La morte di Enzo Del Re e il nuovo libro di Roberto Roversi

L’ultima sedia di Enzo

Il 6 giugno scorso è morto a Mola di Bari Enzo Del Re, il più radicale ed estremo personaggio della musica italiana.

Da molti anni si era ritirato nel suo paese d’origine, e lì, ferito da un’insufficienza renale che lo costringeva alla dialisi, ma per nulla domo, anzi sempre più incazzato, proseguiva la sua ricerca, fuori da ogni giro, da ogni consorteria musicale, politica, culturale.

Proprio negli ultimi anni della sua vita qualcuno s’era accorto di lui: dapprima i Tetes de Bois con enorme sforzo erano riusciti a strapparlo dall’eremo e farlo tornare a suonare in pubblico, poi la giornalista Timisoara Pinto che, con filiale affetto, ne stava curando la biografia (e speriamo che ora riesca a pubblicarla), infine Vinicio Capossela che nel 2010 l’aveva ospitato sul palco dell’enorme concerto che si celebra ogni primo maggio a Roma. Qualche mese dopo il Club Tenco l’aveva invitato alla sua prestigiosa rassegna.

Però Enzo era forse il più acerrimo nemico di ogni progetto di emersione alla notorietà, la sua personale ingestibilità, quel misto di rigore, rancore, capricci e dignità era una disarmante barriera messa fra sé e il mondo. Come la sua sedia.

Di Enzo emergono sempre, prima ancora di ogni tentativo di riflessione sulla sua personalità artistica, un pugno di aneddoti e istantanee che lo definiscono e lo crocifiggono in un ritratto che forse lui stesso ha contribuito a dipingere a difesa della sua anima ferita e indignata.

Ripercorriamone il catalogo. Enzo non suona nessuno strumento, fa musica percuotendo una sedia, una di quelle comuni vecchie sedie da ufficio col fondo di legno… il perché ce lo spiega lui stesso in una prosa fatta melos dalla sua voce arabescata.

Io e la mia sedia in giro per il mondo

A cantare, a suonare a concertare

Perché la pena capitale bisogna contestare

(…)

Io e la mia sedia in giro per il mondo

A concertare, a dichiarare, ad affermare

Che della sedia solo un uso vitale si deve fare

(…)

Con una sediaccia elettrica

Ammazzati in America fulminati

i compagni Sacco e Vanzetti dai governantacci folgorati

quantunque fossero innocenti intemerati

incolpevoli sono stati ingiustamente accusati

e solo e proprio perché anarchici giudicati

sono stati condannati sono stati ammazzati

Io e la mia sedia in giro per il mondo

A concertare a impedire a contrastare.

 

Nobilissima la ragione di “riscattare” lo strumento di morte utilizzato per folgorare i due anarchici italiani e tanti, tanti, tanti altri… però c’è qualcosa di più intimo nella scelta di Enzo, nel rapporto con la sua sedia, strumento del domatore di leoni, umile legno, luogo inerte dell’anima inerte che vi si poggia sopra, di fronte al cantante.

La sedia, per chi lavora col pubblico, è innanzitutto, lo spazio dello spettatore. Enzo si è assunto il ruolo di provocatore di questo ruolo passivo, e qui ci soccorre l’aneddotica di mille scontri fra Del Re e i suoi spettatori.

“Bisogna resistere un minuto più del padrone” dice lo slogan degli scioperi dei metalmeccanici. Dunque l’artista deve resistere in scena un minuto oltre l’abbandono della sala (della sedia) dell’ultimo dei suoi spettatori…

La provocazione permanente non invita il pubblico a tornare, né i colleghi a condividere i suoi palchi. C’è una grande ricerca della solitudine nella pratica di questo cantore popolare.

Nota anche la sua indisponibilità a usufruire dei mezzi privati di trasporto – almeno finché la malattia non piegò in parte questa intenzione – invitarlo a cantare poteva rivelarsi una iattura perché pretendeva di arrivare al posto del concerto solo su treni e autobus, per di più praticando una selvaggia autoriduzione, senza pagare biglietto, e che nessuno si azzardi a offrirgli un passaggio in macchina né all’andata, né – tanto peggio – al ritorno, dopo che lui ha resistito “un minuto più dell’ultimo spettatore” e sicuramente dell’ultimo metrò.

