrica, la strada e un party), possiamo dedurre, grazie alla ricostruzione e alla precisa esegesi del testo adoperata con estrema operosità da Picchi, che nulla, nella ricostruzione storica effettuata da Roversi, è lasciato al caso. Si profila invece una strategia assai studiata, irta di citazioni e di allusioni, rigorosamente documentate, alla storia del regime nazista (e difatti Picchi adopera, per il commento all’opera, fonti storiografiche che spaziano da Hannah Arendt a Enzo Collotti, da Heinrich Mann a Franz Neumann, da Enzo Traverso ai testi dello stesso dittatore).

70 L’andamento teatrale, come s’è visto, influenza la contemporanea stesura de Le descrizioni in atto (dove si palesano procedimenti spiccatamente teatrali: l’inserimento di voci di altri personaggi; il monologo e il dialogo, il botta e risposta, eccetera). Nello stesso tempo, da un’analisi stilistica della pièce, è evidente che la lievitazione lirica del linguaggio, le marcature, tra prosa e poesia, del tessuto linguistico dell’opera, derivano dal modo poetico sperimentato in contemporanea da Roversi per la sua produzione in versi.

71 L’inserimento di blocchi lirici nel testo (espediente adoperato nel romanzo del 1964, Registrazione di eventi, e nella successiva partitura teatrale, Il crack, 1969), è legato all’apparizione in scena dell’Invalido e alla recita, da parte di un gruppo di Attori, di stralci dal primo episodio dei Persiani di Eschilo (la battaglia di Salamina). Per il significato dell’inserto si rimanda alle Note di Picchi, cit., pp. 104-107.

72 R. Roversi, risposta a 10 domande su neocapitalismo e letteratura, “Nuovi Argomenti”, nn. 67-68, giugno 1964, pp. 114-115 (all’inchiesta partecipavano altri intellettuali attivi negli anni Sessanta come Sereni, Volponi, Calvino, eccetera).

73 F. Fortini, «Le descrizioni in atto» (1965), in Saggi italiani, cit., p. 140.

74 Il ritmo iterativo e martellante, tutto al negativo, ricorda il celebre finale di una lirica di Vittorio Sereni, poeta seguito e stimato da Roversi (si veda il suo Questioni di poesia. Vittorio Sereni, per Un posto di vacanza, in “Paragone -Letteratura”, n. 24, febbraio 1967; e in tempi più recenti, Stella variabile ma costante, “Il manifesto”, 5 giugno 1982): «Pensare / cosa può essere – voi che fate / lamenti dal cuore delle città / sulle città senza cuore – / cosa può essere un uomo in un paese, / sotto il pennino dello scriba una pagina frusciaste / e dopo / dentro una polvere di archivi / nulla nessuno in nessun luogo mai», V. Sereni, Intervista a un suicida (da Gli strumenti umani, 1965, vv. 56-64).

75 «Insomma se qui c’è un problema critico non è soltanto di indagare le motivazioni storiche e psicologiche di quelle tenebre ma […] di intendere come in Roversi quei miti […] che […] dolgono e gemono di anno in anno confricandosi alla cementizia monotonia della cronaca si creino uno stile che sotto apparenze di rovello disordine furia tende invero ad una finitezza funesta e ad un freddo sudor metafisico», F. Fortini, op. cit., p. 141.

76 Ivi, p. 143.

77 W. Siti, Il realismo dell’avanguardia, Einaudi, Torino, 1975, pp. 20 e sgg.

78 Si veda, come documento di una possibile interazione tra la poetica (la ricerca formale) di Roversi, il “neosperimentalismo’’ e i “novissimi”, il Manuale di poesia sperimentale (Mondadori, Milano, 1965), a cura e con le introduzioni di Guido Guglielmi e di Elio Pagliarani, con testi di Pasolini, Leonetti, Roversi, Zanzotto, esponenti del Gruppo ’63 e altri, dove si provvedeva ad una «verifica e […] ricostruzione critica delle effettive funzioni della lingua».

79 R. Roversi, 7 domande sulla poesia, “Nuovi Argomenti”, 1962, cit., p. 81.

80 Id., La rabbia e la ragione, in “Avanti”, 30 gennaio 1966.

81 Id., L’angoscia genera i pidocchi, “Rinascita”,10 novembre 1967 (corsivi dell’autore; il titolo dell’articolo riprende un passaggio della XXIV Descrizione). A ben guardare, si tratta di un riecheggiamento che è possibile estrapolare dalla posizione di Sereni: «Un giorno ci si dovrà pure arrivare all’emanazione non distorta, non procrastinante, ma diretta e istantanea, in una stretta correlazione di atti e parole. Non voglio dire che lo scrivere corrisponde a un difetto di vitalità, al contrario, ma piuttosto che porta con sé l’indizio di un’imperfezione», V. Sereni, Ventisei (1970), ne La tentazione della prosa, Mondadori, Milano, 1998, p. 199.

 

 

Capitolo terzo

Dal cuore dell’inferno

 

Premessa

 

A voler tentare di riassumere in una sola formula il senso ultimo del legato poetico e ideale di Roversi, espresso nel periodo a cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, fino a tempi più recenti, crediamo che si potrebbe ricorrere con vantaggio ad una dichiarazione che egli stende in risposta ad una domanda sulla funzione e l’utilità, o l’inutilità, dell’atto dello scrivere nel presente. L’autore parla del proprio tentativo di intendere la letteratura

 

[…] sia una poesia, un romanzo, il teatro ecc., come un semplice mezzo (uno dei semplici mezzi), come uno strumento sia pure liso e banale rivolto verso obiettivi (o risultati) non letterari.

 

E analizza con chiarezza la condizione e gli aspetti che questa scelta comporta:

 

So bene che il “lavoro” letterario non serve, ovviamente, a fare la rivoluzione o a produrre il dissenso politico, ma so altrettanto bene, intanto, che posso e devo scrivere per questa rivoluzione e per questo dissenso – se non ho altro strumento per le mani e non sono altrettanto bravo artificiere per le bombe o tattico per le battaglie. Se non sono buono e bravo per queste faccende più utili. Sarò poi uno dei mille al momento di un’azione; ma intanto, magari imprecando di non sapere fare meglio e più (per una cattiva educazione) adatto la mia biro a picchiare sul viso e dico con gli altri, ripetendo con gli altri, che bisogna uccidere il tiranno; e non uso questa sporca lingua, invece, per le mie caccole private o per celebrare le belle mani di una laurabeatrice, moglie figlia o ganza di colonnello. Così l’atto dello scrivere resta, sia pure rognoso, un atto politico. Non perde la misura. La battaglia e le idee; purché non si dimentichi che le idee accompagnano ogni battaglia e viceversa; cioè che tra i due termini non ci deve essere né può esserci contraddizione, soprattutto separazione1.

 

Crediamo che nel tentativo di non trascurare gli sviluppi tutt’altro che semplici e lineari delle sue posizioni nel tempo, e cercando pure di non forzarne unitariamente il discorso, è tuttavia possibile rintracciare non diciamo una continuità statica e uno sviluppo uniforme della sua vicenda intellettuale, ma tracce cospicue di uno sforzo costante e coerente, un intento programmatico fortemente caratterizzante. È l’istanza politica di fondo a permeare l’intera attività di Roversi dal punto di vista teorico, creativo e anche pratico-organizzativo; 1a tendenza critico-autocritica nel vivere la propria condizione intellettuale in rapporto con la realtà più stringente e direttamente testimoniata nei suoi testi. Si tratta di un atteggiamento ideale che verrà svolto, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, assumendo i tratti di un impegno radicale (integrale), arricchendosi di spunti originali: inserendosi, anzitutto, nel quadro delle nuove problematiche che investivano la gestione, il controllo e la distribuzione della comunicazione; la figura e il ruolo dell’intellettuale, il rapporto da intrattenere con il “ destinatario” di un’opera letteraria.

La contestazione politica espressa dalle lotte operaie e studentesche (1967-69), e le esperienze teorico-pratiche ad esse sottese, nascevano dall’emersione dell’operaio sociale, da un processo definito di proletarizzazione della forza-lavoro intellettuale. Lo spessore e l’istanza critica più profonda del movimento investivano per la prima volta, con una capacità medita di rottura e disvelamento, il carattere funzionale e separato del sapere e della sua organizzazione ufficiale, il processo di sussunzione della scienza al capitale; la mercificazione del prodotto artistico-letterario, la manipolazione del consenso; la centralità delle istituzioni culturali (e della formazione: la scuola, l’Università) nell’ambito della riproduzione sociale complessiva. Il Sessantotto fu il momento decisivo di critica alle vecchie e nuove separatezze, ai “decreti” che stabilivano «la subalternità estrinseca dell’arte all’eteronomia politica o la velleitaria politicità autonoma dell’intellettuale»2.

Molto è stato detto sull’irresolutezza dell’incontro tra istanze del movimento e politica organizzata (PCI), tra il ’68 e gli intellettuali. In particolare, da parte di tutto lo schieramento marxista (di quello ufficiale e istituzionale come di quello “dissidente”), si assiste ad una carente analisi critica, all’assenza di un approfondito dibattito collettivo sul rapporto con un’industria culturale sempre più fondata sulle regole del mercato e del profitto: e quindi, in definitiva, sulle condizioni reali nelle quali l’informazione viene prodotta, e con le quali viene gestita e distribuita3. Il problema del destinatario, del pubblico, della gestione della comunicazione, non è vissuto come fondamentale livello di una battaglia ideale, culturale e politica. Talora, soprattutto nelle forme più direttamente ispirate alla contestazione giovanile (il radicalismo intellettuale agente in gruppi ed esperienze di un arco variegato, dai “Quaderni Piacentini” a “Che fare”, a prese di posizione individuali e solitarie), si percepisce l’industria culturale come un’entità negativa da respingere, con tratti che oscillavano, possiamo dirlo solo oggi, tra il velleitario estremismo e lo sterile moralismo. Di certo, sul piano della teorizzazione e delle procedure organizzative, la contestazione giovanile forniva in proposito alcune indicazioni originali: la critica radicale ai vecchi istituti, l’elaborazione e la pratica dei media “alternativi”, la relativa ricerca di canali di comunicazione di opposizione. In generale, osservava un critico assai attento al fenomeno come Gian Carlo Ferretti:

 

Il movimento ci ha aiutato a capire che ogni azione critica esercitata all’editore borghese o perfino ogni iniziativa da parte del movimento operaio organizzato sul terreno della produzione libraria, arriveranno molto difficilmente ad elaborare concrete proposte alternative, capaci di spezzare il circuito chiuso della mercificazione e del profitto, se non si darà vita a nuove forme organizzative di cui lo stesso intellettuale e lo stesso lettore siano protagonisti4.

 

Si poneva con forza inedita il problema del destinatario collettivo, della dimensione sociale entro cui un’opera viene prodotta e distribuita (le “condizioni” della lettura); la questione dei processi reali (politici) che sovrintendono alla gestione della comunicazione. A questo fermento fanno seguito esperienze poetiche isolate che furono battezzate prontamente con nomi e termini significativi: l’”Antigruppo” (di alcuni poeti siciliani che facevano capo a Vincenzo De Maria e a Santo Calì5); gli “esperimenti anti o eso-editoriali” di Zanzotto e di Roversi stesso, il loro “ciclostilato di poesia”; le “clandestine” di Franco Fortini6, eccetera. Dietro la diversità di queste sperimentazioni si esprimeva il bisogno di trasgredire ad ogni monopolio del potere culturale in nome di quella libertà (dell’arte, della poesia, della comunicazione) che poteva essere garantita, secondo i termini dell’epoca, solo da una “democrazia culturale” a livello “planetario” o locale o di “intergruppi”. Era il prologo di un fenomeno generale che esploderà diffusamente negli anni Settanta, e che verrà condotto, come chiarisce uno studioso di questo aspetto della contestazione, soprattutto «a livello di underground poetico – ciclostilati, recitals nei luoghi di lavoro, poesie-manifesti, poesie-murali, interventi nelle case del popolo, nelle sedi dell’Arci, durante e dentro le manifestazioni operaie vuoi a livello politico che sindacale» (Giuseppe Zagarrio)7:

 

A metà degli anni Settanta l’arcipelago della comunicazione antagonista è un territorio vasto, contraddittorio e ramificato in ogni angolo del paese. Certamente tra il 1975 e il 1977 la produzione di comunicazione autogestita, sovversiva (marginale, radicale, militante, diretta, antagonista, alternativa, democratica, trasversale, clandestina, rivoluzionaria, e le molte altre definizioni che ne sono state date), raggiunge il suo punto di massimo sviluppo. Si dota a volte di proprie strutture tecniche (tipografie, sedi più o meno stabili, ecc.), di canali di distribuzione militante, e anche di proprie strutture distributive, esterne ai grandi e piccoli circuiti commerciali; organizza convegni nazionali per costruire reti di collaborazione, è finanziata direttamente sia dai suoi produttori che dai suoi lettori. Il lavoro intellettuale è pressoché interamente gratuito e volontario. […] A Bologna, Roma, Milano e nella “provincia” è in corso un nuovo fenomeno: almeno dieci piccole case editrici in simbiosi con tipografie funzionanti a macchinari poveri, hanno acquistato la offset piana che costa pochi milioni e che permette una buona stampa, e pubblicano anche con tirature molto basse passando poi per un circuito alternativo nella distribuzione8.

 

Come nel caso specifico di Roversi, si dava corpo a un tentativo di ricercare e battere nuove vie di comunicazione, da rintracciare nel ricorso individuale (e poi organizzato, collettivo) a livelli artigianali ed autofinanziati di distribuzione, destinate ad una cerchia selezionata di lettori, che finiva con l’aprire equivoci evidenti: affioravano istanze di rivolta apparentemente elitaria, «un peccato di orgoglio intellettuale». L’illusione di poter agire «come se la macchina dell’industria culturale non esistesse» e, quindi, la sorte di finire con l’essere «oggettivamente vulnerabile nei confronti di essa» (Ferretti)9. È significativo, d’altra parte, che lo stesso autore bolognese, in uno scritto di pochi anni successivo all’edizione in ciclostile delle Descrizioni in atto (1969-1970), si dichiari consapevole dei limiti che il suo progetto di lavoro comportava:

 

[…] ogni lotta per la trasformazione di un ente o di un istituto, a livello nazionale, non può prescindere dal lavoro concreto, specifico, direttamente legato a una realtà anche circoscritta, che in quella stessa prospettiva si muova […]. In altre parole […], in un costante rapporto di prassi-teoria-prassi. Ogni altro proposito è destinato a esaurirsi nel limite e nel cerchio di fuoco di esperienze individuali facilmente controllabili, catalogabili e subito e nella sostanza inefficaci

 

E concludeva:

 

[…], quale ad esempio, per rendere il dovuto omaggio autocritico alla tesi, quella del sottoscritto con un ciclostilato ecc., su cui è perfetta l’annotazione di Ferretti che “il suo atteggiamento non appare certo immune da contraddizioni e da equivoci chiuso com’è nell’ambito di una presa di coscienza in definitiva privata e condannato altresì – sul terreno pratico – a quella stessa impotenza che Roversi stesso aveva denunciato” (1975)10.

 

Le analisi, gli interventi più frequenti del poeta si rivolgono in questa fase all’esame dell’ingresso massiccio e sottile della “razionalizzazione” neocapitalistica nella sfera delle strutture editoriali e delle istituzioni letterarie, con la conseguente messa a nudo del rapporto tra uomo di cultura e organizzazione della divisione del lavoro (con l’ennesima condanna della neoavanguardia e della sua ambigua integrazione nell’industria culturale del tempo):

 

[…] Gli avanguardisti e i loro avversari sembrano disposti a mettere tutto in dubbio e a seppellire la carogna delle belle lettere. Non a modificare le strutture delle istituzioni letterarie. A disputare lungamente sul capitalismo e sull’industria culturale, sul marxismo e sulla rivoluzione. Non a modificare di fatto lo status della loro professione11.

 

Non c’è dubbio che Roversi, seguendo percorsi di ricerca isolati ma molto avanzati, sembra essere uno dei pochi intellettuali italiani pronti a cogliere tempestivamente e a recepire i nodi fondamentali della mutata condizione degli apparati culturali, l’importanza strategica dei processi legati alla “comunicazione”. Nello stesso svolgersi del suo discorso sono da cogliere elementi contraddittori ma inequivocabili: la strenua difesa della “poesia-valore” che affiora continuamente nella critica (di sapore fortiniano e “francofortese”) alle moderne metodologie della comunicazione di massa (che pure restano al centro del suo interesse scientifico e demistificante); insieme, la denuncia-testimonianza della inefficienza dell’operare letterario che recupera un suo margine di funzionalità «in una direzione di auto-demistificazione ed auto-dissacrazione»; la drammaticità della condizione poetica che perde ogni fiducia in un pubblico e in un destinatario «distratto e corrotto» dalla mercificazione consumistica dell’arte, e si risolve ad esercitare la sua efficacia «contro se stessa»12.

Da queste contraddizioni nasce e si produce l’attività molteplice di Roversi nel corso degli anni Sessanta e Settanta. Come abbiamo definito, il suo sforzo specifico sembra rivolto ad allargare la propria ricerca ideologico-letteraria nell’affrontare la questione del pubblico e dell’industria culturale, il problema della gestione (della distribuzione) del prodotto letterario. È il caso di esaminare le motivazioni e il senso del suo progetto, strettamente intrecciato, ancora una volta, alla complessa fenomenologia politica e culturale del periodo.

 

1. Il ciclostile

 

Questo è il gruppo integrale delle Descrizioni in atto composte dal 1963 al 1969, di cui molte inedite; e raccolte adesso per pochi a cui sono dedicate e liberamente mandate, Bologna, dicembre 1969.

 

La raccolta poetica più intensa dell’intero percorso roversiano reca in apertura questa avvertenza: è il frutto della decisione di sospendere ogni forma di collaborazione con la cultura ufficiale, di rifiutare le pratiche istituzionali e i mezzi tradizionali della comunicazione editoriale e di tirare al ciclostile, personalmente, nel giro di un decennio, quasi 3.500 copie del volume da inviare gratuitamente a chiunque, veramente interessato, ne facesse richiesta. Roversi tornerà in più occasioni, fino ad interventi recentissimi, a spiegare e ad analizzare la sua scelta, troppe volte semplificata e mistificata (o ignorata) dalla critica e dalla stampa del periodo, che recepisce il suo ciclostilato come un gesto individuale e di rivolta, disperatamente anarchico, contro la potente industria culturale. E si trova col dover chiarire il suo dire anche per le ambiguità e per i malintesi che esso poteva oggettivamente suscitare. Pur tra ripensamenti e autocritiche, sottolineerà costantemente il significato politico che quel progetto doveva assumere. Si vedano, ad esempio, queste dichiarazioni stese in momenti diversi:

 

Sono stati gli studenti a insegnarmi a usare il ciclostile anche per il mio libro. Agli inizi avevo molte perplessità, temevo che potesse essere soltanto una forma di goliardismo senile; ma poi mi pare di aver saputo collocare la scelta di questo mezzo in una posizione abbastanza giusta… (1970)13.

 

Sappiamo che la gestione della comunicazione è stato il problema di una certa sinistra negli anni Sessanta. Col mio ciclostilato mi proponevo […] di inserirmi in un problema seguente, più nuovo e anche più urgente, più di fondo: quello della gestione della distribuzione della comunicazione. Mi ciclostilavo non per far dispetto a Mondadori che neanche mi filava (o Einaudi, Laterza, Bompiani, Vallecchi, ecc.). […] Volevo arrivare, con le mie lettere a mano, più lontano, più in dettaglio; e arrivarci da solo (1978)14.

 

Il suo discorso, come è evidente, si immetteva in uno dei problemi determinanti che la contestazione aveva impostato e promosso – e che forse rimane ancora oggi un aspetto trascurato e negletto nei recuperi critici sulle istanze avanzate dal movimento del ’67-’69: il nodo del controllo e della distribuzione dell’informazione (letteraria e non). Le elaborazioni del movimento e della sinistra extra-parlamentare si limitarono, almeno in una prima fase, a creare e allestire centri di comunicazione alternativi, autogestiti in proprio e amministrati “dalla base”: giornali e quotidiani come “Il manifesto”, “Lotta Continua” e “Il Quotidiano dei Lavoratori”, nacquero, nella diversità delle proprie strutture organizzative e dei programmi, dall’esigenza di una gestione autonoma della “informazione”. Il fatto è che, come ammette lo stesso Roversi, «restava male impostato e comunque irrisolto l’altro nodo del problema, tanto e forse più importante, cioè la distribuzione di questa comunicazione15. E dunque, in uno con una tensione critica e problematica rivolta verso i contenuti espressi del movimento (il tema della violenza, del Potere, dello scontro generazionale), il poeta bolognese tentava di inserirsi nel cuore del problema:

 

Non potendo conquistare la comunicazione, cioè i centri della comunicazione ufficiale, né potendo ancora contrapporsi se non con una debolezza sconcertante, ci si proponeva di allestirne e gestirne qualcuni almeno alternativi. […] Il ciclostilato con le Descrizioni in atto, scritte nel corso di quegli anni faccia a faccia, spalla a spalla con gli avvenimenti, intendeva, presumeva, come atto, come fatto mio, come prova per me, del mio operare, […] di inserirsi come una scelta militante e diretta, in cui uno metteva in gioco ciò che aveva. […] Mi inserivo come un chicco di polvere ma con convinzione, determinazione. Gestire nell’ambito privato la comunicazione coordinando i due momenti integrati… sperimentare in dettaglio errori, ritardi, contraddizioni, incongruenze16.

