Dopo Campoformio
Il tedesco imperatore
I. In Lombardia II. Novara, Ivrea, Aosta III. Lungo i muri IV. Il riso dei tedeschi V. Giorno d’aprile VI. Haabiorg VII. Tutto bruciato VIII. Corbari IX. L’azzurro delle Langhe X. La piazza è in festa
Quando venni in Lombardia
ero giovane, allora.
Per strade ròse dai fischi dei vapori
il pianto di un ragazzo
migrò libero verso la frontiera;
l’ombra dei montanari saliva verso il cielo
e in tiepidi restaurants i camerieri
scoprivano agli ufficiali
distratti da un occhio adolescente
fragili zuppiere.
Nel rifugio della stazione,
mentre i treni bruciavano
bianchi neri contro le vetrate,
la donna appoggiò i chiari
capelli sul mio zaino.
Terra per eserciti
in fuga verso i monti.
Tremano al lume di luna le giovani foglie.
Austria, Svizzera, Francia alla frontiera.
In due giorni di cammino
sui laghi volarono,
col balzo delle trote, le speranze.
A Novara, a Novara;
oh a Novara, in un’osteria
avvinghiata da caserme bruciate;
un uomo grida sul prato della periferia,
al mattino era morto. Ivrea, Aosta…
su quelle strade marciavo e per i monti
frustato da tristezza, dai ricordi.
Ai quadrivi immobili magri tedeschi in tuta,
donne esultanti per gioia sventura.
“La guerra è finita. Incomincia la guerra.
Mio figlio è in Russia. A Cipro è mio figlio.
Mio figlio è in Africa. In Sicilia è mio figlio.
L’America a Genova tempesta.
I cinghiali fuggono, i tedeschi
lasciano Roma…”
Uccelli caduti nella polvere
le gelide mitragliatrici.
“Scheise Mensch!” ci odiano, guardando
le vie battute da uomini disfatti,
le donne sull’uscio delle case;
ogni fosso custodisce un sonno,
i casolari offrono l’acqua, il pane.
Fuggono simili a formiche
lungo i muri, picchiati dalla fame;
s’accascia l’Italia muggendo di dolore.
Quel tempo, rosso
sangue di bue appena macellato.
Fuoco sui paesi
della collina o persi dentro al mare,
su chiese, monasteri,
là dove Appennino torce il corso,
fra le canne delle paludi,
dovunque Italia spinge
la sua chioma azzurra.
Gettavano lo zaino contro l’uscio.
Il riso dei tedeschi era furioso, biondo.
Senza più sonno, agnelli al sacrificio,
i cittadini alle finestre a spiare
il passo della ronda per il mondo.
Buttato riverso
ascolto la terra sospirare.
La guerra sembra lontana,
così l’immagine dell’impiccato,
la sua ombra profonda nella polvere.
In un giorno d’aprile.
Sul lungomare fiori acerbi, duri,
muri da lunghe schegge sbriciolati,
il filo spinato arrugginito.
Una madre tiene sui ginocchi
il ritratto del figlio.
Poi nell’aria l’odore
di fuoco fra gli ulivi.
L’uomo salito sul palo
per tendere i fili della luce,
con il ferro e il cuoio alla cintura,
è un partigiano
dal viso magro di antico italiano.
Nel castello a Camogli il sergente Leone
pecorella di dio
beve sciampagna sdraiato
nudo sul letto di una contessa fuggita.
Entra dalla finestra
il volo fresco del mare.
Il sergente Leone
sfonda porta, lucchetto
e arriva alla cantina.
Mi innamorai di Haabiorg.
Guardandola bruciavo.
Lei correva al mattino
col biondo Cornino, l’arcangelo.
Correva nel bosco al tramonto.
“Fra poco avrà gonfia la pancia”,
ghignano i maledetti soldati.
Al lume di candela la serata finiva.
Partimmo: “Addio, addio,
addio mia bella, addio”,
cantarono i soldati.
Tutti nel fango sono dimenticati.
Ma lei non è scordata,
la sua persona splendida beata
è là nell’erba (lucciole delirare
all’ultimo addio). Lei sola, nel leggero
sciogliersi di riccioli, nel rischiarare
delle caute parole, perdona –
dopo tanti anni.
La sua giovinezza è ancora su quel mare.
Marco appare: “Il paese bruciato.
Guarda le case, tronchi senza vita,
macerie, polvere.
La forte gioventù morta, fuggita”.
Il sole indora la campagna,
cade dai nevai;
odore di un fuoco calmo dentro al vento.
La gente ferma sulla piazza.
M’azzanna il cuore una vespa infuriata.
“I mongoli affamati
dànno alla nostra carne questi morsi.
I tedeschi li armano, li avventano
ubriacandoli; bruciati dalla grappa
cadono urlando sulla strada,
prendono le donne come cani.
Pecore siamo nell’Italia morta”.
M’avvio nella valle solcata
da un fiume, con cime fuggenti,
stormire d’alberi,
ruscelli stenti migrano, fra onde
di foglie i castelli persi nelle ombre.
Case incendiate specchiano le nubi;
dentro ai paesi occhi e ossa d’uomini
tendono la mano, pellegrini
vinti da una sciagura.
Pendono le travi delle case.
“Le donne uccise”, dicono, “o scampate
al massacro, spente di paura
giacciono nel buio delle stalle.
Da uscio a uscio per fienili e case
i mongoli cercarono, fra le balle
di paglia, carrette rovesciate;
bruciò il paese, fuggono le donne
rauche disfatte pazze di terrore”.
I vigorosi uomini lontani.
Pagarono le donne con la vita
la breve età felice
e i neri capelli.
Tornano adesso i giovani strisciando
lungo le siepi della valle.
Nelle luride stalle di Romagna
il nome è bisbigliato1, una candela
brucia intanto le foglie del dolore.
Trasformato in vecchietto questuò
sul sagrato, ridendo
al nemico in agguato
e lo infuriò, poi,
terribilmente vivo.
Era un ragazzo dall’ala lucente.
Solo, o con pochi, rapidi disfarono
il nemico sul ponte,
prima con scherno poi con rabbia e fuoco:
liberi nell’arena
lo colpirono alla fronte.
Per lui era viva la Romagna.
Questo giuoco di morte e vino
iniziò sui tavoli della sua terra,
calpestata da chiodi e da giovani fosse;
era lui il pellegrino
che guarda la divisa del nemico
nera contro la torre del Comune
e lento vuota un bicchiere di vino.
Per prati e campi verso Modigliana
intorno è tutto un cimitero.
Gli uomini sono sepolti nella spagna.
Passano i tedeschi nelle Langhe,
strisciano i piedi sull’asfalto.
Stridono ruote, battono i fucili
contro gli elmetti vuoti, per la strada
di campagna, dinanzi all’osteria
sporca di mosche, ancora insanguinata
per la morte di una donna fulminata
con bicicletta e pane
accartocciato, l’insalata, il sale,
da un colpo di pistola.
Un cavallo al galoppo, ombre, voci
correnti lungo l’argine, per le sponde
mescolate di fango e erba nuova.
Poi al mattino le Langhe sono azzurre
nell’abbraccio delle Alpi deserte.
Carri armati posano
sotto gli alberi, i negri
ridono, stendono le mani,
la gente nelle vie,
tutte le finestre al sole.
Giorno sacro d’aprile. Alti vocianti
feroci uomini nuovi.
“È finita la guerra”, questo
il popolo grida; gli anni si frantumano,
un mondo nuovo affiora ribollendo
dalla schiuma aspra del dolore.
La piazza di calce, bianca nell’aria d’aprile,
tacque; un uomo apparve2 sul palco,
parlò poche parole aprendo
la nuova storia.
Una terra
I. Antonio padre II. Il superbo lamento III. Pesce di mare IV. A Senarica, amica di Venezia V. Il dolore d’essere dimenticati VI. Crescono giovani aspri VII. Corropoli VIII. Ferragosto IX. Il fumo dei vulcani
Un bioccolo di lana
frusta nel tramonto alberi, fiori,
muove il trotto dell’onda.
Sulla sponda i ragazzi con la schiena
inarcata puntano i piedi nella rena;
“dài pa’ssì, oh… ooh!” lo scafo stride
sulle palanche nere, Antonio padre
sfiora l’acqua, è nel mare,
apre cigno le ali, le lampare,
anatrelle, l’avvincono con corde
e la flottiglia corre in alto mare.
Nella notte, chini sul fondo, gli uomini
pescano se la luna è piena
o la corrente non spinge in Dalmazia
il cefalo che volge guizzi in oro.
Un lume è acceso
laggiù oltre il mio dito:
Antonio padre al palpito
del primo fiore in cielo tornerà.
L’inverno è lungo stretto dentro al mare
pauroso; quando giugno
brucia il dorso ai delfini
i marinai avventano nei solchi
sonno, fatica, reti rammendate.
È morto il capitano. Cade
in mare ogni luce di festa
dai giovani cuori; a riva
le donne attendono ammucchiate.
Un marinaio è al timone, bianco agnello;
così gli uomini antichi veleggiavano
approdavano a isole felici.
La barca vira, si torce, si china
mentre s’alza il lamento. Una voce:
“Tu, tesoro di mamma, meschina
perla bruciata da un vulcano,
sei trascinato a terra con la mano
in croce, sulla sabbia, dal vento, uccello
spento di rabbia, scuro, ecco il riposo”.
Vanno in tumulto con le ali aperte.
Al colpo della frusta di questo uomo
i fortunali cadevano sulle onde deserte.
Steso sul sacco è un tronco incenerito,
è tuono esploso, dileguato, offeso;
il calzone al ginocchio accartocciato.
Vita, mia vita come
sei terribile e amata: uno sconforto
senza consolazione è ancora vivo
negli occhi di questo morto che ieri
con tutti i suoi pensieri era nel mare.
Il venditore di pesce per strade e sentieri
fu in America un tempo.
“Sempre un fumo nel cielo;
pane, carbone, nel vino la polvere;
tristi le donne, negli occhi la polvere;
i ricordi chiamavano lontano.
Ora mio figlio lavora a Milano
e quella è la mia casa. Addio America”.
Cresciuta in fretta ride la sua casa.
Spinge la bicicletta, grida il pesce
giallo sul ghiaccio e viole:
“chi prende il pesce, pesce fresco di mare?”
va scalzo a chiamare
sul viale nell’ombra dei tronchi,
sfiorato da siepi a filo del mare.
Un vagabondo canta, ruvidi
marinai ascoltano a un fanale.
Sulla strada appassiscono i gerani
bucati dai fari delle macchine,
autotreni scuotono l’asfalto,
fra lo stridio dei freni i pioppi coprono
l’agonia di un gatto sfracellato.
“A Senarica, amica di Venezia…”
fuochi verdi aprono la gola
ai cani sulle aie del monte
screziato da barbagli all’orizzonte.
Il vecchio intona con pena un canto triste,
fiori tremano, cadono,
muoiono nella polvere.
L’erba è gialla di pietre; il cimitero
con gli ulivi e cipressi sbiaditi.
Anche nella pace i morti
non hanno tregua, risaliti
dal profondo si stringono le mani
rotte dalla fatica.
Madri stroncate dalle gravidanze,
invecchiate con pazienza sulle reti,
uomini stanchi più dell’aria d’autunno:
con il viso inchiodato fra due date
sanno che non c’è pianto non gridato
né un giorno senza male: che la vita
nel dolore fu tutta patita.
Rimpiangono solo l’oblio degli amici,
d’essere dimenticati.
I ricchi almeno
hanno il nome dipinto nelle prore
delle barche: rosse sul lido
con gli alberi e vele ammainate
attendono la piena primavera
per gettarsi sui branchi
nelle calme correnti verso l’Africa.
La rocca incombe ancora a precipizio.
Un tempo sulle alture
i noci strisciavano a terra
foglie di quattrocento anni, eppure
adesso il silenzio è una favola
per i vecchi che muoiono nel sole.
Le case all’ombra delle tamerici,
fra le siepi, case di girovaghi
e pescatori, pittate di bianco
(formaggio fresco su una foglia
di fico) sono cadute;
scompare adagio la gente
che non trema alle nevi dell’inverno.
