Hitler ritorna e gli uomini diventano sardine
Sull’ipotesi di un ritorno di Hitler si può costruire un grande pezzo di teatro. È l’intuizione balenata a Roberto Roversi, letterato sottile, poeta e saggista. Ma era veramente destinato alla rappresentazione questo suo Unterdenlinden? A leggerlo, nell’edizione a stampa, fa piuttosto l’impressione d’un poemetto in prosa, di un dialogo «morale». L’ipotesi, come s’è detto, è quella del ritorno di Hitler, sbucato di sotterra, insieme con Bormann, nella notte fra il 7 e l’8 maggio 1965, nel momento preciso, cioè, in cui i crimini nazisti dovevano, cosa che poi non avvenne, cadere in prescrizione. Hitler ha i baffetti, l’impermeabile, la faccia bianca di chi è stato per vent’anni chiuso in un rifugio sotterraneo. Ma ci vorrà poco perché possa, toltisi i baffetti e abbronzatosi artificialmente, reinserirsi nella società. Il suo scopo è la riconquista del potere. Questa volta si servirà, per la scalata, d’una carriera di dirigente industriale. Eccolo dunque, nella Germania del miracolo economico, diventare rapidamente il capo di una grande industria di pesce in scatola, un dittatore delle sardine. È chiara e vistosa l’analogia delle sardine con gli uomini della società massificata. Ecco che, per una società del genere, non c’è nemmeno bisogno di un Hitler in camicia bruna, circondato da truci SS. Basta, appunto, questo presidente di società anonime, arrivato al vertice del potere applicando gli stessi sistemi, ma soprattutto le stesse dottrine (appena mascherate) del dittatore nazista.
Il testo consiste in una specie di furibondo monologo. Gli altri non contano. È il delirio di un pazzo preso sul serio: un delirio in cui si confondono volontà di potenza, sesso, teorizzazioni del neo-capitalismo, retorica del benessere, cretinismo pubblicitario, razzismo, schiavismo e così via. Ma tutto ciò teatralmente non funziona. Manca intorno a questo personaggio un minimo di costruzione drammaturgica; manca dunque un minimo di dialettica. Questo Adolfo è un Arturo Ui (il richiamo al dramma di Brecht è inevitabile) senza praticamente avversari; e anche senza complici attivi. Tutto accade automaticamente, e va bene; ma l’ingranaggio da cui questo automatismo deriva l’autore doveva farcelo vedere. Perché il teatro, diremo ripetendo un luogo comune che ha ancora una sua virtù significante, non è pura enunciazione ma azione. E qui le azioni sono ridotte a scatti burattineschi di cui si potrebbe accettare la brusca gratuità se avessero una bruciante necessità espressiva, se ognuno di questi scatti ci desse un’emozione o ci suggerisse, veramente, una riflessione.
Più interessante, se mai, quantunque non nuova, è l’operazione linguistica compiuta dal Roversi: l’adozione di una lingua degradata a livello di frasi fatte, di slogans, di tritumi di conversazione e d’oratoria spolverati d’incoerenza. Eppure, questo linguaggio, recitato a velocità di mitragliatrice, finisce chissà perché col restare ermetico; guizza, lampeggia e fa clamore senza che riusciamo a percepirlo.
Secondo noi, Unterdenlinden è una grossa occasione perduta: non solo come testo, ma proprio come totalità di spettacolo. Qui il Piccolo Teatro poteva impegnarsi in un’operazione drammaturgica abbastanza nuova per l’Italia. Il testo, pur nella sua apparenza chiusa di poemetto sarcastico e ammonitore, pur nella sua rigida formulazione stilistica, si spalancava in realtà sul palcoscenico a tutte le ipotesi. Valeva la pena che l’autore e il regista Raffaele Maiello si mettessero a lavorare insieme per realizzare uno spettacolo che tenesse conto, staccandosi dai moduli espressionistici e brechtiani, delle nuove esperienze gestuali, delle nuove ricerche su quei materiali scenici che sono oggi il puro fonema e l’oggetto. Invece, si è arrivati al massimo a un’espressività da cabaret e, fra andare e venire di fragorosi tapis roulants e tagli secchi di proiettori, si sono riesumati i guizzi espressionistici e post-brechtiani che ormai fanno parte, nella storia di questo teatro, d’un repertorio gloriosamente consumato. Con tutto ciò, il giovane Maiello va tenuto d’occhio. Dei nuovi registi del Piccolo è probabilmente il più dotato. Secondo noi, dovrebbe avere più coraggio: sbagliare, magari, ma con più rabbiosa determinazione nel rompere gli schemi delle eredità stilistiche, e dunque culturali.
Gli interpreti sono un paio di dozzine, ma, salvo Gianrico Tedeschi nella parte di Adolfo e Mimmo Craig in quella di Bormann, servono qui come puri manichini, come fantocci messi nell’orbita di un tetro girotondo. L’Hitler tecnologico e monomaniaco del Tedeschi è un po’ naturalisticamente pagliaccesco, mentre dovrebbe riuscire allo stesso risultato di opprimente buffoneria percorrendo tutt’altre vie: quelle dell’automatismo, della mimesi acrobatica e meccanica un po’ alla Charlot. È più su questa strada il Craig, con la sua truculenza da grande fantoccio.
Epoca, anno XVIII, n. 868, 14 maggio 1967.
Informazioni aggiuntive
- Autore: Roberto De Monticelli
- Tipologia di testo: recensione
- Testata: Epoca
- Anno di pubblicazione: anno XVIII, n. 868, 14 maggio 1967