Un dialogo tra Roberto Roversi e Luigi Squarzina
Abbiamo il copione per riprendere dopo circa duecento anni le feste in piazza per la cattura di Enzo re durate oltre quattrocento anni
La pubblicazione sulla nostra rivista (in cinque puntate, dall’ottobre 1977 al febbraio 1978) del copione Enzo re di Roberto Roversi per uno spettacolo in piazza ha suscitato il grande interesse di molti lettori e di «gente del mestiere», tra la quale deve annoverarsi Luigi Squarzina, il noto regista-autore del nostro teatro, insegnante di Istituzioni di Regia al DAMS dell’Università bolognese. Perciò abbiamo creato l’occasione di un incontro tra Squarzina e Roversi, autore del copione, incontro al quale ha assistito anche Renzo Renzi, nostro coordinatore editoriale. Del dialogo nato dall’occasione riportiamo qui di seguito alcune parti, quasi l’appunto iniziale di un progetto da mettere in atto.
Squarzina: Secondo me, se dovessi pormi il problema, comincerei col chiedermi quali sono le forze da coinvolgere. Ma parliamone in seguito. Cominciamo piuttosto dal luogo dove fare uno spettacolo di questo genere: io sarei dell’idea di tenere come riferimento Piazza Maggiore, ma con iniziative in vari punti della città.
Roversi: Infatti era mio, era nostro proposito preannunciare la rappresentazione di Enzo re fin dal mattino, con giochi vari e funamboli in tutti i quartieri della città. Questo proposito dovrebbe essere mantenuto e semmai sviluppato.
Squarzina: Io direi: iniziare sì in Piazza Maggiore, ma poi andare in altri posti, dove si faccia veramente spettacolo. Questo perché ci sono difficoltà a isolare e insonorizzare. Occorrerebbe evitare che, in quelle dimensioni, lo spettatore veda solo dei nani là in fondo. E non dimentichiamoci che in un testo che ha veri meriti poetici e verbali e storici non si deve perdere il filo.
Roversi: È certamente vero. Però, se il pubblico anziché essere collocato a sedere come spettatore un poco inerte e comunque in attesa, viene, non dico coinvolto (poiché il termine è troppo di moda e frusto) ma sistemato o accolto diversamente dal solito nella piazza o insieme alla piazza; forse questa difficoltà potrebbe almeno in parte essere superata. D’altra parte è una difficoltà che si propone sempre per ogni spettacolo da farsi in una piazza e che non sia un semplice o un piccolo catino.
Renzi: Effettivamente anche l’Orlando furioso di Ronconi, che resta l’unica vera grande riuscita di uno spettacolo in piazza cui abbia assistito in questi anni, fatto nella nostra piazza Maggiore, non si lasciava intendere in molte battute. Ma il senso dello spettacolo non era lì.
Squarzina: Per l’Orlando è diverso: si tratta di qualcosa di conosciuto, la gente bene o male sa che c’entrano i paladini e chi erano. E poi non dimentichiamo che Enzo Re non durerebbe meno di un paio d’ore.
Roversi: Lavorando a questo testo mi sono naturalmente documentato con molta attenzione, per non fare errori o per farne pochi. Sulle feste, ad esempio. E ho imparato che per alcuni spettacoli in piazza Maggiore, nel Cinquecento e nel Seicento, gli scenografi usavano tavolati rialzati su cui gli attori recitavano. Intorno, tutta intorno e in piedi la gente ascoltava e vedeva. Una soluzione del genere forse potrebbe essere almeno provata.
Renzi: Anche per il Festival nazionale dell’Unità ricordo che fu fatto un palco, in un lato della piazza. Il problema in questo caso sarebbe di costruirselo.
Squarzina: Non proporrei un ascolto statico: tutt’altro. Nel lavoro di Roversi mi piace «il testo»: e dunque penso che si debba sentirlo e che, nella realizzazione, vada cercato un linguaggio complessivo. Chi andasse in Piazza Maggiore con questa idea capirebbe subito che anche con l’altoparlante chi non è vicino non sente e, per di più, vede solo degli uomini minuscoli là in fondo. E qui, ripeto, non è come per l’Orlando che bene o male tutti conoscono: qui c’è proprio un aspetto della civiltà bolognese, l’informazione storica, l’avvento di nuove forze sociali, il gusto di usare certe parole ecc. Non lo si può risolvere semplicisticamente con un fatto visivo e motorio; sarebbe un’operazione riduttiva, addirittura neo-convenzionale.