Crescono giovani aspri, amare mandorle
in un tempo d’inferno, di lampi
e sorprese telluriche nell’aria
grigia che illividisce ogni città;
il sangue arde dentro i cuori straziati
dall’unghia del mostro che si torce.
Ma quale mondo apparirà
dopo la pena necessaria!
Là il monte, laggiù è il mare:
il mare con le speranze strappate
a una barca che adagio s’avvicina.
Sui chioschi di benzina
cantano i tordi e volano nelle vallate
alle ragazze dal petto tremante
oh così dolcemente.
Quelle del mare, ardite fiere
contrastano, sono restie agli sguardi
maliziosi e azzannano
come i lupi di selva.
(Pace con voi, ragazze dell’Abruzzo,
una è sangue al mio cuore).
A Corropoli fumano i camini,
gli alberi difendono le case
dove i topi imperversano e la razza
degli uomini passati consumò
nel rancore una vita vile.
Case per amori di monache,
per grida soffocate, per pugnali
cavati al frusciare di un uscio
o all’ombra di un cortile.
Ma strappa la tenda dal cielo
una donna accosciata nel vento,
canta un riso gentile;
palpita l’aria fatta azzurra
al lume dei suoi occhi
mentre con le mani in cui traluce l’osso
sceglie e vaglia il frumento.
Buon popolo, fra luci semispente
ti attardi, stupendamente docile.
Le ragazze adornate di coralli
rosseggiano come il tramonto
o impallidiscono allo scherzo
di un giovanotto ardito:
“Vedeste comare Splendore?”
Aspettano i fuochi d’artificio
rovesciate sull’erba,
i premi favolosi della tombola,
l’amore colomba del diluvio.
Cade la felicità da scrigni aperti,
le luci della festa aprono piume;
scese dal monte con le scarpe in mano
bagnano la speranza nel lume
della notte, nell’uragano dei giuochi,
nelle giostre che strappano lontano.
Fasciati in maglie rosse i marinai
toccano il gomito alle ragazze;
trillano le argentine passere
e si offrono, quasi
da un albero protese.
Terra addormentata per secoli
dai frati astuti, dalle processioni
fra gli uliveti e i campi;
buttate le barche sulla riva
oggi trema all’ansia del petrolio
nero come un nembo dalla Marca.
I vigneti abbattuti, la pena
di un paese deserto sui dirupi
da cui gli uomini sono fuggiti;
solcato il mare dalle petroliere,
nell’acqua grassa i pesci
galleggiano con il ventre scoppiato,
e rombi di scavatrici, fuochi, grida,
martelli, tonfi fondi nella terra;
il fumo dei vulcani
copre la pietra del gran sasso.
Basse, di notte fischiano dal mare
navi cisterne, lunghe, stese, nere
come un morto sull’acqua;
uno sgomento a sentirle chiamare.
Su gli oleodotti splende luna nuova.
La raccolta del fieno
I. Tempo di prendere II. Il vecchio III. Primo fieno IV. Un gran ricordo spento V. All’ombra del gelso VI. Affonda la guancia nella terra VII. Il campo è potato VIII. I fuochi della sera
Un rosa di carne illumina il verde,
la prima luce desta le manzuole
grondanti sulla paglia,
poi la casa, un abbaino sfiancato,
la finestra ingiallita al temporale,
l’aglio impolverato al davanzale.
“Raccoglie chi semina”, l’uomo
guarda il cielo fra albero e albero,
gode il tempo di prendere,
fuma il tabacco indurito sul sasso
che dà una cenere bianca, leggera.
La campagna esplode in un riso tremendo,
file di uccelli vanno al fiume,
i pioppi sibilanti cercano
la schiena delle donne.
Maligno, infangato,
segnato dal tempo che brucia.
Inchiodò nella cassa tre mogli.
Ora seduto su un masso affila la falce,
i piedi aperti, distesi sulla polvere fresca:
stretti in un piccolo nido i forti pensieri.
Pagò il trattore in ottobre
coi fari accesi sul campo;
a neve ha insaccato il maiale
stendendolo morto, lavato
sul tavolaccio coperto di sale,
con l’acqua bollente
al grande fuoco d’inverno
(sui vetri annebbiati il sole non cresce
e la campagna è morente).
Era un sultano d’oriente
con venti figli, oggi corrono il mondo.
Due figlie salvate,
le altre odorano spigo in case straniere
(chi più le conosce?).
Ancora tre figli
stretti alla buona pianta,
Lino ha un velo di pelle
sopra i teneri muscoli.
Il giorno s’alza rosso come un cuore,
il lavoro comincia.
Il primo fieno si taglia
quando il vento canta dalla foce
del Salinello e sale fra le canne
al dorso delle ruvide colline.
L’erba odora d’api e di strada,
di talpe odora, odora di strame,
di piedi scalzi, di foglie marcite,
di fiori che si sfogliano in mano
– e mormora come la maretta.
I figli gettano allegramente
all’ombra di un fossato la giacchetta.
Tagliano adagio, strisciano, la lama
affonda nei capelli della terra
e la chioma si sfalda.
Al limite del campo ancora prati,
sulla polvere l’orma tempestosa
di una lepre fuggita.
Quanta terra al di là della siepe,
con poche case, gorghi di acque:
terra arata, ferita dai geli,
esultante e giovane ancora
a un fischio d’aprile.
Quante vive radici, quanti tronchi,
quante polle nascoste e grano,
quanti paesi, valichi, pianure
– lontano il mare con l’occhio maestoso.
Su altri solchi uomini chinati,
giacche uguali buttate nell’ombra
insieme alle bottiglie di mezzo vino,
rossi sudati a gola aperta viva
bevono con l’occhio dentro al cielo.
Hanno le dita tozze, corte, scure,
l’unghia è mangiata dal gelo.
Crepita il sole alto arido fuoco,
la terra è nel velo dell’estate.
Avanzano lenti come frati
cercatori, curvi, penitenti;
i cappellacci di paglia, canta il gallo
da un albero lontano.
“Godi le galline paonazze,
oh tu che puoi”, grida Silvestro
ritto nel campo. “Forza, su, lavora”,
cresce dall’erba la voce del padre.
“Donne, ragazze, amori: a questo caldo
nudi nel fiume, e andare”.
“Bada al lavoro, donne son dolori.
Crescerai stasera all’osteria,
la fisarmonica ti dà forza di re!”
“E tu balla se puoi!”
“Oh pa’ è sicuro,
a luce accesa sotto il pergolato
tacchetti arditi faccio scivolare
coi miei valzer che bruciano.
Con un gemito lieve
le ragazze perdono l’onore.
Queste sere di ballo
non lascerei per un torello nuovo”.
“C’è chi veglia su voi, bischeri”, il vecchio
butta lontano il cappellaccio sporco,
“ancora caldo nel buco della morte
la mia cascina al fuoco sarà data,
alla rovina, e al valzer baderete.
Baderete alle donne, disgraziata
mia sorte, mia sventura, morte,
non ai calli che la vanga incide
come una croce sulla mano al povero”.
“Ma tu pa’, da giovane…”
Si calma il vecchio e ride
al gran ricordo spento
che gli ritorna.
Corre maggio a bruciare sulla schiena.
“Lo so che mi vuoi bene…!”
tuona una voce nella valle.
Mezzogiorno è l’ora dei signori:
sulle bianche tovaglie tendono
leggermente le mani.
All’ombra del gelso, nel volo
di tafani, zanzare, calabroni,
gettato di traverso con la faccia
sul braccio, riposa il contadino.
Ansima come il cagnaccio da guardia
col filo teso dal collo all’anello.
Un aeroplano muove ali in cielo,
apre un gorgo che lento si sfascia.
Dorme il padre, dormono Silvestro
e Arturo, dormono Mondina
e Maria.
Lino a occhi aperti, stanco,
felice, stanco e senza pena,
caldo in gola, con il petto pieno
pensa alla sera ormai tanto vicina
da toccarsi col dito. Alle mazurche
grideranno i cani abbandonati
nei casolari, uomini ubriachi
dormiranno sul cuore alle ragazze.
Con la pezzuola in testa e la collana
di corallo, Maria balla con Marco
Mondina con Albino carrettiere;
come un dannato libero dal fuoco
dell’inferno, Arturo suonerà
un canto da ballarsi leggeri,
oppure un trillo di felicità,
fra siepe e siepe, al lume della luna,
fino alla notte fonda, finché il cuore
non sarà stanco. Per la strada, allora,
ruote di carri, voci di saluto.
Il silenzio quieterà il furore.
Accende la pipa: “Quando il sole
è sul noce riprendiamo la falce…
Un tempo, bischeri, ci svegliava
una campana di frati al mattino,
così vicino alla misera casa;
bassa la nebbia sul campo meschino,
si faticava fino all’ora tarda.
Senza riposo, uomini; la paga
se oggi è poca allora era uno sputo
da schizzare nel fango.
Chi conosceva osteria, paese,
balli leggeri, guance di ragazze?
Questi son tempi meglio, c’è speranza
di morire da uomini.
Ma la gioventù s’incanaglisce.
Oggi, dico, scendono le colline
verso il mare, verso le città,
come i bastardi figli che creai
con queste mani: subito volati.
I vecchi si spezzavano d’un colpo,
gravi d’anni ma dritti come il fumo
quando il vento non c’è;
lasciavano sull’uscio delle case
i figli in mucchio, dalla pelle dura.
Cosa mangiavano bisogna sentire”.
“Il mondo mal fatto si sta rifacendo”
come un ramo piegato e poi lasciato
balza in piedi Silvestro
“i ricordi sono bocconi amari,
si strappano, non servono:
è sapienza sputare il passato
acida cicca verde tra le pietre”.
Cala sugli occhi il cappello di paglia:
“L’albero è al sole, pigliamo la falce”.
Il campo in un soffio è potato.
Il fieno affonda la guancia nella terra
mentre le rondini inseguono gli insetti;
dovrà distendersi beato
come una ragazzina sulla spiaggia
con l’ombelico nudo;
dovrà sciacquare il freddo dell’inverno,
piangere di tristezza, farsi
caldo sapiente, grigio di capelli,
dovrà seccarsi come l’osso bianco
perduto da un cane vagabondo.
Gli uomini abbeverano i vitelli;
nuovo strame alle manze;
posano gli arnesi nella stalla,
in angoli antichi fra tele di ragno.
Non c’è la pace rustica: un camion
porta concime in sacchi,
motociclette trascinano
follemente il riso dei garzoni.
Gemono di dolcezza gli uccelli
perduti nelle nuvole,
fra le gaggie, le felci e i sambuchi
il fiume scalpita e ingrossa.
Nidi di stelle scoppiano nel cielo,
per una cavedagna striscia il suono
di martinicca, crepitano i sarmenti
spezzati sul ginocchio.
“Lino è al fiume?”
“Oh pa’, buttato
nudo nell’acqua salta fra la schiuma”.
S’appoggia il vecchio al muro della casa.
Dalle arnie imbrunite
contro gli steccati della stalla
nelle secchie di legno goccia il miele.
Cantano con voce grossa
uomini ringalluzziti
aprendo le braccia felici.
Nella sera oramai ardono i fuochi.
Pianura padana
I. Dal silenzio e nell’oro II. Schiere opposte III. Splendido d’amore IV. Alla foce V. I fumi delle altane VI. Così passano gli anni VII. La volontà di restare VIII. L’alluvione IX. Fermi sulla strada X. Un legno alla deriva XI. A Polesine dei Sospiri
Nel fremito delle sue dieci penne
il Po nasce da una costola
del Monviso incoronato dai venti.
Il bigio monte sassoso
scarse vene possiede, ha un arido cuore,
ma sotto un’ombra sperduta
cresce la polla che fugge
col viso teso, ridente, alla valle.
Acqua e luce intrecciano
una leggenda e il giovane scontroso
morde la spalla all’orizzonte;
navigatore dei campi, audace nell’avventura
con quanta impreveduta alterezza
ara con la sua fronte la pianura:
risveglia gli occhi ai ragazzi
seduti annoiati sulla riva,
smuove con una tenera corda
il sogno degli uomini, la viva
freschezza del tramonto,
segue i ponti di cemento, barche
incorate, incerte, per traghetti
da meandri oscuri a canali
di misero contrabbando.
