Un’altra ipotesi: Roversi

La data emblematica da cui può partire un’analisi producente su Roversi, è certamente il 1955: anno di nascita di «Officina» e inizio di un’esperienza fondamentale per lo scrittore. Libraio antiquario e autore di plaquettes in edizioni di provincia, Roversi si fa appunto co-redattore ed editore di una rivista in cui sembrano riflettersi non poche caratteristiche della sua fisionomia intellettuale elitaria e preindustriale e schiva. Editorialmente «Officina» (in consonanza con i tempi) si presenta appunto come una rivista «di poesia» redatta a Bologna da letterati sodali, finanziata da uno di loro, con una gestione tipicamente artigianale, con una tiratura di 600 copie (quasi tutte spedite in omaggio ad amici o comunque «addetti»), e senza altre iniziative editoriali che non siano la rilegatura delle sue annate o la stampa di alcuni estratti. La confezione ruvida ma elegante, si armonizza con un titolo che può al tempo stesso significare severa operosità e rigore artigianale, o richiamare l’Officina ferrarese di Longhi. La stessa poesia officinesca di Roversi reca in sé (quasi specularmente) i segni di una tenace letterarietà, di un rigoroso moralismo, e di una problematica squisitamente preindustriale.

Ma all’interno di questa fisionomia editorial-letteraria (della rivista e dello scrittore) sostanzialmente elitaria e provinciale, agiscono istanze diverse che la complicano e talora la contraddicono (come si è accennato già, almeno in parte): quell’intera esperienza, anzitutto, cerca costantemente di affrontare il rapporto politica-cultura, e comunque soffre la difficoltà o l’incapacità di realizzarlo, anche se non arriva a mettere in discussione la propria «autonomia» intellettuale di fondo, a elaborare e praticare un ruolo sociale che si risolva al di fuori del testo; quella fisionomia e struttura cenacolare e provinciale e tradizionale, è attraversata da uno sforzo organizzativo nuovo e dalla ricerca di una tendenza, si apre costantemente a più vasti contatti e sperimentazioni culturali, fonda un discorso intellettuale di estremo interesse (nonostante carenze e ritardi); quella poesia di paesaggi naturali, di volti e mura antiche, di preziose civiltà preindustriali (che trova esiti molto diversi nei vari autori officineschi), in Roversi è appena attraversata da una sensazione di insidie e stravolgimenti e offese incombenti, che tuttavia maturerà presto più lucide consapevolezze. In particolare poi Roversi stesso è tra coloro che nell’ultima fase di «Officina» mostra, pur tra limiti e ambiguità, di capire la condizione mutata in cui viene a trovarsi l’intellettuale nella fase del cosiddetto «neocapitalismo».

Attraverso l’esperienza officinesca, perciò, Roversi matura una fisionomia editorial-letteraria (e politica) al tempo stesso contraddittoria e coerente, che si svilupperà e arricchirà progressivamente negli anni futuri, superando anche non pochi di quei limiti e di quelle carenze: un intellettuale arroccato nella sua libreria antiquaria, lontano dalla vita di relazione «ufficiale», e tuttavia fervido di iniziative e di collegamenti (mai, comunque, letterario-mondani); un oppositore tanto più solitario quanto più intimamente partecipe dei conflitti reali; un autore strenuamente attaccato alla «grandezza» di un passato in rovina e alla «severità» di una propria dimensione preindustriale-artigiana e allo «stile» (in senso alto) di un proprio modo paradossalmente ascetico-aristocratico o culto-popolaresco di essere e di scrivere, ma sempre con un moralismo così rigoroso, con una «rabbia politica» così lucida, con una consapevolezza così acuta dell’ambiguità e precarietà della propria condizione intellettuale, da trasformare quell’attaccamento in attivo agonismo (timidamente e «letterariamente» preannunciato, si direbbe, con l’arciere da lui stesso scelto per la «quarta» di «Officina»).