Renzi: Adesso vi dico, tanto per mettere cose nel dialogo, un’idea che m’è venuta per la messa in scena (Squarzina giudicherà). Si potrebbe tentare di creare due sistemi di comunicazione: il primo riguarda il pubblico presente nella piazza, il quale deve vivere gli eventi come cose sue, per le parti del copione che si svolgono in quella stessa piazza, secoli prima; il secondo sistema riguarda gli eventi del copione che si svolgono fuori Bologna e che dovrebbero essere comunicati al pubblico come notizie che giungono di fuori, sia pure in maniera sceneggiata. In tal modo si rende presente fino alle pietre la vicenda, che il pubblico dovrà sentire come storia sua, che gli appartiene, secondo le intenzioni dell’autore: storia non ancora risolta, dopo secoli, per la quale il pubblico è messo nella situazione di una «potenzialità di protagonismo». Siccome la vicenda s’avvicina sempre più ad una conclusione nella piazza Maggiore, quella che ancora oggi è teatro dell’azione, il pubblico sarà, in tal modo, sempre più, il coro protagonista (possibile), fino alle battute finali che, invece, dovranno creare, brechtianamente, il distacco, per renderlo consapevole che protagonista non è, ancora. Il rischio, in ogni caso, potrebbe essere quello di identificarsi con la società comunale del medioevo in una sorta di «revival» di tipo carducciano-rubbianesco-preraffaellita. Ma, ripeto, fidando nell’attualità contenuta nel testo, si potrebbe rappresentare, proprio a fini di identificazione, l’azione che avviene esattamente nei luoghi in cui avvenne qui; e l’azione restante, invece, renderla come se fosse raccontata.
Roversi: La stessa cosa bisognerebbe poterla fare non solo a Bologna ma anche a Parma, a Modena e nelle altre città in cui lo spettacolo venisse ospitato.
Squarzina: So che Arnaldo Picchi, che insegna con me al DAMS, aveva centrato l’anno scorso un «progetto Enzo Re» su Imola, per le prove. Però è Bologna che determina l’azione. L’idea di recitare in tutta l’Emilia Romagna, al limite, mi piace, ma sempre salvaguardando l’autonomia dell’azione. Cioè, non bisogna raccontare: bisogna fare. Anche perché la storia parla di problemi (pensiamo ad esempio al rapporto imperatore-papato) che possono ribaltarsi benissimo nell’oggi; pensiamo alla liberazione dei servi, progresso produttivo sì, ma anche prodromo dello sfruttamento capitalistico; etc.
Roversi: Gli avvenimenti, come si dice?, lontani; lontani da Bologna o lontani dall’Emilia (lo avrete notato) sono raccontati o ricordati di volta in volta in una forma da resoconto ufficiale o da cronaca dichiarata e cantata; una cronaca rapida ed epica, già entrata nella cultura. Rapida ma anche rabbiosa e appassionante, almeno nei propositi. Ma tutto quello che accade in questa storia, da vicino o da lontano, io l’ho sentito sulle mani ancora caldo, addirittura bollente; e non annegato o naufragato nel sentimento della memoria. In altre parole (ma non so poi se ci sono riuscito) volevo con tutte le mie forze e secondo le mie possibilità non storicizzare (per me sarebbe stato un guaio) ma vivere quel passato come un insieme di grandi fatti moderni. Di fatti nostri. Gli elementi probabili; gli elementi possibili ci sono. Squarzina ha parlato e giustamente del rapporto fra i poteri o fra i potenti; vale a dire fra coloro che gestiscono il potere reale. Io vorrei portare un altro esempio, legato al fatto clamoroso (o al fatto glorioso, credo di poterlo dire), ricordato da Squarzina, cioè la liberazione degli schiavi. Questo mi richiama, con una estrapolazione stravolgente ma anche senza alcuna esagerazione o falsificazione; mi richiama alla emigrazione biblica dal sud al nord d’Italia nel corso degli anni Cinquanta. Mi richiama anche alla violenza presente, che è violenza di poteri contrapposti, l’uno nella sua affermazione ambigua e l’altro nella sua ambigua negazione. Dunque una violenza che è tutta moderna. Questa storia di Enzo re, in altre parole, non comporta alcuna effettiva fatica della memoria per essere ricevuta; non ha bisogno di particolari caselle culturali. È invece una storia che si svolge arando (direi meglio: immergendosi) dentro grandi problemi immutabili. In questo sta la sua modernità. La sua attualità. Che il testo ha cercato, in qualche modo, di agganciare.