Dal silenzio e nell’oro
con un gemito a tutti sconosciuto
balza ogni giorno con testa di toro
e tocca le gazzelle ciminiere,
le baracche, le grotte,
i valloni delle tristi periferie
impalliditi all’ombra di alte
eriche quiete.
E incontra gli altri fiumi, acque
aggrovigliate, piume di falchi
rovinanti fra i sassi
nelle caverne; cagne intisichite
dal freddo, a contendere
sotto i pilastri, in mezzo alle lamiere,
fra scorie di carbone e tra i rottami.
Altre con passi lieti, pallide di sole
rubato, nel tonfo di castagne
che incrinano un silenzio da convento,
salutano il gelo delle fonti,
le nebbie, gli schianti
dei rami calpestati, lo sgomento
della brughiera nella galaverna
(così in un limbo di foglie
respira il Mincio:
sulla sua polvere antica
scendono i fagiani
con la nebbia d’autunno).
Fra queste schiere, opposte
acque furenti, il grande fiume va:
nate dai laghi, sciabordanti tese
o sporche di melma, coi relitti
precipiti dai colli d’appennino,
nel silenzio di terre desolate
dove la gente italiana stenta.
Mela spaccata, la pianura
da monte a mare è preda del fiume
che ronfa nella spenta
bellezza della notte,
o simile alla vipera s’acquieta.
Mormora, racconta
stupefacenti nomi… poi livido d’orrore,
con la bava alla bocca,
strappa, avventa
verso il delta inquieto il suo furore;
si carica di forza e vendemmia
pianto da un altro cuore;
sempre più immenso, sempre più terribile
o splendido d’amore.
Strisciano le chiatte appesantite,
frugano con le eliche il fondale.
Il sambuco riposa
sull’ala dei pavoni,
a lume dei pioppi per il viale
un cane abbaia da una capanna
verso il fumo di pece;
dalle prode si diparte
una distesa, poche forme
di vita: l’asino
stanco di mietere indulgenza
appisolato, i rapidi ristori
dei mignattini sui rami;
barche marce di brina
da riva a riva stentano, vuote
o domestiche, con qualche verdura
o un pescatore addormentato.
Sorpresi da un inverno straziante
fra i casolari, abituri
bui di canne e piante,
gridano i ragazzi agitati
dalla fame e da tanta libertà;
le donne cariche di estati
imprecano ai vecchi tremolanti
nel sole, a vivere ostinati.
Scema la terra, l’acqua arriccia il pelo
in un brivido pieno di sterpaglia
mentre nubi s’ammassano al riparo
di cancellate e di torri;
i carrelli sospesi ai fili lucidi
gocciano miele.
L’ora dei fumi dritti dalle altane.
Le case basse, simili alla stiva
di un barcone in riposo,
con gli steccati gialli di meloni,
si disfanno in dolcezza.
I campi raccolgono il respiro
della sera, i suoni
di festa, bambini saltare.
La pianura è dimessa, esuberante,
con i capelli immersi
nella foschia fluviale;
s’infiamma la polvere sulla coda
degli insetti, le ali aperte
al volo della notte:
accompagnano una voce d’uomo
rotte calde parole d’amore
“farò tutto el poder mio
per cavarti fuor di stento”
come un tuono che si perda nel vento.
La brezza copre incerta pioppi e pioppi,
cade dentro i salici frustati,
i groppi della terra, i beati
avvallamenti, tiepidi meandri
di oscurità celestiale;
sul fiume scosso dalla risacca
serba un ultimo guizzo Venere
prima di morire.
È indice dei tempi
che le ragazze alzino un poco
la sottana e ridano negli occhi
con tanto candore d’angelo;
cadono sul prato
ansimando dopo corsa e fuga
per le ripe alberate,
la bicicletta a pezzi
buttata nella polvere;
e che l’innamorato dentro al fieno
bagni la febbre d’amore
stringendo una ladra che dibatte
le ali rondinelle.
Così passano gli anni.
Dura un giorno il furore.
Poi le care ragazze
sbiadiscono nelle case,
appassiscono il cuore,
accanto alla fontana delle piazze
coprono il bucato con la cenere.
Adagio alzano il collo a guardare
nelle sere tranquille
il ritorno degli uomini
per gli argini, le scintille
delle sigarette accese.
Steso nell’abbraccio del campo
il contadino, a piedi nudi,
i gomiti puntati a spaventare
i voli dell’averla,
segue i suoi sogni e sognando sospira.
Abbandonata, l’acqua piove
sugli argini, tormenta, li ferisce,
gridano trascinate dal libeccio
le quaglie che fuggivano sul mare.
Per le radure una dolcezza squallida;
il vibrare monotono s’accorda
alle ore arrossate in mezzo all’aria:
galli sui rami del noce stormire,
vitelli pezzati intenti a bere,
il cane abbaia ai teneri zoccoli ancora…
Sugli argini accosciati posano,
guardando acqua e terra contendere,
uomini, il fiume che fa paura
dire il suo vecchio pianto.
Si confortano in questa vecchia sventura,
insieme uniscono la voce al patire.
Li morde una volontà di restare
non di fuggire,
mortificata la violenza
nella pazienza adunano la speranza
per i giorni a venire.
Sparpagliati sul greto
come in un deserto di neve
i camion raccolgono la sabbia
battuti dal barbaglio che li fiocina
e un passeggero sul treno
volge gli occhi a guardare
quelle teste di vecchi in acque amare.
I campi sfiorire dentro il mare,
le onde strappare i rami dei cedui,
case crollare, i visi intorno ai tronchi
infuriati di schiuma,
le grida perdersi sulla duna,
cadere il fondo cielo come una piuma.
Gli uomini con la giacchetta scura
e il bavero rialzato,
la cicca sul labbro paonazzo
seduti sulla ghiaia;
e donne ad amare le case
perse nei gorghi,
poca roba raccolta ad asciugare,
rubato l’ordine misero alla giornata,
perduta la pace guadagnata,
anche il pianto ora è vecchio, inutile;
tutto da incominciare.
Gridano gli altoparlanti3
nomi sull’erbe affogate.
La sera è ingorda, bagnata, bastarda;
scoppiano scintille, i fuochi stentano,
affidati ai bastoni
pastori dalla secca faccia
fischiano in delirio alla pianura.
Tutto intorno è mare.
Se parlo, guardando l’acqua decrescere
sotto un cielo di ferro,
compatite il mio povero italiano,
la voce che sa di pane e sale
e dice male parole troppo vere.
Finito il diluvio per il piano
restano soli nelle piazze
e le pompe travolgono
dal lago di melma foglie morte,
sterpi, rami, biade marce, piume.
Mentre si sciolgono le dune
fra gli alberi che sono un pugno d’ossa,
viene il tempo delle vacche magre:
accade allora che la gioventù
grida dai campi ai poliziotti4 in nero.
L’umore della terra si diffonde
per le rive al calmo orizzonte
ma la bigoncia rossa della vita
è aceto d’odio, pianto in gola, ira
infinita, meschino abbandono.
I giorni si susseguono
in ore precipitose.
Piogge d’autunno con fumate nebbiose
sulla strada, fra i ciottoli bruciati
e cespi d’erba secca;
notti d’oscurità irose,
col gelo della sponda
sull’ultima propaggine di terra
prima del mare, dell’onda.
Argini sbilenchi, desolati,
vuoti di vita, macerati, spinti
dalla forza dell’acqua a contrastare
in gemiti continui, spaventosamente
umani la corrente.
Mena sempre una vita da cane
il bracciante sfortunato,
il pescatore di frodo,
il contrabbandiere braccato
– sopra un’asse scivola per i canali.
Ma dentro la pianura
la terra è più ricca, esuberante,
se affondi la mano si dichiara
il suo mistero nella perla rara
che sfiora le tue dita;
nessun inverno o fiume fa paura.
Non c’è il silenzio triste, si discute
di leghe socialiste, di Miglioli5 che dice
con parole di miele le sue favole,
il fiele delle antiche lotte e Grieco6.
I giovani che filano sulle Gilera
nel vespero accecato,
e la camicia è una vela alle ragazze,
brillarono sulle piazze
per lo sciopero del quarantanove:
allora i bergamini sotto i noci
piangevano all’urlo delle manze,
gli occhi erano scuri
più dell’acqua per le impolverate lande.
La speranza trascinava ridendoli in cielo
i sogni patiti nel corso degli anni,
una nuova tenerezza per la vita,
dolce furore e le prime parole7.
Questo tempo è già naufragato,
rotto come un barattolo lasciato
in un prato della periferia,
scalciato, frantumato,
come un legno
va alla deriva buttato alla corrente,
rotola via.
Il grande fiume si rivolge al mare,
con un guizzo va dentro al cuore del mare.
Si disperde, affonda,
nessuno lacrima un saluto.
L’erbe gialle aspettano altro furore,
aspettano un pugno d’amore
i casolari africani8 col fumo sospeso.
Sulla pianura
splende una luce che chiama la notte.
Spengo la voce
e: addio a Polesine dei Sospiri
dove nei mattini ventosi,
fra gli acquitrini spenti,
riposano uccelli teneramente vivi
nell’incertezza e nel terrore,
perché pace non c’è né sicurezza
per loro se non nella fuga.
Là sarò cenere un giorno.
Mi aspetta l’anfora greca funeraria
dove confitti gli iracondi relitti
della mia gente dormono
come prue conficcate nella melma,
tutti, uomini e donne, insieme.
Morirono vecchi, litigiosi e alteri.
Il mare a volte li copre
quando è un brivido desolato la pianura
nereggiando per tutto il suo confine
e cresce l’onda e brucia la terra.
Là dunque anch’io
avrò il mio fuoco e la mia fine.
Le lupe dorate
I. Le campane esplodono II. Paga di soldato III. Un sodoma geniale IV. Ragazzine in rosso V. Tuona oscure sibille VI. Le belle VII. Camera d’albergo VIII. Inventario IX. Foglia di calendario X. Week-end a Vignola XI. Tè alle cinque XII. Il predicatore in salotto
Le campane del nostro mezzogiorno
così rosse nel cielo bolognese,
fresche, caute, lievi, renitenti,
esplodono nella piazza
dov’è l’ombra di calde penitenti.
I maestri dell’arte,
dalle vetrate, accecano in fulgore
i piccioni decrepiti.
Oltre, c’è tutto un verde
verso il bosco sacro e la chiesa:
quando declina il sole,
e in mar sprofonda e muore,
sull’erba di quella distesa
è stupendo fare all’amore;
mentre la città respira
le luci del cielo hanno le ali socchiuse,
odora la terra d’antica pace e di scorza
sui capelli della ragazza che baci.
Taci, ascoltando i giovani anni tornare
e Orfeo con la lira
abbandoni l’inferno per sempre.
Pellegrino che vieni da Roma
questa città di provincia
non si consuma di noia
ma invecchia ogni giorno
insieme alla bionda donna di vita
dalla cera gioconda e dalle crepe
(con la sottana a scacchi, sfiorita)
sul viso, in attesa dei serali contadini:
al sabato, anche se c’è tramontana,
approdano dai pelaghi deserti
a mille luci, con ingiurie feroci,
e ridono piangendo,
baciano stringendo, a volte uccidono.
Sono ricchi e disperati come
le rane di un pantano.
Dicono che bellissime signore9
giovani e donzelle quindicenni,
dal fiore ancora in boccio e dal sorriso
leggero, in luride pensioni
si vendono ai mercanti della fiera
e ai tristi pellegrini della festa.
Gemono di furore non d’amore
le belle donne nude sotto il peso
di questa terra fradicia
e la lingua affonda
come una lama fredda che le svena.
Il sodoma geniale, a mezzogiorno,
trascina un’ombra di festa con sé
e indugia con la voce, sulla spalla
degli amici, quasi
una croce di rose lo stancasse.
Ha l’occhio appassito di una viola
ma le dita magrissime arrossate
dalla gazzella fulva, la Ferrari,
che, criniera di cavallo, stola
di visone, volo
di rapida beccaccia in brughiera,
fugge, rompe, sguilla con un tuono
oltre le arcate,
dove nei tramonti clandestini
bruciano le altane di cotto
sulle beate strade della città
e gli sposi impotenti
aspettano agili fianchi adolescenti.
