L’Italia sepolta sotto la neve
Roberto Roversi
L’ITALIA
SEPOLTA
SOTTO
LA NEVE
Se la foto non è buona,
vuol dire che tu non eri abbastanza vicino
Robert Capa
(fotoreporter di guerra, morto in azione)
Premessa [1/81]
Il tempo getta piastre nel Lete
I testi di questa “Premessa” tentano di raccontare un momento di tempesta con progressiva lotta per sfuggirla fino ad assestarsi su un approdo sottratto a ogni nebbia – e forse, perfino, in un calore di sole.
L’uomo lì dentro comunque si salva da un inizio di naufragio. Senza il miele delle sirene. Fra il fumo dei mondi. Avendo imparato ancora una volta, dopo tanta vita consumata, che si deve ascoltare tutto, non tacere niente, per vivere non come conviene ma come gli è assegnato.
In realtà i poveri scrittori di versi sono indispensabili solo quando si deve ricominciare dopo una sconfitta.
Ecco perché prima di nascere devono morire.
1.
Poiché non c’è occasione per un solo grande dolore
assumo mille rimedi e medico le ferite della speranza
lascio cadere i miei occhi sulla brace
mi confronto con la spada del mondo.
Fondi burroni. Crepe. Mari improvvisi.
La colorazione della pianura è un giallo fradicio
un rosso gridato
talvolta si perde nel verde nel nero vacuo un nero grigio
il nero nero
nero sapiente e
prelude alla notte
2.
Poi stretto fra i due muri di ieri e di oggi
l’uomo quest’uomo partecipa alla guerra
dei mondi
È l’alba Voci di trombe Il
sonno di ognuno è spazzato via
La pianura dal mare alla città si riempie di polvere
I cavalli fumano sciabolano l’aria volando
3.
Parto da zero.
Le chiatte brulicano di luci mentre sul fiume è caduto l’inverno.
Là dove ottobre un tempo…
là dove ottobre staccava i rami con un sorriso e
l’io errante di me
poteva lasciare orme non labili contrassegnando il percorso
occhi di cervo abbandonati sulla riva
guardano le voci di un altoparlante davanti al bar.
Qui ci sta un soldato che non ha meta e ride.
La forza taumaturgica delle maschere è grande se appena
dieci minuti fa ho visto Colombina pas-
sare in un treno per Basel
4.
Ma in questo stupendo intrico del vivere
c’è troppa tempesta poco tempo nessuna soddisfazione
mentre aggiungono che la bellezza è andata perduta
e io – io confesso che sono stato felice in qualche momento.
Le macchine volanti piegano gli alberi segnati da un vecchio
fuoco
escono fra le foglie gli uomini del futuro
e un ragazzo albino siede davanti alle
pietre
accecato dalla luce
5.
Il suo essere vivo il suo essere vero il suo
destino incerto
con spasimo
nessuno poteva ancora sapere
quanta tremenda fosse l’opera del vivere negli anni
che corrono
ma non è detto che tacendo si riconosca la realtà più a fondo
sfioro la verità se riesco a soffrire senza morire
6.
Così un racconto ho cominciato qua
con tre orsi (che ballano) di pelle nera
ballano vicino a un fuoco circonflesso
da una luce rotta e
lasciano orme lasciano impronte la-
sciano
sulla
neve
orme
di sa
sangue
i bevitori d’acqua
i bevitori di lacrime
i bevitori di parole
7.
L’erba cammina sulla faccia dei monte e
i campi di girasoli esplodono contro nuovi palazzi già consumati.
Le pecore mangiano fuoco dentro all’occhio del sole
anch’io bruco sono cenere calda i
paesi sospesi sui crinali cadono
gli amici mi appoggiano la mano sopra gli occhi
io dico adagio guardando lei le ripeto adagio
noi che siamo immortali viviamo
noi che non siamo immortali pos-
siamo vivere ancora un poco ma per
vivere occorre coraggio e il coraggio è una cosa
io a lei blonde dico adagio guardando
ti prego canta una canzone un’altra canzone cantami
oh cavalluccio bendato una canzone d’
amore
noi che scontiamo la fortuna di vivere ancora un poco
ascoltiamo e
possiamo anche morire. Ancora un poco. Io a lei
blonde dico adagio guardando le
dico adagio
guardando dico
adagio blonde
blonde Catharina
8.
È fantastica la situazione in quel momento.
Un’oca enorme con le ali aperte
un’oca bianca trascina urlando la coda dei sole in
una sera fantastica
il sole schizza sangue prima di inabissarsi
con ali aperte un’oca bianca dicevo
noi che non siamo immortali viviamo
9.
Blonde.
Catharina.
Cauchy cavalerius gams
olbers olivium parrot
anaximander andel airy alamon
barrow befrain buch
mallet peirex zagut. Per fortuna
la canzone del futuro sarà semplicemente
una nuova canzone napole-
tana sulla luna.
Che hai fatto dei tuoi anni?
Non ho ancora parlato dell’uomo.
Non ho
ancora parlato
dell’
uomo. Il
tempo ferisce le dita le fa sanguinare
ma la pazienza è del tempo.
Il tempo si ferma aspettare
10.
Dico poche cose con dolcezza.
Amore a te. Ahi, te, me,
a-mo-re, more.
Mai più. Per le lunghe strade
dove vai, ubu roi, coolbridge, more, amore,
mai più. Mai. Se la giovinezza
può ritornare
coi capelli che l’aria fascia aprendoli,
belive.
Sono tornato e ra-
pido come un tuono
ascolta le parole belive, ascolta il suono.
Nessuno riposa. Il suono di una parola, dico.
Accenderemo i fuochi sui monti accenderanno il fuoco
i fuochi.
Per me, per te.
La violenza attuale è una tartana inutile ferma per mancanza di
vento. Un giorno
sui monti
11.
Ricordo la giornata le giornate
nella città senza trasporti.
La ciminiera dei silenzio vigilava la danza delle spade
fra un angelo e il lupo della montagna.
Quel libro fa paura dice
la verità e la verità è impossibile
la verità è possibile la verità
è una bugia dei sentimenti è
un errore decapitato è la morte apparente è
il temporale senza tempo non indicato dal barometro dell’estate.
Non mi lascio tempestare
anche se ogni uccello è interferito dal fucile di un inquisitore
e io ricomincio da capo. Fa la neve.
Così scrivo un racconto qua
con tre orsi (che ballano) di pelle nera.
Una sera la navicella della vita sfuggita a una tempesta rientra e
tutto è ancora da raccontare.
Comincio a parlare in un deserto. Fa
la neve. Un odore di mele.
Dalla spada non volle mai separarsi
neanche nell’istante della morte
e questa della spada è una speranza
12.
La neve è calda come il tempo della neve.
Da una finestra in aperta campagna
il palmo della mano di un ragazzo
cerca di stringere un poco d’erba distesa sotto la neve.
Guardare è un sogno.
Quante cose avrei potuto fare se fossi stato diverso
povero passero uccello gramo
arrivato a questo punto del volo
mi rendo conto della fragilità del ramo
e ricomincio a volare
13.
Agosto brucia settembre consola.
Agosto grida raccoglie investe
settembre ha la parola
novembre
nuvambar venus in zil ch’al s’aslumiva
novembre resta e sembra aspettare
14.
Un racconto ho cominciato qua con i tre orsi che
ballano di pelle nera ballano dentro a un fuoco
circonflesso da una luna spaccata e lasciano
orme lasciano orme lasciano sulla neve
orme di sangue.
Così la neve è rossa.
Rossa. Bianca. Neve di sangue. È neve di sangue. Rossa.
Prima di sera, prima di sera dice una voce
sarà spenta l’inquietudine delle città che
bruciano. Non sempre si può scegliere il
tempo per il ritorno.
Empedocle segnava col piede sul bordo del
vulcano una linea che parla una linea che
non finisce (è il corso delle stelle è l’umano
destino).
Lohengrin girovago per vecchia consuetudine
si accascia mentre la città
abbaia legata al canile da un cerchio di
cuoio indurito dal freddo
15.
Tag um Tag
Arbeitest du an der Befreiung
Sitzend in der Kammer schreibst du.
Noi vi faremo da scudo, d’ora in poi
entreremo in battaglia
noi entreremo nella battaglia e
Catharina
fuma in silenzio mentre guarda il mondo girare secondo un’antica
armonia.
Giorno per giorno lavoro alla mia liberazione.
Catharina fuma Marlboro in silenzio
16.
Ho passato settimane vuote mi sono sentito
senza più anima mi sono sentito senza
il vento della vita del tutto appassito
mi sentivo mi sono sentito tutto appassire
sfiorivo fra il canto delle rose esplodenti
era la voce delle cose a consumarmi.
Come il sapiente antico mi sono stancato di contare le ore
ho cercato il vulcano.
Con un dito sfioravo la frammentaria luce della vita che passava
non ascoltavo altra voce che
un modesto borbottare
con un dito seguivo il volo di alcune anatre dentro
all’occhio dei sole. Alzavo cerchi di polvere.
Il vento freddo della sera scivolato via da un campo
il suo brivido
non ha spento il mio cuore
17.
Ma non ha spento il mio cuore.
Un brivido io. La
vita mi perseguita è magnifico
vivere, un’errabonda luce
toccando le cose col ricordo
conduce a me il fiato del desiderio.
Si appanna lentamente ciò che è stato.
Adesso mi impiglio contando fra i
rami di alberi sapienti.
(Baci e abbracci.
È d’obbligo l’entusiasmo).
Ci sono accadimenti
in sedi acconce
e per personaggi di rilievo
l’applauso a cuore aperto è di rigore.
Se non sei d’accordo
rischi l’ergastolo
“Ricordi, quando venisti, che io ti dissi?”
18.
La scena era la seguente (ripetuta)
a sinistra una strada alberata con alberi
disossati alberi per l’inverno suoni schermati
dalla meraviglia e l’inverno che eccedeva
e per ogni altro inferno imminente c’era
la paura immobili e simmetrici
a sinistra stavano i campi innevati.
Il transito dei veicoli con catene
il grigiore stazzonava con piccole cornate il
cartellone pubblicitario del vermuth Cinzano o delle sigarette Ca-
mel oppure le sigarette Marlboro.
Le gocce cristalline della neve si potevano toccare
o assaggiare con le labbra.
La scena era la seguente ripetuta ma di questo tempo resta lo
sguardo della gente che guardava in faccia con curiosità ma senza
guardare ‑ mentre c’era una guerra. Oh la guerra.
Una guerra è finita per sempre la generosa gara di chi chiudeva gli
occhi nel sonno o di chi al contrario gli occhi
li apriva solo per
guardare un
mare enorme senza vita
i pesci immobili come vecchi tremolanti davanti alle case
nei paesi bassi della pianura.
Il fuoco bruciava? La scena era la
seguente (ripetuta) a destra il fuoco
non bruciava anzi la prima impres-
sione era una impressione di felicità
19.
Gli amici nel caffè respirano contro i vetri
per guardare e io sono solo
scruto ammiro penso chiamo spero
guardo posso anche cantare sotto voce
il paese è giallo dentro al mare di neve
gli altri sono nebbia dentro ai vetri verdi
del bar si sollevano alcune farfalle di pietra
aspetto con pazienza
dentro al blando riposo di latta e cartone
e m’accorgo di sapere ancora aspettare
20.
Non posso non posso più non posso ancora o forse
non so più rappresentare la morte
come un fatto impossibile la
morte è senza vita dentro la vita
gli occhi sono chiaramente aperti
dentro alla piccola tempesta di buio che sopravviene e sono
occhi
galoppanti
con strani freddi pensieri sui
prati circostanti.
Il viaggio non è ancora finito.
Mi interrogo sul mondo.
Improvvisamente mi sono svegliato
non posso non posso più o forse
non so più rappresentare
21.
Era lei che ferì il mio cuore che già doleva
Catharina di Spagna
blonde dai campi fioriti alle cime fra nembi
oh i prati di ondulata memoria del Würtemberg lei
blonde si china lei promette lei
che sa anche convincere dice
io sono io posso in me rientrare
tu sospira un poco tu puoi aspettare sei così
stanco.
Rispondo che l’attesa è il silenzio che si prolunga.
Sento la tua mano dicevo.
Sento il sole della tua mano il
freddo della mano per un momento mentre guardo la strada che
si prolunga.
Mi aspetto di tutto.
Ma i momenti di ricerca più assidua e
confusa compromettono (sempre)
l’immagine di me stesso nel
cuore
troppo giovane per avere paura troppo
giovane per ascoltare
22.
Piacente primavera. Era cocente primavera
una primavera che scuote. Così
piazente primavera. Era
questa cosa in quell’ora così piacente e calda
io potevo affermare
mi piace di più di ogni rosa quella
quella piacevole calda primavera diluita
dentro al mare della vita. La primavera
sconfinava in lande anche paurose (talvolta)
che non avevo conosciute.
Magri uccelli sull’unico filo
steso sui
campi innevati
su questi campi si proponeva la sera
faceva anche sperare strane canzoni di venti
il cuore era un libro aperto.
La primavera vagava purtroppo ancora molto lontana
frenata dagli ossimori che liutavano
per lamentare questa occasione perduta. D’altra parte neanch’io potevo aspettare
23.
Passo dagli alberi ai sassi all’uomo
basta un suono o un piccolo stravolgimento per passare
dalle lucciole indifese agli uomini e navigare
o (dico) per passare dagli uomini a lui.
Ascolto con tanta attenzione che beccheggio.
Vulcano non c’entra. Però
bruciarsi le navi alle spalle non è un male.
Si può scampare alla vita nella terra dei morti?
il futuro non è già passato?
24.
La dimenticanza (non l’oblio) è conoscenza
ho una speranza e in data odierna parto
sulla groppa di un delfino cerco il prato del mare
do un addio
mai più ritornerò
conto i piccoli fiori d’acqua fresca la salute
dei cielo raduno nuvole così disastrose e inquiete
non so a quale approdo m’avvio ma sarà di sicuro
in isole fortunate lì
fra suoni sussurrati posso giocare a cricket
con il campione in carica dell’ex impero britannico.
Non avrei mai pensato
che si può essere così ferocemente felici liberi so-
li sulla groppa di un delfino che naviga naviga in bassi fon-
dali e si solleva e affonda sul cuore del mare un mare
glauco sul mare che è insonne
sul mare.
Documentazione dell’avvenimento è stata in-
viata a tutte le guardie costiere.
Addio
25.
Nevica. Catharina blonde è sui capelli miei
con la mano d’oro degli Sciti
la Mini Morris cammina nel fango auricolando
tratteniamo il respiro.
Implacabili perché il futuro è alle porte.
Quando arriviamo?
Il viaggio procede con normale tristezza
per un momento il mio cuore è per terra. Per terra. E
ha l’ombra di una vela.
Altri sono partiti oggi su veloci siluri bicolori
per la montagna. Che è luogo di streghe in amore
26.
Sono liscio come il marmo.
Ho solo alcune parole da dire ho alzato la testa
mi dispongo a guardare
appaio presente e futuro
immedesimato con le puttane del cielo e il loro notturno pallore cerco il cuore il pensiero di un uomo dell’uomo.
È una grande speranza. Con fatica non ho altra stazione.
Voglio godere la mia parte d’errore
partecipare al diserbamento
ascoltare
27.
Cosa posso raccontare. Progressivamente ho visto
distruggere il mondo e il mondo ritornare comporre
le penne stendere
il grande lenzuolo dei mattino sulle montagne e
aspettare. Anch’esso aspettare.
L’ho visto.
Certamente ho veduto l’ultimo barlume di una sera qualunque
ho stretto in mano un’alba che palpitava bagnata il mattino di
martedì 28 novembre
prima che nella circonvallazione stretta da una nebbia feroce
spegnessero i lampioni
ho letto da qualche parte che forse è necessario aspettare.
Non con pazienza però
28.
Affrettati cane della memoria abbaia insulti.
Tacitare le astrazioni.
Cosa posso raccontare?