Squarzina: Beh, non tutto: la lotta fra le città, ad esempio, oggi non è più sentita.
Roversi: È vero. Non la lotta fra le città, una lotta comunale stretta. Ma fra le città e il potere centralizzato, verticistico; questa lotta, sì, credo sia tutt’ora sentita. È la difesa della propria libertà ma soprattutto, ai giorni nostri, è la difesa della propria autonomia. Che è poi la nuova forma amministrativa, forse meno eroica ma più funzionale, della libertà oggi. E questa lotta, questa difesa ha coinvolto anche i bolognesi, soprattutto i bolognesi e di continuo, nel corso degli ultimi trent’anni.
Squarzina: Che i bolognesi conoscano, a grandi linee, questi fatti è molto importante, poiché quasi sempre i tentativi di teatralizzazione degli spazi urbani hanno sofferto di mancanza di una aderenza tematica. Qui invece la tematica c’è. L’interesse teorico sarebbe proprio per questo molto alto, richiamando l’idea rousseauiana della festa in rapporto con una manifestazione spettacolare dove il testo ritualizza una realtà storica e civile e dove dunque si può tendere a un momento di aggregazione.
Roversi: Fra i giochi che si facevano durante le feste a Bologna, in quegli anni così lontani, alcuni erano atroci. Per esempio, il gioco della gatta: un uomo con un braccio legato era buttato nella gabbia con una gatta ferita e inferocita. Si trattava per lo più di prigionieri che avrebbero ottenuto, salvandosi, la libertà; ma era difficile che sopravvivessero. Oppure il gioco della pignatta, che sembrerebbe così innocuo col suo palo scivoloso in cima al quale stava una pentola piena di monete. I pochi che riuscivano a salire, o il solo che ci riusciva, dovevano rompere la pignatta di coccia con un bastone per arraffare le monete; che per lo più cadevano tutte in basso, in terra. E allora si accendevano zuffe selvagge e mortali fra coloro che se le disputavano. I nobili si divertivano osservando dai balconi del Palazzo. C’erano poi i giochi o le lotte con le armi, in cui era spesso possibile e quasi inevitabile uccidersi o uccidere.
Squarzina: Per quanto riguarda la vita teatrale, invece, mi sembra di avere percepito nei miei studi che a Bologna ci fu un vuoto fino a tutto il Quattrocento, a parte qualche sacra rappresentazione. E si rianima solo a metà del Cinquecento grazie a qualche scrittore minore, il quale però ha evidentemente saputo dar risposta ad una domanda che esisteva.
Roversi: Il teatro bolognese, per quanto ne so io che non sono uno specialista o uno studioso, è grande soprattutto nel Sei e nel Settecento. Quando il teatro è vero spettacolo teatrale e non solo grandiosità spettacolare; quando il teatro è vita teatrale, è polemica teatrale, è insomma cultura (anche cultura) teatrale. In ogni casa di nobile c’era il teatro e c’era teatro; voglio dire che si recitava. Prima di quel periodo d’oro il teatro era troppo popolare per essere poi ricordato o troppo improvvisato o troppo religioso. In questo caso anche con un ricalco molto manifesto da altri testi e comunque poco autonomo e molto ritualistico. Stretto, bigotto. D’altra parte, secondo la norma.
Squarzina: E pensare che invece proprio Federico imperatore, creando degli statuti che imponevano agli attori grosse limitazioni, aveva implicitamente preso atto dell’importanza vistosa che aveva allora il teatro.