Costa sei milioni una Ferrari…
Steso sul canapè, coi piedi
sulla spalliera, a casa, il padre,
il vecchio padre aspetta che la cameriera
passi e felicemente
dimentichi di gridare.
Tre ragazzine tutte vestite di rosso,
gambe lunghe, enormi piedi magri,
il corpo verde presto fiorirà.
Perfida, astuta, bella gioventù
gioca col tempo
sparpagliando la sabbia della vita
fra le dita sottili,
le ilari, vane, tristissime voglie
sciupano in parole,
smuovono i capelli dalla fronte
guardandosi nei vetri dei negozi
e dentro una scaglia di sole
s’aggiustano le maglie
mentre il tempo si spezza
negli ambulacri dei vicoli.
(In anni a venire
si perderanno rauche e taceranno
queste vergini voci fatte adulte
dalla rabbia, dal fuoco, dai pericoli
che il tempo accresce;
allora, insieme, potranno anche affondare
le nostre barche:
relegati in una lama di sole
contro un intonaco bianco, screpolato,
vecchi, pietosi, inutili solchi di lava,
ci sovrasta un tramonto spietato).
Adesso, se le sfioro camminando,
odoro la novità dei capelli,
foglia d’orto, fragole di vita,
mentre coi denti mordono la luce
e una felicità infinita
di andare, di restare.
Poi un sussurro amico conduce,
fra le agili ombre, il loro cuore.
Il monaco sapiente
predica nella chiesa fragorosa
e sembra il nume indigeno
d’una religione arcaica, sacra.
Tuona oscure sibille,
le scintille dell’ira
si disperdono fra le luci
delle candele mentre la chiesa delira
in un brusio di penombre e suoni
dell’organo straziante.
Giovani stupendamente stolti
si stringono le mani.
Alto nella persona
fu maestro di venti e al suo bel tempo
navigò con le vele verso il Congo
sui liguri vascelli.
All’improvviso declinò la sorte,
fu invaso dalla bufera della morte,
buttò la pipa ai venti,
perso alla vita, nero frate al mondo.
Rovescia i peccati sui capelli
degli adolescenti milionari
freddi pozzi intaccati dall’arsura;
dura la voce fiumana di fuoco,
infine tutto si quieta
e le farfalle sciamano dorate
per la piazza, inebriate
dal sole di primavera,
profumate, con una fresca cera
che la brina piovuta dall’occhio di dio
ha sfiorato appena,
e hanno del vento sulle spalle.
Una pace tragica, da urlare,
quando con le nuvole arrampanti
si rovescia il tramonto su Bologna.
Bruciano le altane
mentre sui fianchi delle vecchie case
scende la lava;
soavemente oscure, per le piazze,
le adultere felici
(nell’età delle foglie appese ai rami)
s’allontanano lente, appena incerte
se riguardare il cielo e offrirgli un collo
senza rughe, pieno, da braciere
o fingere indifferenza ai richiami
dei satiri che frugano e deridono.
Poiché fra qualche anno ancora
sarà solo un’ombra la bellezza
che oggi le sfiora,
voglio lodarle
calme, mature, tenere, fragranti,
fremito vivo che riscalda il sangue.
Fasciate in tweed che palpita soavemente,
piove per la nuca
il balenio dei riccioli castani;
festa di cuori, e voglie,
caldi furori esprimono
le forme di queste dee
deliziosamente perfide
mentre la notte ormai le copre e bagna.
Sopra i palazzi c’è una luna grande
e calma, respira intorno la campagna.
Per Bologna, gobba maliziosa città,
è una fola la lucida omertà –
solo ha un civile governo, oneste pietre
e tombe dure che coprono il sonno
dei glossatori,
ma al tempo degli amori
uscir fuori bisogna, volare
sopra i dossi magri d’Appennino,
sulla riva dei fiumi,
fuggire a Ravenna, a Ferrara,
a Parma coperta di tigli, celarsi
furtivi nel lume di una stanza
giovani e paurosi come poveri sposi
(tra il fieno, nelle sere emiliane,
col sereno che divaga sui monti,
dalla finestra aperta ascolti cicale cantare
e il legno del piancito scricchiolare
al passo scalzo della donna).
Trova un’ora di pesca fortunata
anche lo straziato carrettiere,
il deluso usignolo, al fine della giornata.
L’albergo gelato, disadorno,
perfido di tristezza, ha le insegne
che battono sui vetri in una nebbia
d’acqua marcia; rotola nei muri
la strada di collina
fra il verde che dirada.
Poi giunge beata ilare nel vento,
non turbata da alcun trasalimento,
lei tutta bagnata di umori;
ha le scaglie iridate, un dirompente
riso giovane, perverso,
getta la veste, sottoveste,
e ogni pena si scioglie sul cuscino
di dura canapa, fino al mattino
quando si sveglia (è appena l’alba)
bruciata da un raggio che la sfiora
e ancora sorride
con parole che l’acqua discioglie.
Riscattata da una dolce moneta
raduna le sue foglie e lieta
s’invola, ancor più giovane nell’età
che ha poche ansie, smemorata, lieve,
con il corso del fiume avanti a sé,
tutto nuovo il cammino
non un breve momento
non un frammento spento,
roso dai topi come il mio.
Azure gloom of an Italian night
è povero il suo inglese:
pomeriggi vissuti ad ascoltare
i dischi, le voci alterne
dell’uomo e della donna BBC,
il fruscio che debilita,
la punta sottile nel grammofono,
un progredire monotono
d’anima spenta in acque salse e nere,
immaginare cosa sarà la vita
(la propria vita) nei prossimi trent’anni.
Pensa: oramai sono alle corde,
resta poco al mio osso (palpitare
d’animale ferito), tra noi l’amore
sarà presto finito, come è
finito presto ogni altro mio amore.
Una saponetta nel lavabo
tagliata grossa col coltello,
le porte dell’albergo sono bianche,
sporche, sottili; contro i muri
duri segni di mani forestiere,
conficcate nel legno le specchiere,
l’impronta di labili presenze
sui tappeti con rose di Venezia,
la desolazione dei cassetti,
dentro i letti un freddo da frontiera;
una luce fioca, prigioniera
gocciola insieme a un russare lento.
Arida catena di giorni
la vita si consuma, scura
e deserta, sul selciato
che svolta per il vicolo e s’inerpica
alla radura. Torri, avanzi
di gloria, bandiere,
tutto s’aggruma e mescola, brutalmente
ingiusto, falso, inutile,
in sere interminabili.
Patisce il pomeriggio di domenica
la donna protesa alla finestra
mentre le ore cadono dal cuore
e gli anni in arco sopra oscuri abissi
travolgono la festa…
Notte di san Silvestro nel ’40,
diciassettenne, i parenti (un fiore)
seduti alla tavola scolpita
da Toniutti, il soffitto profondo
rosso e oro pioveva luce antica
appena tocca da un’ala di fulgore.
Morti tutti, falciati come il fieno,
ormai perduti al mondo…
Un viaggio in Toscana con il treno,
nel ’50, San Gemignano lurida, spazzata
dal vento fra gli ulivi smorti
e in un tanfo straziante, indescrivibile,
la luce del giorno appena incisa
da un diamante di pena…
Un’ora di grande calma e dolcezza
si ferma sulla strada vuota,
a fatica qualche uomo nero
s’affaccia e subito scompare,
non c’è ebbrezza di voci
né ruota di bicicletta né pensiero
che la vicenda muti
per l’ardente immobile reclusa.
Solo uno sprofondare nella notte
e la sorte conclusa.
Negli alberghi di Vignola
dalle ciliege rosse e polpe accese
calano a far l’amore
– sulle sprint di corallo –
le belle milanesi
dall’accento francese.
Esultanti nel cuore,
per l’autostrada, adesso, in lunga fila
di migratori nella bufera,
s’avventano le donne
ch’hanno il bistro negli occhi e unghie d’oro
a spegnere i furori
dentro stanzucce quiete, fino a sera.
S’abbandonano a un giovane toro
dimenticando la melma che affatica
la loro carne, l’inutile ricchezza,
la noia cattiva, dolorosa
più d’una ferita,
una impazienza disperata.
Nuotatrici sfinite,
fatte bianche dall’onda,
si stringono fradice, impaurite
a questi ragazzi di paese
che vivono e aspettano sulla sponda
del fiume Panaro, vicino ai canneti
dentro i casolari di legno e argilla
in un silenzio ancora sconsolato
e in cruda miseria
da triste animale sconsacrato.
Altrove, fra le mura della città
su cui piove la tenerezza d’aprile,
nei palazzi bruciati, fiera
delle più dolorose vanità,
fra torri storte, merli, aride pietre
e muffe, per i viali scossi
da un acuto frastuono disperato
– nei salotti, sedute, con occhi inquieti
le sedicenni mostrano i ginocchi
e un’ombra deliziosa che sale ancora.
Bianche magre morte cameriere
– nell’ora in cui il sole, alto, contrasta
la sua trama a un cielo congelato –
divagano per le stanze
e i vassoi ardono nel vetro
con un suono gentile di campana.
Nascosto in un angolo, un braciere,
infuocato papavero, dibatte
nell’intimità scontrosa
arcobaleni d’ombre su una sposa
che gioca con un compagno
e s’abbandona alle mani che la cercano
come un fiore.
L’ossessione d’amore si fa torpida,
cala sugli sguardi e nelle gole;
mentre gli uomini s’avvicinano
la luce s’attenua in un rumore
cauto entro cui la fiamma reclina,
e si spegne inutile e meschina,
in un soffio, ogni vampata di pudore.
“Tre parole: occorre avere fede…”
nella sala settecentesca s’accende
il volo di rosati cherubini
e le patrizie impeccabili
guardano fisso negli occhi
il francescano possente
che conversando anela.
Sedute, le più giovani madame
offrono alle labbra del monaco,
così perverse, una fredda umiltà.
Piegano i morbidi ginocchi,
assorte promettono castità,
si turbano come colombe, poi dileguano
come colombe, in branco,
col peccato prossimo che splende.
Lo Stato della Chiesa
I. Prologo II. Fuochi spenti III. La tomba di Kesselring IV. La fuga dai monti V. Contro un muro VI. Il ritorno dei monaci VII. Cara terra natale VIII. Secoli di usura IX. La notte X. Nuovi atleti XI. Clessidra capovolta XII. I prati di Caprara
Mai anni peggiori
di questi che noi viviamo,
né stagione più vile
coprì di rossore la fronte asciutta italiana;
cadavere fulminato
giace essa riversa sull’erba di una trazzera.
Così la sera del nostro vivere umano
quando la morte sprofonda nel fuoco della gola
e resta poca gente, sola,
a vegliare con gli occhi asciutti e a ricordare.
Cercare requie a un grande dolore.
Puntuale, atroce come una pestilenza
nella città medievale,
mentre s’abbattono sulle povere spalle
incubi, oscurità, strazianti segni,
sul rosso corallo dei pensieri
ciò che ieri era luce oggi si sfascia
in nembo nero, e una paura di morte,
la fatica di vivere, la sorte
che contrasta in grembo alla vecchissima terra:
tutto si aggruma come la tempesta.
Stridule sibille alzano voti,
vipere d’erba strisciano e inveiscono,
balenano le lame calabresi
e gli arbasini danzano perduti
nell’aria, gialle leggere futili farfalle,
a nulla intenti che allo splendido lume
nella sala addobbata.
I fuochi sono spenti.
Tutto sembra giusto ormai o sembra falso
e distrutto, in questo deserto,
alla fine di una lunga giornata.
Ma tutto ancora si può rovesciare.
Non può essere perso.
Oltre le mura del cielo Firenze è lontana,
file di cipressi in quest’ora
calda di impalpabili ardori
scuotono l’erba e severi impietriscono
sulla terra toscana.
Ma nel versante del nostro appennino
nel grigio diradarsi del mattino
in fradicie foschie e lenti soli,
mentre s’avventa l’eco dei trattori
e vapori e svagate quaglie si vedono,
l’acqua del Reno è ancora imbrigliata di fuoco.
