Ricordo di Roberto Roversi, “monaco laico” della poesia

L’appuntamento era di solito alle due e mezza del pomeriggio. Io arrivavo alla Palmaverde in bicicletta. Raggiungevo Roversi nel suo studio dopo che sua moglie Elena mi accoglieva con una gentilezza di altri tempi. Libri dappertutto, lo studio era piccolo, con una grande finestra su via dei Poeti, sulla scrivania il melograno. E parlavamo: di arte e di letteratura, di scrittori e poeti che aveva in parte conosciuto: Pasolini, Vittorini, Fortini, Leonetti, Volponi; di Giorgio Morandi, del critico Contini, dei suoi studi giovanili su Nietzsche, del suo interesse per la letteratura tedesca, per Goethe, del quale aveva tradotto alcune poesie, e poi la passione per la storia e per Tommaso Campanella. Per me entrare in libreria era come entrare nell’ultima stagione del Novecento letterario.

Tutt’altro che schivo e riservato, Roversi era sempre disponibile. Gli avevo subito accennato della mia diversa formazione e sensibilità culturale e politica, ma questo non è mai stato un ostacolo. La sua era una letteratura in cui l’impegno sfociava nella militanza, la mia era una idea di letteratura nella quale l’impegno andava verso una ricerca esistenziale. Ci univa il valore dell’antifascismo, a me trasmesso da mio padre, che aveva partecipato, giovanissimo, alla Resistenza, insieme a mio zio.

Generoso, leggeva i miei scritti, gli scritti di un giovane cultore della scrittura, con l’attenzione di chi legge un saggio per recensirlo. Ricordo la sua precisione, i suoi appunti, le sue note. Mi dava consigli, suggerimenti, stimoli. E come ogni vero maestro mi dava un po’ della sua vita. Tutto questo in totale gratuità e disinteresse. Ricordo il suo modo di parlare colloquiale ma autorevole, il suo sorriso disarmante e giovanile quando gli portai alcuni suoi libri che avevo acquistato in una bancarella, il suo sguardo quasi di rimprovero, quando in una dedica scrissi: “A Roberto Roversi, oggi il miglior fabbro”.

Tre sono le cose che ha regalato al giovane che ero allora e al giovane che sono oggi, seppure da tanto tempo: la serenità di non sentirsi soli e isolati durante una ricerca culturale; poi la consapevolezza che si può pagare un prezzo alto per la propria libertà intellettuale e per la propria coerenza, senza perdere la dignità e la felicità; infine la possibilità di conoscere di persona chi, con tutti i limiti possibili, incarna l’idea di “come l’uom s’etterna”.

Persona sobria, aveva fatto dell’understatement regola di vita. La sua notorietà legata soprattutto alla straordinaria collaborazione con Lucio Dalla, e alle sue incursioni nel mondo della canzone d’autore, era il simbolo del declinare della letteratura verso una eclissi, di fronte all’irrompere di nuovi mezzi espressivi pop. Già nel 1991 Moravia sosteneva, in modo provocatorio e tranciante, che la letteratura non conta più niente, che non ha senso.

Per me non è mai stato, come lo ha ingiustamente definito Pasolini, un “monaco pazzo” che cerca la clausura nella clausura, ma un “monaco laico”, che dedica la sua vita coraggiosa e intensa al suo credo: la poesia la cultura e l’impegno civile.

Concordo con Matteo Marchesini quando scrive che Roversi non si può ridurre a semplice “poeta municipale” o a nota a piè di pagina nella biografia di Pasolini. Roversi è stato una personalità poetica e intellettuale di spicco del secondo Novecento, un padre, culturale e morale, di una patria smarrita, o forse, come scriveva Montanelli nel 1997, solo del rimpianto di una patria.

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Autore: Pietro Ugolini
  • Tipologia di testo: testimonianza
  • Anno di pubblicazione: estate 2014
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