Il giovane Del Re, figlio di un coltivatore diretto, proletario di nascita arriva a Firenze nella seconda metà degli anni ’60, stringe un sodalizio fraterno con Antonio Infantino, insieme i due irrigidiscono le rispettive posizioni ideologiche si danno a qualche eccesso fricchettone, si vestono di colori sgargianti e copricapo incongrui – uno con la bombetta, l’altro addirittura con la corona! – tanto che si fanno fermare dalla polizia in piazza Duomo a Milano – come Totò e Peppino alla rivoluzione – ma cominciano a far confluire nella musica del movimento una vena irridente, caustica, imprevedibile, grottesca… per la tendenza plumbea della “compagneria” dell’epoca non è poco.

 

Ridere, si fa per ridere

 tutta la strada fino all’altro mondo.

Giap, Giap, Ho-Chi-Min in allegria,

Giap, Ho-Chi-Min con buon umore

Ho-Chi-Min ventiquattr’ore.

Comico, mi piace il comico,

il mondo ride e la vita passa

Ridere, mi piace vivere,

la fantasia che ci sta nelcomico.

Ridere, mi piace ridere,

mentre scoppia la rivoluzione.

 

Vent’anni dopo ormai conquistato all’anarchismo Del Re sostituisce a Giap e a Ho Chi Min il nome di Bakunin

 

Ridere, mi piace mettere

al potere l’immaginazione

Evviva Bakunin in allegria,

Viva Bakunin con buon umore

Bakunin ventiquattr’ore.

 

Entrano a far parte del Cast dello spettacolo “Ci ragiono e canto N.2” di Dario Fo. Poi Del Re si avvicina a Lotta Continua.

Poi tutto frana, lui torna a Mola di Bari e si richiude su sé stesso.

L’ironia e la giocosità del periodo precedente si spengono, in casa compone, percuotendo la sedia per ore, lima ogni sillaba fino all’inverosimile e, dopo decine di ore d’ininterrotta creatività, piomba a terra “dove capita capita” in catalessi per qualche ora, poi si sveglia, ricomincia.

All’inizio degli anni ’90 produce le opere fluviali della sua maturità, la più ambiziosa è “La leggenda della nascita di Mola” in 4 musicassette, opera per voce e sedia che dura circa tre ore.

Difficile da affrontare quest’opera sui bordi del delirio, ma estremamente raffinata nella sua monumentalità: racchiuso su sé stesso Enzo divaga fra miti e leggende classiche, una sorta di “Nozze di Cadmo e Armonia” proletario in forma di cantata. La sua esecuzione integrale nel corso dei rari concerti, che ancora tiene alle feste anarchiche – la prima volta che lo vidi fu se non ricordo male alla fiera dell’autogestione di Spezzano Albanese – provocano qualche comprensibile malumore.

C’è un ulteriore aneddoto che si sussurra fra gli intimi di un tempo: negli anni ’70, temendo una perquisizione della polizia, pare che Enzo abbia ingoiato un’abnorme quantità di acido lisergico, rimanendone in qualche modo raggelato e d’un colpo meno giocherellone di prima. Vai mai a capire nella vita dell’uomo il rapporto fra causa ed effetto. Insomma anche la musica di opposizione italiana ha il suo Syd Barrett!

Certo era un uomo solo, la solitudine l’aveva cercata e voluta, forse gli era insopportabile la sua strana condizione di UFO solipsista atterrato fra di noi, forse per un breve periodo della sua vita, quella in cui frequentò Infantino, Fo, Ciarchi, gli era parso che il mondo intero potesse diventare a misura di UFO, di matto o di artista, forse s’era indispettito che così non fosse (o che, per come la penso io, ci voglia qualche secolo più del previsto).

Recentemente quasi in corner lo avevano scovato portato su grandi palchi, lo avevano fatto oggetto di documentari filmati e chissà, forse per dispetto, meno di sei mesi dopo s’è fatto trovare morto e solo, la testa riversa nel piatto.

 

La vita va a piedi, la morte ha l’auto. Allain, mio amico.