 

E ancora:

 

[…] la scelta del ciclostilato, allora, voleva essere non tanto un rifiuto dell’industria culturale, ma la ricerca, grezza fin che si vuole, di un nuovo canale di distribuzione della comunicazione; un canale diretto, meno viziato dal consumo o da ogni ingorgo programmato. Gestendo questo ciclostilato ritenevo di poter trovare un modo più esatto puntuale rapido per distribuirlo. Ho fatto quattro tirature per oltre tremila copie; tutte stampate confezionate impacchettate spedite con le mie mani17.

 

Si trattava non solo di una ricerca concreta “di canali e destinatari sicuri”, ma anche della determinazione di gestire autonomamente, cioè in proprio, la distribuzione e la veicolazione dei testi, fornendo un esempio e una testimonianza di integrazione possibile dei due momenti (quello della creazione, di canali trasversali e di gestione della diffusione del prodotto). Un tentativo rigoroso ed estremo, infine, in linea con la propria ideologia letteraria, di sottrarre la sua raccolta poetica – la poesia – agli equivoci e alle strumentalizzazioni del mercato editoriale (del sistema, dei “detentori del potere”), contrastando la “distrazione” del vasto pubblico “interclassista”. Già in un intervento del 1964, Roversi aveva rivelato la sfiducia per un tipo codificato di “impegno”: «non credo […] che si possa concludere qualcosa, nell’ordine dell’opposizione a un siffatto sistema, presumendo di operare dal di dentro, così come non credo a tutte le sofisticate operazioni letterarie di mediazione»18. Ed ora, a commento del suo progetto:

 

La poesia può continuare ad avere una sua ragione solo se si carica di una tale politicità da richiedere la clandestinità per non essere essa stessa oppressa dalle istituzioni. Per istituzioni, non intendo però i canali tradizionali della diffusione culturale, l’editoria, le riviste, il mercato, o meglio non solo questi, ma proprio i detentori del potere. Il mio vorrebbe proporsi come un libro clandestino, che si nasconde o cerca di nascondersi, non per riservarsi a pochi, ma per sottrarsi alle eventuali premure o oppressioni del sistema19.

 

Specificando che il suo ciclostile non andava inteso come una scelta di elitarismo rivolta ad una cerchia privilegiata ed esclusiva di lettori. Come ricorda Ferretti, le 3.500 copie che Roversi spedisce prima ad alcuni interlocutori “inequivoci”, e poi soprattutto a richiedenti veramente interessati, «rappresentano […] la tiratura editoriale di un libro di poesia in edizione non economica»20. Negli anni successivi si intensificherà lo sforzo di affrontare il problema della diffusione di una nuova pratica letteraria politica e sociale, la crux della creazione di strutture organizzative e di canali alternativi, cellulari, locali, autogestiti. Roversi organizzerà il proprio lavoro letterario (editoriale), per tutti gli anni Sessanta e Settanta fino ad oggi, in linea con queste coordinate metodologiche, dando vita insieme con altri collaboratori a “fogli di poesia militanti”, cooperative di scrittori e poeti che elaborassero/praticassero nuove forme di distribuzione e di veicolazione dei testi: nasceranno da questa esigenza esperienze come i “Dispacci”, la “Tartana degli influssi”, fino ai più recenti “Quaderni dello Spartivento”, “Il Cerchio di Gesso”, “Numero Zero” e “Il gioco d’assalto”. Presterà un’attenzione sofferta e partecipata per i problemi e le difficoltà della produzione/distribuzione editoriale, impegnandosi nella promozione e (talvolta) nella stessa distribuzione di opere di giovani poeti. Si pensi, come esempi di un’attività editoriale assai difficile da registrare per la sua natura di clandestinità, alla prefazione per il volume di un collettivo di poeti meridionali, Dal fondo, edito da Savelli nel ’7821; o alle diverse introduzioni, per una raccolta di Francisci, Dentro al labirinto, del “Collettivo R.”; a I segni topografìci di Giuseppe Addamo (1967); per le opere in versi di Pasquale Emanuele, Publironiche (1976) e Fioccorosa, 1977 (intensificando la promozione di giovani poeti negli anni Novanta e nell’ultimo decennio)22; le varie collane curate insieme a Giancarlo Majorino (o con Gianni Scalia); la pubblicazione, per i tipi della sua libreria Palmaverde che funge da casa editrice, di volumi di poesia; fino alla collaborazione più recente con l’editore Pendragon. Il poeta affronta il nodo cruciale – e oggi più che mai attuale – delle forme specifiche del linguaggio e della comunicazione di massa, da quella giornalistico-televisiva a quella della manualistica scolastica (riprendendo e rilanciando le ricerche avviate su “Rendiconti”). Denunciando l’esigenza, «per far continuare una lotta di fondo che valga a far progredire […] il fronte della sinistra» sui temi centrali degli strumenti e delle strutture dell’informazione, di un «riscontro di tutto il linguaggio attualmente in atto, giornalistico, televisivo, ludico, rotocalchesco»; la necessità di un’analisi capillare «sull’informazione in generale, in ogni suo aspetto, radiofonica, libresca, […] fumetti, quadri, pubblicità stradale ecc.» (1971). Per preparare, infine,

 

[…] la messa in opera di un nuovo e diverso raggruppamento di segni che non funzionino più quali emittenti neri del potere, mistificando la verità nell’ambito della più sconcia ambiguità ideologica […]; ma che si dispongano immediatamente come il veicolo di un’informazione alternativa al sistema (1975)23.

 

Il tutto è strettamente intrecciato con la consapevolezza

 

[che] i luoghi dello scontro reale si erano trasferiti altrove, non più nelle strade, ma nei centri di elaborazione e di distribuzione della comunicazione; e mi pareva che lì dentro si sarebbe giocata la vera lotta […], per il futuro del mondo. Almeno per il prossimo futuro […]. Era incongruo continuare a usare vecchi sistemi, già arrugginiti dentro la storia, per supportare problemi urgenti e di fondo, finalità eccezionali (1990)24.

 

Nelle Descrizioni in atto questo discorso teorico si arricchisce di nuovi stimoli “politici” e, insieme, di originali acquisti sul piano formale, concretizzandosi in una pratica di scrittura tutta da esaminare. La raccolta, per citare Ferretti, «rappresenta un raro esempio di quasi perfetta consonanza, integrazione, reciproca implicazione, tra confezione-veicolazione e testo»25. L’originalità dell’operazione scaturisce non solo dal gesto esterno della pubblicazione in ciclostile – «anche perché non mancherebbero […] analoghi precedenti più o meno illustri» in proposito26 – ma dal trattamento del materiale estrapolato dalla realtà, dalla struttura stessa dei singoli componimenti. Dall’intreccio, appunto, tra il contenuto ideologico, la veste formale della raccolta e la sua configurazione editoriale, le sue possibilità di “fruizione”. Basti sottolineare, come primo livello di lettura e di interpretazione dell’opera, il «nesso assai intimo» tra la dimensione artigianale della confezione-veicolazione e i significati polemici e critici che vi sono connessi, «[…] tra le connotazioni automortificatorie e autodissacratorie dell’intera operazione e la carica fortemente autocritica del testo stesso»27. E qui ci si riferisce ai frequenti componimenti in cui il violento e sarcastico smascheramento – «anche autocritico» – della condizione dell’intellettuale, la denuncia della inefficienza e della inutilità dell’operare letterario, la carica di autodemistificazione nei confronti dei privilegi e delle ambiguità dell’atto dello scrivere, costituiscono temi e contenuti centrali, costanti e ricorrenti.

In definitiva, quella di Roversi, è una scelta – nei modi della pubblicazione come nel significato complessivo dei versi della raccolta - di ridurre l’atto dello scrivere, il fare letterario, la poesia, alla sua dimensione più elementare, «meno mistificata e compromessa e corrotta», ad un livello di comune lavoro: una sorta di «dichiarata automortificazione» e di demistificazione del fatto poetico compiuta sia attraverso i contenuti, il testo, sia mediante i modi in cui esso viene confezionato e distribuito. Ne è testimonianza la veste disadorna del suo ciclostilato, frutto di ruvida e artigianale fatica manuale: non un’elegante plaquette stampata da un esperto tipografo di provincia, in esemplari pregiati, come per Zanzotto28. In effetti, sono i componimenti stessi, i loro contenuti, prima dei modi della loro pubblicazione, a giustificare e motivare “politicamente” la scelta di mettere in uso forme alternative ai canali ufficiali dell’editoria.

La poesia delle Descrizioni in atto nasceva da una intensa qualità di testimonianza e di denuncia; dalla ferma, intransigente e lucida condanna del presente; dal rifiuto (dalla “demistificazione”) della disumana civiltà occidentale che si regge, per il poeta, sulla falsa libertà e sull’orrore programmato (sulla guerra), su un regime di terrore permanente e silenzioso. È un’aggressione continua e costante dei miti, dei valori, delle ideologie e dei linguaggi razionalizzatori ma intrinsecamente violenti del nuovo capitalismo, degli istituti sociali, politici e culturali correnti. Si rivela a pieno la tipica condizione “psicolinguistica” di Roversi, che tende a realizzarsi nelle strutture di una poesia-prosa intesa come documento o cronaca, o per dirla con parole tutte del poeta, come “resoconto”, “rendiconto”, “descrizione”, “riscontro”, “registrazione di eventi”. E che, nella sua critica intransigente, non risparmia niente e nessuno. L’implacabilità giudiziale e gnomica dei versi coinvolge gli apparati ufficiali della sinistra politica:

 

[…]

gli uffici della rivoluzione

chiudevano per ferie dal 1 al venti agosto

gli uomini di questa rivoluzione

lubrificati gli slogans per i geli invernali

andavano in vacanza nelle ville sul mare

dal primo al venti agosto

(XX Descrizione)29

 

e ancora:

 

I politici non hanno interesse a cambiare il mondo

[…]

La rivoluzione deve rifare l’uomo dalle budella

solo allora in chissà quale lontano futuro

dopo aver attraversato a nuoto i sette fiumi delle fiabe

potremo avere un nuovo amore

(XXX)

 

II moralismo sentenzioso, il ritmo ossessivo del giudizio, è per il poeta l’unico supporto da cui osservare, interrogare, denunciare e poi “aggredire” la realtà del presente. L’intensità di queste liriche, vere e proprie «radiografie del terrore contemporaneo»30, sta nel confondere e nell’intrecciare i piani dei tempi (e dei luoghi) in cui si esercita la violenza sull’uomo: «nello stesso tempo / e in uno spazio contiguo». Dal Vietnam – straordinariamente presente – alla «Ford Anglia di Torino»; dalla «battaglia d’estate nelle vie di Belfast» alle vicende del Maggio parigino; dalle guerre nei Paesi Arabi ai fatti di cronaca minuta delle metropoli occidentali: un montaggio alternato di episodi della storia di quegli anni, di dati, referti del reale che Roversi immette senza mediazione nel testo, fin’anche estrapolando frasi di notizie da «giornali e settimanali […], alcune ricordate dai notiziari della Rai-Tv, veicolo condizionato e condizionante di omissioni e decise falsificazioni. E che dire dei silenzi ufficiali, ci sono dentro in qualche misura anche questi (ovviamente interpretati)»31. La centralità della raccolta nel percorso del poeta non risiede solo nell’efficacia delle tecniche espressive, rivolte all’immissione diretta della scrittura (e del lettore) nei processi del quotidiano esercizio del Potere sulla natura, sull’uomo, quanto nella circostanza che proprio in questa sede, e cioè sul terreno prettamente poetico e letterario, si chiariscono le scelte dell’autore in tema di “ideologia rivoluzionaria”, ai tempi delle lotte e dei movimenti mondiali, sulla scia e come espressione di quegli avvenimenti:

 

[La mia posizione] è quella che ho semplicemente dichiarata: ai nuovi avvenimenti non una partecipazione “generazionale”, sentimentale, velleitaria, da uomo che si rigenera nell’acqua delle sette fonti attraverso il discorso di questi giovani che hanno coraggio; ma una partecipazione dall’interno, direi naturale perché i problemi esemplificati e buttati sul tavolo sento che sono i miei problemi, li godo e li soffro come tali. Li uso in tal modo. Anche se magari non condivido o non riesco a condividere, ad esempio, l’uso abbastanza strumentale della violenza. […] Ma queste son divergenze. Ribadisco che condivido il progetto – inquieto, ancora disorganico e in via di faticosa elaborazione – che questi uomini nuovi portano avanti (1973)32.

 

Il suo atteggiamento è stato ambiguamente definito di «impazienza (im) politica»33, alludendo all’adesione emblematica verso le minoranze, gli eroi delle rivoluzioni34; al rifiuto libertario delle strategie istituzionalizzate; la sfiducia o lo scetticismo verso l’efficacia delle azioni rivoluzionarie, i movimenti degli ultimi anni:

 

(Neppure potendo

si può posporre di rifare l’uomo

prima della rivoluzione,

le istituzioni resistono,

il rivoluzionario ama i gatti ha il letto caldo

e osserva con puntualità le vacanze domenicali.

Tutto è così rimandato ma il compito non è impossibile.

Ne è passato di tempo

Da quando i fatti sono accaduti,

tutto qui è elissi sicope balzi falsa connivenza

nella retorica che si fa terrore)

(XV)

 

Gli artisti, come i politici, non hanno alcun interesse di

cambiare il mondo

il mondo essendo così pertinente alle loro spalle. I miseri

genericamente

i poveri, gli oppressi

questi hanno interesse di cambiare il mondo

non hanno nulla da rimettere se non la povertà vecchia

quando il mondo con dolore

si cambia. Eppure una è la verità in questi anni

sessanta, ogni qualvolta

i poveri furono chiamati a scannarsi

per la guerra di lorsignori

puntuali si presentarono giovani con la rosa infilzata sul

fucile

canzoni sulla bocca e

massacrarono

da una parte all’altra

fino

alla

conclusione

(XXX)

 

È testimoniata nei testi la modalità con cui il poeta si confronta e reagisce alle istanze, ai contenuti e alle forme delle contestazioni non solo italiane, in una lucida compartecipazione alle lotte politiche del tempo. Sarà un tema ampiamente ripreso nella produzione teatrale che pure è di quegli anni, e centrale nel romanzo del ’76: il rifiuto della pratica della violenza, dell’«uso strumentale di essa». Si veda un passaggio della XXXVI Descrizione:

 

È giusto considerare le cose fatti avvenimenti

le varie circostanze e discutere

se la violenza può ancora modificare (adattandolo) se essa

può cambiare il mondo se può cambiarlo o se

triregno e spada

nel rigoglio del suo viscido umore nel suo sperma, se essa

non è solo la nera matrice

dei fiori mostruosi di questo secolo d’oro in pugno ai

dannati

 

Seguito e ripreso in una dichiarazione più recente:

 

Non credo più all’efficacia politica della violenza […]; non perché la violenza per sé sia priva di efficacia, ma perché a me pare che essa, oggi, sia codificata dal sistema, che il sistema sia sempre (e sappia essere sempre) più violento dei suoi contestatori: insomma che la violenza sia un modo tradizionale di aggressione della realtà…35.

 

E altrove, nel chiarire la tensione critica rivolta verso l’«impazienza soltanto scriteriata» che si esercitò nelle acquisizioni e nelle pratiche del ‘68, l’«arretratezza metodologica al cattivo servizio di eccezionali spunti teorici ricavati dalla realtà di quegli anni», fino al suo sfociare incontrollato nella stagione del terrorismo:

 

Quella violenza che si andava proponendo si poteva già raffigurare come lotta armata […]; e lotta armata divenne […]. Poteva soltanto autorizzare la violenza contrapposta dello Stato, con risultati di una inevitabile sconfitta sul campo e il conseguente affossamento di ogni straordinaria utopia […]:

una generazione, generosa e straordinaria, spazzata via, ridotta al buio della storia o della galera (1990).

Le Descrizioni documentano la passione, la carica di adesione e di confronto problematico del poeta verso gli anni dei grandi e conflittuali stravolgimenti: un’età che «[…] cambia le piaghe in oro, in sorprendenti / malinconie che si traducono in un fervore sconosciuto»36. Nello stesso tempo, la critica rivolta al movimento si concentrava con insistenza (profetica) sulla questione della violenza, a cui l’autore invita a contrapporre “la pazienza”:

 

[…] non per ritardare ma perché questa è, tatticamente applicata, più fruttuosa e in sostanza più rapida nel raggiungimento degli obiettivi. L’atto paziente di cercare il nuovo […], di ottenerlo […], aprendosi la strada per percorsi inesplorati, invece di dissiparsi in un precipitevole buttarsi avanti (1990).

 

Per “pazienza” intendevo non quella bolsa e quieta, buona per tutte le stagioni, ma l’altra, quella cauta e astuta, che procede adagio e attende all’erta, con tutti i nervi tesi, a speculare il buio (1978).

 

L’atteggiamento di Roversi si manterrà e si acuirà nel tempo, come era inevitabile, fino al momento di scontro cruento che tocca e coinvolge la sua città, Bologna, nei primi giorni del marzo 197737. Si vedano alcuni passaggi de Il libro Paradiso (Manduria, Lacaita, 1993) che raccoglie testi poetici inediti o pubblicati in alcune piccole riviste, sui fogli “clandestini” usciti nel corso degli anni Settanta:

 

Le azioni non giustificano se stesse

[…]

La violenza è stupida e imperfetta.

La violenza è un luogo comune.

La violenza è vecchia e senza fantasia.

La violenza è inutile e malada.

La libertà ha tre segni semplici e terribili:

vuole la mano

vuole il cuore vuole la pazienza38.

 

Si inasprisce sensibilmente il suo cupo pessimismo, lo scetticismo, il senso di sgomento, il desiderio di annullamento e di morte che avevamo colto come elemento tematico ricorrente nelle prime Descrizioni (1963-65). Lo sturm e il “furore” roversiano finiscono con il coinvolgere il senso stesso del proprio operare, le ambiguità e la precarietà del lavoro intellettuale; l’impotenza, infine, della letteratura tout-court:

 

Dal dì che io era citalo

abbiamo vissuto (proprio strascicando)

dall’anno 1923 all’anno… e

questa italia fa schifo

intanto al lavoro (abbastanza inutile) delle rotative era

legata la nostra vita

lo scrivere non risultava essere un’attività con

straordinarie ripercussioni

(XXXIV)

 

La pagina è indecifrabile

come la lingua morta degli hittiti.

Meglio parlarsi con uno straccio trovato per terra.

Farsi qualche segno essenziale.

(LI)

fino all’interrogativo estremo:

 

A chi e a che cosa serve un libro di poesia oggi

A CHI E A CHE COSA?

(LVIII)39

 

o all’ironico smascheramento delle mode e degli stereotipi dell’intellettualità italiana del tempo (entro cui egli stesso si comprende):

 

Infine si devono per esattezza ricordare anche i professori

quelli bravissimi che

dipanando una lunga tela di segni

scrivono su ogni risvolto del mondo e sono le voci ufficiali.

Scrivono sul cuore, sugli occhi della gente. Essi solo

accecati

(LIX)

 

L’isterismo collettivo è conseguenza di

un certo grado di benessere e di

fondamentale incultura

(ma può essere isterico anche l’uomo colto

lo scrittore tout-court che si tortura

nelle veglie notturne, anche egli può gridare assassini

così lo grida con la sua gardenia all’occhiello

il giornalista gentile

fra i chicchi di riso della sua prosa per gatti)

(XXIII)

 

PARLIAMO DI RIVOLUZIONE

parliamo di rivoluzione davanti a un bel fuoco di legna

– della classe operaia integrata?

– della Russia che si è seduta?

– ascoltiamo cantare il dissenso a un milione per sera

– acquistiamo, poiché si vende, il ritratto del Che a cento

lire edito da Feltrinelli

che è l’editore dell’america latina come sappiamo:

questa copia l’attaccheremo nel bovindo o in un salotto

sopra le poltrone

(XXX)

 

Basterà riportare, per intenderci, il senso della vanificazione, il motivo della fonda sfiducia verso il dover-essere di ogni rivoluzione, del passato e del presente, che si esprime nell’XI e XLV Descrizione:

 

Che cosa resterà fra mille anni

quando Cuba e Congo suoneranno

come Tessaglia e Tebe

[…]

Nei libri di scuola…?

 

Stringi, compagno, stringi.

Guerra di Spagna, basco, un suono

(anche) d’organo, mitra-

gliatrici, è Bach, i lamenti, applausi,

questo era il popolo,

si siede fra le canne di metallo diritte

prima tace ascoltando poi dice “Compagni

l’unità nella diversità”

Cos’è rimasto? è rimasto ben poco

 

Come giustamente facevano notare Cesarano e Raboni, a commento di alcune delle prime Descrizioni40, «ci sembra che il dato principale sia la rinuncia di Roversi, in questa nuova fase, a formulare come in passato un’immagine positiva […]; insieme alla scomparsa del polo positivo del rapporto dobbiamo registrare appunto l’attenuarsi, sin quasi l’annullamento […], della fiducia nella concreta possibilità del riscatto politico e di ipotizzata attitudine di un destinatario-tipo a ricevere il messaggio, il declino della speranza, la riduzione tendenzialmente radicale dell’ottimismo umanistico». La testimonianza di questo pessimismo, espressa con la consueta chiarezza, si racchiude tutta nel grido ripetuto, nella constatazione lacerata e lucida – e di sapore leopardiano, potremmo dire – del nulla che circonda l’uomo, che compare nell’ultima Descrizione dell’edizione del ’6941:

 

chi mi aiuta? chi mi aiuta? chi mi aiuta?