E quindi analogamente, negli anni sessanta: un curriculum tutto esterno ai fasti della strategia consumistica dell’industria culturale (Roversi non sarà mai né un «personaggio» di successo né un best-seller, vincerà un solo premio minore nel 1959 e non riscuoterà neppure gli unanimi e vasti consensi di critica riservati ad altri), e al tempo stesso una intensa attività di organizzazione culturale («Rendiconti», anzitutto, in cui si incontrano alcuni ex sodali di «Officina» e altre forze intellettuali, e in cui circola un’attenzione costante per le discipline extraletterarie, una crescente accentuazione dei temi politici, e un’istanza marxista attivamente problematica); una certa ritrosia verso prese di posizione pubbliche e «gridate» (anche a livello politico), e al tempo stesso intensi rapporti di discussione e collaborazione con personalità e gruppi politici organizzati, dentro e fuori dalla «sinistra storica»; un tenace legame con ambienti intellettuali provinciali, o anche un particolare gusto per la collaborazione alle rivistine letterarie e politiche più periferiche emarginate minoritarie, e al tempo stesso la presenza ricorrente su riviste specializzate o militanti di prestigio e sulla stampa di un grande partito di massa come il Partito comunista; una produzione poetica e narrativa che quasi si abbandona al «canto» di un armonioso rapporto uomo-natura e uomo-storia ormai perduti, e che al tempo stesso rovescia ogni mito preindustriale e ogni moralismo nostalgico in una intransigente rabbiosa lucida carica anticapitalistica; e una produzione, ancora, che si sviluppa al tempo stesso sotto il segno di un’istanza civile, sociale, comunicativa, e di un’istanza sperimentale, antitradizionale, innovatrice (a livello strutturale-narrativo e metrico-stilistico e di linguaggio), diventando così uno dei punti di riferimento fondamentali per la critica e l’intellettualità più avanzata.

Negli anni sessanta, in particolare, Roversi pubblica una raccolta poetica (Dopo Campoformio, 1962), in cui confluiscono i versi di «Officina» insieme ad altri di più maturata e approfondita elaborazione. Quel libro sembra trovare poi una collocazione significativa nella già citata collana diretta da Bassani per Feltrinelli: ma significativa in un senso (per così dire) opposto a quello accennato a proposito di Cassola. La presenza di questa raccolta poetica, insieme a quelle di Fortini (Poesia ed errore, 1959) e Volponi (Le porte dell’Appennino, 1960), sembra cioè voler riproporre all’interno di una collana relativamente dinamica e «attuale», certi termini di un discorso officinesco che tende in modo più o meno esplicito a un rifiuto del falso «miracolo» trionfante, di un’industrializzazione capitalistica violentatrice e disumana: ipotesi che appare certamente più verosimile se si considera l’opera complessiva dei tre scrittori a cavallo degli anni cinquanta-sessanta. Nella collana di Bassani, in sostanza, si delineerebbe già (se si dànno per acquisite certe mediazioni già considerate a suo tempo) quella compresenza-distacco tra poesia contingentemente non «consumabile» e narrativa tendenzialmente consumistica, almeno al livello della lettura e delle vendite, che caratterizzerà le «stagioni» future.

Per contro la seconda e nuova edizione di Dopo Campoformio (1965), nonostante certe accentuazioni politiche del testo complessivo, dà l’impressione di perdere forza rispetto alla prima: nel senso che il discorso di Roversi appare come stemperato e raggelato nella «bianca» e selettiva collezione einaudiana di poesia, tra rari titoli e autori di tutte le letterature e di tutte le epoche.

Ma è l’edizione del romanzo Registrazione di eventi (1964) presso un grande editore come Rizzoli, ancora in gran parte legato alla sua vecchia immagine, che rappresenta una clamorosa eccezione nel curriculum di Roversi1: eccezione dovuta probabilmente a contatti personali e a una fase di tendenziale «modernizzazione» e adeguamento alle fortune del best-seller italiano, da parte di un catalogo che ha molto terreno da colmare in tal senso: con margini di spregiudicatezza e di sperimentazione, anche, previsti nell’economia generale dell’operazione. Questo può spiegare appunto la pubblicazione nella Scala di un autore (e di un romanzo, oltre che di un «titolo») così isolato, arduo, anticonsumistico, scostante nel quadro della strategia dell’industria culturale. Non a caso Registrazione di eventi, presentato da un’altrettanto ardua scheda critica di Guido Guglielmi, scoppia nella confezione di Rizzoli (grafica «industriale», edizione rilegata con sovracoperta, fascetta con slogan: «Così ci si illude di vivere» ecc.).