Progressivamente ho visto distruggere il mondo e
il mondo ricomporsi
ho visto il mondo in vetrina stendere il suo
lenzuolo e aspettare.
Non è felicità sotto la luna ma soltanto un gran bisogno d’amore.
Gelate notturne in pianura padana.
Giovani pixies ballano sopra il cofano
29.
È in atto la scancellazione del presente.
O del passato prossimo.
È in atto la scancellazione del passato tutto intero.
Quindi vecchio. Absolument. È in atto
la scancellazione generale si cerca di sovrapporre l’
armatura di un linguaggio comune
mimetizzato da giovane grido
un linguaggio disincantato.
Piacente primavera.
Pixies sortivano leggere.
30.
Sul cofano della Mini Morris in corsa
il micidiale gelo dei nord portato sul carro di vincitori impetuosi
è approdato in questa pianura con i fiori di vetro.
Il cuore è un guerriero con la lancia in mano
appassita dal vento di una tomba etrusca
31.
Il piccione è un piccione alto maestoso
con la sua ombra riempie la neve
la neve scivola s’inchina mormora in una lingua antica
il piccione apre le ali
da città a città
affonda il becco colpisce i delfini in amore.
Nevica. È inverno. La Mini Morris è parcheggiata
in un angolo vicino a un galeone spagnolo con spezie
sorpreso dalla tempesta nel golfo.
Sull’argine in attesa tutti partono in questa epoca d’angoscia.
Voglio essere paziente per restare
32.
Poi è venuto il tempo in cui non è bastato più aspettare. Non era
mai successo. Mi sento contro un muro.
Ma lo sai che ci sono almeno 746 modi migliori
di questo per vivere la vita? Il piccione torna in
cielo su ali che l’inverno gela.
L’auricolare
mi porta notizie di Davis Okland
e intanto si intiepidisce l’acqua per il bagno
purificatore. Lavo occhi e orecchi
per il momento
adempio all’impegno di scrivere
pour toi François. Muovo la leva dei tergicristallo
per riaprire la visione dei mondo.
La rotazione dei mesi è diventata impossibile
non ineriva a nulla di poetico quello spettacolo subliminare.
Si lascia osservare con indifferenza
33.
Becca becca
piccione gomma
piccione figlio piccione miglio
piccione giallo
piccione torre
piccione ventre di vino piccione vento di onda
piccione che non si consuma
in questo campo innevato. Campo senza reticolato.
Il piccolo piccione sconsacrato cosa nasconde sotto le ali?
Pensa: la prossima settimana siamo in gennaio.
Ingemmati sono gli
occhi dei due caprioli uccisi
da cacciatori di frodo vicino all’aeroporto militare
34.
Poi è arrivato il tempo. Quando non
non bastava più aspettare.
Raccolgo nel campo della memoria
alcune parole d’amore. Canto questa
canzone.
Le carte sono riottose.
Vanno letti tutti i libri che si scrivono nel mondo.
Vanno letti con pazienza poi dolcemente
teneramente…
dimenticati
35.
È arrivato il tempo in questo tempo non mi
bastava più aspettare e nel tempo
il nostro è un grande paese
a camminarlo vien sete.
Questo paese la sete la caccia via.
“Mamme, sapete cosa cantano i vostri bambini?”
Nuvole accartocciate ancora dentro a una pioggia pigra.
Più grande è la Merica.
Ma anche questo paese su cui cade la neve nel silenzio
è grande.
Non lo cammini in un giorno.
Mentre righe d’oro si imprimono
sul cuore della lontana California
Catharina è nel bar attraverso il vetro sfoglia una merendina in-
cellophanata
qua la piazza del mercato è vecchia
e interroga il passato.
Insistere con pazienza sulle parole
anche dentro le parole
trapassate da cinque
fulmini.
Questo inverno canta con i lupi in solitudine.
Colombina e Pierrot lunaire
tracciano ghirigori assiri sulla neve
raccolgo nel campo della memoria alcune parole d’amore
passeri grigi scendono e beccano la mia spalla nell’ombra
la fortuna chissà
chissà dove.
Mi sono messo a vivere
36.
Tace verbigrazia il dispensatore di suoni.
Intreccio alla tua la mia…
Piccole ferite sono piccole verità.
Non mi stanco di guardare attentamente il mondo
anche attraverso un vetro.
Il piccione leone becca dalla mano (mia).
Produrre concitazione
37.
Il suono delle esse emiliane sfrecciava
via dagli archi via dalle frecce degli indiani (a colpire)
la dottoressa Materai lei dispensava
sapere
negli anni scorsi
forse poco beati ma naturalmente necessari.
Erano gli anni.
Adesso incanutita la dottoressa osserva le mosche
sul vetro appannato
Ehi tu cocotte degli anni ’20 quali
ricordi conservi nel fondo della memoria? La tua
esperienza ci aiuti. La storia non è ormai
semplice (totale) iconografia?
Fissare un foglio coperto da segni intelligibili
e concreti
raccogliere l’angoscia della sera in pugno
trasferirla adagio (oh adagio) verso la finestra
lasciarla libera simile a uno scarabeo dai cento riflessi
lì l’aria lì il cielo quando
quando tutto è silenzio dopo il sole
38.
Per quello che non troviamo
ci concediamo del tempo è detto.
Sempre immobile prima di partire questa volta il cielo
è molto ingiallito per la pressione della massa nevosa che non rie-
sce a bruciare
lontano, le luci
affascinante connubio di stelle un poco appros-
simative e di mistero già tutto con-
sumato. Lontano
le luci
una sopraelevata
collega la stazione nord all’uscita sud di chis-
sà quale via accade che ognuno sia incerto
se uscire oppure entrare o
dove sia più opportuno
svoltare per inserirsi in un traffico non impazzito che conduce ver-
so casa
sembra così vicina l’ora del sonno
così vicino l’inferno
sfiorare con il dito un vetro gelato che non
ripara. Diventa una commedia la piccola
attesa di ogni giorno (questo può essere oggetto di considerazione
anche
durante la lunga nevicata dell’anno
1983. Era il mese di dicembre)
39.
Ecco il tempo arrivare
tutto è ridotto al suo fine
consoliamoci.
Ognuno può accedere al presente
adempiute le formalità immediate
da frontiera a frontiera.
Asserragliato all’interno guardo gli ultimi guizzi
del pesce giorno raccolgo squame perdute da un
vorticoso squalo di passaggio che non lascia altra traccia.
Bisogna inventare la realtà.
La fantasia è consumata
nel lago salato di una memoria
contadina e ufficiale.
Mi dispongo a seguire il viaggio degli
uomini che partono.
Questa terra si inabissa con le sue antiche canzoni di gesta
dentro alle necropoli devastate dalle ruspe
nelle necropoli svuotate si riflettono lune che hanno terribili
pallori.
Anche agli antichi guerrieri è tolto il
sonno
40.
Assomigliava a un attore famoso.
L’ho perso di vista.
Lei invece ho potuto raccoglierla dalla strada
letteralmente.
Impiastricciata come una fotografia
calpestata da alcuni cavalli in
corsa. Forse ha mentito e anch’io ho mentito
forse ha mentito
quando citò Senarica alta sui monti
come il tempio della neve.
Non consumare la speranza
ammonì prima di ripartire.
Colui che assomigliava a un attore famoso non
si è più ritrovato
dicono che alle volte sprofondano in vecchi conventi
dentro la foresta
lì inseguono il volo dei misteri portati dall’onda
di campane in corsa
il pane è tolto dal forno
41.
Il ginocchio di Catharina è
la sabbia di una situazione
ricomposta con la mia soggettiva
emozione.
In verità mi sento relegato al ruolo
di chi è polvere di chi la vita l’ha dimenticato.
Per questo aspetto facendo correre qualche sospiro
il ticchettio del cuore è molto simile a una macchina da scrivere.
Chi è stato lasciato può sperare di ritrovare tutto
chi è dimenticato lui
può ricordare senza più morire
può ancora aspettare
42.
Rumigava tempestosamente.
Portandosi via ogni possibilità di contraddire le
azioni che accadevano
Ronzano di Castel Castagno
chiesa di santa Maria
affresco dei 1181
Strage degli innocenti
un armato stringe fra i denti
un sorriso medievale con la spada tenendolo per le gambe a testa in giù
decapita un uomo
intorno c’è una fila di innocenti
destinati al macello
in un angolo il vescovo
ammonisce che dio è giusto e provvede.
Dicono i giornali
che in un tempo terribile viviamo
mi guardo la linea della mano
mi accorgo con soddisfazione
non sono ancora arrivato durerò durerò oh durerò
anni anni da consumare
sbriciolando gli anni che aspettano. Aspettare
43.
Rumigava dentro la tempesta
tempestosamente
e lasciando il campo RT
e lasciava anche il campo RV
forse per il campo AZ
ciascuno poteva fare accadere le azioni AZ
fare in modo che le RTI
accadessero RT
ciascuno [ognuno]
ciascuno faceva in modo che le … che ogni azione
potesse accadere
Rumigavano nella tempesta
contro la tempesta
Si portavano via ogni possibilità di contraddire
per sfuggire alle azioni che accadevano e
per afferrare un poco di libertà AZ
e per non perdere il rapporto con una verità RTI
ecc.
[controllare]
44.
Dentro la tempesta che rumigava un
altro grande tema era quello dell’amore
(fra me e te o fra gli uomini in generale
e le donne, naturalmente)
un altro grande tema
era quello dell’amore.
O della sopravvivenza
fra i rami di questa foresta un poco pietrificata.
Ma l’alba è appena spuntata
l’alba spunta
arriva un cacciatore con il suo malcelato furore contro
tutti gli uccelli e cominciò a
buttare fuoco contro ogni ombra in volo
crivellava il cielo
così il tema dell’amore non si poté per il
momento affrontare e decadde fino
a essere dimenticato
45.
Si va oh si parte ancora
anima animuccia mia bella
se non sai bere altro che tristezza o alcune illusioni
animuccia anima mia ascolta
la neve ricomincia a cadere.
Catharina non dormire
il giorno vicino alle case ammazza i fiori
Catharina il giorno non è ancora venuto
la radio dice che molti vantaggi acquisiti dalla classe
operaia negli anni Sessanta erano fittizi tanto è vero che adesso
essi sono stati ripresi da
chi li aveva ceduti – al modo con cui un
bambino
ricupera adagio
tirandolo
dal vento
l’aquilone. Pazienza
amici dell’uomo
pazienza
parlate voi.
Ecco ancora un paese
46.
Conosco il paese.
D’agosto
ci fui per un momento a conquistare
terra a debellare un’
antica memoria
che porta all’ingiustizia.
Non vorrei assomigliare ad altri.
So che è un tempo magnifico dentro la neve
e io posso ancora essere infelice
con felicità.
Senza offesa.
So che è un paese magnifico dentro la neve.
Care gentili suorine che cantate in pace
con il mare negli occhi
nessuno vi tende la mano se non per ammonire.
Ripiegate allora sul piccolo scandalo
su una giusta misura d’errore.
Perdetevi – ma guardate lei.
Anch’io conosco le meraviglie di un mondo
che non riesce ancora a morire
47.
E anch’io non posso prendere la luna con la mano
aiutami tu
vieni ragazzina, dài,
ma non è una ingiunzione forzata ti prego
soltanto (non è un richiamo) vieni
ho tutto il tempo per aspettare per allestire il giuoco
e alcune cosette già stabilite
sei tu, oggi, che puoi perdere tutto
hai tutto da perdere
povera ragazza vieni ragazza, dài,
aiutami vedi che la neve la neve la neve ricopre mi copre la
neve
e allora
48.
Sento via radio voci dalla Polonia
tace la Polonia
il suo silenzio attuale è uguale alla dispera-
zione dei capodoglio bianco altrimenti chiamato Moby Dick
perseguitato da Achab attraverso i mari del mondo
il suo silenzio è simile alla
rabbia rossa del capodoglio che Achab
accarezza mentre dorme semisommerso dall’onda del cielo
proprio nel centro dell’oceano
Achab che deve uccidere lo aspetta
lo non sono la fiocina di un dio io non so cosa dire in
situazioni critiche
so che mi devo correggere.
Le scarpe non è possibile che si consumino se
prima non hanno camminato.
Ti tengo gli occhi addosso Catharina
ti seguo
perché ti amo lentamente e con un poco di disperazione
io ti seguo Catharina
sciogliendo la saliva del cielo
49.
Era un giorno de majo sotto la neve
alta la neve un
vero primo giorno d’estate sotto la neve.
Era forse una neve de majo? Un vero
primo giorno d’estate con le schiarite rapide
e i TIR che sul viadotto dell’autostrada sono colorati d’azzurro
e del rosso di Lione
era quel giorno della neve
ho ascoltato la canzone inglese
sono un cane da caccia
che grida sotto la luna.
Perché questo viaggio in pieno inverno?
Vuoi qualcosa anche da me?
50.
Catharina con i capelli di ghiaccio di nessun colore
sono capelli di neve
ispida e breve sono
leggeri si sciolgono
piangendo Catharina
è giovane lei è appena accennata nell’ombra
e non parla tace
lei
guarda
sono immobile sotto la sua mano
l’arco di un paese con la torre
si avvicina
in questo tempo se vuoi dire le cose bisogna pensarle profondamente
scavare
prima di notte arriveremo ma quando?
un cane rincorre il sole
rimbalza su tre gambe di legno
51.
Prima. Ho ascoltato questa voce.
Un fuoco. Accendere un fuoco.
Ti prego di non morire
52.
Ti prego non morire.
Perché (ti prego di non morire) come potrei fare tutte le cose senza
di te?
Un fuoco. Accendere un fuoco.
Ti prego di non morire.
Il paese è di grande silenzio
strade brevi selciate in salita
chi legge i buoni libri sa che non è l’ora di cena
ma di riflettere attentamente (con intensità)
alle tre parole che useremo domani.
Pesare le parole è sogno?
O necessità?
L’aliscafo di Carondemonio dal regno dei
morti porta alla terra dei vivi
53.
Il giorno di San Costanzo e Aquilino
è accaduto l’avvenimento di cui sono stato spettatore.
Involontario.
La mia cenere bianca è sotto l’azzurro cielo.
Adempio a un atto rituale
in un momento d’attesa?
Nevica. È la mezzanotte di un anno.
Perché questo viaggio in pieno inverno?
Vuoi qualcosa anche da me?
Rispondi: vuoi qualcosa?
In un’età di schegge
ho deposto con cautela
la mia piccola vita che fumava
sul tronco di un albero rovesciato.
Lì mi hanno trovato.
Tre cacciatori e tre cani.
Uno era mercurio il secondo apollo e
il terzo una giovane senza storia che schiacciava l’erba con i piedi
di ghiaccio.
Con gli dei come vuoi parlare?
Il passato e il presente sono sconosciuti
il futuro a loro non sfugge.
Buttano semi nel solco della memoria
54.
È passato tanto tempo
che non è quasi più vero.
No, devo salire in paradiso perché sono grande giovane e buono
no, devo scendere all’inferno perché
sono vecchio povero e infame
no, devo andarci in paradiso e salire salire salire fra gli
alberi e gli angeli che hanno ali squamose da pescecane
devo salire più in alto
no non mi adatterò a questo disonore
a questa morte scolpita dall’acqua e dalla neve
salirò
è un giuoco
ma non mando inviti
e i vecchi amici?
Ho raccolto anche le molliche
con la punta della lingua
la vita ha cambiato pettinatura.
Ogni cosa è vera se fatta con convinzione.
Per la strada camminano due uomini
sono partiti da una stazione dove il treno neanche arriva più
55.
Atene brucia.
La città perfida sotto le carezze di Sparta.
Andiamo, non essere così triste.
Un angelo porta notizie dalla terra
al cielo
una motocicletta procede sul filo d’acciaio strisciando faville.
Splendono gli occhi di tre ragazze annidate sui tetti.
Vedo.
Cinque cavalli in fila hanno partorito farfalle
una lumaca conduce il lupo nella casa della vecchia bambina.
Conto sulle dita i giorni che
ho già perduto
la barca dal regno dei morti
scivola leggera verso la spiaggia dei vivi.
