Poesie
A mio padre
“Volentieri non scriverei
che per i morti”
CH. B.
ELEGOS PER L’AMICO LONTANO
Amico mio dolce e lontano
amico partito e perduto
il vento non dondola il grano
nel nostro paese di collina.
Venuto è settembre, la dolce stagione:
e io ti cerco, amico, nella sera
quando una fresca campana
alza bianchi colombi dai prati.
LAMENTO PER IL PERDUTO AMICO
Io ti conobbi, amico, in una sera
fresca di uccelli e campane,
quando nel cielo di rugiada
nascevano le Pleiadi: la strada
risuonava di canti verso i monti,
di soavi frescure di giardini
e di risa lontane nelle fonti.
Ora più non vedrai i pleniluni sereni,
né i bianchi giovenchi
saltare nei campi di fiori;
io ti conobbi in una chiara sera
fresca di uccelli, amico,
ma il vento non poserà sulle tue spalle.
A UNA FANCIULLA MORTA
Avevi bianca anima di cerilo
e tiepide le mani come voli di uccelli:
per te mi era sereno il vento
e il dolce sorriso dei morti.
Ma tu, fanciulla, che fiorivi i prati
hai donato la luce,
e il calmo giorno è pianto agli occhi
e il mio viso non avrà più l’ombra
dei tuoi lunghi capelli.
Sulle ciglia ti cadono le foglie.
Sopra la tomba il cielo s’addormenta,
e in questo mite abbandono d’acque
il suono alato dei tuoi passi
ritorna, come allora, nelle siepi.
VENNE UNA PIÙ FRESCA STAGIONE
Venne una più fresca stagione
sulla terra di rose,
ma io non conobbi il dolce tempo sereno
smarrito in lontane tristezze:
pensavo all’amico morto, al giovane amico
ormai per sempre perduto nelle ore felici,
e alla mia giovinezza che lenta passava
come una vecchia barca lungo la riva del mare.
La vita mi portava più lontano:
non sorprendevo la voce del compagno
rincorrere la luce del mattino.
ELEGIA IN UNA DOMENICA DI NOVEMBRE
La stagione è uguale alla mia vita:
il cielo si abbandona al pallido
riposo delle foglie, e il vento
posa sui prati e su le umane voglie:
io sono solo nella vecchia casa
e il colle è stanco e nulla m’appartiene.
La notte gela il pianto alle fontane:
suono di passi dalla strada viene,
umani passi raggelati – il lago
dondola le stanche anitre nere
e morti pesci.
Nulla è più triste del tempo che s’eguaglia
alla vita e alla morte.
TERZA ELEGIA
Amico, per i nostri anni
trascorsi all’ombra dolce delle torri,
nelle bianche osterie dei verdi colli,
amico, non lasciarmi solitario.
La giovinezza fugge dai capelli
e il lento passo mi conduce ai viali
dolenti di ricordi: i pensieri,
come la vita, corrono alla morte.
CANTO A ME STESSO LONTANO
Freschi come laghi di montagna
i cerbiatti nascono dalle foglie del mattino
come chiari occhi di fonte,
e le siepi fioriscono di capre;
è il tempo sereno dei fanciulli dormenti
sotto la mestizia degli abeti,
quando i pascoli del mio paese
sono verdi di rugiada, pianto di angeli,
e l’ultimo suono di campana
si assopisce nei fieni.
Io, il capo stanco
come lo sguardo ultimo dell’agnello trafitto,
penso la mia terra lontana.
RITORNERÒ AL PAESE ABBANDONATO
Nel triste autunno di tutte le morti,
quando nei prati i volti dei pastori
ai belati del gregge impallidiscono,
penso al mio paese di collina
chiaro di antico vento.
Nelle dolci domeniche d’aprile,
quando i morti sorridono beati,
i contadini fumano appoggiati
al muretto del fresco camposanto:
fiorisce il pesco
in un canto gioioso di campane
che vola in viso alle fanciulle.
Ora il cielo piange sopra i prati
i peccati degli uomini;
ma dal suo nido sperso tra i calanchi
ritornerà la lepre alla pastura
nella nuova stagione,
e io da morte terre
ritornerò al paese abbandonato.
OH FOSSI INFINITAMENTE LONTANO
Oh fossi infinitamente lontano,
oltre le foreste e i monti
più ancora dei boschi e dei prati felici,
e la morte non fosse che un vano pensiero
e non ruggisse la vita come un grande fiume!
Ma ora nei prati discende la sera
e tutto reclina e posa:
la fresca luce dilegua lontana
e profonda quiete avvolge la terra.