Il bollettino di quest’ultimo periodo è tragico. La vita va a piedi o in bicicletta, la morte ha la macchina. Ci ha lasciati anche Leprest. Allain Leprest, il sommo poeta della canzone francese degli ultimi 30 anni, l’incorreggibile ubriacone, lo sperimentatore linguistico in cerca di un ritorno alla canzone classica, il cantore che duettava col destino e con la morte. Gli ho dedicato un articolo qualche anno fa qui su A, ho adattato in italiano molte sue canzoni e le ho inserite nei miei dischi, continuo a cantarle. Dopo essersi battuto per tre anni contro un brutto tumore mi ha fatto il brutto scherzo di suicidarsi la notte fra il 14 e il 15 agosto all’età di 57 anni.

 

C’è ancora poesia. Roberto Roversi.

A parziale riscatto della vita voglio però lasciarvi con un atto di fede e d’amore, opera recente di uno dei (del) più grandi poeti viventi.

“Trenta miserie d’Italia” è un canzoniere d’amore “incattivito”, come avvisa lo stesso autore nel risvolto di copertina. Correndo tutti i rischi di fraintendimento per questa brutta – sempre mal usata – parola si può osare persino definirlo un canzoniere “patriottico”. Non bisogna aver paura delle parole “Nostra patria è il mondo intero” diceva quello là.

Roberto Roversi il sommo poeta bolognese, talvolta persino con furia, fa della propria indignazione arma di denuncia e di dichiarazione e ci regala una smilza silloge in cui si può cercare di specchiare la nostra stessa rabbia, ma anche la nostra nostalgia e fertile disperazione. Bella la rabbia di questo grande vecchio che porta con sé il patrimonio del meglio della cultura italiana del dopoguerra. Quest’uomo ha veramente licenza per parlare, per rimproverarci, per metterci sotto gli occhi la ferita di ciò che potremmo e non facciamo.

 

La Grecia brucia.

Brucial’Italia.

Antonio è partito.

Brucia cuore e futuro.

Morti Sciascia Calvino Pasolini

Fortini Volponi Vittorini persone

di alto gradimento. La giornata

è lunga amara in questa Italia

cavallo che caracolla azzoppato.

Sta arrivando l’inverno.

Sarà di nuovo il tempo bianco dellaneve?

O prevarranno giornate temute

con poche voci annidate nel petto?

Chi nel silenzio e l’attesa raccoglierà le nuove vicende?

Chi

raccoglierà fra i sassi le nuove canzoni?

Momento gelido da ricordare.

Vittorini cammina adagio lungo i navigli

rapido e sicuro Calvino sta scrivendo una lettera

Pavese ha appena bevuto cicuta nel terribile

silenzio d’agosto

Fortini arriva correndo impetuoso eammonisce la vita.

Sferziamo cavalli che sono bianchi cavalli di pietra.

Un vulcano aspetta di triturare il cielo.

Cenere bianca fredda si depone ai miei piedi.

E tuttavia anche noi aspettiamo.

 

Probabilmente lo sapete: letterato, partigiano, celeberrimo libraio (“Palmaverde” è stata la sua libreria, una delle più famose d’Italia). Amico e sodale di Pasolini, Fortini, Volponi, Leonetti coi quali dà vita alla rivista “Officina” nel ’55. Basta la raccolta “Dopo Campoformio”, pubblicata da Feltrinelli e ripubblicata da Einaudi, per garantirgli il suo posto nella storia della poesia novecentesca.

Roversi, indignato dai maneggi del mondo editoriale, da allora se ne astiene. Non smette però di far sentire la sua potentissima voce, per esempio nel triplice capolavoro dei dischi scritti con Lucio Dalla negli anni ’70, a mio modesto avviso il meglio che la canzone italiana abbia prodotto. Nella non fitta, ma mai cessata, attività pubblicistica sulla stampa di sinistra. Nelle sue poesie che, in versione ciclostilata in proprio o per piccolissimi editori, non cessano di vedere la luce.

 

Ventesima è questa grigia

miseria ardente

sicché cenere viene

poi di nuovo fuoco grande

fuoco nuovo che accende

forse speranze. Sono speranze nuove?

Il camminatore fra boschi e calanchi

e città aperte sotto il cielo infuriato

dice (cantando)?

non ero io ma chi ero?