Per contro la raccolta ciclostilata delle Descrizioni in atto (1969) rappresenta un raro esempio di quasi perfetta consonanza, integrazione, reciproca implicazione, tra confezione-veicolazione e testo. Rimandando a quanto già si è detto diffusamente, basti sottolineare qui il nesso assai intimo tra la dimensione tutta artigiana della confezione-veicolazione e i significati polemici e critici che vi sono connessi (contro il mercato capitalistico e il pubblico consumistico, per una veicolazione e destinazione non mistificatoria ed equivoca), tra le connotazioni automortificatorie e autodissacratorie dell’intera «operazione» e la carica fortemente autocritica del testo stesso (nei confronti dei privilegi ed equivoci e precarietà della condizione intellettuale); e ancora tra nesso e nesso, per così dire, per quanto l’industria culturale favorisce e utilizza, perfeziona e strumentalizza, la più o meno dorata separatezza dello scrittore. Una valutazione, questa, che non è certo smentita – nella sua sostanza di fondo – dalle contraddizioni e limiti intrinseci all’operazione di Roversi, come del resto appare dall’analisi fatta a suo tempo.

Negli anni settanta sembrano esplicitarsi ulteriormente quelle proiezioni esterne della sua condizione di militante solitario ma partecipe. È significativo che un autore così poco «pubblico» come Roversi, percorra le vie del teatro e dello spettacolo, ma sempre senza rinunciare a nulla del suo personale arroccamento, del suo moralismo rigoroso. Riprendendo in modo nuovo l’esperienza già tentata di un teatro fondamentalmente politico (Unterdenlinden, Rizzoli, 1965: un altro aspetto dell’eccezione suddetta), Roversi scrive la già considerata Macchina da guerra più formidabile (1971) e l’opera teatrale epico-brechtiana Enzo re (1974), dedica un intero numero di «Rendiconti» (gennaio 1974) al «teatro come comunicazione», e «monta» una «lettura ad alta voce» di testi pasoliniani (I campi del Friuli, 1978), destinando i suoi lavori a sedi di pubblicazione e a compagnie teatrali non istituzionalizzate per così dire (con l’eccezione, ancora, di Unterdenlinden, rappresentato al Piccolo Teatro di Milano; mentre diverso è il caso dei testi per Lucio Dalla, nati come fatto «locale» e illusoriamente «alternativo», al pari di altri più recenti), o a iniziative più o meno direttamente legate alla pubblica amministrazione (è il caso di Enzo re scritto per essere rappresentato in piazza Maggiore a Bologna, e del «montaggio» pasoliniano scritto per le scuole). Due facce abbastanza significative di quel suo atteggiamento complessivo. Su «Rendiconti», inoltre, egli dà spazio ai processi politici e alle inchieste sui problemi della società e della scuola italiana.

In questi anni Roversi definisce anche quel suo ruolo di intellettuale oggettivamente tradizionale che cerca la politica, e che anche la pratica. Se la sua posizione era stata in passato, e rimane nei primi anni settanta, quella di un «minoritario» di sinistra, con i vari collegamenti relativi, egli aveva tuttavia mantenuto sempre, e continua a mantenere, un rapporto di leale e aperta discussione polemico-problematica con il Pci, non senza fasi di adesione ideale e sostanziale consenso nei confronti di esso. Un’adesione e un consenso che sembrano trovare un momento di emblematico approdo nella pubblicazione e relativa motivazione del suo ultimo romanzo: I diecimila cavalli (1976). Con esso Roversi apre significativamente la nuova collana di narrativa degli Editori Riuniti, e in alcune dichiarazioni introduttive collega in modo abbastanza esplicito la sua ricerca critica di «un rapporto con più lettori» (e lettori «nuovi») alla sua scelta politica: considerando perciò l’esperienza del ciclostilato «superata da altri problemi, da richieste ormai diverse»2, nel clima (non dichiarato ma ben presente al fondo del suo discorso) delle nuove attese e potenzialità intellettuali e di massa del giugno 1975 e dell’imminente giugno ’76.