È il tempo doloroso degli affanni,
dei disperati pensieri, quando i morti
ritornano ai vivi con i volti
bagnati dalle tenebre
(e le fanciulle hanno i capelli
biondi di grano sul pallino viso).
Oh fossi allora lontano
più ancora dei mari e dei boschi,
in altre terre, dove le voci ignote
nel silenzio dei monti si smarrissero!
LA VITA IN QUESTA TERRA
La vita in questa terra asciutta ed arsa
trascorre senza canti,
solo lungo i pini vanno i pianti
di fanciulli lontani.
La vita è vana: un suono di campana
non s’ode nel mattino degli ulivi,
il vento lieve all’ombra dei declivi
si apre in viso alle spigolatrici.
Muore il vecchio di sera nella casa
e la sua morte è senza amaritudine,
dondola nella sospesa solitudine
il pianto della moglie:
ed ogni giorno è uguale all’altro giorno
ed ogni sera alla sera passata.
Trascorre il tempo e va senza ritorno
e lascia l’uomo nella dura giornata:
se l’uomo muore, muore la sua vita
se l’uomo vive, muore la sua anima.
SIGNORE, PERCHÉ L’UOMO DEVE MORIRE?
Signore, perché l’uomo deve morire?
La donna è timida come un ramo di pesco
e i soavi fanciulli dal docile canto
sul petto del padre riposavano lieti:
ma nel pianto dolcissimo del grano
l’uomo muore e l’anima è turbata.
Ansia ci prende della nostra vita,
vana come l’acqua dei canneti.
Per i prati, sui fieni, lungo i margini
freschi dei fiumi, mesto vento:
e su noi, come il volo degli uccelli
la tristissima morte.
ELEGIA PER UNA VITA PERDUTA
Ora i querceti della nostra terra
si distendono al vento del tramonto,
nel cielo, solitario, vola un passero
al lontano silenzio della valle:
pure la vita fugge con gli anni
ormai smarriti all’ombra della morte.
(Per il fanciullo, il vento della notte
è come il canto dei rematori
– fresca foglia di ramo – e reca pace:
e l’andare del tempo non l’accora.
Ma per l’uomo il vento non ha voce).
Vita, lento fiume rapinoso!
tu scorri nel rimpianto del passato:
e come il volo improvviso degli uccelli
fugge ogni nostro pensiero.
Ora il vento che udimmo da fanciulli
cantare il sonno verde alle campane,
addormentare l’anima nel petto
agli uomini tra i fieni,
si trascina stanco sugli erbai.
La vita ci conduce verso morte,
all’antica sorella senza nome.
CANTO DI UN UOMO DELLE ALTURE
Tu che mi domini, Dio, che dai pane ai miei figli,
che sferzi il mio cuore
che sferzi tremendo il mio povero cuore di terra,
che prendi il mio sangue
Signore di pietre e di ulivi,
Signore di tutti gli armenti e di tutte le stalle,
di tutte le case e del fuoco,
io pure smarrito ti lodo!
Immemore del tempo doloroso
nel silenzio dei monti,
per i figli dolcissimi nei prati,
per la mia morte lenta e solitaria
dalle tue mani,
uomo non nato agli ultimi orizzonti
io pure, Signore, ti lodo!
IO, SIGNORE, CON LE MANI AZZURRE
Poiché il mio corpo non darà più foglie
alla mestizia dei cieli,
io, Signore, con le mani azzurre
verrò semplicemente alla tua porta
con la pace trovata.
Gli anni non peseranno sulle spalle
e nei passi più lenti:
solo il canto sperduto della valle
e il lento trepidar dei firmamenti
tu tornerai, Signore, alla giornata
mia, smarrita al soffio di docili venti.
PREGHIERA
Signore, innanzi a te dico la tribolazione
e spando la preghiera davanti a te:
la luce al tuo cenno m’ha lasciato
e l’anima è nuda
sotto il cielo del tuo sguardo.
Il mio corpo è lontano
e smarrita ho la mia voce:
ora non odo il pianto della moglie
e la triste invocazione dei figli;
solo solo davanti a te, Signore
e la mia vita è tua come la mia morte.
Io innalzo la mia orazione:
se grande è il numero dei vivi
se immenso è il numero dei morti,
per il lungo dolore dell’adolescenza
per i peccati dei miei anni perduti,
accoglimi in te, dopo la tenebra
profonda della vita.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: poesie pubblicate in volume
- Editore: Libreria antiquaria Mario Landi (100 copie numerate)
- Anno di pubblicazione: 1942