[…]

Appoggiarsi all’ala secca di tali uccelli per potere

volando anche strisciarvi

odorare il riflusso acido,

riposare così, l’acqua si muove e chiama chiama

dunque bagnarsi per sempre, scendere in un

fondo di mare senza sonno.

[…I

Dobbiamo innanzitutto documentare con freddezza

(non con la disperazione che un tempo

nasceva dall’osservare

bensì con la frenetica temperanza

che viene dall’ottenere le cose lungamente sperate)

uno sfacelo.

Degradazione consumata e collettiva.

Pianificazione urlata.

Le case sventrate e quella casa così ritta nel deserto.

La nostra società è marcia marcia marcia fino al midollo42.

 

Procedendo nella lettura, è evidente che il segno destruens della “rabbia” roversiana si converte e convive con una “disperazione attiva”, un recupero corale (epico) del messaggio poetico in una oscillazione continua tra speranza e disincanto, lucidità e spaesamento. Si è parlato in proposito dell’«eppure di Roversi»43, della sua «strenua tensione di resistenza», di una poesia che si fa «poesia-azione del non arrendersi», intesa «come il luogo della ragione attiva, brandita come un’arma, in senso quasi fisicamente letterale»44. E sempre, nella sua tensione linguistica, ostinatamente lontana dalla mera “gestualità” o dal “rifiuto schizofrenico” della rinnovata avanguardia. Un’attività letteraria, al contrario, che intensifica il suo aspetto di fondo di poesia ideologico-didascalica, protestataria e “civile”, e che tutt’al più si ispessisce, arricchendosi di stratificazioni, modulazioni, nuove acquisizioni stilistiche, poste accanto alla costante della poetica di Roversi che, definitivamente, è individuabile nella chiarezza (l’”ovvietà”), nella «mancanza di ambiguità», nel suo presentarsi «tutta frontale, diretta, priva di margini»45. E che rappresenta, in fondo, il risultato ultimo dell’intento testimoniale di spingere fino alle estreme conseguenze il discorso sulla politicità della letteratura (nel suo intreccio con i temi dell’attesa e della speranza, al centro della sua poesia fino ad oggi):

 

Non volere il mondo migliore ma diverso.

[…]

È compito (magari superstite) della poesia contestare

stravolgere calpestare

(XII)

 

[…]

si esce oggi (per un momento soltanto) dalle file degli assassini

per osservare un fatto

e capire (intendere investigare) con il fuoco della ragione

(superstite) che consuma

quanto io tu lei siamo partecipi complici mandanti

senza alcuna riserva, con tutte le complicazioni del caso.

Altro che lirica o la soave natura

il mito di edipo la fila dei cipressetti di Bolgheri

la voce della madre

il fumo della prima focaccia sulla mano del bambino.

I ricordi dell’infanzia non esistono più.

Ora adesso sempre un continuum e contare sulle dita magari

quanto resta da fare effettivamente.

Spettacolo da poco.

Fine del requiem

Rovesciando il discorso

(XXI)

 

Né la poesia può tacere

parla in un grande silenzio

il potere è potere

la poesia fa male

(LV)

 

Nessuna pietà per la penna che imbianca nella vergogna.

[…]

Non ascoltare non ascoltare non ascoltare…

Ma ascoltare ascoltare ascoltare.

Ti prego non cedere non dirottare, la strada è lì.

[…]

Niente è consumato.

Oggi non è un altro giorno.

Stringi qualcosa.

La libertà è difficile

(LXI)

 

La demistificazione e il contenuto profondo di automortificazione del fare letterario che accompagnano il sottofondo delle Descrizioni; le “esplosioni apocalittiche”, il rovello lancinante e vocazionalmente morale contro le mostruosità del presente (della scienza e del Potere, dell’uomo), si convertono, in termini etici ed esistenziali, nel recupero di un ulteriore, straordinario e perciò «sconosciuto» fervore di attività, di speranza. Indubbiamente il luogo di questo mutamento è rappresentato dalla XLIV Descrizione (ma, a ben guardare, è un processo che si intensifica proprio a ridosso degli anni Settanta):

 

Eppure ognuno cura le ferite, questo

lurido infetto bituminoso marchio

che segna le spalle

tutti gli sbagli (pagati) e con quanta rabbia

consumata inutile;

eppure a conclusione (magari di una giornata) si deduce

senza gessetto con i riflettori spenti

che è giusto vivere così

perché il tempo cambia le piaghe in oro, in sorprendenti

malinconie che si traducono in un fervore sconosciuto

e ognuno dal suo cantuccio dove

la noia può alle volte consumare

intere settimane s’alza come un lazzaro guarito.

 

E altrove:

 

Accendere una sigaretta.

Sono anni bui o sono anni nuovi?

Per la verità credo che il buio sia il buio

arcigno tetro gelido perfetto

che sia una luce nuova

(X)

 

l’uomo può tutto o può nulla

(LI)

 

Non si può tacere pena la morte

(LIX)

 

[…]

vivere non è concludere, ma incominciare

(LX)

 

Sul piano espressivo e morfologico, il problema è quello di considerare se e fino a che punto il cambiamento (l’evoluzione) del suo atteggiamento ideologico, la rinnovata angolazione psicologica e morale da cui egli intende descrivere la realtà conflittuale del presente, trovino un equivalente linguistico, una rispondenza semantica sul piano degli strumenti stilistici e delle soluzioni formali. Se, e in che modo, le nuove e più mature acquisizioni creative di Roversi convergano verso gli obiettivi e i risultati che si propone di raggiungere sul piano etico-psicologico, ideologico-politico. Il tessuto stilistico, le scelte in materia di linguaggio (e di metrica) delle Descrizioni in atto portano alla decisa articolazione di un dato rilevante dello sperimentalismo roversiano, già colto, peraltro, come intento programmatico nell’evoluzione della sua produzione letteraria. È quindi, in sostanza, ciò che è stato efficacemente definito «lo sprofondamento della voce parlante nell’oscurità interna» della materia investita dalla parola poetica; la tendenza a non “declamare”, recitare e reinventare linguisticamente la realtà, ma “riportarla” nuda, nella sua violenza, così come essa è espressa dai linguaggi specialistici e strumentali del “sistema”: «i messaggi che [Roversi] continua ad inviarci non sono più messaggi a proposito dell’inferno ma ci giungono, ormai senza mediazioni o intervalli, dal cuore stesso di esso»46. Se rimarrà costante la propensione del linguaggio poetico alla comunicatività, e quindi all’inevitabile abbandono del “bel canto”, di ogni ripiegamento sentimentale; se si conserva inalterato il rifiuto degli sconvolgimenti linguistici e stilistici della neoavanguardia, pure si deve registrare una maggiore libertà creativa ed espressiva, un’”accelerazione” dei procedimenti formali, linguistici e metrici. L’uso su vasta scala della tecnica del montaggio, il ritmo iterativo e martellante, la varietà di fonti linguistico-significanti da immettere nel tessuto espressivo di ogni singolo testo: era, insomma, il segno della «volontà di raggiungere un’aderenza istantanea e capillare alle diverse frequenze dei contenuti […], di dar vita a un equivalente formale dell’immagine sostanziale negativa continuamente presente nel fondo»47.

Un’ipotesi di lettura sull’utilizzo di moduli ed espedienti di carattere formale tipici delle neoavanguardie non può essere diverso da quello fatto in precedenza a proposito del romanzo del 1964 (Registrazione di eventi), e delle primissime Descrizioni: la scrittura “fenomenologica” di Roversi, il suo pur ricco e vario sperimentalismo linguistico ed espressivo, risulteranno decisamente lontani – quanto a motivazioni e intenti originari, esiti semantici – dall’astratto stravolgimento formale delle soluzioni neoavanguardiste del tempo. A riprova di questa tesi, veniamo ad analizzare il dato più rilevante e ricorrente dello sperimentalismo delle Descrizioni: il montaggio, l’incastro, l’intreccio tra diversi piani linguistici, tra blocchi o “relitti” verbali di varia derivazione. Gli strumenti tipici di Roversi diventano l’elencazione, il pastiche, la paratassi esasperata; le infrazioni, fino alla sparizione, della punteggiatura (i modi ostinatamente giustappositivi, i costrutti nominali); la parodia satirica; la citazione. Dai giornali (notizie di cronaca comune e della storia di quegli anni):

 

Seimila soldati Usa perduti finora.

È sintomatico che le perdite americane

tendono ad aumentare di settimana in settimana

per la terza decina di novembre ‘65

ci si attende un nuovo record

Nelle foto: civili sudvietnamiti

considerati partigiani dai soldati americani

e poi Roger La Porte il giovane

cattolico pacifista

che si è dato fuoco cosparso di benzina

morto all’ospedale Bellevue di New York

[…]

Post scriptum nel luglio del sessantasei.

Novità grande! Ford Anglia Torino

Ora a lire 895000 ige compresa

(XV)

 

Per la Rand Corporation di

San Francisco (e per i risultati ufficiali)

la tortura è ancora una scientifica necessità

asettica, sul serio, per far cantare i galli

lo intenda chi vuole

(XVIII)

 

dai testi e dai saggi di diversa estrazione (Lenin, Sklovskij, Mao, Fanon, Nizan, Majakovskij, Hermann Kant, Brecht, Mucci, Benn, eccetera); dalla formula chimica (dei gas, del napalm, le armi che si congegnano contro le popolazioni e i partigiani):

 

[…]

3) DNP (dinitrofenolo; formula (N022) 206H3 OH) gas

di colore giallastro

cosparso sui villaggi per costringere le

popolazioni civili a

fuggire. È letale.

TRIOSSIDO ARSENICALE […]

prodotto letale, usato nei rastrellamenti

anti-partigiani.

[…]

CS (gas irritante a base di ortoclorobenzolmalonitrite);

produce

asfissia, dilatazione delle pupille, è letale.

(XXXI)

 

dal linguaggio pubblicitario:

 

L’UOMO, IL SUO SUCCESSO, VICTOR

LA SUA COLONIA CLASSICA

VIBRANTE SPORTIVA.

UNA NATURALE, GIOIOSA FRESCHEZZA

UNA SENSAZIONE ESALTANTE

IL SUO SUCCESSO… LA LINEA MASCHILE

(XXXIX)

 

Società Generale Immobiliare.

Facciamo case. Magari la vostra.

Si possono costruire intere città

senza tradire la natura.

Costruire per noi è amare la natura.

Non certo distruggere la natura.

[…]

Questi sono i nostri uffici in Italia.

Abbiamo molte case per voi e

molti recapiti sparsi.

(LII)

 

SI AFFITTA APPARTAMENTO NON A MERIDIONALI

(XLIII)

 

UN GIOVANE CON UNA FORMAZIONE

CULTURALE VIVA E PROFONDA.

FATTA NELL’UNIVERSITÀ, FORSE.

O FUORI.

COLLABORANDO A RIVISTE, SCRIVENDO

PER ESPRIMERE QUALCOSA.

COMPRENDENDO IL CINEMA,

LA TELEVISIONE, E GLI ALTRI MEZZI

DEL COMUNICARE.

UN GIOVANE COSÌ POTREBBE

DIVENTARE COPYWRITER, DA NOI

SCRIVERE A: YOUNG&RUBICAM ITALIA

MILANO, PIAZZA DUSE 2.

(XXXVIII)

 

o dal politichese (il linguaggio-menzogna di “un ministro socialista” che «chiama i licenziamenti / alleggerimento di mano d’opera»):

 

Le gravi difficoltà di questo quadro d’azione

l’assistenza pubblica erogando

chi non s’arrangia è un minchione

vasto ed efficace il contributo del governo

La presente alluvione

il signor prefetto, l’onorevole deputato, il generale,

il chiarissimo professore, l’eminente scienziato

[…]

erogando esprimendo partecipando auspicando.

(XVI)

 

Il riferimento parossistico e “polifonico” ai segni slabbrati del reale; il montaggio alternato e straniante di “codici” linguistici altri, è il procedimento più significativo che Roversi utilizza nelle liriche in esame. Non per raggiungere uno stato di mero “babelismo linguistico” o di “affaticamento mentale” ai limiti del non-senso e dell’incomunicabilità, ma per il compito generale che egli intende affidare al suo modo poetico: lasciare parlare la realtà ex ore suo, far coincidere l’enunciare e il denunciare, descrivere (raffigurare) ed insieme opporsi, testimoniare e condannare: «Basta la constatazione»48. Di qui la presenza, nella sua poesia, di un doppio livello linguistico e formale: un piano espressivo che trae alimento da una koinè comunicazionale specifica e settoriale (dal pubblicitario al burocratico, dal linguaggio scientifico e divulgativo al giornalismo televisivo, alla carta stampata); e in alternanza, o meglio nel senso di un continuum alternativo, il momento “didascalico-ragionativo”, per dirla con Fortini, il commento e lo scatto dichiarativo, il taglio narrativo, la dimensione saggistica, la tensione sentenziosa e riflessiva che occupa interi “blocchi” di versi. Gli effetti dell’intreccio sincronico, del montaggio dei “relitti” verbali e dei piani discorsivi, consistono da un lato nel comporre l’energia e la qualità dirompente delle immagini (la «deformazione espressionistica delle figure prelevate dalla realtà»); dall’altro, quelle soluzioni sono riconducibili all’intento prioritario che Roversi si propone di raggiungere attraverso il linguaggio poetico. Introdurre il lettore delle Descrizioni «ad un sentimento costante di orrore e furore»49 per il presente, coinvolgerlo nell’immersione dentro la deriva e la disumanità dell’esistente, tramite l’«estendersi greve e odioso della materia»; l’«irrespirabile, maniacale compattezza» del “poema” che procura effetti di «dilatazione, […] univocità di presenza, d’una grandezza di scala […] dal carattere per così dire cubico»50. Sono le soluzioni stilistiche che rappresentano il simbolo estetico, il corrispondente formale del giudizio del poeta sul nostro tempo. E un linguaggio che si sdoppia di continuo. Diventa ora “relitto”, “straccio” verbale, “residuo” testimoniale estrapolato dalla violenza della realtà del presente; ora si inarca negli scatti dichiarativi improvvisi: si fa sentenza, commento politico e morale in grado di riecheggiare (e di testimoniare, di condannare) il quotidiano stravolgimento cui è sottoposta la condizione umana. In questo contesto non è mai nemmeno adombrata la regressione verso alcun “grado zero” della scrittura. Si vedano, a questo proposito, le martellanti ripetizioni, le più o meno lunghe serie iterative, le stranianti e asettiche elencazioni: sono gli espedienti stilistici che hanno una funzione maniacale, un’efficacia ossessiva, “spaesate”. Formule e moduli espressivi adattati ad uno scopo spiccatamente extra-testuale (“politico”), ostinatamente tematico e comunicativo: generare nel lettore uno stato di allarme, di ansia e di angoscia per gli orrori del presente. Le pagine, i versi di questo lungo e unitario poema «dall’interminabile lettura», risultano per questo sempre eccitate, irte e caricate di un estremo espressionismo: prosegue l’attraversamento di Roversi delle avanguardie italiane ed europee, e i critici parlano di stimoli che provengono dai «vociani, dagli espressionisti, dai surrealisti e principalmente da Majakovskij e da Brecht»51; o di «un possibile anche se vago riferimento, il Garcia Lorca delle poesie newyorkesi»52 (e si può pensare anche al Williams Carlos Williams de La musica del deserto, tradotto da Sereni negli stessi anni, 1961; e, su un altro versante, alle accensioni visive e lancinanti di Campana, al periodare “largo” di Eluard53), per definire le fonti e i riferimenti di quegli «incastri fra vari piani linguistici, la concitazione con la quale blocchi apparentemente autonomi di immagini vengono spinti a ruotare insieme e a intersecarsi»54.

Il fatto è che, per concludere, un dato resta costante e sarà l’elemento centrale nelle contemporanee prove teatrali e nel romanzo del 1976: Roversi non rinuncia – nell’evoluzione e nella maturazione del suo personale sperimentalismo – alla narrazione. La spezza, la abbandona, la riprende. Le tecniche dello “shock”, dello scarto sintattico-semantico, dell’abbandono-occultamento dei nessi logici, della prosasticità portata all’estremo (autentica realizzazione postuma dell’idea officinesca di una poesia impoetica), producono alla fine l’aumento (e non l’annullamento) della “quantità di informazioni”, il potenziamento (e non l’azzeramento) della comunicatività e della “comunicazione”.

 

2. Il teatro, in tutte le piazze d’Italia

 

Nel corso degli anni Sessanta sembrano ulteriormente esplicitarsi le forme di militanza e di partecipazione ai fatti e ai movimenti politici di quella stagione. È significativo che un autore solitario, ostinatamente lontano dalla ribalta e da ogni riconoscimento ufficiale, percorra con costanza, in questa fase della sua attività, le vie del teatro, dello spettacolo, della canzone d’autore, intensificando gli scambi e i collegamenti con gruppi politico-culturali organizzati55. Non v’è dubbio che l’interesse teorico per il genere teatrale; la stesura – a cavallo dell’inizio degli anni Settanta – di tre opere destinate alla rappresentazione; la sperimentazione intorno ad un teatro fondamentalmente politico e pubblico, siano aspetti da collegare alla volontà di collaborare e di partecipare attivamente ai fermenti che agivano nel contesto italiano del tempo.

Se Unterdenlinden (1965), fu indirizzato alla messa in scena solo in un secondo momento (1967), e sembra essere un’esperienza interlocutoria in quella fase della ricerca di Roversi, è invece di questi anni l’approfondimento di una possibile funzione politica della pratica teatrale, l’attenzione alle esperienze contemporanee di ricerca teorica e scenica (il “teatro a partecipazione” di Giuliano Scabia, il lavoro di Arnaldo Picchi). E ci sono ancora alcuni dati indicativi che emergono da questa stagione della sua poetica, che possiamo facilmente considerare come istanze caratteristiche in coerente identità con il suo percorso complessivo: la tendenza ad incontrare il “politico” all’interno stesso dell’attività letteraria (con l’esperienza speculativa che prosegue su “Rendiconti”, la sperimentazione intrapresa per le opere poetiche e in prosa); il tentativo di articolare e di arricchire il discorso sulla distribuzione e sulla gestione autonoma dell’opera letteraria, destinando i suoi lavori, come si dirà, a gruppi universitari, scuole, quartieri; ovvero, attraverso procedure alternative di collaborazione attiva e autogestita, non escludendo e anzi promovendo iniziative in dialogo con la pubblica amministrazione, in ambito locale56.

 

Nel gennaio del 1974, Roversi coordina e dedica un intero numero di “Rendiconti” al “teatro come comunicazione”. Integrando, nell’analisi del tema, ricerche di tipo strutturalista sul linguaggio scenico (gli articoli di Bruno D’Amore su Linguaggio e metalinguaggio teatrale; lo studio di Marco De Marinis sull’Orestea messa in scena in quegli anni da Luca Ronconi), con un sondaggio-inchiesta sulla condizione del teatro politico e sperimentale in Italia57. È chiara, insomma, la posizione teorica circa le potenzialità di un genere inteso fondamentalmente come “forma della comunicazione”, possibilità preziosa e concreta per impostare un discorso alternativo sulla partecipazione diretta del pubblico, sull’allargamento dello «spazio sociale» (il “destinatario”) e sulla gestione del linguaggio letterario “dal basso” («dalla base»). Da qui si alimenta l’interesse per le sperimentazioni contemporanee, nate e ideate a livello locale ma che sembrano produrre un progetto significativo intorno al rilancio di un teatro dalla dichiarata matrice politica, che tentasse, cioè, di «mutare completamente il rapporto esistente sia tra pubblico e palcoscenico; sia all’interno di chi costruisce lo spettacolo, […] tra regista, attori, scenografi, tecnici, drammaturgo»58: il “teatro-giornale quotidiano” del bolognese Giuliano Scabia, impegnato ad affrontare il discorso sull’informazione, sulla manipolazione delle notizie, attraverso un «laboratorio aperto università-quartiere», partendo dalla convinzione teorico-metodologica che «[…] non è possibile fare teatro dentro le mura di una scuola» («[…] la crescita di un gruppo […] può avvenire soltanto nello scontro con le contraddizioni reali di un contesto sociale»59). Il lavoro del “Collettivo Culturale del Quartiere Irnerio” di Bologna, teso al recupero di un “teatro di massa” praticato dagli «strati contadini, operai e piccolo-borghesi in forme e contenuti che vogliono

essere innovatori e in spazi alternativi […], in netta polemica con le grosse compagnie private e l’organizzazione dei teatri stabili, ma […] anche [con] la chiara consapevolezza dei limiti e delle notevoli difficoltà di certe operazioni d’avanguardia, preoccupate di un rinnovamento [solo] stilistico ed espressivo del linguaggio scenico»60. A tale ambito vanno inscritte le forme del “teatro-cabaret” (il “teatro-canzone”) sperimentate negli stessi anni da cantautori come Giorgio Gaber (di cui si pubblica un’intervista – alquanto conflittuale – a cura di Taracchini, Scrivere o non scrivere i volantini61). Che inducono ad operare una «rivalutazione delle possibilità comunicative» della canzone d’autore, della musica popolare, in linea, come è evidente, con la contemporanea collaborazione tra Roversi e l’allora giovane Lucio Dalla62:

 

Qui si libera, ad apertura alare, il potenziale plastico della forma-canzone, dentro uno scambio non più occasionale ma, alla lettera, progettuale; nel combinarsi di rime e ritmi che dal song ascendono al coro epico, vi si alternano i segni dell’esistere quotidiano e i trapassi della vita civile (la guerra, l’emigrazione, la battaglia politica, lo sport). […] Non un poeta che si degni di scendere alla canzonetta, né un musicista che lo normalizzi: piuttosto, la concomitanza di suono e senso, il contatto istantaneo di pensiero ed emozione, tenerezza e res durae. Ed è ciò che sempre si dovrebbe chiedere a una canzone63.