E non mancano neppure possibili nessi tra queste dichiarazioni programmatiche di Roversi, certi aspetti della confezione-veicolazione (l’edizione economica, gli apparati critico-informativi, la stessa conversazione introduttiva per gran parte intesa – nel quadro suddetto – a sciogliere criticamente le maggiori «difficoltà» di lettura, i canali di partito di cui in parte si valgono gli Editori Riuniti), e la presenza di un discorso politico dentro lo stesso testo letterario. Ma nonostante tutto il romanzo mostra di resistere a una lettura di massa, o anche soltanto a una lettura non circoscritta, fin dal suo attacco quasi «provocatorio». La sua struttura e scrittura sperimentale, il suo movimento di costante frantumazione e riorganizzazione del discorso, la sua densità problematica e simbolica, la sua forte letterarietà sembrano destinarlo alla lettura (anche se nell’ambito di una vendita certamente superiore) di quei «pochi» lettori inequivoci cui erano pervenute Le descrizioni in atto, o comunque a non molti di più. Mentre del resto il «programma» di Roversi e dell’edizione stessa non sembra tener conto dei reali processi di produzione e distribuzione culturale; esso viene enunciato come se la ricerca di un nuovo destinatario collettivo non dovesse passare attraverso di essi, e (implicitamente) come se fossero sufficienti le vittorie elettorali della sinistra a modificarli.

Roversi si trova in sostanza a dover fare i conti con la separatezza oggettiva di ogni prodotto letterario e con una situazione di mercato alla quale non può sfuggire neppure una casa editrice di sinistra: che ne è anzi per più versi condizionata, come si è detto già in generale, e come confermano non poche connotazioni della confezione e veicolazione del romanzo in questione, il quale non può non rientrare – alla fine – nella logica dei livelli «alto-basso», «difficile-facile», meno e più vendibile, ecc. La verosimile delusione di Roversi di fronte a un destinatario di massa ancora così largamente dominato dalla nuova strategia consumistica, e di fronte alla difficoltà o spesso impossibilità (almeno a questo livello di lettura) di un reale rapporto critico perfino con i nuovi strati sociali e intellettuali emergenti e politicamente consapevoli, sembra poi intrecciarsi alla delusione verso il progetto del Pci, che Roversi viene manifestando in tutta una serie di scritti critici e polemici soprattutto sul «Manifesto», tra motivi di ragionata insoddisfazione e – talora – istanze di non produttivo «dissenso». Ma sempre, ancora, con un atteggiamento di critica leale e tendenzialmente costruttiva.

Ebbene, dall’analisi fin qui condotta apparirà forse un po’ meno sommaria la scelta di Cassola e Roversi come i «campioni» di un modo opposto di essere scrittori. Rispetto al primo, infatti, l’altro si presenta complessivamente come un autore intransigente e severo, che sembra quasi autoescludersi dalla moderna strategia dell’industria culturale, o comunque nettamente respingerla, con ogni aspetto della sua fisionomia editorial-letteraria: una sorta di natura preindustriale e artigianale di fondo; la intrinseca (prima ancora che intenzionale) refrattarietà della sua pratica sociale e del suo discorso letterario, al consumismo e al successo nelle loro varie manifestazioni più o meno nobili; la scelta costante e pressoché esclusiva (soprattutto nell’ultimo decennio circa) di sedi di pubblicazione della sinistra, con relativo rifiuto di ogni possibile compenso; il senso altamente autocritico della sua condizione intellettuale; l’intransigenza di fronte a ogni possibile cedimento al ruolo di «personaggio» (fino alla reiterata, ostinata rinuncia a parlare in pubblico); un’opera, poetica soprattutto, che talora, dal testo alla confezione-veicolazione, riesce a saldare tutti i motivi fondamentali di questa sua fisionomia, nel segno di un agonismo anticapitalistico di grande pregnanza ideale e letteraria. Uno scrittore insomma che a proposito di un suo romanzo può affermare, in modo paradossale ma emblematico, «con onestà e un po’ di utile autoironia […]: leggete il libro prima di acquistarlo»3.