Lontano vicino il lampo indicava la strada di un cielo vagante

vicino lontano i morti di legno di pietra bruciavano

le case di pelle di sangue esplodevano

i cristi in croce su altari in cenere bianca cadevano

giovani col cuore spaccato ridevano fra mille bandiere

fuochi sui monti per la sagra di un uomo

decapitato sepolto senza gloria di un nome.

Cadaveri irati

alte sequenze d’amore.

Nessuno trapassa calpestando i sassi

tutto tace e il mondo sembra mio.

Mi placo sotto il vento delle ombre

il passato è una novella lieve

cancellata dal tempo che frantuma i visi noti.

Sia come sia mi inquieto

vedo bruciare l’orizzonte ma questa è l’ora che segnala il destino

in cui fra i boschi

il camminatore cerca pace nei pensieri.

Erano tempi, che tempi! La mano

allo specchio con il segno di lunghe ferite

aerei di nuvole stanchi

cercano terra in un abisso di acque.

Canta una voce la fame nelle notti di luna

le donne con gli occhi accendono fuochi

neanche una foglia è leggera in questi anni di secche castagne.

Il sangue perduta la luce s’annida fra sassi e capelli.

Che tempi si squarciano oggi?

Le case

bruciate nel sangue

non sono antiche memorie.

Gatto fra gatti, cane fra cani, cinghiale di selva e radura

ombra su asfalti dentro silenzio di mondi

cielo di fumo e nebbie di boschi bruciati.

Che tempo è questo? Senza ricordi mi perdo?

Reagivo come un sovrano decaduto

non mi lasciavo sgomentare.

Crollano i muri di pietra s’alzano i muri in oro blindati

diamanti splendono su dita misteriose

nella notte da terra a terra che non ha più confine.

Questo gridava alla notte il camminatore nel silenzio

della foresta degli anni:

cammino fra i sassi

mi inerpico sulla montagna

scendo nei mari

milioni di uomini stesi aspettano in caverne di fango

le donne senza età hanno consumato il pianto

come un pozzo lungamente bevuto.

Bruciano uomini e libri

bruciano i libri e le cose

(le biblioteche sono polvere grigia bagnata)

bruciano i ponti le case le tele

dipinte da vecchi maestri impazziti

bruciano le parole ai bambini che guardano il mondo

fra missili ogive sigarette vendute nei porti.

Vedo la morte regina del mondo ruotare sul mondo

per la violenza del mondo

nel silenzio del mondo.

Ma dove sono? Dov’ero?

Reagivo col furore della spada

mentre le nubi soffiavano sulla traccia

degli animali predatori che mi inseguivano.

Non mi lasciavo sgomentare.

Se la morte del mondo non testimonia della vita del mondo

come può il futuro crescere come il fiore

sul cuore di Caterina che chiama i colombi e

guarda la luna?

Ma io dove sono? Dov’ero? Mio è il silenzio

nel fuoco, mia la casa che brucia, io brucio le

mani che stringono il giorno perché non abbia destino.

Io contro un muro in attesa e

bruciano boschi le città bruciano bruciano

mute le acque i grandi monti sono solitari e perduti. Ma io

dove sono? Dov’ero?

Non mi lasciavo, oh

non mi lasciavano davvero, oh

Non mi lasciavo sgomentare.

Qua sono (egli dice) rispondo. Qua sto.

Come un soldato non vinto

sottraggo la morte alla morte

nell’Italia squarciata da trenta miserie sul fianco del fuoco e del freddo

Verrà pure domani.

 

Ora è uscito – ancora per un piccolo editore Sigismundus – questa quarta parte del grande poema “L’Italia sepolta sotto la neve” ed è una festa di suono di rabbia e di canto. Il timbro di prosa, le impennate liriche, il respiro classico.

È sempre Roversi, intatto, a dirci che tutto s’è rotto e nulla è perduto.

 

 

 

Rivista anarchica, anno 41, n. 7, ottobre 2011.

 

 

(Alla digitalizzazione del testo hanno collaborato Sofia Gardi e Giovanni Vaccari)

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Autore: Alessio Lega
  • Tipologia di testo: articolo
  • Testata: Rivista anarchica
  • Anno di pubblicazione: anno 41, n. 7, ottobre 2011
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