 

La conclusione del fascicolo monografico è occupata da un saggio di Roversi sulla condizione del teatro politico e sperimentale in Italia. Ritorna la polemica nei confronti dell’avanguardia, contro gli «abili acuti speculatori» che «dal di fuori l’amministrano, la suddividono, la impacchettano, la spediscono, la vendono, la rigenerano»64. La gestualità “senza frontiere” del teatro più in auge tra gli anni Sessanta e i Settanta, e in generale le esperienze che si impongono nel panorama teatrale del tempo (il Living Theatre, il lavoro di Grotowski; la tendenza al «recupero del classico come dilemma in contrapposizione al politico come ideologia», individuabile nelle riletture coeve di Carmelo Bene)65, vengono discusse non tanto a livello dei contenuti e delle scelte linguistiche, quanto – e in linea con gli interessi dell’autore – in riferimento alle forme di gestione e di amministrazione degli spettacoli. Per Roversi sono da rimettere in discussione le “scelte tattiche” dei gestori della comunicazione teatrale – e si capisce come il discorso sia di carattere generale ed allargato; i rapporti che essi intrattengono “per filo diretto” con «il potere centrale o periferico, gli enti locali (che svolgono o cercano per lo più una politica culturale di puro prestigio), gli istituti culturali universitari […], soprattutto per ottenere sovvenzioni appoggi rimborsi circuiti aiuti di ogni genere». Anche il teatro, insomma, «è stato messo in fuga e sparpagliato dalle trombe di un forsennato e paranoico industrialismo che l’ha sistemato, distribuendolo, impolverato angosciato solo relegato»; la condizione in cui vive la pratica scenica rappresenta un ulteriore episodio del più generale “genocidio culturale”, della mercificazione razionale e pianificata che influenza pesantemente la macchina culturale italiana. Deriva da questa constatazione «l’estrema impopolarità di tesi che contrastino siffatte preoccupazioni (tutte e solo economiche), per rifarsi a una ricalcata scelta politica decisamente ribadita come motore dell’operare teatrale»66; la proposta di una «comunicazione scenica che si esprima attraverso una ritualità esclusivamente collettiva […], fuori dagli aggregati urbanistici tradizionali», che «non cerca il consenso come approvazione di un pubblico ma parte dal consenso dei partecipanti sulla necessità di fare per volgersi a suscitare (necessariamente) anche il dissenso»67. Un teatro, infine, che diventi “spettacolo rituale”: «non chiede sovvenzioni allo Stato, non ammicca ai potenti (in qualche modo), è fatto dall’utente, quando come dove vuole. Si rivolge a chiunque abbia voglia d’ascoltare e si disponga all’ascolto o alla partecipazione. Non si sottrae. È presente, attivo, è “in movimento”»68. «Questo teatro elabora una lingua, vale a dire che il linguaggio lo sperimenta lo verifica lo seleziona durante l’azione»69; con le parole di Scabia:

 

[…] ci si rende conto che la comunicazione tanto meglio avviene quanto minore è l’astrattezza simbolica: che il significato tanto più viene comunicato quanto meno il segno è carico di simboli; che la sovrabbondanza distrugge la possibilità di buona comunicazione, finendo con l’annientare anche la percezione del segno70.

 

E alle suddette affermazioni si possono agevolmente agganciare i riferimenti di Roversi alla “concentrazione” dei concetti, alla «voluta e calcolata ovvietà» dei suoi lavori teatrali:

 

Fare teatro, dunque, è, secondo i miei propositi, trascinare l’ovvietà in piazza e lasciarla riempire di significati […]. Altro che accontentare tutti, riempire gli stadi, lo scroscio degli applausi, il consenso delle lustrissime gazzette in questo paese che cambia, sempre, poco o niente nella sostanza71.

 

A partire da tale disposizione “tattica” nasceranno i tentativi di creare esperienze di collaborazione alternativa con la pubblica amministrazione (Comune, fondazioni, scuola e Università di Bologna e della provincia emiliana). Il testo de La macchina da guerra più formidabile (1971) viene ripreso e messo in scena dai giovani del “Gruppo Libero” (che facevano capo ad Arnaldo Picchi); un “montaggio” di testi pasoliniani, I campi del Friuli (1978) è realizzato per una “lettura ad alta voce” da destinare alle scuole; e infine l’opera teatrale “epico-brechtiana” Enzo Re (1974) doveva essere rappresentata in Piazza Maggiore a Bologna, a cura del comune stesso e di un istituto bancario provinciale, la Banca del Monte.

Questo “spettacolo di piazza” non fu allora realizzato, ed infatti costituisce, per Roversi, l’emblema del fallimento dei suoi propositi “politico-culturali”72. Il testo commissionato celebrava un protagonista della cultura popolare e della storia bolognese, e il progetto – secondo le parole dell’autore – «[…] pareva entusiasmante: la Piazza Grande a disposizione perché la voce di uomini liberi ancora risuonasse dentro a una autentica festa popolare»75. Roversi tiene a sottolineare che cercò di produrre una testimonianza possibile di collaborazione “disinteressata” con gli apparati istituzionali: «Si abbia ciascuno il teatro che vuole e che cerca: magari come nella corrente stagione: dieci volte Pirandello e dieci volte Shakespeare, a tranquillizzare la coscienza dei programmatori culturali»74.

 

Il mio testo, e l’eventuale rappresentazione, sono e vogliono essere una riflessione sulla storia con un problema di fondo che è non tanto o solo la violenza del potere ma piuttosto la sua maschera ambigua, che è più terribile, indecifrabile, anche incontrollabile dentro al giuoco delle opposte tendenze75.

 

Dove si ricava l’impressione che l’interruzione (improvvisa) dei lavori di allestimento si devono imputare presumibilmente alla personale interpretazione che l’autore diede degli episodi del passato medioevale della sua città, ai riferimenti diretti al presente che la versione definitiva conteneva. Con maggiore probabilità, la sospensione va ricondotta alle difficoltà amministrative ed economiche sopravvenute nella gestione del progetto.

 

Questo, al quale assistiamo, non è un contrasto di generazioni, che si sia liberato in diverse parti esplodendo e producendo scompensi e violenze destinati a restare tali; accompagna in pratica l’apparizione, sulle scene della cultura e dei problemi sociali ed economici generalizzati, sulla scena del mondo, di uomini nuovi, non dunque studenti (termine consortile, soltanto), ma proprio uomini che pensano in modo diverso. Conosciamo, nella storia, momenti di “grosse novità”, nei quali però i parametri culturali mutavano e cambiavano solo in superficie ma al fondo resistendo ad ogni aggressione; e conosciamo altri momenti storici in cui tutte le abitudini culturali si rovesciavano. Copernico straccia, semplicemente, il vecchio ordine delle idee, soffice come bambagia. Ebbene: questo a me pare uno di tali momenti, perché gli uomini nuovi che si presentano adesso hanno una concezione del mondo sostanzialmente diversa, parlano un linguaggio diverso (1973)76.

 

È la convinzione che regge il discorso di Roversi ne Il crack (1969, messo in scena, “con avverso clamore”, al Piccolo di Milano), opera concepita durante le ultime fasi della scrittura delle Descrizioni in atto.La vicenda narrata riguarda l’ascesa e la rapida caduta in disgrazia dell’industriale Vasi, colpevole di aver violato le tacite e rigorose leggi degli affari, della concorrenza, impersonificate dai sei “paladini”, speculatori finanziari, industriali, politici e bancari: «le regole non sono convenzioni ma strumenti del regno […], sono obblighi forbiti. Non c’è nulla di meglio che seguirle […], adeguare il prezzo al mercato, non intorbidare il riflusso, vivere in armonia, collaborare fra noi…»77.

Attraverso un linguaggio che ormai è definitivamente maturato nel senso dell’asciuttezza, della divertimento sarcastico, la trama si dipana calandosi negli ambienti contemporanei. Il “furore” e l’ironia che si esercitano nei confronti del mondo dei potenti, che si credono lanciati nell’avventura del progresso in questo «tempo di Bengodi», in cui «il quattrino ha la calamità», sono espressi attraverso l’uso del bozzetto, il ritratto di figure tronfie e grottesche (l’«Eccellentissima Eccellenza che viene da Roma»; il Cardinale, le due teste d’uovo). E soprattutto si espleta per il tramite della disposizione linguistica, il pastiche, la parodia, l’alternanza tra prosa e poesia:

 

Una caterva di cifre dolcissime, una cascata di elogi, deduzioni pacifiche, risultati sontuosi. Siamo fra le prime nazioni al mondo, è certo; per intrepida temperanza delle autorità, per il prodigarsi alacre eroico dei tutori dell’ordine su ogni sconcia volontà sovversiva.

Non si alza una fabbrica

per viverci dentro

con spreco di luci…

ma per accrescere la potenza del nome

il prestigio del marchio, il giro

degli affari. Per vendere ogni giorno di più

per vendere di più per vendere

se vogliamo produrre e produrre per vendere.

 

Come si sarà notato, un elemento di novità, molto frequente nel testo (che riprende ed estende un procedimento avviato nell’opera teatrale precedente), consiste nel trasformare le battute di un personaggio in un recitativo “andante” scritto in versi che, essenzialmente, ha la funzione di conferire forza di sintesi e di concentrazione alla scansione degli argomenti:

 

Per me, vedete, è importante appurare questo…

E un tarlo nella testa:

che cosa è accaduto, che tutti

si sono rivoltati? Non uno?

Sì, lo so. Ma è il modo:

totalitario. Come può darsi, da un momento all’altro,

che tutti si accaniscono contro uno,

tutti insieme,

col gusto di affogarlo proprio…

 

La parte centrale della pièce, il Fatto, è il luogo in cui la sorte dell’industriale Vasi viene discussa dai “luminari” dell’industria e della finanza: i quali, inevitabilmente, condannano il “ras di provincia” al fallimento e alla prigione, reo di non aver rispettato i vincoli e le leggi del mercato (le regole), per raggiungere un successo personale e solo individuale. Ma, oltre che negli ambienti in cui si sviluppano le dinamiche violente e spietate degli affari, l’azione si concentra nella casa del Padre per mettere a fuoco l’ambiguità e la falsità su cui si reggono i rapporti interpersonali (incestuosi) tra il protagonista e la moglie del figlio, tra il figlio stesso e la moglie del padre, I dialoghi tra i quattro sono all’insegna della vacuità e della futilità. Battute stringate, continui botta e risposta che esprimono il vuoto (il marcio) delle rispettive esistenze private:

 

Figlio – Se la Giossi va in crociera coi Frustalupi, tu di’ che vai dai Devenis a romperti le tasche e invece ci incontriamo a Cortina, nella villa di Federico, che è in Australia. Non vorrai perdere il tempo così, passare l’estate per niente, quando hai davanti uno che spasima e t’adora.

Moglie del padre – Ma va. E se ci vedono?… Che ne so!… Non lo so che cosa farò quest’estate.

 

Nella Conclusione, infine, ambientata in una prigione “di Stato”, fanno la comparsa cinque giovani, tre radazzi e due ragazze, che finiscono nella stessa cella nella quale è rinchiuso il protagonista ormai definitivamente “scaricato” dagli ambienti economici e finanziari. Fuori, intanto, in fabbrica, l’Eccellentissima Eccellenza78 comunica agli operai il compimento della “giustizia” ai danni del vecchio padrone, promette la “salvaguardia” della mano d’opera preannunciando la riconversione della produzione ai costi “minimi” di qualche taglio:

 

Il governo vigila non dà requiem a cialtroni, speculatori, ribaldi, figli di buona donna, che vilipendono le istituzioni. (Urla)

Le istituzioni non si toccano. La magistratura… colpisce inflessibile, così come assolve gli innocenti. È tenera dura mansueta commossa intransigente materna… E voi, che siete il ceppo vivo della nazione e sudando alimentate i prodotti, non abbacchiatevi. Finito un lavoro se ne crea rapido un altro… Pane e lavoro, miei cari!… Raddrizzate le orecchie, miei cari e applaudite. A morte i traditori e chi sabota i tralicci. Viva l’Italia. (Silenzio di tomba: alcuni fischi).

 

Quei giovani, invece, che sono stati catturati durante alcuni scontri in piazza con la polizia, diventano le figure esemplari (“epiche”, “marcusiane”) della rivolta e del movimento; dialogano tra loro e recitano – non a caso sempre in versi – i motivi del rifiuto del mondo degli interessi consolidati, la consapevolezza della violenza e della repressione della “giustizia”, del sistema: si fanno portatori dei temi più significativi emersi sull’onda del ’6879. Attraverso l’immediatezza delle scene e del linguaggio, Roversi immette nel testo i concetti e i contenuti salienti della contestazione. E si passa dal rifiuto del consumismo:

 

Seconda ragazza: Io invece di sparare mi metto a non

comprare. Non compro più, non compro affatto.

Finora tutti ci caschiamo

come merli

ad acquistare… i manifesti con frasi

e il foulard rosso sul collo.

Sembra una rivoluzione in eleganza

Arden for men e Lenin

 

al tema freudiano della lotta contro il padre:

 

Primo ragazzo: Produrre anche gli eroi in serie.

Secondo ragazzo: I bravi eroi che non puzzano, per la patria… soprattutto imitarli.

Prima ragazza: Così i padri saranno contenti.

Seconda ragazza: E saranno contenti (soddisfatti) i figli.

I figli che imitano i padri,

che così bene gli somigliano.

Prima ragazza: Ma gli altri figli, i figli diversi, i nuovi

figli, gli altri, sono (potranno essere?)

più felici dei padri? fortunati dei padri,

di più? protetti soltanto o

non disposti ad attendere? a consumarsi, ad

essere abbattuti, come bestiame, deteriorati e illusi;

già, prima di vivere, uccisi?

Secondo ragazzo: Io disprezzo mio padre. Disprezzo tutti, a cominciare

dal padre.

 

E altrove, dando voce alla protesta rivolta contro la cultura tradizionale e gli istituti del sapere:

 

[…]

Non più: io do e tu dai

ma: io sono e tu sei. L’uomo

prima di cambiare il mondo

cambia se stesso.

È un fatto che cambiando se stesso

ha già cambiato il mondo.

Prima ragazza: Tutta quella cultura costruita così

come se il mondo fosse loro.

Scelgono, selezionano, imballano e

badano anche alla distruzione.

Sempre così, uguali così, da secoli…

Primo ragazzo: Abbiamo commesso anche noi degli errori…

non siamo stati radicali… Abbiamo ascoltato il discorso del rettore.

Abbiamo lavorato su un autore francese del XIX secolo

che a sua volta aveva lavorato

su un autore romano del II secolo.

Abbiamo avuto troppo rispetto per le conoscenze

dei nostri professori e troppo poca curiosità

per le loro opinioni.

Non vogliamo farlo mai più.

Quando seguivamo le lezioni del nostro

professore non gli guardavamo le mani,

quando sostenevamo gli esami non lo

guardavamo in volto…

 

La condanna, ancora una volta, della pratica della violenza:

 

Terzo ragazzo: Questi ci menano per farci

uguali a loro,

ubbidienti alle leggi

disuguali per tutti

tranne che per loro; docili ai comandi messi in giro da loro,

attenti alle notizie che sono false distribuite

da loro…

Secondo ragazzo: La violenza è la rosa del sistema,

un modo un poco sconcio però odoroso di esercitare il potere.

La forza sulla bocca del fucile. Se offendi o premi loro ti sparano in

due,

in tre; e se spari anche tu, il tuo cannone o canna di moschetto

è sempre più vecchio

logoro più malandato o derelitto

del loro Winchester nuovo a retrocarica.

Seconda ragazza: Io invece di sparare…

[…]

Secondo ragazzo: Ricordate?

Abbiamo rovesciato lo zar

facilmente, in qualche ora.

Abbiamo abbattuto i grandi proprietari

fondiari e i capitalisti in qualche

settimana. Ma questa è solo la metà del lavoro.

Bisogna imparare a lavorare

in modo nuovo.

Terzo ragazzo: E l’aggiunta? Questo problema è

estremamente difficile. Non lo si può

risolvere con la sola violenza.

 

L’intreccio tra repressione e terrore, di cui ogni Potere («l’autentico potere invisibile che determina», p. 45) si serve per meglio opprimere la libertà, quella intellettuale in particolare, è il leit-motiv dell’altro testo roversiano destinato programmaticamente al teatro. La Macchina da guerra più formidabile va in scena, a Bologna, nell’aprile del 1972, in una redazione ridotta a cura del “Gruppo Libero Universitario” (per la regia di Arnaldo Picchi), col fine dichiarato di proseguire il discorso sulle atrocità del presente. Di produrre, insomma, una «lettura odierna di terribili cose che accadono e di alcune violente speranze che soffiano sul fuoco e che fanno accapponare la pelle a più d’uno»80. L’immersione (linguistica) nel reale, come nelle Descrizioni, si compie attraverso le consuete citazioni “libere” e

“sincroniche”, secondo il procedimento che condiziona la scelta del titolo dell’opera e che lo stesso Roversi illustra nell’introduzione:

 

Quella di “macchina da guerra più formidabile” fu (è) la definizione data dal De Sanctis all’impresa dell’Encyclopédie di Diderot (1772, ventotto volumi in folio…); un autentico terremoto. Ebbene questo testo cerca di cogliere il lavoro di Diderot (Did), di Voltaire (Volty) in una dimensione temporalmente disarticolata dissociata molto mescolata; dato che da allora troppo tempo non è passato e ci può essere […] uno scambio continuo di riferimenti e ammicchi […]. Allora (1772), adesso (1970); e dentro, inzeppate in un sacco, altre faccende accadute nel contempo, altre che accadono, altre che possono accadere se non provvediamo: Passanante e il suo coltello, Bresci e la sua rivoltella, l’assassinio in carcere di Bresci, Bava il beccaio di Milano e via per i viali del secolo fino alle ultime sconcezze. Tutto è esemplificato con concentrazione (tale e quale nel Crack) e con voluta e calcolata ovvietà […]. Il vero errore, e il vero orrore, è di tipicizzare sentimenti e facce per la falsa coscienza dei reggitori mondani […] come un rito, e avviare il sacrosanto birignao; che può essere per la madama, ma c’è anche il birignao dell’impegno e della guerra nel Vietnam81.

 

Si vedano, come d’esempio, le battute che accompagnano l’«esemplare punizione del popolo», nella Parte Seconda della pièce,intitolata «leggi: Repressione»:

 

D’HOLBACH:

[…]

Eppure è proprio quando hanno paura

che diventano pericolosi atroci:

quattrocento morti e più nelle quattro giornate di Milano anno

1898 con Bava Beccaris il beccaio,

il bersagliere napoletano che stanava con la baionetta l’operaio

della Pirelli,

l’alpino del Garda… si butta

all’arma bianca contro la barricata di Porta Ticinese,

sbudella l’operaio della Stigler della Grondona della Vago

dell’Elvetica.

È a sua volta (palla rimanda palla), l’operaio di Porta Manforte

che a fucilate stana insegue bracca uccide il

bracciante di Foggia il contadino di Caserta il lazzarone napoletano…

[…]

Lo stato dispone della pura forza repressiva

esercito polizia carabinieri

e della ignoranza delle masse (pp. 57-58).

 

In effetti, ciò che senz’altro caratterizza la struttura dell’opera, è la straordinaria libertà di interpolazione e di manipolazione adottata dall’autore a gremire di cifre, allusioni e citazioni il filo dell’azione con un linguaggio vivace e a tratti concettoso, ma pure essenziale e serrato, scattante (tra l’arcaico e lo specialistico, il parlato e il sentenzioso), che sostiene la contaminazione cronologica, le retroversioni (le contrazioni e le “dilatazioni”) temporali utilizzate per figurare e adombrare (tra storia e finzione, personaggi realmente esistiti, maschere, voci, tipizzazioni e figure-simbolo di valori universali), gli avvenimenti contemporanei82.

La Macchina da guerra è, dunque, il lavoro intellettuale rigoroso e “paziente” impersonificato da Diderot («DID: Poiché non è meno importante rendere gli uomini migliori / che renderli meno ignoranti…», p. 17), volutamente estraneo e ostile al Potere83. Come un basso continuo che percorre per intero lo spartito, scorrono e si avvicendano i momenti della progettualità operosa di Diderot (e dei suoi “colleghi”: Volty, De Prades, Rousseau, d’Alembert, eccetera), e le “voci”, i “volti” della censura, della repressione (dentro il tema collaudato delle ambiguità e della precarietà del mestiere di scrittore, o, all’opposto, del rigore “rivoluzionario” e indipendente degli auteurs critiques):

 

D’AGNEAUSSEAU [a Did]:

Non sconfinate e vivrete tranquillo.

U lavoro è lavoro e poi chi ha nidi perseguitato un

saggio al tavolino

oppure un filosofo con la penna in mano?

Siete forse fra’ Dolcino?

Si ha rispetto per i dotti da tutte le parti

purché i dotti restino tale e quale i dotti

zitti con la loro pennuccia in mano

o fra le labbra.

Essi sono il pepe per ogni piatto

buoni per l’antipasto e per le polpette del re.

Tutti hanno rispetto per chi

pensa

se pensa bene. (pp. 23-24)

 

IL CURATO:

[…]

Did lavora a un’opera a stampa

di molta diffusione

e a volumi bimestrali

[…]

Inietta veleno negli scritti

Sub specie di novità del pensiero.