Le case distrutte sui dirupi
sono nere ali di memoria
e per un poco sembrano gridare;
poi tutto cade in un silenzio di mare.
Le siepi deserte di ginestre e di fiori,
squarciate le vigne, le radici fuori,
i borghi sono un pane sbriciolato.
Cuori di uomini caddero per terra
bagnando la montagna al tempo della guerra
con gemiti e con sangue;
voci straniere bruciarono la grazia
affaticata di questi paesi innocenti.
Tutti andarono sotto l’erba più dura
con i denti arrotati.
Oggi le nuove mura hanno la biacca spettrale.
In questi fossi è steso10 con occhi sbarrati un generale.
Vita selvatica, girandola da fiera,
stormire di uno straziato pianto lungo
dei cipressi spaccati sulle rive,
ah contrastato male, quali stive
ci conducono a una terra straniera,
quali nuovi pericoli sovrastano,
oscure mani, solitudine del faticoso
tramonto, e il volgere della galaverna
sulla campagna, fra boschi magri,
quando ottobre è nudo sul lamento
dell’uomo di legno dentro il campo
con il basco bucato, un rosso colore spento,
e la paglia che simula i capelli
si disperde fracida e leggera.
La morte avanti lettera, lo sfacelo,
la servitù eterna di chi non ha più cuore
per reggere all’uragano e si fa trascinare nel gelo,
pelle di una misera lepre di brughiera.
Pioggia cade sui fianchi dei calanchi,
le tegole volano coi rami
dentro i recinti dove agnelli bianchi
tendono il collo al fulmine.
Poi la vallata, spento il gran furore,
sembra un mare, l’erba gialla annega,
solo le spighe affiorano col cuore.
Le donne appaiono disfatte, sulla rupe,
migrano sopra povere chiatte.
La terra ossuta è identica alla schiena
di una maligna centenaria:
sul prato, sola, con le api d’oro
ha tutta la morte sulle spalle
e un brivido di paura copre l’aria.
“A campare al mondo si diventa vecchi.
Pare un sogno.
Passa un giorno, passa l’altro
e si è vecchi e si deve morire.
Pare proprio un sogno”.
Il fascino profondo della morte,
la sua forza, superbia, l’astio
contro la vanità, il suo fremito giovane,
la semplice linea del suo volto ambrato.
Nel cimitero del nostro appennino
fra la pietra e l’erba disfatta,
in tragico silenzio sconsacrato,
le mogli gemono, immobili
vicino alle croci storte,
mentre la tempesta
scende dai monti con la sera.
Spenti tutti i casolari della valle.
Là, dove l’animata ombra della città
in una solitudine d’incenso
scioglie un canto poi si sfa in lamento
contro i giardini, accanto
ai rossi filari della vite –
nei malinconici recessi
bruciati dall’autunno, con le foglie
incenerite a terra e i cipressi
impolverati, c’è l’orto olivetano e c’è la pura
forma dei castagni che sovrastano.
Nel chiostro dei monaci, nascosta
fra le arcate decrepite e sinopie
affioranti, nella gran rovina
(fino a ieri) l’edera cresceva
e il campanile senza corda e verbo
era solo un melmoso teschio antico.
Dispersa l’osannante progenie
dei piediscalzi, il silenzio ammoniva
e coppie di giovani amanti
cadevano sull’erba.
Ma tutto rifiorisce quasi un sogno
malefico che ci turba
e la foresta del canto gregoriano
in grandine travolge le spoglie
del chiostro olivetano.
Dopo la pace, con le barbe, i frati
ritornano, impolverati, da lontano,
con efebi salaci dal corpo
di lottatori; intonacati i muri,
beati, nuove voci esplodono, querele, duri
propositi, notturni lamenti fiaccolanti.
Accorre la povera gente dalla campagna
e scava nella terra un suono duro
da gregge impaurito che s’abbatte in un muro.
In treno, le mani alla nuca,
l’orecchio al respiro fondo
della terra (una frenesia di fiori
e di giorni a venire,
tanta bellezza da esplodere ancora sul mondo)
lo sguardo va alle terre sfiorate
dall’aquilone del sole,
tocca il morbido piano
che ha la freccia del Reno nel fianco,
settembre celeste e quieto
formicolante di foglie.
Cara terra natale.
Un filo di rame abbandonato
contro lo steccato
della cascina, un verde grigio, ròso
dalla nebbia padana.
Il cielo viola dei lillà
piove fulgore contro le vetrate
e il muggito dei buoi
rincorre le macchine straniere
sull’autostrada, lampi gialli, accese
foglie di grano, sfolgorio di rossi
gerani dentro i fossi.
(Così fugge la vita
con crepe sopra gli occhi
e le mani disfatte:
la tua mano è bianca, fina, come la brina
che gela e affonda improvvisamente
sull’erba e l’uccide).
I tubi della Shell sfiorano l’erba
del prato, staccionate, i fiori
risuonano affondando nella terra
e ne divorano il cuore.
Le donne in nero sul greto del fiume
sono un lume spento sulla spalla del giorno,
fra grandi archi, fra pietre
antiche segnate di gesso che volano via.
“Condannami a morire d’amore”
il ritorno è già fra i limpidi
ceri della periferia.
Colmo di primavera, di betulle
il tramonto s’insinua fra le cosce
delle fanciulle
che per la strada che la notte allaga
camminano disfatte
dalla bellezza e dall’ozio (dolce miele)
alteramente, ma con le stridule
voci di colombe bolognesi.
Più avanti il sole è un fascio di rose
abbandonate sul fiume;
la tenera luce esalta allegra
la gioventù beata: le sue mani
avide magre cercano i capelli.
Altrove, con un fiore sulla giacca,
copre un banchiere difficile e segreto:
fra inchini riveriti, curvi rami,
esce dai marmi avvampanti
e s’avvia per la strada di cristallo
come in un ballo, cauto, a incontrare
nell’attico segreto
la femmina, felice, ardita e sciocca.
Scocca allora un tempo d’avventura;
agnelli nel cielo della stanza,
un amuleto di giada vibra
al sole che muore sulla pianura bianca
fino a Verona.
Ci lima il destino,
le allegre ore, lunghe,
che conducono in un lampo al mattino
sono braci oramai della memoria.
La nostra storia si riempie
come il letto di un torrente
di scrosci di pioggia,
è freddo, buio, per tutto l’inverno
dentro all’inferno
ci contiamo con le carni nere;
patiamo il freddo che morde per potere
ancora risalire.
Della città non resta
che un mucchio disperso di mattoni,
s’è spenta la marcia dei guerrieri
– appena ieri una folla
riempiva in onda le strade; e bandiere,
nuove parole esplodevano.
Dall’Adriatico al magro appennino
la terra è in declino, i cuori
gelano o divorano i pensieri;
i vecchi aspettano contro il muro imbiancato
che la morte li tocchi.
Nebbia, notte, il fumo arido striscia,
appassiscono le dondolanti figure
dietro i vetri schermati che gettano sul prato
uno strano alone
nel grande deserto addormentato.
Sporche di fango le corriere
sembrano grandi navi alla deriva
dopo mesi di mare.
Una tempesta le spezzi, oh vita mia
che trascini un torbido dolore
e hai sulle spalle il panno impolverato
delle bandiere afflosciate.
La notte è cupa, lunga, fiammeggiante.
Lasciate in una solitudine straniera
dentro enormi palazzi si spengono
le braci degli uomini che non persero
il cuore al tempo della bufera,
non furono bianchi stracci di paura.
Per la via che il lento febbraio rischiara
i giovani sapienti deprimenti
(tutti candidati a una cattedra austera)
riempiono furiosamente le giornate
ridendo a noi con una malizia nera:
“nuovi atleti vi sopraffanno oramai,
perché conservate sotto le maglie sbiadite
vecchie speranze? La vostra forza è alla sera,
oh le mani incallite!…”
Il buio (la notte ancora non consuma
tutto lo sporco umore, il disperato
amore, il disprezzo) ci consegna
al sonno carichi di strada con la rauca
voglia di morire.
Questa terra ha il cuore frantumato.
Ma per la fatica che ci umilia
il nostro cuore non avrà tremato.
Il bue squartato (nuvola o agnello?)
in mezzo alla bottega, fra le luci
al neon; il muso di un vitello
con le ciglia socchiuse,
così perverso e avido, riposa
in un tenero sonno dentro un piatto
di porcellana. Chinato, un vecchio,
per il prato di Sant’Antonio
dove antichi monaci imponenti
massacravano a sferza, a lama, a schioppo
i prigionieri di guerra (Anno Domini…)
e i renitenti alle pie preghiere
– chinato su una latta, su una gomma,
cerca il rifiuto della campagna,
dove cade il magma amaro e denso
di un fumo bianco d’incenso.
Altrove avviano lucide processioni.
Nell’ora per vicoli osannanti
dilagano gli stendardi, le bandiere,
baccanti di preghiere s’infervorano
e bevono scintillante ira dai bronzi
scatenati; fuggono al riso dei ragazzi
i palloni, sprofondano nel cielo.
La città è tramutata in un giardino.
Tuoni di bande accendono i fiori,
una confusa massa s’accalca, grida
fra le strida delle campane
più famose del mondo.
Sfiorirà poi tutto con l’ultimo vento
della campagna: il cadere lento
delle ombre per portici decrepiti.
Fra il rumore che il cielo travolge,
nell’acceso fulgore delle pietre,
l’uomo trascina un quarto di vitello
grondante sulla spalla
e intanto ritorna a galla la macchia sporca oleosa,
affiora fra le sconnesse pietre e il radicchio
la scontrosa natura della gente italiana.
Questo vento spazzerà via le nubi della giornata,
il salnitro dei vecchi palazzi ribolle,
una schiuma di mare impetuoso
copre la città, tutte le foglie cadono.
Il tramonto cammina sul tappeto di ombre,
si scioglie il giallo ocra dei giardini,
giovani signore alla finestra
hanno occhiaie di fuoco profonde.
Il giuoco delle onde che la nebbia
avvolge nei capelli delle donne
è una vivace bandiera in questo lento
disfarsi delle cose.
Nel bar si tappano le bocche
per non gridare,
chinano le labbra sulle carte
i vanitosi vagabondi dalle maglie iridate.
“Se fossi ricco, dicono, se fossi
come Sivori, s’avessi un po’ di forza
per rimedio dla malincunj…”
e guardano sui vetri in un baleno
smorzarsi il giorno, uomini tornare,
travalicare i camion per i ponti
che portano a Milano, oltre i prati
di Caprara, alla pianura accesa
fino ai dirupi della Croara,
mentre cala sulla tavola scura
l’ombra della notte, colma, che fa paura.
Zum Arbeitslager Treblinka11
I. Pensieri incombono II. È oggi che dobbiamo contrastare III. Il rumore dei passi IV. Il male è dappertutto uguale. È male V. Riflessione notturna e cronaca dei giornali VI. Non c’è porta che basti
Come e perché, in queste notti
di prima estate, così brevi sfuggenti,
alle luci dell’alba gonfia di un mare,
a questa luce d’alba fresca suadente fragile e come
rosata, terribilmente radiosa –
un rumore di treno su lunghe rotaie
stride fra i neri boschi,
si posa sulla spalla,
per me a galla questi foschi pensieri
e immagini di morte (la fredda zaffata
che esce dalle peschiere)
e sudando nelle immagini
questi pensieri incombono,
e piango sul cuore di un ebreo
che ha il suo banco
nell’antico cuore di una strada
ed è vecchio stanco come mio padre ariano.
Scomparvero nelle piramidi di fuoco.
Quel tempo sporcò di melma le mani
dei sopravvissuti, dai gelidi cancelli
precipitarono ancora ancora
le mandrie nei macelli –
belare straziava la lama dei coltelli
in mano ai giovani carnefici.
Non è questo che voglio: ricordare.
No ritornare a quei lontani
anni, a quei tempi lontani.
I cani erano più felici degli uomini.
I miei versi sono fogli gettati
sopra la terra dei morti.
È oggi che dobbiamo contrastare.
Allora le greggi si sparpagliavano
picchiate dalle verghe nemiche
(e i libri superstiti
le lacrime esauste
i codici che restavano
“oggi 13 aprile sono morti 800
oggi 30 giugno via Polkiava è sbarrata
oggi 5 luglio il ghetto è solo un muro”)
un uomo era nel profondo interrato
vano della terra, nel suo immondo
silenzio, fra corpi nudi di morti.