Sfere incandescenti
in questo cielo di dicembre
le vedo
56.
Durante il concerto rock e la musica da vedere le
piume degli angeli feriti a morte cadono con la neve
intanto un aereo sperduto urla rompendo il ghiaccio del cielo e
cerca aiuto.
Qua tutti dormono profondamente
sopra la notte stesa da monte a monte si può scrivere con
il pennello rosso
e
Mirage 4000 (France)
FSG (Usa) prezzo 4 miliardi
F 16 (Usa) abbastanza imponente per scoraggiare
abbastanza forte per vincere
trattasi di aerei per il combattimento
dal 1946 a oggi 120 conflitti aperti per il mondo.
ci sono più mitra che ombrelli.
Gli elicotteri si abbassano
cercano i dispersi
con le luci
cercano cercano.
Cercano u’ leccasapone
57.
Con astuzia
si può battere la concorrenza
e ottenere il pagamento in contanti.
La città è ferma le fabbriche chiuse le
scuole deserte.
La neve è una montagna di sogni.
Anch’io mi appisolo dentro alle foglie circoncise
e allibisco teneramente. Mi perdo
ad ascoltare.
Il rumore dei sogni.
I carri armati hanno smesso di andare
e dormono come cani
il mondo è veramente silenzioso
non cade neanche una bomba
Ho fatto un sogno
58.
Ho fatto un sogno dentro gli antichi segni.
Un amico mi salutava non con
la mano ma abbassando gli occhi. Giovane,
veniva da lontano. Ma ero io che partivo
io ero il battitore libero con foglie d’oro sugli occhi
il muratore incalcinato il trottatore sgarrettato
dentro al recinto camminando a ritroso
ero spaventato non rispondevo al saluto
partivo non ri-
tornavo
gli alascià pascolano lì vicino affondando il muso nella neve
nero era anche il carbone quel giorno
aspettano
me che mi sdoppio appena in concomitanza a una canzone
di Catharina blonde
59.
Catharina Blonde dice guarda
Il piccione gigante ritorna
porta in volo Pierrot lunaire
che parla non canta
oh voi cittadini di Spatt guardate nel cielo il
guardate il fuoco si avvicina si rinnova
mi accuccio
Catharina parla del futuro.
Nella sua mano
in cima all’albero una gazza mostra l’oro
rubato a un pastore africano.
Gli svincoli nell’autostrada sono chiusi al
traffico causa neve
60.
Le case dei minatori
vendute ai cittadini (come seconda casa)
erano allineate sulla collina di legno cia-
scuna con la veranda per sedere
un’ora al giorno nella stagione del vento dal mare. Che confonde l’afa.
L’eroe eponimo
chiuso nella palestra di ghiaccio
conversa senza urlare
con le vecchie signore sorde trascinate dalla corrente
e
sorride appena
come si conviene a un gentiluomo.
Mi salveranno le acque vicino a casa nostra.
Arrivarono poi altri uomini dallo spazio
61.
Arrivarono.
Uomini.
Altri uomini.
Arrivarono altri uomini altri uomini altri uomini
uomini dallo spazio portano notizie così
agli uomini della terra
non salute
ma guerra.
Quindi l’aereonave ripartì.
Vorrei solo dormire.
Dio com’è bello morire se scegli di dormire sognare
su scogli terrestri irti di punte
taglienti e un vento
che neanche si vede
in un vicolo fra i grattacieli
dove due gatti
guardano le banane fiorire da un
seme piantato nella spazzatura
62.
La mia preoccupazione era quella della noia.
Che la giornata fosse una piccola noia
simile al volare della mosca
in una stanza dimenticata
le veneziane abbassate
il pomeriggio
di un giorno d’agosto
il sole cola morchia di cera
nella pancia di una vacca squartata
e
mi dispiace (naturalmente) in-
dugiare nella noia
di fronte a un problema tale
Catharina canta la seguente canzone
……………………….
……………………….
……………………….
aspet…. [aspetta me]
non lasciare… non… [non ancora]
mi fa gola
questo ghiaccio
che tieni al braccio con un
nastro (psichedelico)
un nastro modesto
63.
È precipitevole (cara Catharina) l’idea
che correndo si arrivi celermente
a un qualche
approdo
da qualche parte
sotto un pergolato che protegge dall’ombra e dalla neve
ho smesso di ricordare
una fila di uccelli migratori
mi porta l’ebbrezza di una
sabbia africana.
La neve si dispone nell’aria
e la coda degli uccelli trascina piccoli diavoli infuocati.
Ezechiele dice di un giorno:
tu mi attendi
o mi attendevi
64.
Ezechia dice di un giorno: questo è un giorno
un giorno pieno di veleno è un giorno
dice è un giorno pieno di calamità di
rimproveri e di bestemmie.
Dice: un uomo che canta così non può essere
del tutto cattivo.
Grandi spazi erba
(foreste incorporate)
mi guardo allo specchio mi palpo
la faccia a destra sinistra il profilo
penso che si può cominciare. Tempo
di mettersi in azione.
Ma sibilava il laser
Inducendo
piccoli sobbalzi
per un piacere appena sottratto alla luna che
per antico pelo era
a friggere frittelle.
Lì stava un poco ansimando
65.
Mentre mendico sotto l’aria innevata un’ultima
ora di riposo trascino una piccola ombra di stracci
perché riflettere sul presente è una necessità. Non
sono mai stato vivo tanto quanto dentro a questa morte
mi dichiaro libero e soddisfatto (moderatamente) men-
tre funerali solenni a Kingston
stabiliscono per Bob Marley un silenzio in arrivo.
Suonano i Wailers
il mare è pieno di barche frantumate da pietre che non si vedono
il cielo è segnato dalle grida grandi di uccelli
cammino sotto l’aria innevata
dentro la Mini del ’73 ascolto
battere l’orologio al polso di Catharina
blonde.
Marley si china sull’arca di Kingston bruciata
dall’estate sa che non
può cantare
più
66.
Vorrei tornare bambino vorrei tornare
con le penne di usignolo calde
vorrei
vorrei essere
vorrei essere solo
vorrei essere solo a giocare nel cielo profondo di questa Emilia
antica
vorrei cantare sono
io sono
sono io
Potevo andare esploratore in Africa
Vorrei tornare bambino vorrei bambino tornare
perché gradisco l’estate e soffro l’inverno
vorrei avere le scarpe con una armatura che richiede intelligenza
per camminare nell’inferno
e da lì ritornare
ma a metà della mia vita
potevo andare esploratore in Africa
Vorrei ritornare bambino per-
ché soffro l’estate e gradisco l’inverno
camminare all’inferno con
un’armatura che richiede pazienza
camminare all’inferno
lasciare alle spalle l’inverno
Il tormento dei ricordi
i rumori sono tutti tuoi se li ascolti
quando la città dorme e
l’inverno è una farfalla seguita dall’ombra di un bambino
che chiama la città
spenta nel sonno
Nell’inferno cammino dentro alla alla…
Mi ascolto con impazienza ho poca voce per chiamare.
Mi allontano verso l’inverno. E l’inferno
dei suoni
67.
Navigo sotto l’acqua sopra l’acqua l’acqua del
fiume Missouri del fiume Po
le rive bianche
nevicano piume di cotone sopra le tende degli
uomini fermi a pescare
mi alzo mi allontano Catharina scende sul ghiaccio
scivola
è una farfalla appoggiata al muro
o ritagliata da un manuale
Tutto era cominciato per giuoco.
Semplicemente
i miei segni sono un soffio di vento alzato da
un sasso che spegne una candela
e vorrei disporli per l’intitolazione così
modesta versificazione resa necessaria all’autore
da private incombenze
e disposta per un chiaro di luna
per alcune candele spente e per la centrale
nucleare di x che sarà abbattuta
nevicano penne di cotone
Catharina piange con dolcezza guardando il cielo
68.
È per Marx che mi appello
contro il muro a Rivabella
lungo il Po (come ho detto).
Il mare mangia sabbia
lì ferma la corsa. Ha rabbia il mare
scompare dentro le foglie e carcasse di barche.
Le ginocchia di Catharina sono di ghiaccio.
Il fuoco della banchisa si spegne sotto l’indifferenza dei
cieli
in cui anch’io soggiaccio
e ci sono
i veli strappati di Venere e Marte duchi di ferro
Tu vedrai più mondo – le dico –
di quanto ne ho mai visto io
ma intanto io ho visto più mondo di te
e taci.
Quando ero giovane per le strade coperte di polvere
correvano i cavalli
nei silenzi neri della sera
69.
Una giacca colorata.
Finalmente ho la giacca colorata.
Cercata ricercata da tempo.
Indossata con cautela
ma nel chiuso di una stanza.
Riposta nel primo cassetto.
Finalmente indossata
ho la giacca colorata
ma non sono un buffone.
Adeguo la mia opinione (e la mia ombra) al passo del tempo.
È il gigante equilibrato e sapiente che la-
scia margine alla sopportazione.
E io non sono. Non sono
70.
Su queste ginocchia di miele appena sfornato
sono un gatto perverso un gatto molle
che nell’antefatto o nell’attesa
cammina giulivo
lungo prati elisi dopo il passaggio dei carri
e si dimentica di Melfi e Lucera
a favore di Parigi
è stato così che la notte sopraggiunta all’improvviso
mi troncò di netto
sulla bocca
il riso
Sono
un oggetto solitario disperso
costretto a passeggiare lungo quel fiume di notte
senza lume.
Il cuore batteva
71.
Non è bello picchiarsi col proprio padre
ma perché si arriva a questo
in quegli attimi in cui
non riesci più neanche a parlare
con chi ti ha fatto
intanto inseguo l’acqua inseguo la neve
la neve è inseguita dalla lepre la
lepre è inseguita da un cane
bianco il cane bianco si apre il varco
mi apro il varco e non lascio traccia
sono amaro non lascio traccia
dell’altro anno che
ero appoggiato con dolcezza
alla stanga del recinto [in luogo isolato]
Le luci della città sono laggiù lontane
sono [mille] luci
pascolano i televisori con occhi che fiammeggiano
72.
Non è il mio caso
perché a destinazione non ci sono mai arrivato
Me ne andavo a Campostella
massacrato sulla sella di una Kawasaki
dalle mani di un furfante.
Era lui che mi portava.
Io tacevo.
Scoprirlo è un impegno ma intanto
mai più di un giorno
73.
Cuore cuore povero zizzolo molto povero di cuore
se ti imbatti in un passeggiatore solitario
(ma non è un filosofo) che può dirti
queste parole fra la barba
credevo che tu fossi un’ombra è per
questo che ti ho urtato
rispondi sono stato paziente
posso ancora una volta sopportare
una piuma che è caduta da un piviere in moto di
migratore
e m’ha ferito all’occhio.
Posso ancora sopportare perché
corro a liberare Pinocchio
dalla pancia di una balena seduta
sulla rena di Silvi
(per concludere che c’è ancora molto da fare nel mondo)
[E io polvere perché non mi ricompongo?]
[Sento che ciò accadrà]
74.
Un viaggio non finisce mai.
Sono sobrio appoggiato l’orecchio
al cuore di Catharina non sono addormentato
non sono.
Il viaggio cammina e cammina
la neve
la voce goccia per goccia scivola lungo il vetro. Catharina:
Cosa sarà di me?
Mi fermo e aspetto.
Le foglie stringono nuvole che non hanno latte.
Temo la pioggia
sulla strada un uomo
conta alcune pecore cadute ai suoi piedi.
Vedi com’è lontano il piacere di vivere quando
incombe il bisogno
qua volto la pagina del libro
ricomincio a scrivere a leggere a pensare a lamentare
daccapo
devo stare molto attento al vuoti di memoria
sgombrare dal cassetto gli anni vissuti con le relative an-
notazioni
75.
È Bob Marley che aspetta col suo cappuccio di pezza.
Scancellate da una gora d’acqua le brevi passioni recenti
è con Bob Marley che aspetto
legato al suo berretto di pezza.
Se i Wailers suoneranno la band non tratterrò le lacrime
lei era un tipo da far martellare le tempie
ma gli occhi di Catharina in
questo momento hanno il colore della cravatta che
pende vicino alla finestra.
Non so cosa altro dire perché tu sfuggi e ridi.
La grande meraviglia della vita
si inchina al cielo dà un suono di pioggia
è la notte di natale
ma piangono anche gli angeli sopra le loro piccole colpe
e non ricordano più
che a primavera perderanno le piume.
Adesso rompo il silenzio con i colpi del cuore
animuccia ti prego non lasciarmi più ricordare.
Queste città quiete in apparenza
sono da bruciare
76.
Re della foresta della tempesta e re
della festa nella foresta mentre
la tempesta un poco si consuma oh re
della lunga ferrovia che porta la gente via dal gelo
e il colore dei piccolo nano e dello jodio e
del sacco a pelo su cui piove il gelo
dell’inverno disastroso e maciullato oh
mi sono messo a vivere non avendo più vita.
sono ritornato impaziente.
Mi lascio trasportare almeno per il momento
questo paese dentro alle mura è illuminato
sono un palo della luce picchiato dal martello.
Poi mi è venuto il pianto
77.
Come stava Veronica?
Sempre lo stesso sole.
Un gruppo di uomini fermi mentre una luce viva
illumina il cinema
sempre la stessa neve.
Una foglia ancora bagnata è caduta
È caduta sul cuore
ha detto non eri forte non eri giovane?
Lo sono è la mia voce che parla
Lo ero è il mio intrepido cuore
Torna libero dice la foglia
Sono così lontano che non posso più guardare il mondo nei dettagli
mi accontento di vivere un poco anche per lui
la foglia è spazzata da un vento
io resto cane
davanti a una casa.
Guardo la strada.
Seigneur, quand froide est la prairie
78.
Non puoi aspettare le barche.
Fra pochi giorni cominceranno le piogge.
La neve sarà spazzata. La neve.
La neve.
Non posso aspettare
Poi mi è venuto il pianto
79.
Anche la tristezza della sera è venuta
il freddo della neve poi
la speranza una vera speranza
è venuta
ho anche sperato ho sperato
un poco.
E la disperazione
è stata completa.
Ma non dubitavo di vivere
ero felice
80.
Così [è finita]. Qualcosa ha avuto fine
81.
Alla fine dell’inverno.
Alla fine dell’
inverno.
Anno dopo anno
inverno dopo inverno.
Alla fine dell’inverno.
…………………………………….…..
IL TEMPO DEL DOLORE È FINITO
…………………………………….…..
…………………………………….…..
…………………………………….…..
[le altre pagine sono andate perdute]
Parte prima [82/163]
Fuga dei sette re prigionieri
Note
– Grazie per il monaco pazzo (p. 123) è un riferimento a una poesia (una rosa) di Pasolini che mi coinvolge;
– Roberto Andrews e la moglie (p. 177) sono i personaggi di un quadro di Thomas Gainsborough del 1750 circa, ora alla National Gallery di Londra;
– Soldati e mendicanti fra i ruderi (pp. 103, 128, 163, 164, 165, 177) è un quadro di Alessandro Magnasco, dei primi decenni del ’700; ora in una collezione privata a Brescia.
82.
Amico, se passi per Bologna
la donna con le mani protese braccia protese
contro il sole fra una nebbia che esalta
rossa l’astuzia della sera
il capo reciso fra le mani.
La città natale nella nebbia e il sole
fra le mani della donna nella nebbia
lo sguardo è la tela
sulla barba del vecchio
legato alla città da cui non si allontana.
La donna con le mani con braccia protese
una campana si espande pratica d’acque nel silenzio
dell’inverno
nell’inverno lo stile è tutto
lo stile barocco fondato sulla
razionalità della scuola emiliana
le
83.
le erbe emergono in gorghi
si compiace la bagnante nuda
di esporsi al sole fra erbe
melliflue avare
lontani confini attendono il volo
il silenzio in questa occasione fondo
luci splendono rosse
è
84.