[…]

Inquina disturba diffonde attenta distrugge

insinua veleno nella coppa del re… (p. 25)

 

D’HOLBACH:

Non temete per voi? Procedete procedete ma

ferite anche, offendete. Alle volte colpite a morte. C’è chi vi odia

ormai e cercherà prima o poi di nuocervi

facendovi tacere.

 

DID:

Essere dolci non vuoi dire essere pazienti

essere pazienti non vuoi dire essere deboli

non vuoi dire cedere né abbandonare né giacere. (pp. 29-30)

 

SINDACO DELLA FACOLTÀ:

Badiamo a questo (ed è un esempio che io porto, un saggio

soltanto di infinite possibilità e altrettanto infiniti o vari meccanismi)

bastano poche parole

per rovesciare il mondo (mondo che conosciamo, amandolo

e che vogliamo che duri

se a queste parole non si mette da

parte di chi può e sa

un

riparo. Argine di fiume bastione fortezza o forca o cannone).

[…]

La vostra penna è

sul ginocchio spezzata

come una sciabola

 

PRESIDENTE DI TESI [a De Prades]:

Non l’avete capito nonostante abbiate molti meriti

che l’università non è luogo da contrasti

non è un ammennicolo in cui far la punta alla matita

no no

profferire minacce

adattare le sedie.

Essa è luogo di eccezionali silenzi

dove le menti si adattano a speculare il cosmo

a strologare il passato.

Luogo di un laborioso formicaio.

[…]

 

DID:

Il riflusso della seconda ondata non è ancora arrivato,

so bene che sarà terribile. Potrò resistere?

Mi chiedo se saprò resistere. Non è tanto questione di testa o

doti d’animo o di mani (lestezza o fragilità) quanto

di agire (saper agire) e argomentare in modo

da tagliare il filo (lungo filo) di queste trame. Sgherro capo,

sindaco della facoltà, presidente di tribunale e d’Agneasseau con i

suoi denti lucenti e tali parole di miele; poi provocatori e sbirri.

Questa è la società (p. 42; 51; 56).

 

Il sarcasmo di Roversi si concentra nello svelare “illuministicamente” le ambiguità del sistema, nella demistificazione dei falsi valori su cui si regge l’apparato di potere. Il volto oscuro della giustizia:

 

SELLIUS:

[…]

Ma la giustizia (che è di pane)

si è sempre legata al potere

per le soluzioni finali.

[…]

Da una parte la sapienza (condita)

dall’altra la potenza

(un vaso pieno di grana)

e il giudice che mangia piscia fotte

è pur sempre un uomo

nonostante l’aria che ha da gallo sacro.

Guardagli l’occhietto cisposo

e dimmi se non è da ridere

quella bilancia in bilico sul bischero. (p. 15)

 

D’AGNESSEAU:

La giustizia! Sì, la giustizia è

 

LE BRETON:

È la forza dei nervi distesi

 

D’AGNESSEAU:

Ordine pre-costituito

 

LE BRETON:

Baluardo dei contrasti

 

D’AGNESSEAU:

Una zaffata d’allegria

 

LE BRETON:

È un ordine da costituire così e così quando occorre

 

D’AGNESSEAU:

È la giustizia della forza è un’ordinata insolenza

è una giusta camorra –

con la sua faccia di pietra la sua faccia di bronzo ecc.

Badate a questo sillogismo (pp. 19-20)

[…]

 

ZEOMBUCH:

[…]

c’è qualcuno, qualcuno che ha bisogno di sapere

se, per una volta almeno, c’è giustizia vera,

una generale giustizia, un trionfo – oppure se

si connota ancora essa giustizia come

la più grande ingiustizia, se soltanto

mortifica opprime

rode calpesta sibila infetta geme

morsica azzanna impesta e te frantuma (p. 44)

[…]

 

VOCE:

Che cos’è mai la giustizia.

Un pregiudizio con ottanta cavilli.

VOCE:

Ben misera cosa.

Semplicemente un cannone con la bocca

puntata contro gli oppressi.

VOCE:

È un comizio (p. 49)

 

dell’informazione:

 

SCHERANO CAPO:

Uno scherzo, soltanto uno scherzo e l’episodio

era riportato con malizia. Noi

non verremo meno all’impegno di camuffare la verità

poi il travestimento della verità d’altra parte oltre che un

impegno professionale

è molto divertente. La verità della realtà

è così noiosa. È così vuota infine

la vita dello scherano (p. 69)84.

 

O il “mito” dell’ordine” e della “pace sociale”:

 

FRÉRON:

Tollerare è un dovere

della società ordinata

ma se si incrina un ordine

che è poi quel tale bandolo che lega gli uni agli altri

e tanto più quelli che stanno in basso

a quelli che siedono alti ciascuno attento alla propria tela

ebbene se questo (è l’ordine) si incrina – come dicevo tollerare

diventa

un reato grave quanto… (p. 63)

[…]

 

La pace sociale e conseguenza (dicono i potenti)

di una battaglia vinta

– a colpi di spingarda e di cannoni

uccidi uccidili uccidere i

cafoni.

Alle volte è anche accaduto può anche accadere

che c’è pace sociale perché

tutti gli avversari morti, per terra, distesi, hanno gli occhi rivolti

agli occhi del re (p. 73)85.

 

Occorre dire che le nostre esemplificazioni restano tali – se ci si riferisse alla trama e all’insieme degli elementi tematici dell’intreccio, ai rimandi e alle citazioni intertestuali – limitatamente a ciò che siamo venuti dicendo, in quanto risulterebbe arduo enucleare in sintesi i numerosi motivi del testo, gli altri personaggi che pure hanno valore emblematico-allegorico: gli intellettuali interni al sistema come Sellius; Milius, impiccato “per suicidio”; il plutocrate Le Breton che parla per slogan pubblicitari, il “giudicante” Belbuc, il “censore” D’Agneasseau (alias il marchese-cancelliere d’Aguesseau); il “mecenate” d’Holbach, il “giornalista” Fréron, eccetera. Piuttosto, emerge e va sottolineata la continuità, la profonda coerenza unitaria del percorso dell’autore.

Da una poesia (le Descrizioni in atto) che, nell’atto stesso dello scrivere, criticava e demistificava la separatezza del letterato (del letterario), e riconquistava margini di funzionalità in una direzione di automortificazione e di autodissacrazione («bisogna scrivere contro se stessi»), avendo perso la fiducia in un destinatario collettivo pronto a recepire il suo messaggio di “resistenza”, Roversi mette in pratica e sperimenta una forma d’espressione (il teatro) che permettesse inequivocabilmente di “trasferire in piazza” il discorso sulla violenza del sistema: di veicolare “dal basso” la chiarezza politica del proprio discorso ideologico e della sua testimonianza sul presente. Che, come abbiamo evidenziato, si concentra su pochi e insistiti nodi problematici: la questione dell’informazione, del linguaggio degli apparati dominanti; i contenuti e le modalità delle lotte studentesche ed operaie; la pratica della repressione nelle forme della giustizia e della polizia, il “genocidio” culturale.

Il ritorno alla scrittura narrativa funge da ricapitolazione e, ancora una volta, da provvisorio acquisto della sua coscienza ideologica e letteraria.

 

 

3. Un romanzo politico, un poema “onnivoro”

 

Il lungo e articolato percorso letterario di Roversi sembra trovare un emblematico (ancorché temporaneo) approdo, un’efficace espressione risolutiva nel romanzo del 1976, I diecimila cavalli86. Si tratta di sottolineare – non fosse altro che per le singolari vicende editoriali delle sue opere – che il nuovo romanzo viene pubblicato dagli Editori Riuniti, e anzi inaugura la collana di narrativa della casa editrice romana (i “David”). Come spiega Gian Carlo Ferretti, autore della “conversazione introduttiva” tenuta dallo scrittore ad apertura del libro (e curatore della collana per tutti gli anni Settanta), si può collegare la scelta di Roversi alla vicinanza critica che egli matura nei confronti del PCI, al «rapporto di leale e aperta discussione polemico-problematica […] nel clima […] delle nuove attese e potenzialità intellettuali e di massa del giugno 1975 e dell’imminente giugno ’76»87. D’altra parte, la decisione di superare temporaneamente l’esperienza del ciclostilato, considerando conclusa la pratica di forme non istituzionali di pubblicazione e di veicolazione alternativa per le proprie opere, produce nella riflessione di Roversi sul destinatario, sul pubblico e sull’industria culturale, alcuni elementi originali su cui conviene soffermarsi.

Siamo di fronte, come emerge dalle dichiarazioni introduttive, ad una scelta di carattere essenzialmente politico: valutando l’esistenza e la scelta del ciclostilato «superata da altri problemi, da richieste oramai diverse nella sostanza e più complicate», l’autore descrive l’accordo con l’editore come un «atto di pratica politica, altrimenti il testo restava dov’era». La ricerca di «un rapporto con più lettori (e lettori “nuovi”)», questo «scambio libero e disinteressato» («[…] non si è sottoscritto alcun contratto o impegno […]: do quello che posso dare perché mi viene chiesto, da una parte giusta, quello che ho»), vanno inseriti nel contesto del rinnovato clima politico-culturale, volendo far intendere, con una battuta paradossale ma emblematica («leggete il libro prima di acquistarlo»), che nulla è mutato nella tensione a raggiungere una saldatura tra contenuti, significato del testo e sua confezione-veicolazione. Tant’è, e porremmo facilmente dissentire con le sottolineature di contraddizioni e ambiguità che si aprirebbero nel discorso dell’autore sull’industria culturale: «[Roversi] non sembra tener conto dei reali processi di produzione e distribuzione culturale; [egli agisce] come se la ricerca di un nuovo destinatario collettivo non dovesse passare attraverso di essi, e (implicitamente) come se fossero sufficienti le vittorie elettorali della Sinistra a modificarli» (Ferretti)88. Al contrario, il poeta sembra inserirsi nella questione della comunicazione, del controllo della comunicazione, con un’attenzione e una consapevolezza programmatica (cauta), una disposizione strategica vigile e aggiornata (astuta), operando le sue scelte in conformità con le esigenze e le necessità “politiche” del momento, hic et nunc89.

Per questo, superata provvisoriamente l’esperienza sperimentale e “clandestina” del ciclostilato, la collocazione del romanzo in una nuova collana di letteratura trovava un riscontro efficace e convincente in alcuni passaggi della presentazione editoriale, nelle coordinate metodologiche e ideali a cui la casa editrice intendeva ispirarsi: «[…] I David non faranno posto alle non più nuovissime proposte di soluzione mantenute alla superficie verbale del testo e implicitamente o esplicitamente ignoranti di altre e più scottanti questioni che toccano prima della scrittura del letterato, la vita dell’uomo, […] Fattuale crisi di trasformazione»90. Gli elementi portanti del romanzo saranno proprio i poli dei “sentimenti” e della “politica”, tenuti stretti da un rapporto reciproco, vissuti da ogni singolo personaggio come momenti primari dell’esistenza:

 

Abbiamo bisogno di recuperare al nostro discorso una serie di temi, di elementi antropologici che erano stati accantonati frettolosamente […] come deteriori, reazionari, invecchiati; ingomma come inutili e perfino pericolosi. Il discorso sull’amore, sulla paura della morte, vanno recuperati, collocandoli in una diversa disposizione. Nel mio romanzo di proposito e con puntiglio c’è sempre l’uomo; o meglio, ci sono gli uomini che agiscono. In carne e ossa e quindi con i dubbi, qualche ferita, certi errori. Perché, come è detto in una pagina, non è la rivoluzione che deve fare l’uomo ma è l’uomo che deve recuperare la rivoluzione91.

 

Il “disordine” contemporaneo, la violenza del sistema che «è (e sa essere sempre) più violento dei suoi contestatori»; la solitudine dell’uomo; la “pietà”, intesa «naturalmente [come] comprensione, ma è anche aspettare a giudicare, non concludere tutto in fretta con la rabbia dell’insoddisfazione»; la tensione politica, «una passione attiva che chiamerei totale»: sono le figure e i temi principali di un romanzo che è stato definito con efficacia «dentro il movimento»92. Che è, rimane, ed anzi si presenta prepotentemente come operazione letteraria, «che non sembra nulla voler concedere ad una troppo facile e banale richiesta di immediata leggibilità»93: lontano sia da una (inattuale e impraticabile) tendenza alla descrizione-mimesi naturalistica, sia da ogni tentazione ad un facile (e “appassionante”) “rivivimento fenomenologico” dei processi sociali di quegli anni94.

Tornano e si dispiegano i temi al centro della produzione teatrale: la “metafisica” del potere («Non c’è un potere buono o un potere cattivo; il potere è corrotto», p. 93), anche di quello giudiziario («L’ingiusta giustizia è sorella dei potenti e brucia. In quanto una giusta giustizia non c’è», p. 101); la manipolazione dell’informazione:

 

[…] basta un taglio di forbici e la cosa detta è cambiata. Un taglio, zac. Non si capisce più nulla. Anche una pausa, che non c’era. Zac. E la canzone è cambiata.

 

In questi nostri anni la vera rivoluzione è solo una informazione, un’informazione diversa.

 

Frequente, ancora una volta, il tono non più ironico, ma decisamente sferzante, con cui si esprime la consapevolezza dell’ambiguità e della precarietà dell’atto dello scrivere: «Uno che legge non è mica un pericolo, è bell’è disposto a diventare il potente di domani entrando nei ranghi»; «[…] non ci vedo un futuro per questa rivoluzione che per fortuna si fa ogni giorno più dotta, che ha le sue acqueforti, i suoi pittori, i suoi canti di guerra. Oggi si legge molto per consumare molto».

Sul piano morfologico, a colpire è un accentuato simbolismo che percorre l’opera per intero, la presenza ricorrente di parole-chiave (il fuoco e la neve, la pietà, la morchia95): gli oggetti e i valori emblematici non si radunano nel testo per essere passivamente esibiti come cifre oscure, ma contribuiscono ad ampliarne spessore e problematicità. Un risvolto allegorico che supporta e carica di senso la galleria dei personaggi, le “figure” del romanzo: i diecimila cavalli («sono, e restano, tutti quelli che si muovono e corrono, che operano […] perché le cose possano cambiare dietro spinte continue; sono quelli che tengono più duro, che durano di più opponendosi sul piano delle idee e delle cose»); i persiani o gli oppressori; i fagiani dorati, rappresentanti la “giustizia ingiusta”; i cinque fiumi infernali, simboli del potere economico, del mondo del capitalismo nostrano; Fraulissa, nome della madre di Giordano Bruno, «destinata a generare figli destinati al rogo». I tre protagonisti: Marcho Marcho, che deve «essere di continuo ridefinito perché, procedendo, cambia si muta acquista», e che esprime più di tutti il rovello, l’inquietudine morale dell’autore; Nice, l’«uomo che viene dal freddo»; il calabrese, «con la sua vera cultura antagonista e con i discorsi che toccano a fondo il cuore»96.

Il vagare, la “peripezia” dei protagonisti, motore di un movimento magmatico e frantumato dell’intreccio97 («Il nostro viaggio era l’occasione per grandi speranze. Voglio dire, per una grande speranza […], era un’occasione ma era anche una scelta, fra noi […]. Era la vita», p. 237), attraversa una società “incrostata” di miseria e di cinismo, una megalopoli senza nome in cui individuo e Potere entrano in contatto solo per alimentare lo scontro tra un (incerto) progetto di riscatto e una forsennata repressione. La rappresentazione dello sfondo del romanzo, tra l’apocalittico e il grottesco, il realistico e il visionario, partecipa egualmente della dimensione saggistico-sentenziosa, politico-ideologica, di testimonianza e denuncia, nell’intreccio con il piano narrativo, lirico e descrittivo, secondo il collaudato procedimento stilistico dell’autore.

«Mi preoccupo di pensare qualcosa perché non sempre è giusto, dico a Fraulissa, agire soltanto […]. Dico a Fraulissa che se non c’è dietro qualcosa è puro divertimento», p. 180. La riflessione teorica e politica di Roversi, in particolare, è affidata alla voce frammentaria e discontinua dei singoli personaggi, espressione della varietà, dell’incertezza e della precarietà di tutto il sistema di riferimento marxista:

 

C’è la forza nuova del movimento operaio, naturalmente; ma io la sento in movimento, tutta inquieta e giustamente inquieta perché si sta organizzando e riorganizzando, scoprendo vuoti o riempiendo vuoti e adattandosi alle grandi novità, alle necessità del momento98.

 

Nella struttura narrativa come nel linguaggio, il romanzo dà l’impressione di esprimere un mondo frantumato e riorganizzabile al tempo stesso; riflette e rappresenta, insieme, forze distruttive e costruttive, momenti critici e spunti progettuali:

 

Questa frammentarietà, questa situazione incerta tra la frantumazione e la costruzione, nel libro è indicata di proposito […]: si sta abbattendo qualcosa; qualcosa è demolito o frana e altro si fa crescere o cresce o si preannuncia in mezzo a mille fatiche99.

 

Alla domanda centrale che percorre tutti gli eventi, i dialoghi, gli incontri tra i personaggi: «Con chi leghiamo? e soprattutto dove leghiamo? in conclusione: c’è qualcuno con cui legare?», la risposta – senza accenti volontaristici – è che qualcosa merita d’esser fatto, che si deve riaffermare il «dovere di vivere», e occorre per prima cosa conquistarne la coscienza: «…è la voglia di durare che ci salva… fermarsi non si può pena la morte».

 

È evidente, d’altra parte, che l’essenza dell’opera risulta supportata e intensificata dalla materia linguistica, da uno sperimentalismo stratificato e complesso. Forse perché il romanzo è la summa di un’intera esperienza letteraria, e in particolare di quella che si esprime con maturità a partire dalle Descrizioni in atto: emerge dal testo la «tensione ad ogni pagina rilevabile tra la soggettività d’origine della materia e la tensione morale che la sottende incessantemente»100. La cultura, la letteratura, il linguaggio in generale, sono definitivamente esplicitati, come nelle originarie intenzioni metodologiche dell’autore, nella loro funzione-base di “materiali”, componenti del reale, strumenti critico-conoscitivi. Roversi si avvale “scientificamente” di tutto l’apparato linguistico esistente, tanto sul piano strutturale che nella messa in evidenza dei significanti-chiave. Si tratta di riconsiderare il procedimento della “citazione”, il pastiche, il montaggio di piani linguistici dalla derivazione più disparata, che valgono come “registrazione di eventi”, strumento formale utilizzato per sussumere direttamente nel testo – non solo in funzione ironica e demistificante – gli elementi espressivi, i pensieri, le parole, persino i suoni del presente.

Ma a voler sintetizzare il senso del romanzo e diremmo di tutta la sua opera fino ad oggi, è precisamente quell’andamento, quell’alternanza tra il costruttivo e il distruttivo, tra frantumazione e riorganizzazione, denuncia-rappresentazione della violenza nel reale e forza resistente della progettualità (dell’attesa) e dell’operare. È l’espressione di una “rabbia poetica” che si situa accanto all’urgenza razionale, ad un estremo rigore di osservazione e di rovello morale. Un coerente “furore” intellettuale (una «frenetica temperanza») che vive consapevole della propria precarietà e dei propri limiti, e che cerca, instancabile, una giustificazione e una funzione nella tenace ricerca dei motivi, delle vicende, dei processi strutturali della società e dell’uomo. È, infine, ciò che lo spinge a dichiarare: «Eppure la verifica non è conclusa, è in atto, sembra nonostante tutto appena avviata»101.

 

Per tutti gli anni Ottanta fino ad oggi, come si dirà nella Nota bibliografica, Roversi ha lavorato ad un lungo poema (L’Italia sepolta sotto la neve), iniziato a ridosso della stesura del suo ultimo romanzo e delle prove teatrali, indirizzandone la pubblicazione (e, come di consueto, la distribuzione-circolazione) a riviste o “fogli” liberi e “clandestini”102. Nello stesso tempo, in linea con la disposizione “tattica” che lo aveva guidato in occasione della collaborazione con gli Editori Riuniti per I diecimila cavalli, il poeta raccoglie le lasse del suo poema, autentico work in progress stratificatosi lungo almeno due decenni di storia italiana, e di volta in volta accetta le proposte di piccoli editori legati in qualche modo ad ambiti locali e provinciali (o amicali), garanzia di una “comunicazione” (e di una sua destinazione) meno corrotta dall’industria culturale. Per la “Biblioteca della poesia italiana contemporanea” dell’editore napoletano Tullio Pironti è ora “accessibile” la Parte seconda (testi 164-245) di quello che opportunamente Ciro Vitiello definisce, nella sua introduzione, un «vasto poema onnivoro»103.

Con La partita di calcio (riecheggiando nel titolo la struttura della raccolta: novanta liriche che compongono il poema, come i novanta minuti di una partita calcistica; lo sfondo allegorico e cruento di una “competizione”, al centro dei testi), Roversi prosegue nell’indirizzare la sua poesia verso la declinazione poematica e compatta, già evidenziata a proposito di Dopo Campoformio e delle Descrizioni in atto. Da leggere (interminabilmente) tutto di un fiato, il poema testimonia dell’intensificazione conoscitiva (visionaria) dello sguardo del poeta sul presente, provocando una decisa evoluzione del consueto tema del paesaggio.