Chi tradiva, chi smagriva, chi pativa,
chi sapeva aspettare, chi impazziva
all’improvviso e dava il lacero grido di sirena
(era la fine di un mondo).
Le ombre dei morti di Norimberga
scheletri feroci
azzannavano i diavoli sconfitti
uscenti a gorghi da fiamme.
Oggi sono rimasti in pochi a contrastare.
I reduci invecchiati
lacrimano in silenzio all’angolo
della tavola, asciugano le palpebre anche le madri
col figlio giovane alla parete.
I ragazzi hanno vent’anni d’età.
Il loro riso è tremendo, furibondo
più della iena tedesca, più duro
a sopportare di un supplizio politico.
Non dànno nulla, non vogliono
nulla sapere né altro intendere; sta
la loro splendida forza disarmata
e dolente come il sasso in un prato.
Non riconoscono debiti, non vogliono
neppure conoscere la tristezza dei vecchi
– né la voce, sola voce, voce di notte
che dice di passate miserie, che affonda
fra le pietre di tombe
“oh voi prefiche rauche” (gli ridono)
incombe la loro voce insulsa stridula,
è una cagna urlante nel vicolo,
e con le mani di viola devastano il silenzio
già distrutto nel cuore anche per noi.
Restiamo imprigionati contro il muro.
Nessun altro corpo è stato più colpito
del petto di un ebreo.
Oggi che tocchiamo con le dita
nelle sbarrate ilari vie della vanità
altre gemme (parvenze minerali, fosche,
che diciamo verità)
oh non voglio che (facciate che non…) sulle devastate rovine
dove sono buttate in confuso riposo le ossa,
altri dalle macerie alzino ancora case
da distruggere; che il ritratto dei figli
sul letto di anziani coniugi si spezzi
nel piancito al tonfo di uno stivale;
siamo vivi solo per questo, per dire
parole, adagio, misere, non altro
è rimasto fra le mani ammuffite bruciate
dal sole di lacrime ormai spente.
Non una tiepida canna per cantare
a giuoco col vento. È il rumore
di passi pesanti – alzare la testa
(c’è amarezza e fiele in questo oscuro petto,
ancora c’è il rombo nell’orecchio
dei muri che s’aprivano, le risate dei vivi
uguali, uguali, uguali allo spiegato
riso del vincitore).
L’uomo s’adegua al fango della terra.
Solo a un popolo vecchio sconfortato
sorpreso nell’astuzia dolce da un’astuzia
più feroce e improvvisa…
“Che cosa dice il vento?
che cosa dice il mare?”
sono i ricordi di uno scoramento
che trascina indietro, a naufragare
(frasi di un tempo giovane da amare:
certo non era il male che poteva farci sanguinare,
o forse proprio questo è il rumore del vento
che taglia con la lama i girasoli?
il mare è uguale dappertutto?
giallo coperto dai girasoli sbattuti?)
Anche la morte è uguale a un’altra morte
e a questa vita,
anche la morte è uguale a questa vita
– se è certa e resa viscida imponente
dal nostro sangue umano.
Battono dodici colpi, sui tetti
striscia un riverbero nero,
rumore di macchine lanciate,
piangono le gomme per le strade
poi verso le chiese sprangate
fra le ombre di statue pietrificate
a braccia spalancate,
ali di luce si spengono sull’erba.
A questo penso lungo la notte quando
– dans le bruillard s’en vont un paysan cagneux –
potrebbe un passo, un altro, raggiungere la mia porta.
Nella notte, io chino nell’alone del tavolo,
la luce bassa, i fogli, le pagine sacramentali,
un colpo, il tonfo – (tutto può rimanere
così, fermo per sempre, immobile
per sempre può restare la vicenda sognata)
la casa devastata, aperta, smascherata,
cassetti spalancati, gettati dalle pareti
i quadri, pochi quadri, rotto il vetro di tutti
(Manzù dal cristo morto,
l’ombra di un impiccato)
sgualciti i fogli, per terra calpestati,
l’urlo della donna seccato nella gola,
ad uno ad uno cadono dagli scaffali
i libri, bruciano sulle mani
– volume quinto di Lenin
“Altra cosa erano gli arresti e le deportazioni
durante il regno dell’odiato Nicola”,
Herzen agli amici di Russia:
“In ogni riga delle mie lettere avete visto il dolore”,
le fatiche, le pagine nel fuoco di questo dolore.
Bisogna forse morire per colpire più a fondo.
La vita sola non basta.
Siamo troppo sporchi di dentro
per capirci, e troppo poveri per l’amore.
Non c’è porta che basti e nel pensiero,
nell’immagine che la notte dilata
sopra immemori tetti
– tu scrivi W Stalin sul ponte di Roncrio
poi la pioggia di un autunno nevoso
distrugge il ponte e Stalin,
o ti lasci perdere all’acqua del canale
verso il volo degli angeli scolpiti
su gli uomini ancora vivi alla Certosa,
luce ruotante in grido nel profondo
circolo del pozzo.
Questo è tutto, nell’anno sei e due
mese di luglio, venti, a luce d’alba
– nella gelida alba, alba rosata (con dita…)
– certo non si può consumare un aggettivo per l’alba,
alba non è ma è il fuoco degli alti forni,
la sirena che chiama, lo sciamare in fretta
grigio compatto degli uomini in bicicletta.
Se leggo le voci degli amici:
la mano non può sfiorare
la mano dell’amico,
una corrente divide i nostri cuori
siamo sempre più antichi e soli.
Tutto d’altra parte è previsto e disposto,
la lucida intelligenza accede e provvede,
gli attuali problemi sono già circoscritti,
dilagano le parole in Shadow corpo dodici.
Mi inchino all’arte, alle parole sapienti
(ho assistito una volta al ditirambo
reciproco di due retori che s’invischiano
in lodi per lo scritto stupendo);
poi una vecchia millecento nera,
targata Roma, entra nel ghetto, brucia
devasta infanga insulta si accanisce
e il tempo si frantuma, nulla conta nel giorno:
e la vita, le vicende di quindici anni passati,
io che ancora vivo per ascoltare ancora
indifeso illeso il pianto di quella gente
(così altri, in silenzio);
nulla conta più del labbro dell’ebreo
spaccato da un pugno poliziesco,
del numero sulle braccia, delle donne ammassate
come un tempo nel freddo di una colonna.
All’ombra dei portoni uomini furenti.
Le vostre parole allora? la nostra ipocrisia,
la nostra pietà che stride, la nostra vereconda
indifferenza? la parola che pesa?
i sottili riverberi, i giuochi, trame, aneliti
ammiccanti? a che servono i lieti ragionari?
Sotto il cielo romano (siamo i figli di Roma)
l’ebreo è un uomo con il labbro spaccato,
con un’ira divina, col braccio tatuato
– alberi enormi si tendono al ponente
hanno brividi leggeri, profumati
da un’erba strana e da ali,
mentre ai tavoli dei caffè
i poeti discutono dei principi immortali…
Il sogno di Costantino
I. L’autostrada del sole II. I frati al Carmine III. Ancora desiderio di battaglia IV. Acrobati in una piazza di Toscana V. Alle origini del mondo VI. Il sogno di Costantino VII. Gli uomini di Piero VIII. Incontro davanti a San Francesco (Arezzo) IX. Se Roma impera… X. Conclusione e fine del giorno
Se vai per l’autostrada del sole
sotto la galleria della Citerna
al rio del bue morto (dove vuole
una leggenda popolare)
lungo la galleria della Citerna
le vene gonfie di radici
esplodono in amare gocce, se vai per ritornare
accade che… se vanno
altri ancora accade, per partire,
che la strada percorsa, asfalto aiuole,
sia breve per una gioia, che il rimorso
della felicità che per morire
anche solo in un attimo è vicina
incomba, e si svena il gran verde alla collina,
ai mirifici fiori, ai venti che traboccano
in un’ora da una terra contadina
a Firenze, per salite un poco arse prima
poi forre erbose, scatenati silenzi,
fra alberi e soli immensi
decrepite case piangono.
Se vai per l’autostrada nel mattino
del tredici giugno metropolitano
e un lontano suono rimane sospeso
alle campane aperte di San Miniato,
ecco d’antichi lumi deliziosa superba
in lacrime furibonda
sorprende la terra toscana a una curva
come un’onda più alta quieta di mare
o erba che cresce sulla mano e ristora il cuore.
Intanto divagare su quanto fragile vuota
terribilmente errata sia la giornata
passata e tante possibili avventure
dopo gli alterni ultimi mesi
s’aprano al viaggiatore.
Non alberi per strada, la campagna
dilapidata, polverio di gerani per i fossi,
borghi umide pietre, folgoranti
torri e addio veloci per i fossi
suoni d’ombra, la Shell gialla, marmi
incandescenti; una solitaria impalcatura
dondola, circonda il campanile
– così l’aria diafana gentile
sugli oggetti che vivono senza paura
immobili, dentro a questa grande luce.
La cappella è nel buio profondo: la mattina
conduce, insieme agli stendardi conquistati
al cielo dell’estate, accanto ai frati
dal cuore inverecondo, immondo
animo di vite spaventate;
per le navate beate in azzurrissimo velo
allo schiocco di un vento che sale da cantine
enormi lucide squarciate dal gelo,
inginocchiano le anime turbate.
Sui gradini rosi dal verme di anni magri
in una luce diafana scomposta
piove l’ombra delle grandi figure pittate.
Certamente incontrarvi costa fatica
nobili cavalieri, oltremontani saggi,
pozzi di cauta sapienza, e sapienza
v’indora le mani ruinando miracolosamente
da caverne celesti
mentre un fiume bagna il fuoco della bocca.
Conoscendo la morte, sorridete;
compatite la vita rimasta, sciocca
vita tormentata, su cui scoccano
ispidi dardi di tormenti pensieri
che si perpetuano sempre; dalle pietre
traballanti muri circoncidono
la nostra scorza, duri.
Incede il vostro cuore con folgorante forza.
I sorrisi verdi fra l’erba, furori
venano esili grandi mani;
il silenzio è di me un poco grigie, mute,
sapienti, di città, case
dentro cui nudi mendicanti
muoiono nella luce orgogliosa dei santi.
Il frate apre gli occhi a un riso giallo,
scuote turbato ilare nel viso
le chiavi di cristallo e sospinge
perfido zoccolante, faccia di sfinge, a una porta
mentre la luce si smorza in un suono
che odora di pane, è mezzogiorno sul mondo
stupefacente tuono.
Così noi tutti via fra i morsi arrabbiati
di questi presuntuosi tonsurati
nemici della ragione.
Per quindici anni in fuga condannati
ad arginare la pietà degli altri,
stravolta angoscia, cupa distruzione,
con una giovinezza sconsacrata
che oggi è in bianche ossa divorata;
ad amare con lo strazio o un furore
l’altrui amore, a ridere
per la gioia degli altri e a farsi pietra
per la morte di un uomo sconosciuto
– adesso nel rovesciarsi delle notti
la fuga della vita è un tradimento
e: chi piange con noi? chi ci sorride
più? chi si strazia come il pellicano
offrendo il sangue al freddo della mano?
Le trombe ululare,
bianche nere bandiere sventolare,
nomi strani, emblemi, insulti, noia
sulla bocca; personaggi ufficiali
versano il miele di una falsa umiltà
e gli amici di un tempo
hanno addosso la porpora già.
Avide facce alzano nel marmo
cimiteri di banche,
tagliano con gesto forbito i nastri inaugurali
le adultere madame,
uno sciame di servi inchina alzando le mani,
intanto nuove ciminiere rompono
con tetra indifferenza il cielo vinto.
Nell’occhio della notte folgorata
per la strada battuta dalla pioggia
una per una le finestre le case
stridono, si chiudono, laggiù
un globo freddo tra nubi fonde va.
Ancora un desiderio di battaglia?
l’uomo è nella solitudine, il rancore
arrugginisce un cuore dilaniato
dalle frecce che non splendono più.
Quanto amore è andato sprecato.