È nel blu del blu la guerra dei mondi
che annega
o sopravvive in barche che remigano
da riva a riva
i fuochi dicono aspettami
uomini gridando
il mondo è quasi simile
all’estasi di un amore
entra nella caverna a decifrare segni
in barche che remigano
quando
85.
Quando ha sentito grattare ai vetri vetri incrinarsi il
freddo sciogliersi si scioglie il freddo la sabbia
d’Africa l’Africa cade sui capelli
i plurisecolari pensieri intrecciati ad alberi arbusti
qualcosa si consuma che andava perduto.
Di queste cose non ho saputo più niente.
Visto la luce del silenzio dormire sull’acqua.
Perché lasciamo perdere le parole?
Guarda dall’alto il fiume adattarsi a libro
segna il nome sul sasso
il poema poco per volta è composto
diventa presente, un fumo
un toro impazzito dentro al cerchio di fuoco
lavora
86.
Lavora una talpa nel giardino degli acquazzoni d’
aprile mese crudele.
Aprile s’affaccia, brucia, brucia le foglie appena,
sui fogli scritti appena scritti.
Così calmo. Anche il mese crudele. Si spegne.
Aprile viaggia su strani arcobaleni.
Saluterà la terra.
Ciò che lui ha detto ha fatto. Così è scritto.
Lascia cadere parole
un uomo vecchio alle spalle le raccoglie piangendo.
Sul nome di antichi poeti le rovine edifi-
cano pietre edifica il tempo.
Oggi piove.
È sereno.
Il mese sereno crudele
scioglie le montagne del tempo, il fiume è
neve.
In quell’estate i giorni con pause impenetrabili.
Racconta per telefono notizie della guerra
era
87.
Era il 1988 un re
un poco scaduto ma
non gli dolevano le braccia.
Poteva nuotare per ore, di notte
guarda i vetri toccare le nebbie in un lampo
il caldo si stende sopra le pietre d’agosto.
In quest’ora i campi si offrono alle
luci che vanno.
Pensava di comperare il poster sulla Bugatti
macchina celeste nell’antro della sibilla
ma bagliori annunciano guerra di vulcani
gabbiani spaventati
non si fanno guardare da vicino
volano nella discarica dopo la collina
e la parola esce gocciando
con questa lentezza di cose che si tendono
per confondersi
poi
88.
poi ha condotto la battaglia secondo le regole antiche
per questa ragione fu travolto
vecchie corazze
cavalli fiutavano il vento
prima di morire
fu impossibile per lui prevalere
ho visto l’ombra fra gli alberi
lasciare impronte che non sfuggivano.
Era una sera di luna non avara di suoni
ordine
89.
Ordine di sequestro e sparizione.
Si piega a volte per ascoltare il cuore
che è un violento pomodoro gigante
– nasce da questa terra nera molto lontano da noi.
Altri segni lasciati dall’aprile
sulle mani tracciano dipingono i muri
dietro le pietre nessuno si nasconde.
Gli elicotteri che voce fredda hanno
indecisi sopra la piazza
cercano fra le ceneri di una parola
la sua smisurata iperbole
che non nasceva dal terrore
non vogliono perdere nulla.
L’incendio si è spento la radioattività cala
nel regno delle rondini e della tramontana
e invidiavo
90.
e invidiavo con tenerezza
quelli che come Orlando dalle mischie
s’alzano con la penna che luccica – e senza sangue.
L’acqua ha una strana architettura.
Le parole infoltite s’aggrovigliano come pecore sorprese dal-
la paura, di notte i fuochi si alzano e crepitano
sulla cima degli alberi nella montagna abruzzese.
Soldati e mendicanti fra i ruderi
le idee confuse sono la
confusione della storia (in quel momento)
mi accorgo ma non in ritardo che occorre soffrire un
poco avere ancora pazienza.
L’acqua ha una architettura di calce galleggiano
i tre corpi che vengono da lontano
solida
91.
solida come il muro di una casa
è la rotonda la cupola di una chiesa dimenticata
fra i fumi.
La ragazza in rosso l’uomo in nero
passeggiano col cane al guinzaglio
il cane morde le vipere dipinte in blu
dal nipote di Picasso –
dietro il cancello della fabbrica chiusa per ferie
lei lo abbraccia vicino al passaggio a li-
vello incustodito fa segnali coi piedi scalzi in-
forca occhiali da sole.
Cosa si può fare dei baracconi da zingari
abbandonati lungo una siepe fra l’erba?
L’uomo flette la mano
verso il canale bagnato da papaveri
che si spengono in quel momento
nel purgatorio nero
chi mi vuol bene
92.
Chi mi vuol bene
deve dimenticare i giorni passati
cercheremo di non compiangerli troppo.
Il grano è ormai verde ma
in quella carovana di zingari sotto il ponte
erano ottanta e sono rimasti in dieci
– anche da noi in famiglia
oggi il natale si fa con un pezzo di pane soltanto.
Gli alberi
si sono piegati durante gli anni di guerra
quando il campionato di calcio era sospeso.
Le parole allora scaldavano come la lana della pecora.
Ho contato fino a cento le ombre scomparse
le parole
93.
Le parole la lana delle pecore
parole disperse fra le case fra i
fumi della notte lungo acque
ribollenti e
gli uomini vicino al biliardo con le mani ferite
senza parlare.
Al bordo delle strade le roulottes prendono fuoco
s’aprono voragini
ciò che accade lo vedo anche a colori alla televisione.
Il terremoto aggredisce l’uomo che dorme l’uomo
seduto davanti allo schermo con gli occhi dentro paesi lontani
o mentre la donna dice dovresti dimagrire un poco
se vuoi indossare i vestiti dello scorso inverno
non muovere le mani mentre parli.
Le petroliere a filo del mare
una montagna
94.
Una montagna di neve/erba una montagna d’oro.
Conosci l’odore del sole? del sale? del miele?
Dove succedono le cose cominciò a nevicare il giorno ventotto
agosto/gennaio e nevica nevica nevica
cominciò un cavaliere armato a sperdersi fra gli alberi
delle foreste e fu divorato dai cani
selvatici i cani urlano mentre cresce la
luna sul ghiaccio. Oh bianco il mondo
bianco da est a ovest da nord a sud bianco la nebbia
si scioglie fra canne di laghi profondi infernali. Mi sono
anch’io mi sono perso e trovato
sasso piuma caduto per terra all’improvviso rialzato
con poca voce
là dove autunno si annuncia fra le nubi regine di luce
la vita non sempre terribile sa anche aspettare
era una brava
95.
Era una brava persona una persona, era
una brava persona
quando si andava a scuola dopo è talmente cambiato –
rabbia rabbia esplodono fra la polvere
le lattine coca cola sul ripiano del bar
è la voce dell’ultima fabbrica
a riempire il mondo di canzoni a
giocare con il turno di notte. Avanza
un ferito da chissà quale lotta dice
nessuna commozione
in quegli anni scesero sulla pianura per-
fino gli orsi
e i lupi oltre che i mostri voraci
mentre attendiamo piccoli prodigi al principio dell’estate
le mani sopravvivono all’inverno sul fiume Po
lentamente
96.
Lentamente
i giorni mesi anni piccole ore i minuti
tutto di nuovo detto
era scritto con emozione
di una ruota sulla strada
l’orma
il segno della frenata
le impennate di un pensiero che non si conclude
il volo di un uomo con le ali di Icaro
– potrà avere fine il libro.
Prima, eppure così
ravvicinata, c’è una lunga giovinezza da
considerare
la falciatrice sul prato
poche cose per pochi
nella casa fra i pioppi/betulle
al lume di una lampada ad olio (ancora)
la mano stende il velo d’inchiostro. Segna
Dama
97.
Dama – dist Bovo – entendé mun Talant.
Ottobre, october pensare le cose
fra la polvere delle cose consumate che
si consumano poco per volta
– le cose lungamente consumate –
ieri (forse) qualcosa si poteva fare
ma oggi non si può fare molto. Le
occasioni diminuiscono le occasioni sce-
mano. Le persone. La falce.
La luce degli occhi viene dalle caverne
fra le foglie prendono il Tavor e chiudono gli occhi.
Le parole una per una cadono dentro al cassetto
il tonfo è secco
per rivolgersi al miele delle parole al loro suono il ven-
to invernale non grida, arriva. Aspettare
non ha portato
98.
Non ha portato niente.
Commisurare gestire pretendere cercare il
pellegrinaggio fino ad ora non ha portato che sabbia.
Nessun lamento
ma questo andare da secolo a secolo verso
un’età avanzata
con biondi rossi bianchi capelli e lei sull’
asfalto
l’autostrada in quel momento deserta
un camion scende dai tornanti di nebbia
vetri brillanti nell’aria che brucia
in questa occasione il catrame fra l’odore di un bosco.
Non ha portato niente non
mi posso lamentare tutto
è cominciato cosi
tutto
99.
Tutto comincia così
da qualcosa che brilla
un vetro in movimento
l’asfalto brucia perché inverno è lontano
– dio, pensa il guidatore del camion, ho
dimenticato le chiavi come farò ad entrare?
In quell’occasione c’ero anch’io
anch’io a guardare osservare commentare
anch’io appartenevo al mio tempo
non potevo scendere facilmente dal camion (per
ragioni di sicurezza)
ancora tutto da fare, da imparare.
Dentro i venti navigano gli uccelli che migrano
impiombati fra Scilla e Cariddi
dalla morte che viene e addio
i bracconieri sui tetti d’argilla
fingono di dormire
le piume volano calano
lontano romba un cannone le navi si chinano sul mare
occhi ascoltano
100.
Occhi ascoltano voci
vedono brulicare le auto sul viadotto le vespe impazzire.
Povere cose in fretta scompaiono
ma non mi puoi imputare nulla di concreto
se non la distanza e non incontrarsi mai
è impossibile l’amicizia forse è impossibile essendo l’
uomo ormai un vuoto a perdere su spiagge calamitose.
Le bandiere si dimenano per richiamare attenzione
ci rivedremo da qui a cento anni? non
è meglio salutarsi nella prima ora del tramonto
in un luogo appartato dirsi
addio
soggetti a violenze concrete ciascuno per la sua parte?
Qualcuno si ricompone sulle onde del desiderio
con occhi che ascoltano voci
i piloti sono fermi con la visiera abbassata
le statue di gesso nel parco piangono gocce nere.
Vorrei avere
101.
Vorrei avere molti libri da
leggere. Ancora. Tempo davanti.
Libri con segni sconosciuti
vecchie tipologie polverosi
libri trovati nel ripostiglio di casa
odore di tonaca e di cera davanti a una chiesa
sull’argine del fiume sulla
balaustra di un ponte di ferro fra paese e paese
– aspettare un foglio portato dal vento dentro alla stanza.
È più facile che una voce si conservi sotto la neve.
La cadenza è
102.
La cadenza è quella delle pietre
il respiro della peste la peste può sopraggiungere.
È inevitabile dicono:
ciascuno corregge il destino
precipitosamente e
come un albero divorato o un ramo scalzato
non senti invecchiare il cuore dentro di te?
Ciò che àura lo affonda il passo dei viaggiatori senza meta
quando escono dalla nebbia e trascinano i fiori.
Sì, partendo dalle ciliege
si può arrivare lontano
come polvere
103.
Come polvere che si disperde
perché le città resistono all’incendio
ma non le singole pietre non la pietra su pietra. Non il sasso.
E l’uomo ha troppe morti da consumare
per sceglierne una sola.
Il camminatore sui monti
lui si salverà
il notturno navigatore dentro le acque
mentre gli orizzonti si chiudono
le città aspettano aprono cigolando le porte
eppure
104.
Eppure
inquadro le città sparse con la paura del fuoco.
Gli aerei passano a filo dell’acqua in quel braccio di mare
arrivano lettere sottoscritte alcune telefonate una voce
la vita poco per volta si ricompone inseguendo i segnali
potrà
105.
Potrà essere (forse) abbattuto da un dardo.
Sull’asfalto il viadotto rotola insegne d’amianto.
I tir austriaci inseguono
da sponda a sponda l’orma di case in fuga
la giornata è scossa da alcuni presagi.
Chi l’avrebbe detto dieci anni fa?
Parlano a voce bassa
immobili ad ascoltare
vorrei parlare anch’io con la stessa esattezza
un povero si accascia alla stazione di Padova
un ricco scende dall’aereo personale
ciascuno comunica all’altro io sono
lascia a me lasciami una parte del cuore.
Damiano Allegretti operaio di anni cinquanta si è
ucciso facendosi decapitare
da una sega circolare
scorreva il sangue fra champagne a fiumi
Dino Campana, da Marradi, sapeva
arrivando a Firenze alle sette di sera
dove trovare i poeti al caffè
celebrati illustri di penna sapienti
caro Campana così inzaccherato
strappa fogli lacera carta brandelli
butta segnali dentro l’eco di un’ombra
esiste una immaginaria porziuncola interiore
Campana mio puoi affilarci la spada.
Licenziato dalla Fiat, abbandonato dalla moglie dai figli
Damiano Allegretti operaio
i sassi
106.
I sassi danno una mano
a fermare le carte
dalle finestre delle case la città
dorme sull’erba della periferia.
Un ponte mette fine a ogni attrito
oh Sicilia Sicilia
ti sei lasciata bendare e dimenticare.
Il nostro orecchio è per la tua voce d’oro – un tappeto d’
erbe domenicali.
La città si innalza tetragona infiammata
l’uomo in blu ha impresso il pallone sulla maglia
vede apparire fra i vetri
una mano sul marmo della discoteca che dorme.
In giorni illuminati dal faro di qualche parola
seduti non ascoltiamo
da altre
107.
Da altre montagne discendo, altri sentieri
in altri fiumi annego
un’altra vita muoio
non lascio un’ombra addio
sotto l’albero di mille anni
l’estate non ha bruciato
posso dialogare con l’inverno
con la sua neve
al fuoco dell’inverno neve di primavera
e com’è lontano il tempo dei soldati che ritornano
il tempo dei fucili buttati fra la spagna.
Com’è possibile non guardarsi negli occhi
anche a distanza?
Lo sai tu che la penna invecchia la vita si perde
ma la parola detta è consumata solo da un orecchio buono
polvere
108.
Polvere dalla fabbrica che uccide il Reno
acque di lacrime veli
funebri legati a
scandagli in terre secche
cumuli precipitosi di sacchi
le discariche al limite di un pioppeto
– mi consumo per vedere
nell’attesa che un inferno immensamente rosso
mescoli sole sabbia dei paesi senza più uomini
alle macerie dentro le case
alle porte sbarrate
le finestre invece gridano può ritornare
finita
109.
Finita l’estate la città si spiana
il cielo ciclopico schianta l’ala di un aereo bianco
che si inabissa e noi, addio,
forse un altro anno ci incontreremo?
Ci trasferiamo dalle pene d’inferno alle pene del cuore
con ironia – il cuore è un deserto con l’acqua che scorre
da foglia a foglia intanto
in una splendida Bologna
ho contato sacchi di chicchi di grano
di mais orzo luppolo zucchero neve.
Vedremo la città d’oro apparire da lontano.
Quando le persone amate vanno via
ognuno le segue con gli occhi fino all’ultima cur-
va addio
grazie
110.
Grazie per il monaco pazzo di mezzo inverno
imbucato in caverne tombe che tocca la volta col dito
per forare il cielo
– potrò vedere di notte i voli dei giovani
pipistrelli
perdersi nello sfascio dell’orizzonte?
Si ascoltano segnali incerti
dimenticate parole
l’informazione
riguarda il ricupero soldi di un sequestro di persona.
– Un aereo di latta è caduto col muso nel deserto
– panni bianchi volano e s’interrogano
– due stranieri stridono inseguendo ombre nel sole
– com’è piatta la pianura
quando nessuna tempesta è all’orizzonte.
Piangerò se è necessario farlo, senza vergogna.
Ma non dimentico il riso se il cuore
può distendersi al modo della barca che fischia prima di
partire
le verità
111.
Le verità sono diventate impossibili
ma i giornali
parlano di una nevicata nelle province siciliane
dove la mafia è indenne da ogni sacrificio di sale.