I luoghi richiamati nei testi, come brandelli e con scarni riferimenti sparsi nel corso delle poesie, non fungono da pause liriche (impressionistiche o descrittive): secondo un decentramento, un moltiplicarsi di proiezioni figurative, di geografie e topografie tra il quotidiano-familiare, il dimesso e il realistico (desunte dalla cronaca o dalla storia recente); e il visionario-apocalittico (la dilatazione cosmica, discontinua o a-storica degli spazi), Roversi costruisce una sorta di araldica senza centro, una serie allegorica di segno negativo. Le città, i paesi, gli Stati, sono gli scenari per narrare parabole in cui passato e presente; memoria, testimonianza e denuncia si rincorrono e si sovrappongono per disoccultare nei nomi dei luoghi e delle geografie del mondo le tracce dell’esistenza dolorosa della storia104. Da Chernobyl a Ninive, dal Brasile a Lisbona, da Pechino ai “mari del sud”; da Napoli e Gomorra alla Russia, da Auschwitz a Palermo, dall’Africa all’“Italia maledetta” : sono le tappe di una cartografia dispersa con la quale Roversi propone «al di sopra o al di sotto delle differenze dei tempi, una figura del mondo dalla parte dei vinti, […] l’oggi – l’oggi della miseria italiana»105.

La vocazione epica della parola letteraria (una dimensione facilmente; riconoscibile nel complesso della sua opera in versi, nelle partiture teatrali – e nei testi delle canzoni –, fin’anche nel tessuto stilistico delle sue prose, degli interventi “corsari” e saggistici degli ultimi anni), si arricchisce qui (tra i riferimenti onnipresenti, diretti o indiretti, al periodare largo di Pavese, o di Jahier; alla “razionalità” della lirica tedesca), di una (pluri)valenza linguistica e strettamente lessicale che si dispone, percorrendo Finterò poema, lungo una vasta gamma tonale: dalla distorsione ironico-grottesca al commento didascalico bruciante, dalla concisione discorsiva e referenziale alla sintassi infranta e contorta che accompagna e sorregge immagini laconiche, fulminee (con una letterarietà che stride con il parlato, con il calco dialettale: «Il giocatore di calcio terra mia, dice, / paesi di fiumi pietra / nera di pece neve bianca sei / bianca che la pece non può lavare / bedda terra stalla dell’impero / mia dannazione in vita», 6)106.

In particolare, dentro il tipico procedimento giustappositivo (la parafassi esasperata, l’uso del verso libero che rompe e viola costantemente la durata prosodica), domina il ritmo martellante e ossessivo assicurato dalle continue iterazioni di microstrutture del discorso (le assonanze, lo stile nominale, il poliptoto, eccetera): «Germania germania germania tornado d’Europa / canzone per un giorno», 27; «l’aquila sacrificale deve cedermi le penne / solo io io solo io nel volo / da palo a palo», 35; «ripete incrina evade ritorna affonda s’innalza / sì così sì è così bada la strada del suono s’innonda», 49; «Se mi lasci sotto un cielo bruciato dal sole / se mi lasci solo / se mi abbandoni», 62; «Povera Italia povera Italia povera Italia», 67; «Metto una colomba vicino a una colomba / un lupo vicino a un lupo / metto una colomba e un lupo / un lupo e una colomba / li metto vicini», 68; «Li uccidono. / Italia maledetta maledizione d’Italia. / Li uccidono con sapienza con pazienza / smorzano le candele e l’Italia è nella cenere / li uccidono tutti», 73; «Qua è la stessa menata / sempre la stessa finestra / non cambierà mai niente qua / la nave non arriverà – /quando tutto è già fatto già detto e / niente per me e per te potrà cambiare / cambierà», 80; «Dice il tempo è venuto / in cui contiamo le ore / ma senza voce. / Senza voce / per conoscere l’errore di partire / e l’errore di un arrivo in volata. / Precipitoso», 61; «È nero è nero è nero / l’avversario da azzoppare / viene dalla relegazione della banlieu / e non porta grazia. A casa, dunque, a casa», 66; «E non ho più nemici non ho più amici non più non più», 86.

Il verso asseconda liberamente l’incedere e le epifanie dei personaggi, figure di un discorso tutto allegorico, visionario e a tratti stravolto (straniante,), ma ancorato decisamente alla realtà degli ultimi decenni, fino ai nostri giorni:

 

Prima che il mondo ci lasci (o ci abbandoni)

riuscirò a raccogliere qualche

frammento di parole

per capire le obiezioni degli amici

il rumore degli anni, queste ultime avventure.

All’inizio del ’99

ho raggiunto la grotta dei miei pensieri

(1)

 

C’è qualcuno che si salva se c’è la bufera?

Non è questa l’Italia maledetta che amo desidero non è

l’Italia che vince

non è l’Italia superba

questa è l’Italia che annega dentro a nubi sconvolte

i delatori della notte camminano con la lampada

sotto il mantello

l’Italia è nera

(86)

 

Spettacolo della miseria chiamano

il piccolo fuggevole dramma di chi muore di fame

fra le mura delle città italiane

[…]

siamo un paese ricco e disperato la danza sulla miseria

è solo una vergogna povera che offende ogni speranza

(39)

 

La città chiusa fra le mura rifiuta

l’accesso ai lebbrosi ai pellegrini stranieri

(31)

 

Il tempo della pace è

una attesa della guerra

(54)

 

Le figure di questo ennesimo viaggio agli inferi (e dagli inferi) sono anch’esse distribuite e disperse tra presente e passato: Kennedy, Che Guevara, Lenin; Beethoven e Chet Baker, Jim Morrison e Patty Smith, Glenn Gould e J. Strauss (secondo una presenza dell’universo musicale che prolunga e dispone il discorso poetico in dimensioni extraletterarie e comunque extratestuali); anonimi indios accanto ai clandestini; Wittgenstein e Kant; Achille Varzi, lo storico rivale di Nuvolari; Giorgio Morandi e, sopra tutti, l’ugonotto perseguitato del secondo Cinquecento francese, il poeta de Les tragiques (1616), Agrippa D’Aubigné107. Convocate sulla scena poetica (assieme a presenze ugualmente emblematiche e ricorrenti: le navi, i libri, le rondini, la musica),le figure del poema si offrono ad un tentativo insistito di “colloquio” e di testimonianza che diventa monologo straniato, un soliloquio recitato dinanzi ad una platea caotica, popolata di voci, suoni e rumori, ma sempre distratta, chiusa all’ascolto e alla partecipazione, turbata e scossa dalle tracce del tragico nel reale, nella storia contemporanea: «Dice il signor D’Aubigné dopo Chernobyl / la mia vita non è stata più quella / le mandorle cadevano ai miei piedi le rondini / oh le rondini / le rondini volavano contro l’ombra di un cielo», 2.

Il poeta presta la voce ad altri personaggi, parla per interposta persona, ma non rinuncia alla drammatizzazione, alla messa in scena della sua presenza nel testo, alla “confessione” della sua sofferta condizione di solitudine e di isolamento (e di resistente impegno) nelle circostanze: «[…] // è l’ora in cui i vecchi librai chiudono la bottega / s’avviano con un volume sotto braccio / alla discreta povertà della casa», 39:

 

Oggi hanno vinto

ma non vinceranno domani

ho il cuore molto triste

un mondo senza il popolo degli uomini

è un mondo che non accetto.

La vanità dei poeti

rende inutile molta poesia

(44)

 

Italia maledetta con mancanza d’onore

vivo in te come vive il cinghiale nella radura

o il disastrato scricciolo disperso

nell’incavo dell’albero centenario battuto dal fulmine.

(70)

 

Non pubblico più libri

[…]

perché non voglio che qualcuno

tagli le pagine del mio libro

con un coltello sporco di burro.

Non saprei sopportarlo

né da vivo né da morto

non importano le critiche

non l’indifferenza non l’arroganza dei piccoli

gnomi della foresta

ma lo sfregio dell’atto volgare

contro l’umile cuore di un libro appena stampato

fragile come l’agnello giovane.

[…]

La parola ha sempre

in serbo una sorpresa o un sopruso

per il lettore che non ha strappato la pagina

(52)108.

 

La poesia di Roversi resiste e riaffiora da questa ulteriore immersione nell’inferno del presente: «[…] una parola chiave e ritornante del poemetto è attesa. Nessuna / attesa è più grande, 17109. C’è una pazienza dell’aspettare che resiste agli annunci mancati, si nutre di essi e si mantiene intatta. […] C’è una perplessità dei tempi e dei segni e una decisione dell’attendere, un trarre dalle sconfitte del passato, dalle possibilità fallite del passato, possibilità sempre attuali (un trasformare insomma le sconfitte in auspici). Il passato non ha infatti nessun senso se considerato come passato; continua ad averlo invece se in esso non vediamo il dato, che non possiamo che archiviare, ma la sua prospettiva, il suo orizzonte di inattualità»110. Autentico leitmotiv dell’intero poema, il tema dell’attesa, della pazienza, della fiducia nel futuro del passato, della memoria che si incrocia con il presente, percorre in senso orizzontale i testi in esame, tra speranza e disperazione:

 

Il libro della memoria aspetta la sua ora. Ma è

già compiuto, dicono.

(7)

 

Sono quell’uomo che cammina vicino alle dune

le voci della campagna emiliana

trascinano il passato verso il futuro come un

toro infuocato

(23)

 

Chiedo alle rondini di tornare

se viene meno la speranza

sia chiara l’attesa

sia giusto l’ordine di migrare

(57)

 

Se muoio

se il fiume continua a correre

se il ciclista si ferma

sul ponte

se muoio e il fiume continua a scorrere fino alla

fornace poi si smarrisce sotto un ponte e

il fuoco si porta via i libri

il legno della foresta è diventato polvere se

l’ultima pagina è bianca per il compianto degli

uomini in fuga che non sanno aspettare…

(32)

 

Il futuro come attesa e giudizio del presente: «Ma noi seduti fra pietre / possiamo ancora aspettare un altro futuro», 90. L’ultimo minuto, gli ultimi versi de La partita di calcio si rivolgono nuovamente, come è sempre stato nelle intenzioni di Roversi, all’attesa, alla speranza e alla ricerca.

 

Note

 

1 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 170 (corsivi dell’autore).

2 G. C. Ferretti, Il Sessantotto: pratica politica e prodotto intellettuale, in Id., Il mercato delle lettere, cit., p, 171. Nella vastissima bibliografia sull’argomento, segnaliamo ancora i lavori di A. L. de Castris, Le ceneri di Gramsci. Pasolini, i comunisti e il ’68, CUEN, Napoli, 1992 (nel cap. II, L’ombra del ‘68. Momenti della cultura comunista negli anni Settanta; cap. III, Conclusioni possibili sull’intellettuale collettivo,pp. 63-121), nonché Id., L’anima e la classe, cit.; Id., Le culture della crisi negli anni Settanta, De Donato, Bari, 1978; e di Pasquale Voza, Il Sessantotto. A un passo dal cielo, Datanews, Roma, 1998. 

3 Si veda, in ambito italiano, la ricostruzione storica del problema in G. C, Ferretti, Il mercato delle lettere, cit.; e in Id., La fortuna letteraria, Transeuropa, Ancona, 1988 (in particolare il capitolo Processi di produzione e mercato, pp. 13-35); Id., Il bestseller all’italiana, Laterza, Roma-Bari, 1983. E di Aa. Vv., a cura di R. Capozzi, Scrittori, critici e industria culturale, cit.; di taglio più “militante”: Aa. Vv., Contro l’industria culturale, Guaraldi, Firenze, 1971. Ma anche, ad un livello più teorico, come d’esempio, di Ferruccio Masini, L’industria culturale e il linguaggio ideologico dell’arte come merce, in Aa. Vv., a cura di A. L. De Castris, Critica politica e ideologia letteraria. Dall’estetica del realismo alla scienza sociale 1945-1970, cit., pp. 239-249. Scontati, invece, i riferimenti ai saggi di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’età della sua riproducibilità tecnica, trad. it.di Enrico Filippini, Einaudi, Torino, 1966; Theodor W. Adorno, Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino, 1972; Dialettica dell’illuminismo (con Max Horkheimer), Einaudi, Torino, 1966 (1947), dove si realizzava una memorabile analisi dell’industria culturale, considerata nei suoi contenuti tecnologici-repressivi e nelle sue implicazioni psicologico-sociali: «[…] Ma l’affinità originaria di affari e amusement appare nel significato stesso di quest’ultimo: l’apologia della società. Divertirsi significa essere d’accordo. […] Divertirsi significa ogni volta: non doverci pensare, dimenticare il dolore anche là dove viene mostrato», p. 159.

4 G. C. Ferretti, Intellettuali ed editoria,in “Problemi”, nn. 15-16, 1969 (pp. 730-732), p. 731.

5 Al poeta siciliano Roversi dedica la LVIII Descrizione in atto, Per il libro di Santo Calì: «Questo libro trabocca da / ogni parte come un otre da cui secondo i / segni della leggenda può sgorgare / il vento di una tempesta».

6 Delle «25 poesie “clandestine” che il Fortini fece correre in forma di bozze nel ’68», fino alla pubblicazione di Deducant te angeli, in “Quasi”, Firenze, maggio-agosto 1971 (poi in Id., Questo muro, Einaudi, Torino, 1974), parla G. Zagarrio: in Id., Febbre, furore e fiele. Repertorio della poesia italiana contemporanea 1970-1980,Mursia, Milano, 1983 (pp. 526-528).

7 G. Zagarrio, op. cit., pp. 395 e sgg. Ma si veda anche, Id., La poesia fra editoria e “anti”, “Il Ponte”, 1970; Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, Il pubblico della poesia, Lerici, Cosenza, 1975.

8 Nanni Balestrini - primo Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, Sugarco, Milano, 1988 (per i paragrafi Dalla lotta alla comunicazione, dalla comunicazione alla lotta; l’altra editoria, l’altra comunicazione,pp. 339 e sgg.), pp. 359-343. Si rinvia inoltre all’intervista con Roversi, in appendice al presente saggio, dove si ricostruiscono il clima e le prospettive (deluse) di quel «sistema di distribuzione che è stato per alcuni decenni capillare, quasi mano a mano, porta a porta, e si attuò fino alla fine degli anni Settanta», con il riferimento indiretto all’esperienza bolognese di Radio Alice (e cfr. R. Roversi, Il conflitto è (nel)la comunicazione, in Aa. Vv., 1977. L’anno in cui il futuro incominciò, Fandango Libri, Bologna-Roma, 2002, pp. 33-37).

9G. C. Ferretti, II mercato delle lettere, cit., nel paragrafo dedicato a Roversi, pp. 256 e sgg.

10 R. Roversi, I cavalli attendono, in “Giovane Critica”, n. 30, 1975, pp. 52-55

11 Ibidem.

12 G. C. Ferretti, op. cit., p. 254.

13 R. Roversi, intervista a Valerio Riva, Il romanzo di un giovane inedito, “L’Espresso”, 24 maggio 1970.

14 R. Roversi, in L. Caruso - S. M. Martini, Roversi, cit., p. 3.

15 R. Roversi, Conversazione in atto, in “Lengua” (1990), cit., pp. 30 e sgg.

16 Ibidem.

17 Ibidem.

18 R. Roversi, risposta a 10 domande su neocapitalismo e letteratura, in “Nuovi Argomenti”, nn. 67-68, marzo-giugno 1964.

19 R. Roversi, intervista a Valerio Riva, “L’Espresso” (1970), cit.

20 G. C. Ferretti, Il mercato delle lettere, cit., p. 256.

21 Si veda in tempi più recenti il volume Il grande blu, il grande nero. Sedici giovani poeti del Mediterraneo, a cura di Silvano Ceccarini, Nicola Muschitiello e R. Roversi, Ancona, Transeuropa, 1988.

22 «Di questo lavoro capillare, attento, puntuale, attorno alla poesia dei giovani, si dovrà tenere conto, un giorno, per ridisegnare la mappa poetica roversiana», A. Motta, Roversi, (1995), cit., pp. 217-218. Per questo punto si rimanda alla Nota bibliografica in appendice al presente saggio.

23 R. Roversi, I cavalli attendono, in “Giovane Critica”, cit.

24 Id., Conversazione in atto, in “Lengua”, cit., p. 30.

25 G. C. Ferretti, op. cit., p. 296.

26 Ivi, p. 256.

27 Ivi, pp. 296-297.

28La plaquette di A. Zanzotto, Gli sguardi, i fatti e i senhal, stampata in esemplari numerati dalla tipografia Bernardi di Pieve di Soligo (1969), è stata ripubblicata da Mondadori (1990).

29 Per tutte le citazioni e i riferimenti testuali alla raccolta ci avvaliamo della edizione delle Descrizioni in atto 1963-1973, I Quaderni dello Spartivento, Coop Modem Edizioni, Bologna, 1990, che ci ha fornito l’autore. Con queste avvertenze e disposizioni: «Questa nuova edizione di Le descrizioni in atto è stata stampata e distribuita come una delle occasioni per le manifestazioni unitarie CGIL, CISL, UIL di Bologna per il Centenario del Primo Maggio. Non è in vendita, ma chi vuole può dare o mandare un contributo per il foglio di poesia militante Lo spartivento. […] L’arco temporale dei testi copre per intero gli anni Sessanta – oggi da tanti pastori di pecore rifiutati, anzi macellati. Qua dentro sono partecipati con brivido fino all’osso i fatti, gli errori, i problemi, i marosi di parole, di cuore, di sangue di quel grande momento; e le speranze non ancora avverate. Alle quali non è proprio il caso di rinunciare adesso. […] La dedica è ancora a Th., per tre volte. – Bologna, marzo 1990».

30 G. Raboni, Il Vietnam di Roversi, in “Paragone-Letteratura”, n. 242, 1970, p. 117.

31 R. Roversi, Notaalla XV Descrizione.

32 Id., Il mestiere di scrittore, cit., p. 178.

33 G. Zagarrio, Febbre, furore e fiele, cit., p. 392.

34 Si veda l’“omaggio” a Che Guevara, nella XXIV Descrizione: «[…] nella capitale boliviana una salma imbalsamata / maledetta Bolivia / […] / il partigiano sarebbe stato ucciso combattendo / […] La salma nella lavanderia dell’ospedale di Villagrande in / Bolivia».

35 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., p. 178 (corsivi dell’autore).

36 La partecipazione dell’autore alla stagione del ’67-’69 è documentata non solo dal lavoro poetico e teatrale di quegli anni, ma anche da un’attività pubblicistica prettamente politica che risulta essere molto più intensa che in precedenza (con collaborazioni alle riviste della “nuova sinistra”, da “Quaderni Piacentini” a “Giovane Critica”). Per qualche mese tra il 1969 e il 1970, Roversi figura come direttore responsabile di “Lotta Continua”. Pur non condividendo in pieno la linea politica del giornale e del gruppo, e mantenendo invece un atteggiamento di confronto problematico ma aperto con il PCI, Roversi accetta l’incarico, puramente formale, in ossequio alle leggi sulla stampa. La direzione comportava la responsabilità giuridica della testata, permettendo di tenerla in vita (dopo di lui saranno direttori responsabili Bellocchio, Pio Baldelli, Pasolini e altri). Ma cfr. al riguardo, Luigi Bobbio, Storia di Lotta Continua, Feltrinelli, Milano, 1988.

37 Ci riferiamo agli avvenimenti del ’77: rimane ucciso, l’11 marzo, durante una manifestazione pacifica, il giovane Francesco Lorusso, colpito dalla polizia.

38 E si legga la testimonianza-confessione raccolta in R. Roversi, Cento poesie,“Il cerchio di gesso”, n. 3, maggio 1978, p. 1: «Galantuomini in Lebole / che sgovernate l’Itaglia. / Ma io a Bologna da che parte stavo? / Culi secchi maledetti. / Maledetti tre volte. / [...] / Io a Bologna stavo / non dalla parte del vento e del fuoco / ma all’ombra del dolore».

39 V. Sereni, I versi (da Gli strumenti umani, 1965): «Se ne scrivono ancora. / Si pensa a essi mentendo / ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri / l’ultima sera dell’anno. / Se ne scrivono solo in negativo / dentro un nero di anni / come pagando un fastidioso debito / che era vecchio di anni. / No, non è più felice l’esercizio. / Bidono alcuni: tu scrivevi per l’Arte. / Nemmeno io volevo questo che volevo ben altro. / Si fanno versi per scrollare un peso / e passare al seguente. Ma c’è sempre / qualche peso di troppo, non c’è mai / alcun verso che basti / se domani tu stesso te ne scordi».

40 G. Cesarano - G. Raboni, Interventi, in “Paragone-Letteratura”, n. 182, 1965, p. 122.

41 Ad oggi le tirature sono diveniate quattro, con l’aggiunta di altri nove componimenti che arrivano fino al 1973. L’ultima ristampa, del 1990, è ne I Quaderni dello Spartivento, Bologna, cit.

42 E si legga Sereni, nel consueto ritmo iterativo: «Non lo amo il mio tempo, non lo amo», Nel sonno, da Gli strumenti umani (1965). A questo punto risulta sintomatico, fertile di indicazioni ulteriori (e ancora tutte da approfondire), l’accostamento tra i percorsi dei due poeti: vi accenna G. C. Ferretti, ne Il mercato delle lettere,cit., nel capitolo Una poesia autocritica (pp. 243-258).

43 G. Zagarrio, op. cit., p. 395.

44 G. Cesarano – G. Raboni, op. cit., p. 123.

45 Ivi, p. 124.

46 Ibidem.

47 Ibidem.

48 «La verità dichiara dichiara semplicemente dichiara», XXIV Descrizione.

49 F. Fortini, «Le descrizioni in atto» (1965), ora in Saggi italiani, cit., p. 141.

50 G. Raboni, Il Vietnam di Roversi, cit., p. 124.

51 G. Muraca, Poesia e politica negli anni Sessanta, in “L’Utopia concreta”, n. 2, febbraio 1994. Ma ora si veda, dello stesso autore, Utopisti ed eretici nella letteratura italiana contemporanea. Saggi su Silone, Bilenchi, Fortini, Pasolini, Bianciardi, Roversi e Bellocchio, Rubbettino, Cosenza, 2000.