Volano fiumi in terra di Toscana.
Steso è il cavo di ferro. Un giocoliere
lieve umana armonica parvenza
brucia in uno splendido braciere,
ombra sull’asfalto della città.
L’ossessione spezza l’omertà,
il filo vibra vibra alla pazienza.
Sopra la piazza d’erbe, con fontane
morse da rossi venti di colombe
piovute dalle torri scrostate
sfiorando in ali foglie e balconate,
corre lungo una corda rugginosa
arcaica stride la motocicletta,
pericolosa, sospesa, invecchiata
nell’incenso fra schianti di campagne.
Scorrendo è una terribile civetta
stretta sugli alberi appannati
dall’estate, da un’ombra che l’aspetta.
A testa in su gli uomini sfuocati
guardano impotenti esacerbati,
gridano con tre voci nella gola
alla forma che si divincola, sola,
dal campanile all’antico palazzo oramai nero;
gli infuocati riflessi del mistero
si compongono adesso nella gioia.
Poi la noia della giornata,
insieme alla possibile morte che divaga
incerta fra paura e delizioso rancore
a chi è conficcato nella strada,
si consuma ed esplode nel furore
feroce e inconsolabile;
è paura dell’opera vittoriosa
che ferisce con vergogna il nostro destino?
impotenza, invidia di un cammino
che non si sa scegliere, frustare?
di una morte derisa? acrimoniosa?
è già sicura la sorte in quest’aria di notte
appena consumata, fra le rotte
voci che chiamano pèrdono inveiscono?
L’uccello della notte
fa lutto sulle colonne.
Il suono di un vento fra gli alberi.
Non regge all’arsura del tempo l’amore.
Respira l’estate sopra i rami nudi.
A una spietata neve si scioglie il cuore,
l’amicizia, il regno del mondo, i crudi
desideri di condannarsi e amare,
di stringersi la mano,
voltare le spalle, contare ricontare il grano
sulla pianura che il sole distende profondo.
Siamo alle origini del mondo,
a noi non è dato aspettare volo di colombe,
l’arca di dio ha issate le vele, è partita,
il fiore delle generazioni passate è chiuso nelle tombe,
la vita a volte pare anche deserta, come
un fiume coprisse la terra
e solo un uomo guardasse la terra morire.
Fiati di lucido pianto sopra le tombe sfiorire.
Gli atteggiamenti frivoli, le delicatezze,
l’avidità, polvere sulle ali di cera,
barlumi di riso per le debolezze
che la sera con tutti i suoi fuochi
ci fa vivere ancora; dunque viviamo
giudichiamo, opprimendo, condanniamo;
non sono spente le ombre a cui
come povere navi ancoravamo i pensieri,
gli osannanti cristalli delle sibille?
Preso dall’annientamento
di questa solitudine straordinaria,
paesaggio vile, decaduto, ho seminato
il mio ammonimento;
non era un alibi, la vita ho gettato.
Sopporto l’angoscia che fa vivere.
A poco a poco adesso il sole immondo
tanto è bello di calda innocenza e di verde,
in un mare d’erba si perde
contro mura di fuoco
poi volge le ombre al respiro della montagna
dove si stampano le fatiche dell’uomo.
Viviamo alle origini del mondo
umidi di brina di caverna.
Il grido di un’averla colpisce il viso a scudisciate.
I tetri specchi delle nostre paure angosciate!
Pochi segni indicano noi all’ombra che segue.
Siamo forse a una fine
senza possedere altra sapienza
che la nostra impotenza
o calpestiamo le origini di un mondo
e noi consuma una scarsa esperienza?
(Di notte Terni brucia, gli altiforni
scagliano lapilli nelle nubi di neve,
bianca neve scendere senza venti,
spilli infuocati ruotano nelle grotte
dei monti reatini;
la strada periferica, annientando la vita, odora.
Guardo ora la terra intorno a me, erta
e difficile, sciabolata da lame
di un raffinato sole, fra quiete valli
gli ulivi hanno germi teneri e castelli
tondi scudi di rame
volano sopra i rami nudi).
Non appare in sogno la colomba superba.
Bianca, ali fuggenti, timida, composta, eccelsa,
fuoco dello spirito e brivido dei pensieri
piomba sopra al sonno disarmato dei guerrieri
a bagnarli con le zagare del cielo.
Ha leggerissimo in bocca uno stelo.
(Il sogno di Costantino:
affidare con tragica insolenza il destino
delle armate al bianco di una piuma).
Il nostro cuore è schiuma della terra,
bruciato da una raffica è fango della guerra,
la vita soltanto a noi è affidata,
a noi con le radici è abbarbicata.
Mai fu così prossima la fine.
Non ha più senso toccare le pietre,
l’attesa, il turbine, la tempesta
spezzano non foglie morte ma le cime
degli alberi, la terra;
è troppo tardi.
La parola è un pugnale, penetra profondo.
Davanti ai grandi affreschi di Piero
impalcature irte di ferro nero coprono
il secolare schianto delle figure, l’umano
brusio di mosche e i vetri delle navate,
le alte canne di un organo spezzate.
Le pure verità si leggono sul muro
appena intravviste, in penombra, scolorate
da indifferenza e dal tempo.
Cavalli travalicano ruggendo
fiumi in riposo, fiori d’erba, spinti
dalle spade, coi cavalieri in sella
o agonizzanti a terra
fra le lance perdute.
Sfolgorio di bilance
che fortuna e legge reggono.
Un gelo di morte è nell’aria
che cala dalla sera,
eroi immobili nella mischia aspettano
che l’ala nera si spezzi e lo stendardo parli.
Ma da un sogno non attendere verità,
non possiamo tacere,
calpestare la polvere, inalzarci
ombre di marmo ferme dentro i secoli.
Presto sparire, certo, scialba densa
moltitudine, polvere sporca, immensa
forza sprecata:
naufragare dopo aver rimpiattata
in nere caverne a strapiombo sul mare
la nostra parola sopra le scogliere.
Ci faremo intendere poi, forse amare, temere.
Inutile che tu stia a rodere
te stesso, a consumare le notti
lunghe come notti interminabili,
via vai di tram e fari dentro visi
di uomini (o di donna).
La parola che usi è scarna, povera,
risuona suona è un colpo di martello
solo per un chilometro di strada.
Qualche orecchio l’ascolta. È tutto, bada.
(A un cancello due mani adolescenti
si smuovono i capelli).
Sono vinto da una tenera angoscia
che mi fa caro a me stesso
dopo lunghi errori e anni d’indifferenza.
Solo, come sempre, in solitudine e quieto
all’apparenza che sfuma (le mani lacerate)
nella luce di rosa; cupo mi abbatto
sulla piazza meschina
in cui con occhi lacrimosi china
la faccia stanca un santo.
Orribile fischio del treno a notte fonda.
“Il giovane già grigio” ride improvvisa
l’agile signora che ricordo aveva i capelli di fuoco,
ritorna dal passato con i suoi occhi azzurri
così profondi azzurri che tutti faceva lacrimare.
La vita la travolge, l’ora è un grande
specchio che si appanna, misteriosa.
Il suo compagno ha un viso stanco, dice
che a Ispra lo sciopero è compatto;
i motivi? le carte, il materiale
attrezzatura nuova,
vogliono anche denaro non le pare?
se a Ispra non si prova
non si fabbricano bombe per le tombe.
Dunque anche l’Italia avrà nel cielo
il fungo turbolento grande quanto
un giorno di primavera sul Cervino?
la Sardegna è il suo Sahara, un deserto
di sterpi, di silenzio, antico pianto,
ma occorre, s’affanna, più denaro,
tecnici nuovi, materiale, voglia
d’organizzare. Più fiducia dell’uomo consenziente,
più pazienza dell’uomo verso l’uomo,
più legittima attesa…
Come sei cambiata, tu, con gli occhi un poco
spenti grandi, nella piazza invasa
da torme di stranieri,
voci di toscani indifferenti.
È lontana la nostra giovinezza.
Già sera, Piero col suo gregge
sprofonda nelle tombe, in uno schianto
il cielo trabocca sul prato
dimenticato, tutti partiamo, a Ispra
addio, addio, a Ispra, dice, addio,
a Ispra se ci date il tempo, è un luogo…
e l’amore scompare e i grandi anni
ritornati ruggendo con le fauci
pronti per azzannare.
Non c’è pietà, se non dimenticare.
La partita non è perduta, la nostra vita
non è bruciata ancora, annichilita,
disfatta, ramo secco, noce avara
che allappa nella polvere di sasso.
Tutto sembra caduto? Roma impera,
muore Venezia, il carnevale impazza?
e noi sangue italiano
pazienti a conficcare con la mano
i chiodi dentro al legno dei cuori,
volontà non corrotta da furori
in questi anni coperti di silenzio.
Essere stati vivi sarà inutile?
Non offrire la scure al nostro boia,
non cadere bruciati dalla noia,
il sangue versato servirà.
Mentre scrivo la terra è minacciata,
forze aprono voragini nel fondo
mare, dall’abisso cadono sul mondo.
Veleno, colori sfolgoranti improvvisamente
invadono la pianura,
l’uomo bruciato dalla paura
impazzisce. Questa è l’età
che ci vede vivere, sulla spiaggia
di onde paurose; ma poiché viviamo,
ancora nei pensieri abbiamo la forza
di un ultimo rigore, ancora amore
nella scatola segreta d’una stanza.
(Questa è risposta, ultima, mandata
a un biglietto d’invito, offerta astuta:
verrei da voi ma al seguito di guerrieri
i quali annunciassero che Roma è caduta).
Così si attorciglia la corda e sopravvanza
sopra l’inquietudine una speranza.
Che cosa ci riporta a casa, la voglia di tornare
per sempre, navi morte, al porto
dell’ultimo uragano
o la paura di partire
ancora, di non sapere più tornare?
Firenze, Pratolino, le gole
di monti, case buie, i ruderi
dei castelli bruciati, le accecanti
luci, l’orrore dei pensieri,
viaggiamo e la terra può finire,
pensiamo questo pensiero di morte
e può veramente la tromba suonare alle porte.
Lunga fila di macchine, la coda
del serpe si snoda
fra il sasso arrostito dall’estate;
è notte, poveri lumi, sprofonda
di qua di là dai monti all’improvviso
la galleria, il fondo della terra
è oscura angoscia, timore di non più apparire,
poi luci sparse, infinite,
vive luci, frastuono, una voce
dice in dialetto un augurio dentro all’ombra,
una donna si scosta, un faro sulla collina,
è vicina la riva del viaggio,
ferito a morte, scaltro, lungimirante
con coraggio mi attesto alla mia terra.
Finisce il resoconto del viaggio estenuante
dentro a una guerra.
La bomba di Hiroshima
I. Le ossa calcinate II. La notte non finisce a Hiroshima
La bomba di Hiroshima
bruciò troncando le ultime parole.
L’ossa calcinate
riverberano il cielo senza fiato.
L’erba per sempre ha il verde rovesciato,
l’albero ha il suo tronco congelato
per sempre, la natura scompare
per sempre, nell’orrore dell’uomo
dentro a un fuoco di morte.
File di carri cercano le frontiere,
appena cadute le barriere
di filo spinato
la gente beve nelle mani screpolate
e corre forte sperando lontano
per la pianura, macerie a frugare
macchie nere di lava paura;
nel sole la guerra è seppellita
con gli ultimi soldati in pietra dura.
Nel Giappone una città nuova
cresce adesso funebre violenta
sopra uomini esanimi che al sole
si scuoiano nei fossi.
E qua è l’Italia, non intende, tace,
si compiace di marmi, di pace
avventurosa, di orazioni ufficiali,
di preghiere che esorcizzano i mali.
Ma nel mondo le occasioni perdute
sono i sassi buttati dentro il mare;
nei luoghi devastati dalla lebbra
o accucciati nell’ombra a imprecare
non un granello di polvere nel fondo
dell’occhio incantato che li domina.
Tutti i morti oramai dimenticati.
Il ventre della speranza è schiacciato
nella polvere da una spada antica;
anni interminabili, senza amore,
inchiodano col fuoco alla fatica.