Cerco una sorella che si chiama amore
tu sei un fratello che si chiama libro aperto
in entrambi i casi nessuno può scomporre
il dare dall’avere, l’infelicità dalla noia
il passato da un presente che rotola
superbamente rumoroso
frammenti d’ossa verso il mercato delle pulci.
Questo ci può salvare.
Il morto sull’autostrada dice saluta sorridendo la vita
la finestra
112.
La finestra aperta con la figura umana senza braccia,
gli occhi forano la sera.
Potendo vedere le cose senza vergogna
allora si vive ma dove l’asfalto brucia
qualcuno può dire come collocarsi nel nuovo mondo?
Salutare gli amici è un compito ingrato
chi non ha amici è liberato da un vincolo che rende
amara questa necessità.
La terra si spacca per la calura
mentre il tempo aspetta una pioggia
– l’uomo disteso non interessa più nessuno
perché ha finito la vita sua per sempre
inverni
113.
Inverni alle spalle ma quante estati lo aspettano ancora?
Riserva ogni speranza a domani
giuoca sul concreto
butta la lattina vuota. Non sentite il tuono?
L’estate comincia a declinare ma
non si affanna, riceve suoni e impara.
C’è un uomo che scrive ma la paura della vita la
paura della morte la paura della notte – le
lunghe insonnie le trascorre gridando contro la luce
che non arriva.
Il sonno intanto trascina lontano il suo carro.
Oh Bologna
calda di torri diroccate o di ombra di torri
ha il pianto delle cicale sgozzate conficcate in gola ai maceri
della pianura
città sorella alla brace alla pioggia alla pietra
cammina nel silenzio d’autunno
mentre i nobili nel casino di caccia sparano parole.
Vivrà mille anni ancora aspettando il passato
l’alba
114.
L’alba non mi sfuggirà
e il suono che non vuole finire
mani alzate braccia alzate Jimi Hendrix arriva
con le babbucce di feltro
non lascia segno il suo andare venire
visi occhi suonano strumenti dimenticati
si lasciano accarezzare
la terra è piccola per un futuro
che non può imprigionare la mia ombra.
Ah madre quando parlo delle nuove battaglie
solo tu mi sai ascoltare – il dolore è una lepre che corre.
Ordine di sequestro e sparizione
non ho saputo
115.
Non ho saputo leggerti mano avara.
Circondata dai cunicoli dai labirinti della vita
e da petali che così osannano
io sono un campo d’autunno
soldati e mendicanti fra i ruderi
– figura esclusa
dal gioco. Lei sola può. Lei è vestita
dalle carte, dal gioco dentro quel raso aperto
con gli occhi da greca.
Al limite di una foresta
nel silenzio sacrifica a un dio.
Nella polvere delle frane
cambiano corso uomini e donne in fuga
– tutto è rimandato
brucia
116.
Brucia Sicilia Sardegna
brucia Calabria
da bosco a bosco da uomo a uomo
brucia l’ulivo
guarda il fuoco del bosco l’acqua il bosco
qualcosa nel fuoco apre la pioggia
fantasmi sui tetti
aspettano i secoli
toccandoli col dito.
La terra di tombe appena scoperte fuma nel suo inferno perduto.
L’urlo dei maiali nel silenzio del mare
quando è l’ora di strappare le stelle prima del sonno
ma più
117.
Ma più dei suoi occhi
ricordo il lampo della spada
prima di calare con un respiro s’alza
ho visto uccidere un uomo
– non c’è violenza che nell’amore
– la fine della vita è un sogno il sogno
si cancella nel pensiero.
Il tempo
usano il veleno il silenzio il labbro
della commozione
la quantità di querele l’inutile lamento
parlano parlano parlano
l’ora
118.
L’ora per me solitaria.
La fatica per me di decidere.
Guardavo chiudersi il giorno.
Il primo pensiero è spento
inghiotte la saliva con
una grazia mescolata alla
splendida malinconia. Anche un camminatore sogna
quando è l’ora di ascoltare i fantasmi.
Fra ragnatele d’api e uva scoppiata
per il calore, fra
api lente e impolverate nel divagare
vibrava la lingua della ragazza
che si attacca alle canne
spreme un singhiozzo essa che
è nel mistero di un villaggio perduta.
Si ritrae lascia l’ombra neanche un saluto per
cancellare i segni per ritornare al silenzio
un’urna da riempire di cera. Tacendo
ascolto il cristallo rompersi
sotto il diamante di una parola che lo incide.
In quell’istante un cane è schiacciato da un tir
fu il guizzo
119.
Fu il guizzo d’Arlecchino
a portarmi sopra una nube là dove appurai la seguente canzone:
con i vecchi si fanno discorsi da vecchi
ma non sempre con i giovani
si fanno
discorsi da
giovani
inoltre conclusi che
come minoranza devo tutelarmi, oggi
(sarà oggetto il proponimento di prossime indiscrezioni)
leggi un poco
120.
Leggi un poco dovunque
non stancarti di chiedere e parlare
– nei film gialli di gansters americani
la vittima inseguita imbocca un vicolo stretto
e laggiù in fondo c’è un muro
un muro alto un muro insormontabile un muro
con cocci di bottiglia
– la tensione è ricomposta da quell’ostacolo invalicabile
che si avvicina
mentre nella fanghiglia brulica un fanale
vedere
121.
Quelli che. Quelli che si imbiancano la barca
quelli che strisciano sul legno
così che la parola fuoriesce gocciando
con questa lentezza di cose che si tendono
per confondersi. Gabbiani spaventati
non si fanno guardare da vicino
volano alla discarica in alto sulla collina.
Come gli uomini dimenticano il mare
Fra pietra e pietra
122.
Fra pietra e pietra la fila di formiche.
Lucciole impolverate che non sono morte
divagano cercando l’amore
le formiche pensano all’inverno e non hanno tregua.
Foglie nell’aria si dispiegano miti.
Lo schianto in fondo al rettilineo
vicino alla casa dell’uomo assassinato tre anni fa
nell’ottobre dell’ottantasei e
le moto hanno il rumore
123.
le moto hanno il rumore del cuore quando infuria la prima luna
“lei è un dottore?”
lampade gialle sopra il casco nero.
Non è vero che posso mettere la speranza sopra
la tua spalla
come quel libro, sul tavolo, non finito.
Aspetterò l’estate.
È terribile un lungomare deserto
ma è peggiore la pioggia.
La pioggia lava ogni segno lava anche il sangue.
Siede guarda
124.
Siede guarda e allora?
Si può capire il suo cuore se la mano trema.
La sua mano trema.
Tutta la notte alla finestra
ha pensato ai cavalli alati fuggenti e vedeva l’aria impigliarsi
da un nero al verde che promette tempesta
l’aria tirava a fatica un sole giovane
per abbandonarlo poi sopra alberi esangui.
L’aria volava con un cavallo di luce lontano.
Siede guarda e mi ascolti?
Mi limiterò ad aspettare il suo ritorno dal bordo di quel vulcano
che anch’io sorveglio con la pazienza del tempo. Mi ascolti?
Nel regno
125.
Nel regno delle rondini e della tramontana
si piega a volte per ascoltare il cuore
che è un violento pomodoro gigante
– nasce da questa terra nera molto lontana da noi.
Altri segni sono forse lasciati dall’aprile
sulle mani tracciano dipingono muri
dietro le pietre nessuno si nasconde.
Gli elicotteri che voce fredda hanno
indecisi sopra la piazza.
Il materiale accatastato da questo tempo è la parola (dicono)
la sua smisurata iperbole i prolungati
silenzi che non nascono dal terrore.
Nessuno vuol più perdere nulla…
ma avevano naturalmente delle idee molto confuse
Il grano
126.
Il grano è ora verde ma
in quella carovana di zingari sotto il ponte
erano ottanta e sono rimasti in dieci –
anche da noi in famiglia
oggi il natale si fa con un pezzo di pane soltanto.
Gli alberi
si sono spezzati piegati durante gli anni di guerra
quando le parole scaldavano come la lana della pecora.
Oggi ho contato fino a cento le ombre scomparse.
Si contenta di dire
127.
Si contenta di dire le cose enumerarle
non c’è altra occasione per le parole.
Clay Ragazzoni in carrozzella ha un sorriso tremendo.
Forghieri scompigliati i capelli neanche lui sorride troppo
e poi adesso che il grande vecchio è scomparso…
Fumi azzurri salgono dai ragni di formula uno
che corrono fra i prati innevati.
Ascoltano le voci guardano
passare ripassare i colori sull’asfalto
i piloti sono fermi con la visiera abbassata
le statue di gesso nel parco piangono gocce nere.
Ordine di sequestro e sparizione
quanti saranno riconosciuti? Il tempo
forse il tempo non è dei migliori
Ho aspettato
128.
Ho aspettato la tua mano ho
aspettato che si riempisse di vene azzurre
perché questo è il cammino da occhio a occhio prima
che la città scomparsa.
Le porte della città si chiudono
inutile evocare. Gli stadi pieni di urli
bandiere parole – consumo di fuoco nel tempo.
Chi dirà dove il piede si ferma?
Uomini di pietramarano coperti di fumi
indicano la porta della città sbarrata. Io solo posso
ascoltare le voci dello stadio
ho il piede al bordo del deserto
giovani non siamo più così
posso ascoltare le voci che si propagano via
vedere le strade le ombre.
Si può perdere la vita dietro a qualche cosa.
Ordine di sequestro
129.
Ordine di sequestro e sparizione.
È il 1989 se passi per Bologna
una città senza lunghe primavere
può restituire il cuore a un uomo che l’ha perduto
e forse l’odore del cielo solcato dal sangue dei pipistrelli.
So che domani sarà impossibile partire
così vivo abbattendo gli alberi della memoria
e la fatica sarà divisa fra mille.
Chiedo sollievo a una persona
mentre le ombre accendono fuochi prima di sparire
e la città
130.
e la città s’innalza tetragona infiammata
l’uomo in blu impresso sul pallone
rimbalza da pozzanghera a pozzanghera
i corvi sulle serrande dei negozi abbandonati calano le ali.
Vedo apparire fra i vetri
lambire scomparire sfiorare il muro i visi
una mano sulla piaga della discoteca che dorme
mentre la nube chimica arriva minacciosa dall’est
Miracolosamente
131.
Miracolosamente disastrato seduto
su un cumulo di rovine
continua a guardare l’aquilone di luce mentre si perde
in quel nido di venti
l’indecisione non è più completa…
chi lo porterà all’ultima guerra con il suo corpo
prima che la tempesta di sabbia
dentro l’urna dilegui?
Restano orme di piccole capre
per riconoscere la strada
in una italia sapiente per un’ignoranza che non si tocca
povera italia ricca sguaiata con poco speranza
apre le ali è attenta ancora non vola
verso il filo dell’alta tensione
Filo delle case
132.
Filo delle case uniformi e un orizzonte di vetro.
Acquattata fra l’indice e il pollice di una mano dell’albero
la gazza aspetta la sera
il fucile in un angolo ha il cacciatore che dorme
il braccio piegato sul tavolo
la rabbia del cane poco lontano dà la misura
della distanza
(occasione dell’arrivo e obbligo di una partenza)
un uomo si barcamena fra l’arco e i vetri dell’osteria
dove stazionano vitelli di gesso
descrive il giorno come quando ascolta i rumori
che defluiscono lungo correnti a destra a sinistra sempre camminando
prima di partire.
Il flusso
133.
Il flusso del tempo è in movimento
il cavalleggero stramazza e la luce
striscia sull’erba grazie a tutti ciao e
lo inseguo riprendo il volatore il vecchio
con gli occhi chiusi l’elastico sulla fronte dopo una lunga vita
si parte per la guerra si
ritorna dalla guerra ognuno può cantare
la casa è illuminata
guarda il mio pugno vicino all’orecchio
nessuno ascolta se non voglio ascoltare.
Questi suoni richiamano memorie non ancora appagate
il futuro dello spazio è ancora la voce di un uomo.
Voglio dire
134.
Voglio dire il mio desiderio di pazientare un poco ancora
dentro alla polvere del mondo che si consuma.
Giorni col cane nero un piccolo cane
fra i sacchi di grano che respirano nel silenzio.
Guardare il cavallo Nearco impazzito brucare la spagna
in un prato dell’Inghilterra.
Lei, ragazza blu, con i capelli
leggera
cade l’acqua da
occhi che guardano è assorta come in
una fantasia
si vede sulle acque
le canne si muovono
né si volge essa, ammira.
Procede l’alba indugia
il bus alle fermate metropolitane
la periferia è la foresta degli ultimi sogni.
Sobbalza ride.
Scende dal monte una mirabile altezza
per fare l’identikit del trovatore
Gonzalgo Roitz
e della sua voce forestiera .
Incontrato vicino allo stadio dopo
la partita Milan – Real Madrid
lamentava il portafoglio perduto forse rubato
dice che è stato us veilletz lombartz
qe. s fai de son chant trop fornitz
per q’en cavallaria
La pazienza
135.
La pazienza della vita da polvere ritorna sasso
l’incendio è spento la radioattività cala.
Il denaro è poesia – dicono –
molti sono in attesa
Duecento anni
136.
Duecento anni ci separano dalle crinoline.
Il giorno 15 agosto anche l’estate scompare
sembra per sempre. Arriva settembre.
I libri non si giudicano più, si celebrano.
Il lotto 32 in vendita è un orecchino
chi vuole chiudere in bellezza questa
trasmissione deve incontrarsi e
comperare questo orecchino
da favola per trecento ventimila lire.
Un carato di zaffiri bianchi
incastonati realizza il senso dell’
eleganza in un modo espressivo.
Le signore corrono a prenotare.
Vuole andare via adesso? Qua può scrivere tutte le storie che vuole.
L’America è grande
137.
L’America è grande
mille foreste ci sono
una pianta di mentuccia ingiallita dal sole
e le domeniche sono rapide da passare.
Vivremo duemila anni
felice di vivere aspettando.
Costruiscono le case con le auto in demolizione
mentre tutti siamo passati per le armi
e l’elicottero lancia richiami irrora la terra atterrando.
Quando arrivarono
138.
Quando arrivarono i primi cavalli volando per l’aria
eravamo giovani allora
i prossimi cento anni cominciano da oggi
saranno di radicali cambiamenti
– così dice l’uomo cammina in salita
la strada di curve di pietre ricurve
porta sulla schiena un vetro di specchio
il primo sole è dell’alba.
La città silenziosa in verde luce di erbe.
Incontra il secondo uomo
che risale da terra di mare intorno le onde del mare
guarda e cerca fumando la sua ombra.
Quel giorno Jane reporter cade dal cielo
bùttati sull’acqua, bùttati sull’acqua la neve
ancora non è tempo di neve l’oceano
adagio chiude i suoi gorghi.
Nato in Cina
139.
Nato in Cina nel 1907 sono dunque vecchio oramai
mio padre mi ha portato in Italia dopo tre anni
della Cina ricordo un fiume di canne l’odore
di un vento sul sale
l’urlo dei maiali nel silenzio del mare
quando è l’ora di strappare le stelle prima del sonno
– la Cina non ha erba non ha case
non ha cavalli
ho visto da qui a Pechino tre alberi e un uomo
ma perché ho tardato a ricordare
e a leggere nel cuore della mia ombra?
Le cose accadono in una sola giornata un uomo
inquieto nel pugno lo specchio degli anni
una voce un riverbero un segno.
Il monaco pazzo
140.
Il monaco pazzo uscito da un incubo
segue la luce la
rotolante palla che scivola
da cielo a terra e si inabissa.
Guarda dallo scoglio lo spettacolo
l’acqua ribolle di delfini che ridono.
Così sarà domani –
la libertà se manca la cerco la trovo la perdo
il ferro è ruggine prima del giorno nuovo
nessuno è stato ad Atlanta in questo ultimo anno?
metterò da parte abbastanza danaro per la vecchiaia?
stasera sceso dal treno a chi potrò telefonare?
Ordine di sequestro e sparizione.
