Da ribelle a frate, però…
Dicono che verrà in Italia, nel corso della prossima tournée in Europa. Dicono che canterà una sera a Milano e una sera, probabilmente, a Bologna. Parlano di un pool di banche che finanzierebbe qua da noi le due serate; anticipano di stadi stracolmi come uovi. Sempre, negli ultimi anni soprattutto, sul nome di Bob Dylan si sono spese notizie, sospetti e c’è maretta, discussione. È un personaggio che, ad ogni occasione, viene affrontato in una sorta di ricapitolazione globale. Gli si rivoltano, impietosamente, furiosamente, le tasche dell’anima. Per esempio, è da sempre che si disputa sul disimpegno (o sul falso impegno) di Dylan: per scivolare su un “privato” che galleggia come una macchia di petrolio sul mare di una ideologia di continuo inquinata: e per fermarsi sulla mistica, più esattamente, sul suo momento mistico. Momento che sta ad indicare – è possibile – il suo lento ma continuo incanutire (è ormai un uomo di più di 40 anni).
Dicono che si è fatto frate ma che è un frate interessato, e che la conversione alle vie del Signore è fasulla e che lui mira soltanto a restare sulla cresta dell’onda. Con conseguente mantenimento di percentuali che, sia pure ridimensionate, consentono di vivere senza economie. Per me, saranno obiezioni o critiche molto giuste, o soltanto giuste, inoltre ritengo giusto che ciascuno chieda ad un uomo pubblico di rispettare l’immagine con cui si è imposto e con la quale ha convinto; ma ogni uomo pubblico ha da parte sua, credo, il diritto (e, aggiungerei, forse anche il dovere) di cambiare, se segue un filo di coerenza e se può dare, al pubblico, non giustificazioni ma motivazioni.
Direi che tra questo obbligo di servizio e questa necessità di cambiare e magari di stravolgersi si muove Dylan, straordinario braccobaldo che sta invecchiando dopo aver imparato “Puoi essere il diavolo o puoi essere il Signore ma dovrai sempre servire qualcuno”; e dopo aver ribadito anche con un’affermazione più arretrata “chi non è degno di fiducia deve soccombere”. Forse Dylan non vuole più servire nessuno, potendolo fare; ma ritiene di non dover ancora soccombere pensando di meritare ancora fiducia. Anche se il suo momento attuale non mi sembra buono.
Sono fermo a Saved, un disco dell’anno scorso, che mi sembra lagnoso, fra un white spiritual scaricato di tensione ed il ricordo di un rock che non è più felicità nella libertà ma che è affumicato come se avesse sulla testa, a coprire il cielo, una lamiera prefabbricata. Quel che mi dà fastidio è la pulizia senza malizia; è la maestria al servizio di una inquietudine che è senza sfondo, senza dramma, senza traumi, senza fuoco. E senza giuoco. Lì Dylan mi sembra ancora molto bravo ma come spento dentro (si lamenta, cantando, come una piccola capra cieca portata al macello). Tuttavia questo suo volere “essere”, nonostante tutto, è ancora un soffio drammatico, vitale; il cercare, il suo volere ancora un rapporto col pubblico può significare che il suo ciclo non è chiuso.
Per me Dylan sta cercando il fiammifero per accendere un altro fuoco. Ecco perché questo cercare cantando, dentro la polvere dei giorni, non mi sembra cosa da poco. Se non merita un entusiasmo rinnovato merita certo molta attenzione. Se viene in Italia, faremo qualche conto in diretta. Ma chissà se verrà.
l’Unità, 28 giugno 1981.
(Alla digitalizzazione del testo hanno collaborato Alice Grandi e Arianna Elmi)
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: articoli su quotidiani, settimanali e mensili
- Testata: l’Unità
- Anno di pubblicazione: 28 giugno 1981