Passando ad un altro discorso, io penso che chi volesse realizzare un lavoro come questo, dovrebbe tener conto di una serie di fattori d’epoca con il loro fascino e il loro insegnamento, specie in questa città dove si è assistito al recupero del centro storico: fattori come il sistema di illuminazione, le feste, i cortei, i giochi, la cucina, i balli dell’epoca e così via. E poi bisognerebbe ragionare in termini di forze da coinvolgere. La prima e principale, a cui mi viene fatto di pensare, è quella degli studenti, a cominciare da quelli del DAMS. Realizzare un lavoro come questo insieme agli studenti, chiedere agli studenti di fare cosa loro il progetto e di lavorarvi a lungo termine, sarebbe finalmente un modo diverso e attivo di impostare il rapporto tra università e città, attraverso appunto la lettura di uno spazio urbano concreto. Da tempo io penso di dedicare il corso 78/79 di Istituzioni di regia al tema della teatralizzazione di uno spazio urbano, tema molto sentito dagli studenti e sul quale occorre fare chiarezza. Enzo re mi appassiona come uomo della università prima ancora che come uomo del teatro. In questo senso parlavo della potenzialità aggregante del testo di Roversi come del suo principale elemento di novità. Aggregazione nel «politico» e nel campo degli studi e dei laboratori. Novità anche proprio perché Bologna, come dicevo prima, non ha grosse tradizioni storiche nel campo della spettacolarità urbana; certi grandi spettacoli rinascimentali e barocchi esistevano soprattutto dove esisteva un principato, come a Firenze, o a Ferrara, o a Roma col papato ai tempi di Bernini.
Roversi: Bologna ha piuttosto una tradizione di scenografia per le feste annuali popolari. Anche in questo caso la motivazione di fondo era il piacere vanitoso oppure la necessità sociale da parte dei nobili di mostrare la loro magnificenza e una ricchezza che doveva riconfermare il predominio e l’ossequio.
Renzi: Una grande festa annuale ricorrente fu, appunto, la «festa della porchetta», iniziata nel Trecento e abolita a ridosso della rivoluzione francese: festa che doveva, come si sa, celebrare proprio la cattura di re Enzo. La festa non era priva di tratti francamente ignobili. Questa sarebbe l’occasione per ribaltarne il significato e gli esiti.
Squarzina: Nel nostro caso, ci vorrebbe comunque una grossa invenzione architettonica che costituisse già di per sé un interesse. Pensate a cosa potrebbe inventare Cervellati con la sua équipe. Pensate che al DAMS Maldonado insegna progettazione ambientale. Non c’è limite. Sempre a patto che si eviti il rischio che nella piazza non si senta niente.
Roversi: In questo caso il problema determinante è senz’altro quello di riuscire a comunicare con chi ascolta. Si potrebbe registrare il testo su nastro? Fra l’altro, lo abbiamo già provato a suo tempo, in un tentativo molto timido per essere organico, con Grassilli. Ma a lungo andare credo anch’io che stancherebbe, perché il falso della scelta tecnologica finirebbe per saltare fuori.
Squarzina: Tra l’altro, quali erano al tempo di Enzo re i «punti» di piazza Maggiore?
Roversi: Palazzo d’Accursio, il palazzo del Podestà (oltre il palazzo di re Enzo, naturalmente), il riferimento alla chiesa.
Squarzina: Già allora?
Roversi: Due palazzi erano in piedi. Ancora non c’era San Petronio nella sua imponenza, anche se c’era un’altra chiesa che credo sede del Vescovo. Quello che nel mio testo, e di proposito, ho promosso Arcivescovo. C’era il palazzo dei Notai. In sostanza era già la piazza. La nostra piazza, centro di tanti avvenimenti. È da lì, è sempre lì che il popolo di Bologna si raduna e ascolta. O parla.
Squarzina: Questo è l’importante, e proprio per la ragione che dicevo: occorre che ci sia l’adesione tematica di una festa teatrale ad un luogo. Superato, cioè, il periodo in cui si diceva «il teatro si fa dappertutto, anche fuori dai teatri», oggi si sente il bisogno di trovare la ragione per cui una determinata cosa si fa in «quel» luogo.
E allora, come in questo caso, un poeta scrive teatro per una piazza perché esiste un fondatissimo motivo.
Bologna incontri, anno IX, n. 3, marzo 1978.
(Alla digitalizzazione del testo hanno collaborato Isabella Lo Duca e Davide Mastroianni)
Informazioni aggiuntive
- Autore: Renzo Renzi
- Tipologia di testo: intervista
- Testata: Bologna incontri
- Anno di pubblicazione: anno IX, n. 3, marzo 1978