L’inverno dell’Italia si è riempito di occhi
sotto i ponti uomini cercano aiuto
le notti sono lunghe da passare.
Resoconto
141.
Resoconto dello spegnimento di un lume.
Un colpo di vento
la candela e
lascia la stanza deserta
gli oggetti
ahi! nel mare d’ombra le erbe i rumori del mondo…
Finisce il calvario dell’uccello dal collo di struzzo
contro il cavo dell’alta tensione
la mosca vola senza convinzione
qua e là cerca
la finestra un tavolo la luce che ritorna
fra una montagna di libri
la nave con le vele aperte
ma vedo che il cielo di perde
il tavolo è luce il cielo si perde
mite fra canne le spade le strade la
stanza deserta.
Molti personaggi
142.
“Molti personaggi di quelle antiche vicende sono
adesso, per noi, puri nomi;
e come semplici nomi
li indicheremo, suoni della voce senza che la no-
stra memoria li leghi a qualche nota vicenda,
che abbia oltrepassato i secoli uscendo dagli archivi”.
Inverno. Cadono le foglie si spezzano foglie
non lascerò più nulla d’intentato.
Che occhi
143.
Che occhi!
Muoveva le labbra.
Che cosa diceva?
I compromessi le contraddizioni
– qual era il tavolo del traduttore dal greco?
– la solitudine dei re
– quanti possono tirare un sospiro di sollievo ad invecchiare?
Noi eravamo in opera per l’attesa del regno dell’uomo
così come i cristiani del regno di dio.
In questa speranza che era volontà e progetto della
mente e del cuore operava
ciascuno come poteva e sapeva ma cercando l’aiuto
e non lesinando al compagno.
Caduta questa speranza della volontà
giacche golfini scarpe vestiti; e ori.
La Merica è grande non finisce mai
per avere paura della Merica
devi andare da oceano a oceano
lì sulla riva guardare la schiena della terra che cala nell’infinito.
Dice: le api
144.
Dice: le api volano dalle pianure dell’est
per venirmi ad aggredire alle spalle.
Mi vuole lasciare senza speranza?
Prima di finire nel fango
voglio lasciarmi sbranare dai lupi.
Chi fugge via non esiste
neanche fino a domani.
Uscendo
145.
Uscendo da un
letargo vedo
dopo un inverno
un altro inverno.
Sono partito…
Pioneer
sono partito e addio.
Un generale è arrivato a Palermo per
combattere la mafia
quella mattina a Bologna ho per-
duto la chiave di casa
non potevo entrare
il muro troppo alto la finestra chiusa
il sole il sole bruciava allora
la porta era un miraggio
albero di foresta contro la caverna di Polifemo
ma la mafia è un argomento di tutto
rispetto e penso che il generale
dovrà faticare le sette camicie
per sbucciare quel ficodindia
era
Era il re
146.
Era il re che inseguiva la favola
di Andersen
sfuggita all’accompagnatore.
E quando è notte la saggezza degli indiani d’America
è più verde della
voce di Tommaso
pontefice massimo di Montecassino prima della distruzione.
Il concetto di sinistra
lascia molto a desiderare in questo
anno di legno anno di un lungo fuoco. Il
fuoco ha masticato il ferro
e noi seduti all’ombra delle rive di questo
lago alpino ( la scatenata memoria delle
siepi) osserviamo le ombre che si sciolgono (certamente)
risalendo la facciata del monte. È
un sesto grado impossibile per chi comincia
Vedere
147.
Vedere è meglio che ascoltare (anche Eraclito
lo dice in altro modo o forma). Vedere
il mare (non osservare il mare) è un atto completo
più che sentire il rumore del mare la voce del mare. Del
mare. L’eco del mare. Allora conviene
concordare con Eraclito, in questo caso, non
con Omero che dice il mare insonne.
Le navi di Ulisse corrono verso la tempesta che l’occhio
non vede l’orecchio ascolta i lampi
ogni nave arriva al naufragio al porto vicino il
porto è sempre agognato.
È la voglia di vivere che salverà il mondo
cantano
148.
Cantano a tre voci.
Prima insieme
poi sopratono (mentre altre due
fanno il fondo). Una
voce molto
calda
il mio uomo era seduto davanti
allo schermo. Invece sull’autostrada
saresti solo.
Io non posso abbandonare i miei
amici. Divento pazzo.
C’è un ragazzo di cui non conosco
neanche il nome.
Dobbiamo essere in paradiso! Lo sapete?
C’è sempre un poco di paradiso in
una zona disastrata.
Soldati in piedi appoggiati a un tronco.
Le frecce non sono quelle degli anni verdi.
Non era
149.
Non era la necessità
a sospingere la barca di carta
lungo il fiume ma era il tranquillo era l’azzurro
fiume che spingeva la riva
vicino alle rose così esorbitanti.
Altre rose appostate dietro i cancelli
con le punte aguzze.
Egli si chiama Inverno.
Vive con una madre bianca come la canapa.
Il mondo si scrive da solo sopra la carta.
I villaggi vicini bruciano.
Anche la casa paterna.
Il sonno dei tassi ricorda il medioevo.
Gli zoccoli di due cavalli tagliano schizzando la neve ghiacciata.
Cinque uomini nella campagna
guardano con la testa alzata
un missile d’argento
che vola verso un cielo impaurito
– e quasi spento
soldati
150.
Soldati e mendicanti fra i ruderi.
Quando capitarono le prime occasioni
per scegliere o rifiutare
le penne degli uccelli scesero dagli alberi
volando adagio.
E gli uomini del rifiuto
si ripararono sotto un ponte
a causa di un uragano imminente.
Un vecchio inconcludente è niente.
Un vecchio deluso è un recluso. Ma
cuore ingrato per quelli che aspettavano il pane.
Abbiamo trivellato come dannati per uscire dalla galera
ma ci siamo anche divertiti
camminando lungo la siepe prima di arrivare al bivio
mezza pietra mezza ombra e paura.
C’è odore in giro di cose dimenticate
anche tu esitavi a rifugiarti fra le mie braccia
prima dell’addio.
Un aereo caduto fra le bandiere bianche.
La prima nuvola è un monte delle Langhe coperto di neve.
Neve neve soltanto sognata prima dell’addio o
del ritorno
soldati
151.
Soldati e mendicanti fra i ruderi.
Ho aspettato. Ho dovuto aspettare.
Mi sono anche spaventato ma
il tempo inclemente faceva nevicare.
L’Abruzzo è un poco misterioso e io per caverne e caverne.
Imprigionare l’ombra? La mano che scrive sul muro?
Che odore di fiori.
Lui ripete le parole di lei e tace.
Fa paura la nota che ricerca il tramonto
mentre le spade arrugginite…
vedo le vecchie carcasse di altri soldati emergere dal fiume
soldati
152.
Soldati e mendicanti fra i ruderi.
Si poteva essere grandi con moderazione.
Nel bosco in fiamme c’è un cubo di ghiaccio.
Mosca al tramonto del sole le cupole d’oro.
Il collo quasi reciso di sette cavalli a strapiombo
fra rocce irte che bevono il mare.
Non ti leggerò rovesciata sul
terriccio oh tu
occhio della lucertola incastrata fra la pietra
sembri così lontana; sbiadisci
dentro all’attesa che è anche mia ma
la terra è piatta come una vescica
e da oceano a oceano neanche un minuto.
L’uomo cammina lungo i muri vicino al mare
in Scozia
Sono partito
153.
Sono partito da questa terra
muovendo molto bene le mani. Confiscavo piccoli insetti
impazziti
all’ombra delle foglie. Chiedevano alcune anche pietà.
Negavo a loro il conforto della voce. Ma vicino al camino
perlustravo la brace alla ricerca di un futuro che è mio
e pregando gli dei per un vento di favore ma
il poeta accasciato aspettava esclusivamente l’orologio della
sera
per ascoltare il cadere del tramonto dentro la propria gola.
Mastico la fiamma e ingoio il vento. So perfino interpretare
il destino dei numeri ma no
non è un miracolo se la misura della vita è dentro allo
specchio
illuminato dal sole nel tanfo soffice dei libri nel respiro
della piazzetta vuota e nella sperduta tranquillità del passero
che interroga le sue piume?
Passeranno le ore sulle mani fino alla sera sarò il reci –
tante inascoltato inflessibile di una breve commedia di
numeri fragili uccelli braci appena toccate dal fuoco
lì dove è più solenne approfittare della vita.
Che nulla
154.
Che nulla trapeli. Che cieli!
Come erano i cieli (neri) neri i mari
sassi e sassi si spogliavano sovrani
sopra la rabbia della sabbia che gemeva. Piano.
Camminavano a passi cauti non correvano
ma puntavano lontani. Sperando si poteva. La mano
indicava una nave ferma
con la prua bianca
una vecchia nave vuota portava lontano. Si poteva sperare.
I guizzi dei pesci sibilando prima di morire.
Ai bordi dell’autostrada
un lungo fischio della nave scompariva lontano
ha lasciato
155.
ha lasciato perdere molte buone amicizie con rammarico
non poteva sapere quello che avrebbe portato la sera
e il giorno oh il giorno era una smania di luce
da far brillare fra i sassi.
non poteva conservare i sorrisi
né gli inchini che servono a nascondere le ombre
nel cesto dei serpenti.
ci ritroviamo soli a camminare in
solitudine avanti indietro
in posti popolati da tigri mangia-
trici di uomini. Molto uguali a fantasmi.
C’è anche il numero del telefono
per chiedere aiuto.
indaghiamo sulle cose accadute
e quelle da accadere aspettiamo
eventi portati da lei ma inerti non siamo
non siamo agnelli sacrificali. è il tempo…
Non ho altri
156.
Non ho altri pensieri in questa sera di fuoco
voglio computare sulla mano i risultati di una giornata
da sera a sera passando per il mercato di frodo dell’avorio
nei vicoli medievali. Senza nascondere cose.
Rubano gli uomini più che le mele.
Le mele pendono dai rami lacrimosi per vecchie nebbie an-
nerite dai fumi.
Gli uomini pendono dai muri delle case
sembrano pipistrelli intristiti dall’ozio nelle caverne
d’Australia.
Rubano i ragazzi dalle case
rubano i cocomeri gonfi d’acqua e di fango
li rubano in questa età dell’oro li incatenano a un tronco
cinghiali di foresta.
Il paese del sì di Dante timbrato di nero
è la pancia di una vitella scorticata
si rotola fra i sassi ansima sfiata la pena.
Pietà è morte pietà è morte misera italia il tempo
delle lacrime non piange
aspetta l’ora
e ricominciando
157.
e ricominciando
come in un dedalo di
parole evito
di celebrare ma
scalzo terra per arrivare
alle ultime tombe.
La pecora, la lingua, la nuvola che vaga
dammi la mano formiamo una catena di chilometri e
chilometri
da ombra a ombra respiriamo contro
la sabbia il vetro i muri bruciati la notte le pietre
l’erba amara.
La parola esprime voglie rumori di specchi e furori
mentre corre a nascondersi
dietro i muri della vergogna.
La situazione non è ancora saldamente sotto controllo.
Questa in cui vivo
158.
Questa in cui vivo città è Babilonia, il
fortificato forziere all’erta per i fuochi che arrivano?
o è il ventre di una balena da lungo tempo accasciata
sull’arenile?
Chi sa appena distinguere il pesce di mare dal
pesce di fiume
incespica se segue l’ombra dei gabbiani
prima che s’alzino a guidare il mondo trascinato dal libeccio.
Questo nei giorni d’ottobre.
Vivo in una città
che fa paura oppure mi addormenta.
L’azzurro di genziana
è appannato fra due vetri antiproiettili
in alta montagna è il tempo
delle piante gialle e delle piante rosse fra i sassi.
Tramonto. Fine della giornata.
Vola la farfalla nel campo della sera fra
i secoli lì immobili ma pronti alla grande tempesta.
Verso il Duemila
159.
Verso il Duemila il mondo cominciò a camminare.
È una giornata nebbiosa
come sono nebbiose le giornate di nebbia
la nebbia corre coi cani corre coi treni s’affretta
e un vecchio sarto migrato dall’Abruzzo
aspetta sulla città delle torri il ritorno del sole
ma il sole naviga più lontano dei cavalieri d’Italia che hanno
la piuma leggera
si riducono le foglie a essere bruciate prima di cadere dai rami
le vipere defraudate dell’ombra di queste foglie stridono
in terra fra vipere e foglie è caduto
il libro delle piccole poesie.
Le poesie si lamentano raccoglici dalla polvere
prima che s’alzi il vento di tramontana
non lasciarci morire. Respira. Raccogli il libro
almeno per una volta…
Oh quante foglie scuotono ancora i rami
mentre l’albero colpito precipita
a coprire per sempre il libro
su strade chiuse da muri da garofani nella luce.
Le ombre riposano sotto le travi tarlate.
Il silenzio nel paese è l’attesa di un evento che ritorna
La pioggia ha mani lunghe ha due dita
conversa nel salotto di Madama con l’abate Galiani,
in questa età illuminata dalle rose, della
droga.
La prigione è un deposito di gente che
va e viene dal tribunale
la prigione è la chiesa del dio vero di questi anni.
Restò l’emozione
160.
Chico Mendez l’hanno ucciso
l’hanno ucciso.
Fiumi d’acqua alberi foglie.
Non c’è oro non c’è dio
che in metà del mondo.
Fin che sarà in queste mani
poco cosa resterà per arrivare a domani.
agli uomini della speranza.
Restò
161.
Restò l’emozione
della piazza rossa di Pechino
prima
poi l’incubo che non era sogno
del sangue – fiume e delle
parole – testamento
la sparizione dei larghi sorrisi sui piccoli volti
fu un ammonimento.
Qua seduti senza alcuna saggezza
mentre si spengono le luci al principio del giorno
noi nel nostro tempo
ogni ora un pentimento
sentiamo arrivare le grida
seduti come sempre e in attesa di un treno quel treno…
Sei agosto
162.
Sei agosto campane ahi! hiroschima è, le campane.
Campane sull’acqua. Sull’uomo bagnato di nubi.
Anche i piccioni ricordano. Per
ricordare le cose non bastano cose il sole è sole
forse consumato un poco
si mescola alle finestre
occhiaie di una bomba che guarda. Guardare.
La campana della pace, hiroschima, ahi le campane.
La cupola scheletro di ferro del sangue dell’uomo
che aspetta…
La pazienza del tempo, con queste parole. Con quella luce.
Ricordare le cose…
L’uomo bagnato di luce…
Vedo la luna su cui camminano uomini.
I passi sollevare polvere
Soldati
163.
Soldati e mendicanti fra i ruderi.
Finito di leggere tutte le poesie
cominciai a vendere libri coperti di polvere.
Pergamene.
Grandi caratteri dicevano spesso piccole parole.
I ritratti dei sapienti circondati di fiori.
La falce taglia il prato e
quando devo dire qualcosa
aspetto che sia la sera.
Roberto Andrews e la moglie
seduti sul prato.
Un tarocco dal mazzo scruta nel profondo.
Se passate per Bologna rivolgete alle torri
gli occhi che bruciano ancora nel
fumo della prima nevicata del secolo .
Cominciai a vendere libri coperti di polvere
ma incombevano strani cieli sulle città sulle biblioteche
severe.
Soldati e mendicanti fra i ruderi.
Il presente è compiuto. Ho rabbrividito un poco
Primo commiato breve e d’occasione
Canzone vola,
con i Costanzo e i Rendo oggi a Bologna
Sicilia è Emila
e tutta Italia è neve.
Parte seconda [164-254]
La Natura, la Morte e il Tempo osservano le Parche
Uomini a piedi contro uomini a cavallo.
Sì, avevano tutto da perdere. E questo era il bello del giuoco. Infatti, hanno perduto.
Per fortuna. Ma dopo una battaglia che ha tenuto desti liberi affaticati impazienti, alle volte anche impauriti. E ha segnato la rapida giovinezza. La vita.
Adesso possono intanto uscire dalla porta del cortile senza vergogna. Come cani sotto un’acquata d’autunno. Poi, laggiù, in campo aperto, lontano dalle mura, riprendere a urlare.