Roversi poi sembra contrapporre in modo quasi paradigmatico, alla espansione cassoliana del privato nelle sue varie implicazioni descritte, un’acuta consapevolezza delle potenzialità del politico anche in letteratura. Tutto il suo discorso è profondamente segnato da una tensione mai estrinseca né volontaristica verso un politico, appunto, volta a volta sofferto perché imposseduto o trasformato in eversione e «rabbia» contro la società esistente o vissuto come istanza critico-autocritica, distruttivo-costruttiva. E un significato analogo viene ad avere quella sua insofferenza disagio contestazione nei confronti dell’«autonomia» intellettuale, messa così costantemente in discussione se non in crisi (e invece costantemente riaffermata e «aggiornata» da Cassola e da tanti altri scrittori); quella sua capacità a vivere dentro lo specifico letterario le contraddizioni e crisi del ruolo dello scrittore e dello specifico stesso. Certo, neppure Roversi arriva a porsi concretamente il problema dei processi produttivo-distributivi all’interno dei quali nonostante tutto opera, giacché vi occupa pure sempre (oggettivamente) un livello previsto dalla logica del sistema; per contro, tuttavia, non c’è in lui nessuna illusione di «purezze» originarie da preservare, ma una tendenza a rovesciare ogni forma di distacco e di rifiuto (anche se velleitaria) in agonismo ideale e morale, e a nutrirne così ancora una volta il suo discorso complessivo.

A questo punto, per riprendere le fila dei tre tentativi di analisi fin qui condotti, sarà interessante sottolineare come i relativi «campioni» prescelti rappresentino altrettanti e diversi tipi di rapporto con l’industria culturale (ai quali si potrebbero ricondurre non pochi scrittori italiani contemporanei). In breve (e dando per scontate tutte le cautele e riserve, oltre che le implicazioni e pregnanze via via considerate), nel caso di Cassola si assiste a un’involuzione letteraria che coincide appunto con lo sviluppo dell’industria e del consumismo culturale; nel caso di Roversi si verifica quasi una necessità a prescinderne, a emarginarsene; e nel caso della Morante si può invece seguire uno sforzo programmatico (e in gran parte illusorio) a servirsene per affermare il proprio messaggio. Concludere deducendo da ciò la mera conferma di un’industria culturale tutta negativa (se non altro nei confronti della letteratura), sarebbe quanto meno superficiale e improduttivo, e si risolverebbe in una passiva e lamentosa accettazione dell’esistente. Mentre al contrario, come si è detto già, è necessario approfondire la ricerca in questa direzione, considerando l’industria culturale come un producente terreno di analisi, e portando la critica sempre più a monte dei processi, nella prospettiva di una loro trasformazione anticapitalistica.

 

NOTE

1 Il romanzo Caccia all’uomo (Mondadori, Premio Salento «opera prima» 1959), per il periodo e per i modi della pubblicazione, non si può certo considerare un precedente in tal senso.

2 R. Roversi, Conversazione introduttiva,cit., pp. IX-X.

3 Ibidem,cit., p. X

Informazioni aggiuntive

  • Autore: Gian Carlo Ferretti
  • Tipologia di testo: saggio
  • Testata: Il mercato delle lettere
  • Editore: Einaudi
  • Anno di pubblicazione: 1979
Letto 1512 volte Ultima modifica il Giovedì, 05 Luglio 2018 08:00