Regala la sua vita un aviatore12:
fatto legno, con sdegno
ammonisce con la bocca ferita
che quanto è accaduto può ancora accadere13,
che la vita di tutti si consuma
in un bieco silenzio e in cenere.
Gli altri usurpano e straziano,
non affondano i denti nel bicchiere
acre della verità che fa morire.
Macerati dagli anni, legati
con la canapa al giorno travolgente,
ascoltano crescere l’erba
stenta, con la mente il passare del tempo,
odiano la voce che dà gelo all’inverno,
che conduce al fondo dell’inferno,
che monotona assale
i seduti nelle sale addobbate,
poi percuote e subito affonda
nella pietra tombale…
sempre contando i caduti d’Europa,
i trafitti dal cielo a Nagasaki.
Esule nella patria la voce conduce
a un amore dimenticato, a un dolore
irto, indifeso, spina da patire;
al mondo che lo ignora
offre l’orrore
della sua morte e di una gloria vile.
Dietro il muro del pianto si è difeso;
ma ritorneranno l’ora derelitta
le giornate con l’anima confitta
nel fango, se un orgoglio conteso
da questo acerbo cuore
che non s’arresta di fronte a pena alcuna
girerà nel dolore la fortuna.
L’hanno preso, legato, è prigione
in cima a una collina di carbone.
I naufraghi che vanno alla deriva
troveranno da lui che è sulla croce
nuove parole, il ricordo, ragione?
La notte non finisce a Hiroshima.
Prima dell’autunno, sul fiume Leuter, in Germania
I. Il presagio II. Tranquilla inerzia III. Esplodono le nuove fabbriche IV. Ach, du!
Gettato un sasso dentro al fondo abisso
batte l’aria nel fervore
di rosee luci il tonfo apocalittico.
A volo dileguano le ombre
acquattate nel sonno fra la scura
erba matura; dentro all’orecchio dura
la vibrazione (incanto di una lama)
e dall’umido pozzo agile frana
una lucertola, sospiri crescono sul muro
che interrompe l’estate
e antiche voci rapido difende
con la muffa splendente.
Non c’è persona in moto, il pomeriggio
affila spade rosso di paura,
attende dall’orizzonte nemico
il tramonto con le ali della sera.
Sulla bandiera che schiocca indifferente,
per giuoco, da una torre,
la vita si ripete.
Leggo con scrupolosa ingenuità
il palmo della mano,
gli oroscopi non sono oscuri
la vita durerà lontano
malattie non si danno
non l’affanno di morti misteriose,
la linea del cuore il giuoco dell’amore
vibrano nel mio scandaloso cielo.
Panno disteso docile per terra
ascolto gli occhi subdoli di estranei
radunati nel domenicale eloquio
o al conviviale riso perdersi, cercare
quasi per giuoco, seri, a poco a poco
simboli, segni, croci, nomi, amori
affiorati dai giorni
per sempre (che parevano) scordati.
La vita consumata in un deserto
senza gloria o talento
si disperde adesso in stillicidio
per la radura che divaga al fiume;
stretto fra l’erba, perfido, si perde
il mistero delle voci.
Affiorano scheletri feroci
di giovani soldati con la mano,
bionde ragazze svengono lontano
da qui, sulla radura,
le Volkswagen col muso sprofondato
dentro la terra brucano nel verde,
un uomo si getta su una donna
che nemmeno grida, apre le braccia, ride;
e se prima il silenzio, una gran folla
fra gli alberi si cerca nei capelli
a scaldarsi nel sole, indifferenti,
belli, nudi, felici, disumani,
parlano adagio, si chiamano adagio, parole
su quelle povere ossa.
La felicità, o meglio: il meditato oblio
che si usa con prudenza non deve distrarsi;
è domenica sul fiume e va goduta piena
(credetemi) questa tranquilla inerzia.
Poi improvvisamente per la mente, schegge
di un affaticato sasso,
sono nel cielo anatre selvatiche,
lassù nel cielo perse nere in cielo,
gelano dentro i venti le ali cupe
e un rombo il rombo il rombo sopravvanza
la disperata attesa, Stuttgart bombardata,
morta la giovane infermiera, distesa
una fila lunga di morti,
di cera i campanili si disfanno, storti
i ferri, luci affannose nel cielo
staffilato da lame. E tutti morti.
Per un uomo venti donne, o cento,
adesso; la rovina è riparata,
splende una nuova architettura.
Dimenticata è quell’ansia di paura.
Stridono sul greto oltre il beato
corso di questo fiume
i carri armati (la luce di questi occhi),
allineati s’avventano in un prato;
e da München per strade di pianura
l’asfalto segue un alto muro bianco
da cimitero, le fabbriche nuove
necropoli di morte, fumo nero
esplodono; e insieme l’affanno del pensiero
che seduce la verità è uno strano
gelido timore di sbagliare.
Il piano di Stalingrado suonerà
in quest’ora fra il tonfo degli alambicchi
e le rare parole? ci sarà pace al sole
per l’ebreo che brucia e il povero italiano?
Scusatemi. Ma occorre proprio cadere
colpito da questo rigore che ferisce,
cadere in siffatti pensieri, perdere
(dice così l’amico tedesco, verloren)
le ultime giornate dell’autunno, splendide.
“Presto verrà la neve, presto è inverno”
c’è un brivido travolgente nella sera
che si disperde,
così salutano molti con la mano
un poco alzando il busto, alle ragazze
rompe in onda il fulgore del seno
(stenderle in un letto di piuma, affondare).
I carri armati fermi oltre la riva
sulla terra di tombe; incombe,
mentre le ultime famiglie s’aggiustano le gonne,
una cilestrina luce, ach du!
fra il verde cadono le stelle,
s’annidano negli occhi spenti di quei soldati.
Viandanti fra un nero vento
essi stanno buttati
per sempre dentro le tombe.
Iconografia ufficiale14
La diga del Vaiont è in Val Cellina
a dodici chilometri da Belluno
la diga del Vaiont è la più grande diga ad arco del mondo
alta 265 metri consente di invasare sino a un massimo
di 168 milioni di metri cubi d’acqua del fiume Piave
per alimentare la centrale idroelettrica di Soverzene.
190 metri di coronamento carrozzabile
spessore al coronamento di 3 metri e 40 centimetri
spessore alla base 22 metri e 11 centimetri,
per costruirla sono stati impiegati
350 000 metri cubi di calcestruzzo
e mezzo milione di quintali di boiaca.
Crolla la diga del Vaiont
travolgendo interi paesi immersi nel sonno.
Era la più alta d’Europa.
Si cercano le vittime nel fango
il fango ha sommerso cinque borgate
fra i superstiti rassegnazione e
fatalismo: i superstiti non piangono.
Il dolore del paese, messaggio del Papa.
Le prime telefoto dal mare di sangue sopra Belluno.
A Pirago il paese si è frantumato
su questa piana c’era Longarone
ora è un mare di fango pavimenti di case.
La morte è scesa dall’occhio azzurro del Vaiont.
Gli uomini vivevano sereni ai piedi della diga,
il fianco della montagna che si specchiava nel lago,
era da migliaia d’anni che si ergeva compatta e possente.
Quell’immenso ghiaieto dove una volta erano case
ha oggi un aspetto allucinante.
Il paesaggio è lo stesso di quella città giapponese
dove era scoppiata una bomba,
alla luce del cielo terso
il paesaggio è di un biancore insopportabile,
televisione programmi sospesi,
dolore e mistero, catastrofe biblica.
Prime polemiche. Si poteva evitare?
Il presidente della repubblica
ha erogato una cospicua somma
per i primi soccorsi.
Il testo del telegramma
– la notizia del gravissimo disastro
– le laboriose popolazioni della valle del Piave
– l’unanime sentimento di cordoglio del paese
– animo profondamente commosso
– reverente pensiero agli scomparsi
– le famiglie così tragicamente provate
– più affettuosi sentimenti di solidarietà.
Oggi Leone si recherà nel Cadore
– sentimenti vivo dolore
et profonda solidarietà
– pregola recare popolazioni colpite tanto flagello
sensi affettuosa solidarietà.
Un processo si deve fare
i responsabili si debbono trovare e debbono pagare.
Longarone Pirago Rivalta Villanova Faè
Codissago San Martino Spessa.
Calcolata perfettamente la diga
si è trascurata la parte geologica;
un sistema di centoquarantatre equazioni
con altrettante incognite
risolto per controllare
le caratteristiche costruttive; approssimative
le prove sulla struttura delle rocce.
Non è rimasto nulla.
Non nulla per dire poca roba: proprio nulla.
Quattro chilometri quadrati precipitati nel
fondo delle ere geologiche
in un tempo preumano
“l’Ava la stava qua?
magari la stesse qua. La stava a Rivalta
e a Rivalta non ghe più niente”.
Diga perfetta ma roccia pericolosa.
L’anima nostra si raccoglie in preghiera
invocando eterna pace agli scomparsi
– per far rifiorire in quelle terre così laboriose
la speranza di un avvenire
più sereno e sicuro.
Certo è che, per citare un caso,
il paese di Valesella
un certo giorno cominciò ad andare in briciole
molte case dovettero essere abbandonate.
Ecco la valle della sciagura
nel crepuscolo del mattino
fango silenzio solitudine
e capire subito che tutto ciò è definitivo
più niente da fare e da dire.
In tempi atomici si potrebbe affermare
che questa è una sciagura “pulita”
tutto è stato fatto dalla natura
che non è buona e non è cattiva ma indifferente.
Mi ricordo che mentre la facevano
l’ingegnere Gildo Sperti della Sade
mi portò alla vicina centrale di Soverzene
dove c’era un grande modello in ottone
dello sbarramento in costruzione
ed era una scultura stupenda
Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi.
Più arrivano bare più arriva gente
in questo grande mercato della morte.
Il presidente Segni è a Longarone
circondato dalle autorità
le autorità impettite e vestite a puntino
facevano gruppo isolato
attorno premeva la gente della montagna
“vieni qui, da noi, ad ascoltarci”.
Il consiglio dei ministri ha rivolto un riverente pensiero
ha espresso la commossa solidarietà
ha rinnovato l’assicurazione
– i provvedimenti intesi a dare pronta assistenza.
Un giovane piange la sua casa distrutta.
Nei magazzini degli aiuti ufficiali
vi sono soltanto quintali
di latte in polvere.
I discorsi de’ miei concittadini15.
Note
1 Silvio Corbari, partigiano romagnolo, preso e impiccato in piazza nell’agosto del 1944. In Romagna, per definire un eroismo, si dice adesso: come ai tempi di Corbari.
2 Ferruccio Parri, nel mattino di maggio del 1945.
3 È allusione scritta alla rotta del Polesine, altra sciagura nazionale e altra kermesse burocratica.
4 Al tempo degli scioperi degli anni ’50, feroci e liberi. Un fuoco di paglia.
5-6 I due sindacalisti (di cui si veda, volendo: Un dibattito inedito sul contadino della Val Padana, Firenze 1957).
7 Le nuove parole per la vita diversa che si prometteva (proprio attraverso questa lotta, o lotta di tal genere).
8 Del delta padano.
9 Si consideri adesso l’ingenuità (senza malizia) del referto.
10 Non il suo corpo ma la sua memoria.
11 Al campo di lavoro di Treblinka; con questa indicazione sulla bassa di passaggio, secondo il gergo militare, i gruppi di ebrei polacchi erano avviati al campo di sterminio di Treblinka.
12 Il maggiore Claude Robert Eatherly dell’aviazione americana, che volò su Hiroshima. La sua vicenda è nota e ora conclusa; “liquidato” dal mondo e rinchiuso per sempre in manicomio.
13 Da una lettera di Eatherly ad Anders.
14 Nel 1963, di notte, un’ondata scolata da una diga gioiello d’architettura travolse i paesi e paesi e paesi – morte persone duemila. Un fatto di cronaca. Una fetta di cronaca. Questo testo, senza interpolazioni, rappresenta il progresso (nel senso di reportage naturalistico-decadente) dell’informazione dei giornali; l’accanita indifferenza; il lubrico e un po’ sconnesso linguaggio delle occasioni; e il referto della pronta indifferenza burocratica.
15 C.E. Gadda, Una poesia, in “Il Menabò 6”.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: poesie pubblicate in volume
- Editore: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 1965