164.
Perché cadi, vento d’estate? Vento del sole. Vento d’estate.
Il giocatore di calcio dice: alcuni portano
nel nome il proprio destino.
Prima che il mondo ci lasci (o ci abbandoni)
riuscirò a raccogliere qualche
frammento di parole
per capire le obiezioni degli amici
il rumore degli anni, queste ultime avventure.
All’inizio del ’99
ho raggiunto la grotta dei miei pensieri
prima era pianto poi lunghi respiri
perderemo la virtù d’amore
se la partita non sarà terminata
con un tiro preciso nel momento dell’attesa.
Le gradinate vuote la gente dispersa
solo la prossima gara riempirà questa patria
di bandiere. Voci. Le voci coprono l’acqua di molta allegria
sono voci lontane.
165.
Il giocatore di calcio ha
il catalogo delle navi
ancorate nel porto. Non si muovono, arpionate dal sole.
Le unghie del mare hanno intristito i colori, quel
mare senza sentieri.
Dice il giocatore di calcio non ho
più notizie dei miei dieci compagni
da quando ho lasciato la città in fiamme le mura
e oggi comincia la partita.
Dieci anni fa le cose del mondo non erano uguali al presente
le giornate esplodevano in un baleno
si chiudevano in tempesta nel mondo del sole.
Con gli occhiali di plastica ahi oggi
osserviamo le guerre in un bicchiere.
Niente sarà come prima poi
qualunque cosa indossi
sei una farfalla africana con trenta colori.
Dice il signor D’Aubigné dopo Chernobyl
la mia vita non è stata più quella
le mandorle cadevano ai miei piedi le rondini
oh le rondini
le rondini volavano contro l’ombra di un cielo.
Il giocatore di calcio dice l’erba del prato
a calpestarla strideva
chiedeva aiuto il pallone perduto fra la nebbia.
Il signor D’Aubigné dice l’inverno
l’inverno non è una attesa delle rondini.
L’inverno è nebbia.
166.
Alla PARTITA DI CALCIO si sale per
colline deserte con pochi soldati che pensano (dicono)
a disertare e il leone il leone il leone
appostato contro la roccia aspetta il momento
L’ORECCHIO PERCEPISCE IL ROMBO DI UNO SCIAME
che sgretola l’orizzonte succhiando il sangue degli angeli
ma è nell’estate dell’urlo che la sacra città di Ninive crolla
polvere e sassi inseguono graffiando
l’ala di un’aquila in fuga
DOPO RITORNA IL SILENZIO E UN GIORNO SENZA SOLE
allora barbagli sul campo simili a colori di Morandi
scompongono la trama dell’erba e della gradinata
IL POPOLO SEDUTO chiede
quando avrà termine la partita?
Prima che la notte cada, è stabilito. I leoni
decidono di assaltare i soldati stremati.
POI NON CI SARÀ CAMPO MAGLIE NON PIÙ LA PARTITA. Voci.
Solo lo stadio vuoto.
167.
Il giocatore di calcio dice se
leggo questo libro
dalla Sicilia vengono tempeste improvvise di sabbia
controllare il pallone è molto difficile quando soffia il libeccio
arrivo alla fine della giornata
qualche volta con disperazione
altre volte è una luce intera che all’improvviso si spegne
su questa vita che non è poi disperata.
Oggi rubano uomini e donne come farfalle
li infilzano con il chiodo li legano all’albero
sotto la neve lì stanno
corpi che aspettano il tempo.
Durante la partita mentre il pallone vola
penso a questa gente nel bosco sotto rami e foglie
gocce di nebbia sulle dita le querce che frusciano i
treni lontani.
Nessuno indica il tempo, nessuno colpisce la palla
quando le giornate sono lame da affilare.
Volti di antichi camminatori affiorano sulle gradinate
fra l’ombra dei capelli. Sembra un sogno.
168.
Il giocatore di calcio
pensa all’amico che non c’è:
Può contare sulle dita
i giorni della vita e intorno
il circo dei leoni, le voci si perdono è il momento di un’attesa
nessuna rondine indica speranza
le ombre inducono a una precipitosa ritirata.
Il nemico all’erta segue le orme della fuga.
Il giocatore di calcio dice
il pallone non finisce
in mare. Si nasconde fra nubi.
Sono come te meridionale. Doppia fatica.
Provoca l’avversario fra le liane e i cespugli del campo.
“Tu non sei pastore, dice, tu tradisci le pecore
forse sei un cane da pioggia, dormi sotto la neve.
Io aspetto la vecchiaia per pensare al futuro”.
169.
Il giocatore di calcio terra mia, dice,
paesi di fiumi pietra
nera di pece neve bianca sei
bianca che la pece non può lavare
bedda terra stalla dell’impero
mia dannazione in vita. Siediti, terra.
Mi accorgo di essere qua in prigione.
Ma non ho il mio sepolcro in solitudine.
La sua voce si perde.
Aspetto e… se risalgo durante l’estate il
monte Prena terreno lunare
il vento di tramontana spacca la pelle stravolge i capelli.
Sarò allora lontano da questa battaglia di palloni di rete e
di grida.
170.
Posso ignorare il giocatore di calcio come lui
ignora me – e la sua maglia o palla
che sibila sull’archetto del violino da porta a porta.
È ilare il silenzio quando il sole cade ruotando
sullo stadio delle giovani iene e disperde farfalle
farfalle bianche fra le gambe dei soldati assiepati.
Il silenzio percuote gli occhi di uno di questi che vuole le cose
grida, la voce impaziente non promette niente di buono
il giocatore di calcio con la palla al piede scatta
la clessidra stabilisce la fine della partita
tu solo, demone, tu solo specchio dell’inerme vulcano
approfitti del tramonto per chiudere il combattimento
inseguito da voci di trombe lunghe e bandiere.
Il libro della memoria aspetta la sua ora. Ma è
già compiuto, dicono.
171.
Il giocatore di calcio stravolto
al tavolo da gioco è giallo in viso
il bicchiere trabocca d’acqua gelida spuma e
lassù si inseguono si oltrepassano le auto
scarrocchiano come barche fra le nubi
la lunga usura del tempo è percettibile
dallo scatto della lancetta.
Il giocatore di calcio raccoglie una rosa
pericolante da una crepa del muro e dice
in Brasile a quest’ora alzano gli aquiloni
sulle città che non hanno fine o sono approdate sui picchi.
Parla e canta in un vortice di parole gutturali
calciando una luna veloce da cuore a cuore
che alla fine scatta in oscure caverne di reti.
L’occhio del calciatore brucia prima di sparire
nel grido di gente ammassata che impaurisce il falco
annidato fra foglie cariche di polvere.
La partita è una vera battaglia fra pochi uomini.
172.
Al giocatore di calcio dico vedi anche tu di che pianeta sei
quale biglietto della lotteria ti è stato consegnato
nessun calcio è ammissibile senza autorizzazione
èlegittima la tua partenza dopo il campionato
verso Lisbona o Pechino.
Ma intanto, fra un sabato e un lunedì,
il pastore abruzzese cane del tuo vicino
abbaia alla sera abbaia quando comincia il giorno
avverte anche te che è stato lasciato troppo solo.
Cosa vede? Solo quattro muri bagnati
dalla pioggia
acida e una grandine infinita.
Al giocatore di calcio non basta il pallone
chiude una maglia colorata nel cassetto
il suo sogno è andare verso i mari del sud dove non ci sono i
pirati.
Là dove voci amiche
con la gola di fuoco
calciano un frammento di terra e feriscono il mondo.
173.
Dice il signor D’Aubigné l’uomo
invecchia invecchiando pensa brevi parole
poche parole dice l’uomo che invecchia è curvo
sono parole di pietra o il fumo
di un qualche incendio che si va spegnendo.
Il giocatore di calcio dice
la sera della finale di Coppa
l’anno che uccisero Kennedy
spararono a Kennedy il pallone volava
correndo vedevo il pallone bianco come il viso dell’
ultimo sogno nella terra dei mangiatori di loto
oggi con il signor D’Aubigné galoppo per la brughiera.
Strane storie accadono in questi anni
laggiù vedo la polvere di una zuffa o un scontro di TIR.
A entrambi è sorto in questo momento dal cuore
un grande desiderio di pianto.
(Nota: Gli ultimi due versi presi dall’Odissea)
174.
Il giocatore di calcio dice a Kirchberg am Wechsel
si intravede alle volte l’ombra di un uomo solitario
dialogare con il giorno che si spegne
non lo vorrei come spettatore a una partita
seduto in gradinata ha gli occhi di ghiaccio
segue ogni colpo di tacco, un tunnel
il lancio del giovane svedese appena ingaggiato
– il giudice inflessibile è un signore che non parla ma
osserva da lontano. Da lontano.
Dice il signor D’Aubigné non ho più vent’anni
non ho amici gli amici negli anni si perdono
si perdono i sassi nel Po l’acqua del fiume non respira non
traspare
i sassi stretti dal sangue del tempo
rotolando sognano.
Ma è con la testa sulle carte
fasciandosi la mano ferita con un fazzoletto trovato
nell’armadio vuoto
che Chet può leggere la sua musica con la voce di
un vecchio musicista una volta incontrato e subito perduto.
Questa musica si alzerà prima del tramonto e prima
del fischio del pipistrello che rade la strada.
(Nota: Kirchberg am Wechsel, uno dei paesi in Austria in cui negli anni Venti insegnò Ludwig Wittgenstein. Chet è Chet Baker, trombettista)
175.
Vedo queste città coperte di verde di polvere
l’arco del cielo lo vedo circondante gli anelli di Saturno
le piogge tagliano i capelli degli alberi piùgiovani
storni caduti fra le zampe dei lupi
e vedo… dalla spiaggia lontana il rumore dell’acqua le onde
risalire un frammento di cuore senza respiro
la contemplazione delle sorgenti del mondo.
Dice il signor D’Aubigné la coda della balena
fa diventare bianco il mare. Il giocatore di calcio
riveste la maglia ascolta
l’urlo, uomini soffiano il suono di campane gelate.
Il mio pubblico (dice) è sull’erba, è un letto di brace ma il
signor D’Aubigné è assorto aspetta nell’aria la piuma di una rondine.
L’Africa è l’Africa, dice, dentro la pioggia acida le rondini
perdono il volo.
“Èun nonno ma non è tuo nonno” il bambino spaventato sorpreso
guarda nel vecchio passare tutte le onde del tempo e andare e il
vecchio scompare
nel Meligans bar la lunga strada di Dingle
oh punta estrema del capo Slea oh Irlanda oh Italia
ma i nonni non si trovano più neanche a parlare
si smarriscono i nonni che raccontano favole al sole.
176.
Il giocatore di calcio
dice al signor D’Aubigné
“oggi non si fa la partita
le attese vanno deluse
i sogni della notte
polvere di bandiere non riempite dalla vittoria. Oggi.
Le ore dell’inverno
non vedono passare l’ombra delle rondini”.
“Perché non vai via? Morirai”
grida colui che ha la palla.
“E allora cerca la fonte del gioco
prima che arrivi la notte.
La lotta è aperta anche se non c’è il nemico
il tempo dei sogni non dura all’infinito
ma si consuma da autunno a autunno
dall’angoscia al risveglio che è l’alba del mondo
indossa l’azzurro della tuta e
corri sull’asfalto quieto corri sull’erba che non ha cuore
non ritornare prima che sia primavera e
l’inverno finito…”.
176 bis
Il silenzio ha un suono acuto
uguale è a una lama che vibra vibra vibrante
luccica luccicante
dopo che il nemico l’ha ferito al cuore.
Non abbiamo più paura
il mondo chiama chitarre
si inquietano le parole
urla ogni tanto il vocabolario abbandonato nella solitudine
sussulta ogni tanto nel sonno anche la dea ragione.
I venti si scontrano per la sera.
Il sole osserva e tace camminando nell’infinito
cratere dei cieli.
177.
Vedo, dice, la grande madre Russia precipitare a terra
e il galeone spagnolo carico d’oro e di topi
che affonda nel mareoceano fra il sole di onde piene di furie.
In piedi ero sulla riva lei la donna inquieta amata
a filo di un orizzonte celeste come l’orecchio di Diana
con l’arco teso che non porta a nessun orizzonte di fuoco
ma bagna l’ala del serafino che si è perduto.
Russia nel mare, oh Russia sprofondata nel mare
il silenzio della sfinge fa paura
in mezzo a mille artifici Russia oh Russia deserta
cento frammenti d’uranio vagano vibrano nel fragore del cielo di dicembre
e là dove turbinano i cuori degli uomini
già morti
scompari t’immergi scompari e deliri poi
riaffiori
sei la prua della nave sprofondata in un deserto di lava. Addio.
Quelle case bianche in cima alla collina con il faro che non dà luce
la strada liscia un orizzonte di prati il borbottio
del marinaio ubriaco che si allontana.
178.
Il giocatore di calcio insegue la palla sul prato
la guerra è sull’erba
stridono le sibille aprono la caverna di luce
il giocatore di calcio aspetta il suono di Chet la notizia
dagli uomini camminatori
una notizia che non fa disperare.
Dice il signor D’Aubigné quando l’inverno è passato
perché dovrei andare in Brasile
se gli uccelli nel vento sconvolgono Francia e Italia
e sulle pianure mi porta il sangue del cuore e lì mi abbandona?
Corre come corre il cavallo bianco della morte.
Ho passato la vita fra i libri
senza scriverne uno
pochi libri ho letto dal principio alla fine perché pioveva la cenere
allungavo la mano i fogli bruciavano
silenziose parole cadevano
la primavera non è mai troppo lontana.
Non isolarsi ma ascoltare. Ascoltare.
179.
Cadono alberi cadono soldati in un combattimento
Porto con me in un bagaglio il mio popolo di pensieri
Mentre il progresso ara la schiena della terra la svena
tutti tremano all’idea di andare a Sacile…
Chi ha mai pianto
per la morte di un elefante
sotto il sole
nel mare d’erba africano?
Precipitosa arriva
con tre cavalli la luna viaggiatrice
pioggia neve il compagno destino ma
sassi arrotondati dal fiume sono loro nemici
così si arresta…
Ho sentito il sangue urlare ed era il vento grintoso sulla montagna
fra alberi di mille anni.
180.
Dice il giocatore di calcio parto da zero. I preti del sud
sono operai alzano pietre alzano il cuore
ultimi esploratori delle foreste del cielo
i preti del sud danno fuoco alla vita speranza degli
uomini ma
al trentaduesimo minuto ahi! fu la fine del
viaggio per mare l’alzarsi del maestrale
onde gridanti e il naufragio.
In memoria di me dice il signor D’Aubigné
ho solo queste parole da deporre su una
pietra che la pioggia d’inverno può lavare.
È Chet che suona attraverso le ali del gallo nella sabbia di Normandia
la sua tromba d’oro? Sabbia fango e come cala
la sera violenta pernice sulle labbra ferite. Nessuna
attesa è più grande.
181.
La palla è la mia memoria corta
grida il giocatore di calcio dal verde empireo riempito col miele
delle speranze perdute
al signor D’Aubigné rannicchiato in una gradinata gelida ad
aspettare rondini che non arrivano. Mai.
Il lancio del pallone a destra, la saetta divina colpisce sul cuore
l’avversario impallidito
cade sull’ala che è preparata al volo. L’urlo
si china a questa attesa. La palla di argilla rossa
sangue ai piedi del compagno rivola
verso la porta del dio del mistero. Vive
disposta in combattimento l’attesa
dei ventidue guerrieri
poi lo spettacolo concluso parla ricordando la giovinezza delle
pietre e
le nuvole chiamano la vita e
prima della notte d’inverno…
Prima della notte d’inverno
un lungo giorno e lì la vita è un trionfo.
182.
Il fuoco si arroventa quando si avvicina la sera.
Butta la palla a sinistra grida
il compagno al giocatore di calcio buttala e ascolta
le voci precipitare dalle pietre
e alitare un leone furioso alle tue spalle.