52 G. Cesarano – G. Raboni, op. cit., p. 124.

53 È un accenno di F. Fortini (in Saggi italiani, cit., p. 142), circa l’andamento epico della poesia di Roversi: «Quanto dell’ingiustamente dagli snob dimenticato e celato Eluard, soprattutto dell’età 1936-59, non è in queste prime persone plurali? Ma le somiglianze accentuano le differenze: la poesia di rivolta degli anni Trenta guardava una speranza storica e una morte violenta, questa invece si rode interminabile labbra, unghie e fegato» (1965).

54 G. Cesarano – G. Raboni, op. cit., p. 124.

55 Cfr. G. C. Ferretti, Il mercato delle lettere, cit., pp. 297 e sgg.

56 La rottura con le istituzioni teatrali ufficiali di richiamo nazionale muove anche dalla delusione che gli deriva dalla prima del Crack (1969), messo in scena al Piccolo di Milano (nella prima – e ultima – rappresentazione italiana, peraltro assai discussa, per la regia di Aldo Trionfo su interessamento di Paolo Grassi). L’adattamento milanese, per Roversi, stravolgeva il suo testo: «il risultato di comprensione dei motivi basilari fu quasi nullo. Anche per via che i miei personaggi “marcusiani” apparirono sulla scena rivestiti da antichi egiziani. Qua metterei l’esclamativo», R. Roversi, Conversazione in atto (1990), in “Lengua”, cit., p. 33.

57 Per il quale si può vedere, tra gli altri, in un contesto europeoe nel corso di tutto il Novecento, la ricostruzione di Claudio Vincenti, La teoria del teatro politico,Sansoni, Firenze, 1981.

58 Collettivo Culturale del Quartiere Irnerio di Bologna, Per una gestione dello spazio scenico dalla base, in “Rendiconti”, nn. 26-27, gennaio 1974, p. 83.

59 G. Scabia, La comunicazione teatrale, ovvero il segreto del pomodoro rosso (descrizione di una ricerca pratica), in “Rendiconti”, cit., p. 71.

60 Ivi, p. 83.

61 A. Taracchini – R. Roversi, Due note, con una intervista a Giorgio Gaber, ivi, pp. 159-176: «Evidentemente la canzone viene diffusa come prodotto commerciale per il consumo di massa e, in quanto tale, viene corredata di necessari attributi che ne incentivano la domanda e la produzione. [...] Ne consegue, come si sa, una particolare gestione del discorso musicale mantenuto sul piano dell’arietta da dopobarba e, parallelamente, sul piano ideologico, il passaggio di alcuni temi fondamentali su cui, di volta in volta, la canzone stende senza fantasia le proprie trame (amore, rimpianto, solitudine, infelicità, erotismo represso, luna, sole, ecc.). All’abitudine degli interessi corrisponde un linguaggio povero, generico, impersonale; pochi aggettivi e stanchi si legano a termini assoluti. [...] Il discorso “politico” di massa della canzone si esprime evidentemente attraverso quanto in essa è musicalmente assuefazione alle abitudini e linguisticamente cattiva coscienza del potere. [...] Ritengo che la scelta di un contenuto problematico abbia costretto Gaber alla ricerca di un linguaggio nuovo, [...] [e che] egli abbia dimostrato di saper fare un uso intelligente e alternativo delle strutture del teatro-cabaret ed operare una rivalutazione delle possibilità comunicative-musicali del canto popolare (lombardo)», pp. 159-160 (corsivi degli autori).

62 In particolare, Roversi figura come “paroliere” delle canzoni di tre album di Lucio Dalla, Il giorno aveva cinque teste, del 1973; Anidride Solforosa, 1975; Automobili, 1976, fino a pezzi più recenti (e si veda, a questo proposito, di L. Dalla, il volume Il futuro dell’automobile, dell’anidride solforosa e di altre cose, con gli scritti di G. Scalia e di Paolo Valesio, Savelli, Roma, 1977), e degli “Stadio”. Per inciso, è doveroso ricordare che l’interesse dell’autore per le forme e le potenzialità della canzone d’autore (dal rap al folk, dal rock alle “canzonette”), si manterrà nel tempo, segno di una volontà di aggiornamento che si misura, ad esempio, in un suo intervento su “Rinascita” (La cruna di un ago, 1983): «la canzone è filosofia e festa e tenerezza [...]. La verità passa più spesso attraverso la cruna di un ago piuttosto di imboccare con stivali di cuoio i saloni dell’accademia». E, fino ad oggi, in I suoni, i segni della musica, della poesia, “Bollettino ’900”, Dipartimento di Italianistica – Università di Bologna, in collaborazione con la rete civica Iperbole, nn. 6-7, settembre 1996 (dove si spazia da Springsteen a Frank Zappa). Ci pare, quest’ultimo, in ambito extraletterario e anche saltuario, un ulteriore elemento negletto che accomuna la ricerca di Roversi a quella di altri intellettuali del tempo, da Franco Fortini a Umberto Eco, da Calvino a Pasolini a Gianni Rodari, parolieri forse poco noti delle canzoni di autori come Laura Betti (di Domenico Modugno, del Cantacronache, Torino 1957-1963), e di altri ancora. Ma per tutto questo cfr. Gianni Borgna, Storia della canzone italiana, Laterza, Roma-Bari, 1985; e il recente lavoro di Stefano Pivato, La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana, Il Mulino, Bologna, 2002.

63 Massimo Raffaeli, Parolieri, l’emozione sul pentagramma (“il Manifesto”, 12 febbraio 2003, recensione a S. Pivato, op. cit.), a proposito del fenomeno della saldatura, tra gli anni Sessanta e Settanta, di gruppi musicali o cantanti e “avanguardie marcatamente politiche” (e la conseguente apertura del registro tematico e del “trattamento linguistico-stilistico” della forma-canzone): «Anche per questo il libro [di Pivato] dà valore di paradigma e insieme di eccezione all’incontro, sul principio degli anni Settanta, tra Lucio Dalla e il poeta Roberto Roversi, compiuto in ben tre album...».

64 R. Roversi, Un circo e quattro gladiatori, in “Rendiconti”, cit., p. 173.

65 Si veda, per una sintesi ragionata delle sperimentazioni del tempo, Franco Quadri, Tradizione e ricerca. Il teatro degli anni Settanta, Einaudi, Torino, 1982.

66 R. Roversi, Un circo e quattro gladiatori, in “Rendiconti”, cit., p. 173.

67 Ibidem.

68 Ibidem.

69 Ibidem. Sintomatiche, nella decisa diversità di fondo, le dichiarazioni di Pasolini in merito alla sua “svolta” stilistica, in direzione dell’opzione per il linguaggio cinematografico come “linguaggio di realtà” (tralasciando la sua pur complessa poetica espressa nel Manifesto per un nuovo teatro, 1968, inteso come “teatro di parola”). Nella sua Premessa in versi (ora in P. P. Pasolini, Le regole di un’illusione, a cura di Laura Betti e Michele Gulinucci, Fondo Pier Paolo Pasolini, Roma, 1991): «Perché sono passato dalla letteratura al cinema? / [...] // Rispondevo sempre ch’era per cambiare tecnica, / che io avevo bisogno di una nuova tecnica per dire una cosa nuova, / o, il contrario, che dicevo la stessa cosa, sempre, e perciò / dovevo cambiare tecnica: secondo le varianti dell’ossessione. / [...] // Poi mi accorsi / che non si trattava di una tecnica letteraria, quasi / appartenente alla stessa lingua con cui si scrive: / ma era, essa stessa, una lingua...», p. 13. E si veda anche, di Pasolini, il saggio in cui rifletteva sulla specificità del linguaggio filmico: La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura”, in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano, 1972.

70 G. Scabia, La comunicazione teatrale, in “Rendiconti”, cit, p. 72.

71 R. Roversi, Nota introduttiva a La Macchina da guerra più formidabile, in “Quaderni del CUT”, cit., p. 4.

72 Lo spettacolo è andato in scena (“in piazza”) il 23 giugno del 1998, inaugurando le manifestazioni di Bologna – Capitale europea della cultura per il 2000. A più di vent’anni, in un contesto decisamente mutato, sembrano realizzati i propositi di Roversi: l’opera è finanziata dalla Fondazione della Cassa di Risparmio e dall’Ateneo; gli attori, guidati da Picchi, sono un centinaio tra studenti universitari (e, tra di loro, qualche nome illustre, da Ugo Pagliai a Lucilla Morlacchi a Paolo Bonacelli). Ne danno notizia due articoli di “la Repubblica”, del 23 e 24 giugno, con la ripresa di una dichiarazione di Roversi risalente al 1976: «Questo Enzo Re a ranghi ridotti ma a mani pulite e con idee che si muovono, prima di morire lo vedrò agire, gestito da qualcuno che ha soltanto voglia di fare»; e altri scritti su “il Manifesto”: Gianni Manzella, Torna Enzo Re, il cavaliere dimenticato. 24 giugno 1998.

73 R. Roversi, Nota introduttiva a Enzo Re, in “Bologna Incontri”, Bologna, 1977-1978, p. 2 (poi in “Quaderni del CUT”, n. 20, Bari, dicembre 1978; e, a cura di A. Picchi, in “I Quaderni del Battello Ebbro”, Porretta Terme, maggio 1997). Ora il testo, con l’adattamento di A. Picchi per la rappresentazione bolognese del 1998, è disponibile in una ristampa: Enzo Re (Tempo vene ki sale e ki discende), Pendragon, Bologna, 1999.

74 Ivi, p. 3.

75 Ibidem.

76 R. Roversi, Il mestiere di scrittore, cit., pp. 176-177 (corsivi dell’autore).

77 Per tutti i riferimenti all’opera si rimanda all’edizione del 1969, in “Sipario”, n. 275 (è prevista una ristampa, per le cure di A. Picchi, presso la bolognese Pendragon). La trama della pièce, tutta interna, almeno per la sua prima parte, agli ambienti dell’industria (della provincia) italiana, riprende il discorso avviato – su un piano diverso – in Unterdenlinden (1965): «Bormann: [...] Ma se crede potremmo corrompere la commissione o impadronirci subito della fabbrica. Adolfo: Dopo, dopo. Adesso prepariamoci a divertirci e a sciogliere questi indovinelli [il “test”, con cui Adolfo verrà ammesso a capo della fabbrica di aringhe, ndr]. Scioglilingua cretini, ci vuoi ben altro. Ma per un momento mi propongo di seguire le regole, tranquillamente. Mi lasci fare», pp. 15-16 (nostro il corsivo; il tema è presente – per lunghi tratti – anche nella successiva Macchina da guerra più formidabile, 1971). Nuovamente l’interesse di Roversi sembra concentrarsi sulla (spietata) razionalizzazione, sulle regole (repressive) alla base dell’industria, della civiltà capitalistica.

78 La figura torna nella LI Descrizione in atto: «Trenta milioni di italiani emigrati / negli ultimi cento anni. / Prima di emigrare imparare le lingue e / grazie patria mia / grazie per questi cento anni patria mia / grazie eccellentissima eccellenza».

79 È appena il caso di sottolineare (e già, in parte, lo si è visto), come nelle battute dei “ragazzi” appaiono, interpolate o fedelmente ricalcate, citazioni e brani delle Descrizioni in atto, a riprova dell’unitarietà dell’impegno ideologico-letterario dell’autore in quel momento storico (secondo una pratica intertestuale di “intarsio” che coinvolge le altre opere teatrali, la produzione poetica, le riflessioni saggistiche, i testi per le canzoni, eccetera).

80 R. Roversi, Nota introduttiva a La macchina da guerra più formidabile, cit., p. 3 (ora in Id., Pendragon, Bologna, 2002, p. 7).

81 Ibidem.

82 Dalle parole-chiave disseminate nel testo (la penna, la spada, la sciabola, la pazienza, la violenza), ai temi ricorrenti, sono evidenti la circolazione e i fitti richiami intertestuali tra l’opera e le contemporanee prove poetiche. A livello stilistico prosegue e si intensifica lo sperimentalismo di Roversi, in direzione di un plurilinguismo che ingloba termini popolari ed espressioni straniere (parodizzate), arcaismi e latinismi: fifthy-fifthy,cadrega, jo moro cara, dieu, sub specie, hélas, oilà; re di franza, di Danmark, roi de Belgique, anche chisto d’Espana, ce n’è uno nell’England; accoppare, buggerato, Versaglia, codazzo, bisi, bischero, mio sire, adieu, ‘trou du cul’; cotidie, simpliciter, spizzichi e bocconi, a paraitre, scancelliamo, bon-homme, bella bionda, eccetera. E citazioni storielle o riferimenti cifrati all’Encyclopédie, ovviamente, e all’epistolario di Diderot, a Dante, Shakespeare, gli slogan fascisti: «Gli sbirri: Nel caldo / e tra la rena ardente / insegneremo a vivere / ai negri civilmente», p. 74.

83 Esplicative e acute le note al testo, e il commento di A. Picchi (“Andiamo, teppisti, fatemi divertire”, in R. Roversi, 2002, cit., pp. 163-172), nel quale si individua come assunto centrale della pièce la solitudine “indomabile” e tetragona di Diderot (esemplificata nei suoi rapporti con i “colleghi”, nella sua storia d’amore con Sofia), e il conflitto tra la sua “impresa” e l’“ordine costituito”, un conflitto che «[...] si poggia su un forte nucleo archetipico […] – solitudine vigile e operante, che traversa spazi di anni, e proclami e grida di massa. [...] [Il] lungo impegno di Did [...] si materializza in una opposizione dura e irrisolvibile tra la forza di liberazione delle idee e la negazione di quelle stesse idee e proprio a partire da esse. L’Enciclopedia,considera Casini [Picchi cita il commento di Paolo Casini all’Enciclopedia, Laterza, Bari, 1968, p. VII, ndr], offre nella nota successione delle sue edizioni (le italiane, la svizzera, la russa ecc.) quasi un diagramma tangibile delle idee nell’Europa dei lumi, che vide l’apice e la crisi nel tempo della Rivoluzione. Dopo Termidoro, infatti, si addossò agli enciclopedisti la colpa del Terrore, e l’Encyclopédie subì la sua condanna sommaria: “[...] Alle soglie del nuovo secolo, il materialismo, l’irreligione, la critica sociale e politica, il pragmatismo scientifico e tecnologico dell’Enciclopedia – in una parola la filosofia dei philosophes – apparvero dotati di una carica eversiva che andava ben al di là dei nuovi compromessi raggiunti: ossia, demoni da esorcizzare”» (pp. 166-167). L’interesse di Roversi per l’illuminismo (il sciasciano “secolo educatore”) prosegue ne La macchia d’inchiostro, la pièce inedita ma prossima alla pubblicazione che narra delle “imprese” di Paul-Louis Courier.

84 E, altrove, da Il crack (1969): «Tiriamo qualche somma? Dove si vede che il giornalismo quando si mette a servizio della nazione fornendo le notizie alle forze dell’ordine (salvaguardia della patria e di tutti gli utili trofei quali marmi e bandiere) esercita la sua alta funzione; è vindice incrollabile contro gli opposti estremismi che sommuovono la giusta quiete del popolo laborioso il quale popolo altro non chiede che lavorare in quiete per sé, naturalmente, e per l’economia competitiva di codesta nazione». E dal testo di È lì, canzone raccolta nell’album Il giorno aveva cinque teste,1973: «...Interrompiamo la trasmissione per comunicare che in questa notte di serenità di pace ed amore è stato rinvenuto il cadavere di un uomo, morto... la cosa è di una eccezionalità insolita e veramente eccezionale, perché erano vent’anni che in questo nostro bel mondo [...] non moriva un uomo e non veniva trovato... [...] Le nostre squadre – televisive – si sono recate sul posto in una località del Piemonte [...] e hanno intervistato il contadino, pastore, operaio il... insomma l’altro uomo che ha trovato il cadavere... [...] Il nostro inviato al quale va il nostro ringraziamento per aver sospeso la festa, il Natale, la famiglia, e ancora con la torta in mano recatesi là ha intervistato questo... uomo».

85 «Gli opposti estremismi? / Aumentare la polizia», LII Descrizione; «Il mito della piena occupazione. / Si ha, tuttavia, motivo di ritenere / che la disoccupazione effettiva sia / alquanto più alta. / Può capitare, infatti, che certi soggetti / cessino di figurare fra le persone / in cerca di lavoro perché / avendo perso ogni speranza di trovarlo / hanno cessato di cercare / scomparendo così dalle stime ufficiali / (della disoccupazione). / Questo non significa però che, potendolo, / non preferirebbero lavorare», XLIII Descrizione.

86 Il romanzo è, in realtà, frutto elaborato di un lavoro iniziato dieci anni prima, proseguito durante la stesura delle Descrizioni e delle prove teatrali. Ne è testimonianza la pubblicazione (“Nuovi Argomenti”, gennaio-marzo 1966), de La lucida organizzazione del presente, il brano che con minime variazioni e leggere modifiche costituirà la parte iniziale dell’opera. Ma si vedano anche il riecheggiamento del titolo in un intervento del 1975, I cavalli attendono, in “Giovane Critica”, n. 30; e le anticipazioni raccolte in “Trapani nuova”, 18 gennaio 1972; e in “Quasi”, n. 3, giugno-aprile 1972.

87 G. C. Ferretti, Conversazione introduttiva con Roberto Roversi, 1 diecimila cavalli, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. X; e cfr. Id., Il mercato delle lettere, cit., pp. 298 e sgg.

88 Id., Il mercato delle lettere, cit., p. 299 (corsivi dell’autore).

89 Ne è testimonianza la ripresa, l’intensificazione di forme di produzione/distribuzione autogestita per i suoi testi, nel corso degli anni Ottanta e in contatto con il Comune di Bologna (e dentro forme collaudate di cooperative culturali), che confluiscono nelle esperienze di “fogli militanti” come “Lo Spartivento” e “Numero Zero” (per i quali si rimanda alla bibliografia in conclusione di questo volume).

90 Mario Spinella, Il fuoco e la neve, in “Rinascita”, 19 marzo 1976. L’articolo preannunciava la nascita della collana e, insieme, dava una prima lettura critica del romanzo di Roversi.

91 R. Roversi, I diecimila cavalli, cit., p. XII.

92 Felice Piemontese, Roversi, in “Paese Sera”, 11 giugno 1976 (recensione a I diecimila cavalli).

95 M. Spinella, op. cit.

94 Il riferimento è alla contemporanea opera narrativa di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, 1971; La violenza illustrata, 1976, fino al più recente Gli invisibili,1987. Ora i romanzi insieme con L’editore, 1989), sono raccolti in Id., La grande rivolta, Bompiani, Milano, 1999.

95 Emblematico, a riprova dell’unitarietà e della circolarità, di una sorta di “interminabilità” della scrittura di Roversi (che tocca le opere narrative come le poesie, gli spartiti teatrali come gli interventi saggistici), un riferimento tratto dalla sua dichiarazione rilasciata a G. C. Ferretti, in Officina, cit. (1973-1974), Mi ricordo questo futuro: «[...] perciò mi dico che uno scalcagnato ulisse italiano che era andato venuto seduto buttando fuori morchia come un cargo in avaria, può e deve guardare agli anni degli anni e dunque a quegli anni con un poco di onesta pietà – e anche con un po’ di tenerezza (che non è mai volgare)», p. 478 (nostri i corsivi).

96 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, cit., p. XVI.

97 Opportune nel merito le osservazioni di A. Motta, Roversi, cit.: «La trama [del romanzo] questa volta non c’è e nemmeno vi è un luogo ideale deputato alla lotta. Solo per un momento è la città, sono invece le mille città invisibili della storia degli uomini a riconoscersi. [...] Cambiato l’impegno (non più riducibile negli schemi “padrone e operaio”, “fabbrica e lotta di classe”), cambiata la cultura dei protagonisti, le classi dove le divisioni frontali, manichee, rigide, non sussistono più», p. 217.

98 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, cit., p. XVIII.

99 Ibidem.

100 L. Caruso – S. M. Martini, Roversi,cit., p. 60.

101 R. Roversi, Conversazione introduttiva, cit., p. IX.

102 Prosegue, d’altra parte, dalla fine degli anni Settanta fino ad oggi,una sperimentazione artistica e non strettamente letteraria che comprende la stesura di testi destinati alla canzone d’autore; il lavoro di promozione editoriale e di organizzazione culturale; la scrittura teatrale e in versi; la collaborazione, con Tonino Guerra, ad alcune sceneggiature per il cinema; una produzione saggistico-storiografica a vasto raggio di cui si darà conto nella Nota bibliografica. Per le vicende editoriali del poema si rimanda a Marco Giovenale, Ricostruzioni preliminari, in “Il Segnale”, n. 63, ottobre 2002, pp. 34-36.

103 C. Vitiello, Dimensione della parola che insegue non la verità ma l’incertezza persuasiva, introduzione a R. Roversi, La partita di calcio, Tullio Pironti Editore, Napoli, 2001, p. 8.

104 Sono da evidenziare, nel corso del testo, i continui slittamenti temporali, gli scarti improvvisi, tra soprassalti della memoria e allusioni dirette al presente: «Il 2 agosto del 1980 e poi il due agosto 1990 / la morte in una stazione e / la passeggiata spaziale per non morire», 45; «Nel silenzio delle notti squarciate da lumi vibranti / vomita sabbia la televisione / le gambe delle donne strette da tele di ragno / nessun’ombra sull’asfalto masticato / dai cingoli dei carri armati / all’inseguimento di un / nemico che fugge», 23; «Il mio amore il mio cuoreforte / al centro del mondo / coperto di strani fiori nuovi per noi / (elicotteri a bassa quota sulla / collina di fronte coprono i prati di napalm)», 25; «Pazienza fratello / la tragedia dei nostri anni non racconta storie / di città metropoli / ma il naufragio della natura in un pandemonio / di voci in tempesta», 26; «Il muro dell’Oder. Una domenica di fine inverno / nella parrocchia di Santa Frigida / a Danzica / è una domenica mite / per un inverno sul Baltico / Il primo settembre dell’anno Trentanove?», 28; «Meglio ancora / avendo ormai i secoli addosso / parlerò del tempo trapassato (per un momento) / quando anche la canapa viveva», 58.

105 Guido Guglielmi, Su Roberto Roversi, Partita di calcio, in “L’immaginazione”, n. 184, 2001, p. 20. Si veda anche, sulla raccolta, la ricca recensione di Silvia Moretti, in “Soglie”, n. 2, 2002, pp. 59-63.

106 A riprova della densità letteraria della parola di Roversi, sono da menzionare le numerose citazioni implicite o dichiarate, i riferimenti diretti a Parmenide e a Omero, dall’Iliade e dall’Odissea («il giocatore di calcio ha / il catalogo delle navi / ancorate nel porto», 2; «A entrambi è sorto in questo momento dal cuore / un grande desiderio di pianto», 10). La tastiera lessicale adoperata nel poema è assai vasta: spazia dagli arcaismi ai toponimi, dai calchi dialettali alle lingue straniere (banlieu, hombre),dal linguaggio specialistico (garbino, salnitro) dai composti (primaveramorte, estatemorte, cuoreforte) al gergale (menata). La poesia di Roversi è, dunque, fino in fondo, poesia antilirica (una poesia semantica, impura, che si oppone ad ogni ripiegamento sentimentale), e nient’affatto antiletteraria.

107 Assieme alter-ego del poeta, spettatore-giocatore principe de La partita di calcio, la figura di D’Aubigné (1552-1630) è anche l’emblema della spinta etica e protestataria, della tensione ideologica della poesia di Roversi, la spia del suo spirito erudito e colto (e della sua passione di bibliofilo e antiquario). Agrippa D’Aubigné è, in effetti, figura quasi del tutto ignorata dai contemporanei, apprezzata dai fondatori della poesia moderna dell’Ottocento come Hugo e Baudelaire: protagonista avventuriero delle guerre civili e religiose nella Francia di fine Cinquecento, fu autore prolifico di trattati e saggi storici, pamphlets in prosa e sonetti d’amore, dialoghi e satire, opere percorse da toni visionari e apocalittici, robusti slanci ideali, politici e utopistici. Si rinvia, nell’area della poesia italiana contemporanea, all’esergo scelto da Montale per la raccolta Finisterre (1943): «Les princes n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles. Leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter...», da T. A. D’aubigné, A dieu («I principi non hanno occhi per vedere queste grandi meraviglie. Le loro mani non servono più ad altro che a perseguitarci»); e alle traduzioni dal francese a cura di Giuseppe Guglielmi (che iniziano nel 1958, su “Il Verri”, alcune delle quali pubblicate sul numero monografico di “Rendiconti” a lui dedicato, n. 45, 1999).

108 Circa il consueto tema della drammatica e lacerante interrogazione sulla potenzialità e l’utilità della parola poetica, si leggano le note di Guido Guglielmi (in “L’immaginazione”, 2001, cit., p. 21), dove si ribadisce che «[...] Roversi ambisce a una poesia comunicata, a un risveglio di una parola comune. [...] Non quindi naturalismo (registrazione del dato), e neppure ricerca di un’idioma – di una parola originaria –, ma scommessa su una possibile (che si rivela anche necessaria), richiesta di autoriconoscimento reciproco. [...] Egli non crede all’innocenza della parola poetica. E per questo l’ha sempre sottratta alla pubblicità. La parola onesta di Saba è diventata per lui una parola che può solo avere una circolazione clandestina. E nella clandestinità essere fedele non a se stessa, ma alla sua destinazione. Ciò che ha bisogno di proteggersi dalla pubblicità e dalla compromissione con la pubblicità, è proprio infatti – e paradossalmente – una parola epica. Una parola come “colloquio”. La parola che non vuole essere sopruso, deve riservare la sua sorpresa».

109 G. Guglielmi, op. cit. Ma si veda anche, da una raccolta precedente che anticipava alcune liriche del poema (Carta e penna, dieci poesie con le incisioni di Antonio Bobò, Pontedera, 1994), con un chiaro riecheggiamento delle Descrizioni in atto: «Sopravvennero non improvvisi i giorni del sole nero / luce senza luce, respiro senza respiro, vita senza vita. / L’attesa era una pianura padana gelata senza il verde e / la stupefazione di chi non apriva le mani per cercare. / Eppure / con l’ultimo chiodo conficcato nel legno / l’umiltà si fa dolore fiorisce», 2 (corsivo dell’autore).

110 Ivi.

 

 

Una matita e un pezzo di carta

 

Intervista a Roberto Roversi

 

L’intervista che qui trascriviamo è il risultato di alcuni incontri che si sono svolti nella libreria Palmaverde, quella “bottega di libri” che il poeta continua a gestire nella sua città, a Bologna. Da essa dovrebbe risultare agevole individuare i nuclei problematici essenziali, emergenti dalle sue posizioni rispetto a tematiche generali del passato come del presente.

Se si operasse una traduzione, un’esemplificazione o una sintesi dei significati politico-culturali e strettamente letterari delle parole e dei testi di Roversi, affidandoli ai termini di una “storia degli intellettuali” e delle poetiche del Novecento, si potrebbero identificare alcuni cardini statici della sua opera, dinamicamente articolati nel corso del tempo. La tensione, espressa sin dagli anni Cinquanta e dall’esperienza di “Officina”, nel piegare la letteratura e il linguaggio poetico a fini dichiaratamente extraletterari; il tentativo, attraverso la sperimentazione dei mezzi espressivi ereditati dalla tradizione, di realizzare un rapporto con il reale che si evolvesse nella direzione della denuncia morale e della testimonianza civile. Una “letteratura del rifiuto” che, per tutti gli anni Sessanta, si esprime per il tramite di uno sperimentalismo dei generi (dal romanzo alla poesia, dal teatro alla pratica saggistica), in evidente opposizione alle formulazioni ideologico-letterarie della neoavanguardia. Una intensa attività teorica, articolata sulla sua rivista, “Rendiconti”, che si colloca con originalità nel contesto del “marxismo critico”, con le ricerche avviate sulle questioni linguistiche e sociali, derivanti dall’emergenza del problema della “comunicazione”. Un impegno letterario e pratico-organizzativo che, a ridosso del movimento del 1968, assume la forma “integrale” della ricerca-sperimentazione di canali di distribuzione autogestiti e chiaramente alternativi all’industria culturale (il teatro “politico”, le Descrizioni in atto)e che, al contempo, si mostra lucidamente consapevole delle proprie precarietà, dei limiti e delle profonde potenzialità di ogni operazione intellettuale. E dà prova di questa autocritica e auto-dissacrazione all’interno stesso del testo, sulle pagine dei suoi lavori. L’elenco potrebbe proseguire allargandosi ai corollari più mediati di queste posizioni di fondo. Pur nella genericità di ogni formulazione, e sulla base delle sue risposte, apparirà che esse, nel loro insieme, anche nei loro risvolti provocatori e paradossali, definiscono con precisione la collocazione storica e poetica dell’autore.

 

D.: Vorrei partire da alcune sue dichiarazioni più recenti, tratte dall’editoriale di apertura del numero 31 di “Rendiconti” (luglio 1992), con cui si rilanciava la pubblicazione della rivista dopo un’interruzione di diciassette anni. Si legge: “[…] tutto ciò che occorre fare, è da fare al di fuori del bailamme della società dello spettacolo che dentro al frastuono predominante omogeneizza tutto, tutto livella, appiattisce e si dispone a sollevarlo appena un poco, fuori dalla norma, solo se intersecato dal contrassegno di qualche transitoria risata”. A ben guardare, si tratta della ripresa di termini risalenti alle riflessioni svolte nei decenni passati. Nel 1964, in risposta a una inchiesta sui rapporti tra letteratura e neocapitalismo, avvertiva: “[…] non credo, lo ripeto, che si possa concludere qualcosa nell’ordine dell’opposizione a un siffatto sistema presumendo di operare dal di dentro. Così come non credo a tutte le sofisticate operazioni letterarie di mediazione”.

Potrebbe spiegarci il senso e le finalità del suo operare che si è venuto affermando, in maniera solitaria, in opposizione all’“ufficialità” dell’industria culturale?

R.: La risposta sta tutta nel problema della gestione della comunicazione. Partendo da una constatazione, forse un po’ generica perché visceralmente “impaurita”, della situazione che cominciava a configurarsi negli anni Sessanta, e cioè della codificazione-pianificazione del sistema di comunicazione ufficiale, generale. Che dapprima in modo già determinato, e adesso compiutamente, tende a gestire interessi non solo economici, ma collegati alla convinzione che la comunicazione è diventata il potere ufficiale, reale, del tempo dato. Il sistema di comunicazione iniziava a coprire e a rendere inefficaci gli spazi marginali di libertà che sino ad allora erano consentiti. La mia posizione, in realtà, non era volutamente solitaria, ma partiva dalla convinzione che non c’era modo di fare opposizione in tale situazione se non stando da parte. Non c’era altra soluzione ai miei occhi, lo ripeto: alla rotativa bisognava opporre il ciclostile. In termini assoluti poteva sembrare un’opposizione perdente in partenza, ma cercava di non esserlo del tutto: perché ponendo il ciclostile all’opposizione, si poteva confidare su un sistema di distribuzione che è stato per alcuni decenni capillare, quasi mano a mano, porta a porta, e si attuò fino alla fine degli anni Settanta, a livello nazionale e non solo locale. Mi riferisco all’operazione collegata alle Descrizioni in atto e a tutta quella serie di fogli, foglietti volanti, ciclostilati d’ogni genere, rivistine di poesia tirate quasi a mano, che davano la possibilità di tenerci in contatto, di comunicare, di operare, proprio mentre ci si interrogava su questo problema formidabile che ci scorreva sotto gli occhi, mentre il potere ufficiale stava risolvendo assai bene il problema del dominio assoluto della comunicazione. Contemporaneamente, il mio impegno era quello di riflettere sulla debolezza dell’operazione che si compiva, e sulla necessità e l’urgenza di trovare dei sistemi di comunicazione più resistenti e aggiornati. Siamo arrivati a un certo punto in cui, come ho scritto in un verso di quegli anni, “l’età del ciclostile” era finita. Non voleva essere un verso dantesco, profetico, ma una constatazione e uno stabilire che il periodo di quella militanza era concluso, non per mancanza di lievito personale in me o negli altri, ma semplicemente perché la situazione generale non la rendeva, oramai, efficace. Che cosa sostituire? Non si è sostituito nulla, e anzi quelle ultime colleganze, quell’organizzazione capillare si è dissolta con la crisi della sinistra, e non si è ancora riusciti a cogliere nuovi elementi validi e sostitutivi, propulsivi.

 

D.: Colpisce, nella ricostruzione del periodo, l’originalità e, assieme, la marginalità della sua posizione sostanzialmente isolata ed eccentrica. Come si spiega l’indifferenza dell’intellettualità di quegli anni nei confronti della questione della comunicazione?

R.: Gli altri accettavano, non si accorgevano di entrare (sia pure dialetticamente) nel sistema, e quindi vivevano tutta la conflittualità che quegli anni proponevano dal suo interno. Si diventava deputati della sinistra, docenti universitari, giornalisti di grido, funzionari editoriali (è il caso a me molto caro di Vittorio Sereni). Tutti erano, in un modo o nell’altro, nel disagio o nell’indifferenza, dentro il sistema, dentro gli apparati del sistema culturale. La posizione, drastica e precisa, risentita, veniva considerata come opposizione individuale, via via sempre più perdente e destinata alla sconfitta, che lasciava un margine di efficacia solo a un ascolto certo non molto alto. La mia convinzione, d’altra parte, è che il fervore di una ricerca in questo campo comportava e comporta il rischio di sperimentare con libertà, di provare con libertà, e magari di sbagliare con libertà.

 

D.: Qual è stato il suo rapporto con la politica organizzata?

R.: Dal punto di vista pratico, il mio rapporto con la politica è stato un rapporto nullo, perché non vi ho mai fatto niente di pubblico. Ho sempre ritenuto che il livello di partecipazione politica si dovesse misurare nei confronti dei problemi specifici, e attraverso i canali a me più consoni: io davo il mio contributo facendo il mestiere che so fare non meglio ma meno peggio, quello della scrittura. Scrivere o far scrivere, organizzare un sistema capillare di distribuzione editoriale autogestito, ritenendo che la scrittura stava entrando nel gioco alto, nel problema della comunicazione che si faceva via via un problema anche politico. A me non è mai interessato cercare di fagocitare dei riconoscimenti: la questione della comunicazione è stata, da un certo momento in poi, un elemento nevroticamente, drammaticamente fondamentale.

 

D.: Sul rapporto tra politica e letteratura, le giro alcune considerazioni di Calvino [Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, 1976]: “gli anni della mia gioventù, a partire dal 1945 e per tutti gli anni Cinquanta e oltre, hanno avuto come problemi dominanti i rapporti tra lo scrittore e la politica. Potrei dire che ogni discussione girava intorno a questo punto. La mia generazione potrebbe essere definita come quella che ha cominciato a occuparsi di letteratura e di politica allo stesso tempo. Negli ultimi anni invece mi è capitato spesso di preoccuparmi di come vanno le cose politiche e di come vanno le cose letterarie, ma quando penso alla politica penso solo alla politica e quando penso alla letteratura penso solo alla letteratura. Oggi, affrontando queste due problematiche, provo due sensazioni separate, e sono entrambe sensazioni di vuoto: il vuoto di un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto d’un progetto letterario in cui io possa credere”.

R.: Chi scrive deve ritenersi assolutamente libero, deve scrivere senza rendere conto a nessuno, e non per esercitare in proprio una libertà astratta, ma per utilizzarla in vista della partecipazione, dell’impegno diretto. Io penso a un rapporto tra letteratura e politica in termini assolutamente rovesciati rispetto al discorso di Calvino (e alla nostra generazione): la poesia, per me, è vincolata alla politica in modo assoluto, naturale, direi fisiologico. Ho sempre detto, e volentieri ridico, suscitando ilarità, che ogni volta che scrivo una poesia io parto non dalla presunzione, ma dalla convinzione che sto partecipando a rifare il mondo. Nella prima edizione di Dopo Campoformio,pubblicata da Feltrinelli, c’è un risvolto che faceva riferimento a un commento di un critico in cui si parlava della mia poesia come l’equivalente di 100 colonne di piombo versificato”. Scrissi che non la ritenevo una offesa, che si confaceva invece alle mie intenzioni, che ogni mia parola cercavo di scavarla come dentro un sasso. La scintilla da cui partivo era il conflitto tra individuo e società: scrivo perché sento che a un capo è l’individuo, all’altro è la realtà, la società.

 

D.: Come si è realizzato nella sua opera il confronto tra le potenzialità di un’operazione letteraria così intesa, e la consapevolezza dell’inefficacia, la coscienza autocritica dei limiti (dell’“imperfezione”) della parola poetica?

R.: Vivendo la poesia e cercando di superare la precarietà, la sensazione di impotenza (quando non di complicità), dell’atto poetico. Senza lamentarlo, rendendo inquieto il proprio scrivere: teso non a comunicare un’amarezza ma a esprimere la vibrazione di una ricerca. L’emarginazione può essere patita come un dolore, una sconfitta totale, il gioco perso con la propria vita. Personalmente questo non mi tocca. Parto dalla convinzione che un impegno reale può essere compiuto solo se non si accetta nulla dal Potere (che non propone nulla che noi non sappiamo già), e che tutto ciò che si fa, va fatto per superare le contraddizioni che sono lì, davanti a tutti. Anche nel sistema tecnologizzato e quasi invisibile, intangibile, della comunicazione odierna (dell’esplosione di internet, per intenderci), dobbiamo pensare che la comunicazione e la scrittura partono sempre da una matita e da un foglio, e da una matita che scrive su un pezzo di carta. Questo è l’atto fondamentale della comunicazione. E allora la comunicazione è data da chi parla voce a voce, giacché non si può pensare di far ammutolire proprio tutti, di abolire la vendita di una matita, di impedire la vendita della carta. Il tutto deve partire da una ovvia constatazione: che il mondo prospera, vive e si espande attraverso uno sfruttamento diabolico anche se mistificato di una parte dell’umanità.

 

D.: Sono passati quasi cinquant’anni dall’esperienza di “Officina”. Ha potuto aggiornare il suo giudizio su quella fase in cui si trovò a operare, tra la crisi di un mondo (non solo) culturale che stava perdendosi e l’incalzare della neoavanguardia?

R.: Il Gruppo ’63 tendeva a rinnovare tutto, agganciandosi alle grandi avanguardie del Novecento soprattutto straniere (era Arbasino, se ricordo bene, che diceva che i letterati italiani, sino alla conclusione della guerra, non erano mai andati oltre Chiasso, per stabilire un provincialismo culturale che per lui era da osteggiare, da canzonare: senza capire, non conoscendo le condizioni della vita culturale sotto il fascismo). Nella neoavanguardia non c’è alcun riferimento alla guerra. Ho provato, per divertirmi, a rileggere i loro romanzi, le loro poesie, i loro manifesti “gridati” come ai tempi del futurismo: niente, nemmeno una parola sulla guerra. Quelli di “Officina”,come me, erano usciti tutti da lì, l’avevano fatta, provenivano dal fascismo, avevano subìto dei lutti, delle perdite. All’interno della rivista le rovine della guerra erano evidenti, ci si muoveva tra i calcinacci. Il Gruppo ’63 si muoveva invece in un albergo con le camere ben riscaldate, i lampadari accesi, la televisione. Non è un fatto solo generazionale. Mi sembra che persino in un personaggio come Romanò, che in “Officina” è intervenuto con pagine estremamente suggestive e acute (Romanò, non dimentichiamolo, di area cattolica), il collegamento con il sangue, il cuore della storia era evidente. Si era un po’ tutti imbrattati di sangue, in un certo senso. Sul piano letterario, cercavamo di verificare i nostri collegamenti, le nervature che avevamo con la tradizione, con il Novecento italiano. È stata un’operazione appena accennata, non certo portata a compimento. Direi che molte polemiche e qualche risultato letterario del Gruppo ’63 sono stati positivi. Ciò che non accettavo era il loro “smanazzare”, quell’agitarsi violento sul tavolo della letteratura, con l’intento di buttar tutto per terra. In una frana ci sono le pietre che cadono, ma anche il polverone che può offuscare la visione della realtà.

 

D.: L’impegno “civile” della sua scrittura si è progressivamente calato in una struttura letteraria mossa, turbata da uno sperimentalismo linguistico e da un’elaborazione stilistica assai intensa e inquieta. In quali direzioni si è articolata la sua ricerca formale?

R.: Ho sempre cercato di tenere gli occhi ben aperti su ciò che si faceva, si proponeva, in ogni direzione. Registrazione di eventi non è certo un romanzo tradizionale. Tiene conto d’un bel numero di fermenti, di sollecitazioni, di lacerazioni interne. Anche in Dopo Campoformio e nelle Descrizioni in atto utilizzo un linguaggio stratificato, il discorso giornalistico insieme al parlato quotidiano, eccetera. Ma con la cautela che mi veniva dal rispetto riferito ai miei lettori, che quantificavo in otto, dieci unità. Li vedevo naso per naso, occhio per occhio: il mio lettore auspicabile non era il lettore universitario o raffinato. Era il lettore che aveva, in quel momento, un interesse per quei problemi che affrontavo: mi leggeva, ma non mi cercava, si imbatteva in me coinvolto dall’interesse per le questioni che trattavo. Questo non mi spingeva a realizzare qualcosa di semplice, di leggibile: nei Diecimila cavalli credo di essere quasi illeggibile. L’importante, per me, è sempre stato cercare di immettere nella mia pagina le tracce della situazione convulsa nella quale si viveva, di essere denso, di porre dei problemi.

 

D.: Mi sembra, per concludere, e nel tentativo di operare un bilancio della sua attività, di poter parlare di una coerenza esemplare, di una conformazione unitaria e “integrale” del suo impegno intellettuale: che si esplicita nell’intreccio (esemplificato nel caso delle Descrizioni in atto, del teatro) tra il messaggio politico, la ricerca linguistica e la vita (clandestina, autogestita, “libera”) che ha destinato a quelle poesie, alla sua scrittura.

R.: A dire il vero, non mi interessa tirare una somma, parlare di risultati personali. Non mi interessano. Piuttosto, se vogliamo concludere, per definire ciò che intendo per “letteratura politica”, vorrei riprendere un’affermazione di Fortini, il quale diceva provocatoriamente che una poesia può essere politica, anche se parla di una rosa: se la si utilizza non per consegnarla a una ragazza ma per essere deposta sulla tomba di un guerriero caduto.

Bologna, 16 giugno 1996-16 febbraio 2003



 

Informazioni aggiuntive

  • Autore: Fabio Moliterni
  • Tipologia di testo: saggio
  • Editore: Edizioni dal Sud
  • Anno di pubblicazione: 2003
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