Lui ebreo io cristiano
era pronto ad azzannarmi dice
il giocatore di calcio durante la partita
ma io sentivo soltanto il fiato di un amore che veniva da lontano
non vedevo neanche i suoi occhi ma li vedevo:
come sarà il futuro?
Dopo lo scontro che si prolunga sotto i fari
la nebbia induce un brivido di freddo e un lungo sonno
ma sempre la ragione si inquieta nel giuoco
e la mafia non la vedo come una sorella
violentata da sette orsi neri
la vedo come una ciambella che si arrossa nel forno
mentre lì vicino una vecchia è intenta a ricamare, senza paura ricama,
il suo ordito perfuggire il silenzio della campagna.
lo amo soltanto la città in questa epoca di fiori
solo la città
l’amo quando l’altoparlante tace e la partita sembra ormai finita.
Ma è finita?
183.
Dice il giocatore di calcio mia madre ha aspettato
chi dalla guerra tornava e non è mai ritornato…
Il giorno prima della partita in Polonia
– intanto il signor D’Aubigné passeggia vicino al luna park
aspettando l’arrivo delle rondini da un’Africa lontana
esse che tranciano la spalla del cielo con le ali di lama
esse che muovono le foglie e le onde nel volo esse che
nel volo guardano le foglie cadere –
ho visitato il carmelo di Auschwitz fra i campi di grano
le sorelle cantano al cielo con grande vigore
cantano il signore coltivando le rose
c’era il silenzio della terra quando
il sole tace quando il sole si annera e
la partita si è conclusa in parità
il portiere ha parato un rigore volando fra i pali
talvolta le rondini si fermano nel viaggio dice il
signor D’Aubigné
perché la pianura è rossa di sangue e una rondine
non fa primavera non calma la fatica del volo la fame
cade come una foglia insieme a una foglia d’autunno quando
il sole tace.
Così è travolto il giocatore di calcio correndo verso il nemico
là dove finisce il mondo. E comincia il sonno del mondo.
184.
Con fuochi al posto delle foglie
i frassini.
Segno le parole
si aprono le porte
entro nelle stanze dice il signor D’Aubigné
si chiudono le porte.
Le stanze sono vuote
i muri impenetrabili
stanze segrete finestre serrate
le stanze raccolgono il fumo le orme le gocce degli anni.
Il Che disteso sul banco
con l’occhio senza speranza guarda le onde del
tempo sfiorate dalle ali delle nubi bianchissime.
Dategli addosso urlano dalle gradinate
li andremo a cercare li batteremo sulla spiaggia
poi ubriacarsi
cantare l’inno nazionale
dopo andremo a vedere l’Inghilterra che vince
ci saranno feriti sulla spiaggia
faremo vedere ai crauti perché hanno perso la guerra.
Produciamo i vini migliori dai migliori vigneti
ma non possiamo viaggiare di notte sul treno
perché c’è la morte in agguato.
185.
Gli anni di Roncrio fra i calanchi d’Appennino dove…
Abbiamo avuto una nevicata fenomenale ma…
Tu sei arrivato quando è venuto fuori il sole.
Una improvvisata, come l’altra sera, verso
sera, quando la necessità di avere
una parola…
Cosa fai oggi?
Tutto il giorno?
Già, anche questo è un bel divertimento.
Sì, sì, insomma, pensa che fra
qualche giorno tutto sarà finito.
Il giocatore di calcio dice che il campo
con il mese di aprile è prosciugato è un campo crudele
di sangue, le crepe sulla terra tagliano le vene
del cielo, tracce di vento gemono gemono
strisciano aprono
dileguano
inabissano l’acqua.
Oh, acqua. Acqua sulla mano, sul piede che calcia
non è un tempo cristiano
questo che fa crescere sui fiumi
città nere nere che si spengono nell’ira di un tramonto improvviso.
Ma poi le città rinascono nel giorno
e l’uomo è sulla strada.
186.
Nel silenzio delle notti squarciate da lumi vibranti
vomita sabbia la televisione
le gambe delle donne strette da tele di ragno
nessun’ombra sull’asfalto masticato
dai cingoli dei carri armati
all’inseguimento di un
nemico che fugge.
Opere vere restano da fare
prima del diluvio di un secolo nuovo
come la terra sarà disposta nessuno lo sa, può saperlo
è inconoscibile questo
misterioso futuro
così già passato così già lontano.
Ma vivere è
aiutare a vivere.
Ci sono i poveri, gli schiacciati.
E i soldati in attesa.
Il cuore vola alto il
cuore non si stanca
il cuore falco il cuore verme il cuore scimmia il
cuore sempre solo
orlo di un’onda sul mare che divaga e si perde.
Gli spazi del mondo ancora si improvvisano.
Sono quell’uomo che cammina vicino alle dune
le voci della campagna emiliana
trascinano il passato verso il futuro come un toro infuocato
187.
Oh celeste protettore di città strette d’assedio
presiedi anche alla luna
che sta fuggendo
dall’orma di un uomo e si inabissa.
E tu, ombra di voci degli uomini scomparsi
conchiglia raccolta da una mano senza più pelle
cerva orbata dell’erba di un prato appena fiorito
imprigionata fra grate di ferro insensibile alle preghiere gentili
riposa per questa prima notte di luglio
sulla pagina
del vecchio libro
bianco sul prato e aperto come un cane abbandonato.
Dice il giocatore di
calcio al signor D’Aubigné
oggi espugneremo
Narbona
le bandiere si muovono sopra i cavalli normanni
la porta è difesa da undici solitari guerrieri.
Ah, la vita di lotta, sconfitta, dubitare contraddire prevalere anche
con innocenza.
188.
Il mio amore il mio cuorefurore
al centro del mondo
coperto di strani fiori nuovi per noi
(elicotteri a bassa quota sulla
collina di fronte coprono i prati di napalm),
il dolore
per quella passione che si spegne
è grande. È grande.
Voi giocatori di calcio sconfitti.
Piangete. Cani vili. L’arco
della luna sopra le onde di ferro dello stadio
la corona di spine
la palla ferma nel mezzo è
frammento di un meteorite precipitato dall’occhio
della montagna.
Ricordate i bambini
al mare
sotto il solleone d’agosto
camminano lungo i viottoli dell’Adriatico
le giovani madri parlano parlano senza guardare.
Senza guardare?
189.
Non mi scrivete, non potrò mai rispondere.
Non mi parlate; non potrò più ascoltare
se ferite la mia solitudine
morirò con lei.
Calcia il pallone colpisci la sfera
la bandiera bandiera
lo straniero è lì acquattato alla frontiera
i leoni d’Africa divorano le rondini addentano il pomo della vittoria.
Padre non uccidermi
madre ti uccido e volo lontano con un’ala ferita
non infierire con le solite parole
non scende dalle parole il miele della vita
voi siete per me più lontani del sole.
Anche la natura ha il suo revolver nascosto
spara sulla spalla delle foglie che guardano stupite.
Pazienza fratello
la tragedia dei nostri anni non racconta storie di città metropoli
ma il naufragio della natura in un pandemonio di voci in tempesta.
Raccoglieremo relitti su paludi calme all’infinito.
Il giocatore di calcio dice la grande Germania
è campione del mondo
così i piccoli dovranno coprirsi gli occhi negli anni a venire.
calcia il pallone a sinistra colpisci di testa la sfera
pazienza, fratello.
Padre, non uccidermi ancora
madre non dire parole.
190.
Germania germania germania tornado d’Europa
canzone per un giorno
comincia la nuova guerra la nuova nevicata
i topi sono lì per accogliere la gente che scappa dal mondo.
Vulcano risvegliato
i fulmini sfuggono dalla mano
incenerisce le città incenerisce le sue trecce bionde
le tombe dei generali di antiche vittorie si scoperchiano.
Il giocatore di calcio dice germania germania
ahi, campione del mondo in questo luglio dell’amore.
Anche a me sembra di morire un poco
grida il signor D’Aubigné
questo è l’ultimo giorno del fiore del miele o del dolore.
Conoscevo Firenze una volta ma
sono francese
l’odore dell’Arno fino ha segnato la corsa anche del mio tempo.
Ho affondato città ma non ho conosciuto il
cuore degli uomini prima della prima sconfitta
non credo che ci sarà qualche voce di un dio dopo la morte
le rondini dell’oblio portano la speranza
di un futuro molto breve.
Anche se beviamo l’oro del mondo
ogni giorno è composto dalle nostre mani.
191.
Il muro dell’Oder.
Una domenica di fine inverno
nella parrocchia di Santa Brigida
a Danzica
è una domenica mite
per un inverno sul Baltico.
Il primo settembre dell’anno Trentanove?
“Io penso che fino a quando ci sarà il mondo
mai un polacco
sarà amico di un tedesco.
Sotto la pelle in me c’è sempre qualcosa un timore
ogni volta che i tedeschi intraprendono qualcosa”.
“Ma noi contiamo così poco”
dicono i tedeschi in Polonia.
Carestia.
Chet Baker al signor D’Aubigné “la
mia vergogna è la tua vergogna
la storia è una nave affondata e può riaffiorare”.
192.
La griglia di partenza partirò per primo lo
brucio sullo scatto tutto sta che
la frizione non si ingrippi via e
via semaforo rosso pochi secondi su di giri è verde
lo supero sulla sinistra prima della curva bada
qua l’alettone lo incastro lo sorpasso lo sperono la
curva è dietro dalla terza alla quinta sono
in scia arrivo e
addio…
lo l’ho visto il cigno trombetta volare sui prati snervati
fra la nebbia e il ricon
l’estate che nel Canada
cercavo anch’io una nuova vita.
Essere salvati dall’oblio…
L’oblio è quando
non penserò più a lui che è morto
ma ora chiamo con un respiro gentile la
sua ombra fuori dall’Ade…
Ruota la luna ruota la fortuna
cambia anche l’occhio che guarda il mondo
o rilancia il pallone in campo.
Vorrei prima dell’inverno scrivere un
libro sopra i terremoti e
sui vulcani.
193.
Questi giorni dice il signor D’Aubigné sono
grandiosi il suono
registrato di una campana scompone
l’aria il cielo in cento frantumi aquiloni
mi sento preso dalla fune che dondola
e potrei pensare d’involarmi di qua di là cercando
una nuova diversa collocazione.
La carne la consuma la violenza impetuosa del fuoco.
Chi porterà l’uomo d’oro oltre le dune
vicino al sonno profondo degli uomini più irrequieti?
Gli spazi sono ridotti
sono l’osso del cerbiatto ucciso dal gelo in un
inverno antico
la televisione mi getta nella stanza il cadavere del sole
e la polvere di una foresta messicana.
Ma è la mia palla che vola calciata grida il giocatore di calcio
la porto a spasso da oceano a oceano
buttandola in alto fra Andromeda e Selene
la imbuco in un mare tranquillo
so io dove ribattere la disfortuna.
Ti aspettavi troppo dagli eventi
grida il signor D’Aubigné battendo le mani,
vicino a un fuoco
non puoi sprofondare nel silenzio notturno senza tremare
il futuro non è il passato. Splendida sapienza. Tacere
non muovere un dito anche se geli nell’agguato.
194.
I grandi spazi le antiche rivoluzioni.
Gli uomini all’erta, le donne con il fucile.
Le gru di ferro
abitatrici dei cieli
discutono con le nubi immobili e adirate.
Le lunghe sere d’inverno quando la partita è finita
dice il giocatore di calcio
suona precipitosa la tromba d’oro di Chet.
Il confine tra la vita e la vita è dunque la morte
è il canto di un uccello
il passero solitario sulla torre diroccata
la gazza ladra imbrigliata fra i ceppi
il merlo che non perde neanche una parola.
La città chiusa fra le mura rifiuta
l’accesso ai lebbrosi ai pellegrini stranieri.
Il tiro fu all’incrocio dei pali
i pali e la rete del sole che lento calava schiumando
hanno affrettato il tiro
il suo volo che finiva in oro.
La spiga in silenzio inclinata nel vento
il piede benediceva il palo e la gente cantava.
195.
Italia eri bionda allora
china sulle acque
a riguardare ombre
che dal passato provenivano gridando.
Respiratevi nell’aria di un’estate senza fine.
Oggi mi trapela una quantità di eventi:
LA FRONTIERA POLACCA NON SI TOCCA
L’EUROPA CONFERMA I SUOI CONFINI.
Non mi posso permettere di morire
dice il CHE, la rivoluzione
non è ancora cominciata
tacciono perfino le foglie degli alberi
ascoltando il passo dei pensieri.
Chi sarà vivo domani?
Se muoio
se il fiume continua a correre
se il ciclista si ferma
sul ponte
se muoio e il fiume continua a scorrere fino alla
fornace poi si smarrisce sotto un ponte e
il fuoco si porta via i libri
il legno della foresta è diventato polvere se
l’ultima pagina è bianca per il compianto degli
uomini in fuga che non sanno aspettare…
196.
Battaglia fra il giocatore di calcio e l’avversario terzino
corro lungo il filo del campo veloce come il destino come
una freccia indiana lasciata volare
sono l’ultima rondine e ho perduto il branco
sono stanco d’aspettare ho una rabbia cupa d’amore
Rondini, dice il signor D’Aubigné, fuggitive foglie
nel cuore del cielo i miracoli fate
ma i due uomini li ha uccisi da mare a mare
un impeto di benevolenza che non calma
vedo la morte e la destino al nemico
il suo banchetto di guerra la sua
ultima vittoria la mia prima sconfitta.
Nube nebbiosa di radio vaga sui ghiacciai del polo
copre il sonno delle balene che non sanno cantare.
A Palermo non fa mai la neve
l’Etna riposa dentro la vita come in una nuvola di vento africano
o con la domanda di guerra che il fumo quel fumo
sia l’ultima esplosione dell’uomo sulla terra?
Rondini rondini venite
grida il signor D’Aubigné a un cielo di settembre coperto
di ombre che inseguono il sole
gli anni trascolorano
dietro le vostre penne. Fragili uccelli costanti
197.
– Ma sono passati i millenni.
– E dopo?
– Una musica d’oriente cadeva fra le azalee
cadeva dagli alberi con le foglie
la piscina con l’acqua calda
aspetta gli occhi della ragazza
un uccello nero un corvo trascinava un’ombra.
– Voi siete così premurosi nella scrittura
io vi riverisco.
La neve sui vostri occhi
diventa grano.
La mano trema la notte fa paura
la vita è lunga ma
la speranza è immutabile?
Sembra imminente qualcosa.
– Meglio dire dove prima che anche questa rosa
sia appassita.
198.
Affrettarsi a scrivere per
avere le labbra sul bordo del cratere e
bere lava così
rossa che l’occhio non la vede.
L’ultimo atto del secolo
apre un oblò prima della lunga sera (notte) ferita
da meteoriti impazziti
sul prossimo passaggio dell’armata Haeley metodica cometa
– lassù l’uomo racconta l’infinito.
Ogni epoca ha le sue esibizioni
che mai Italia è questa?
avevo le catene che mi tenevano legato
sono le città distrutte
da un terremoto rituale
sono il bombardamento dei nemici scesi dalle montagne
con occhi di morti nelle tasche.
Odio appassionatamente la mia vita.
Il giocatore di calcio esulta:
libererò questa porta dal male
l’aquila sacrificale deve cedermi le penne
solo io io solo io nel volo
da palo a palo sono il salmone nel fiume
senza destino scolpito in un graffito.
Oh hombre il piede del lupo la zampa del lupo
l’urlo del lupo fra il verde dei fiori un colore
così fragile ormai da avere paura.
199.
L’aquila abruzzese non conosce il mare
perché mi devo perdere?
Da nessuna ombra si ricava la vita.
Lei dice: la malinconia mi prese, grande
distruggitrice di sogni (essa compone le sue
fragili ombre con mano savia lascia
cadere le foglie di pietra
sul sonno e
fiori senza più cuori palpitano chiamano).
Così anch’io ho avuto la mia avventura
le auto accesero i fari bloccate sul viadotto
sotto una tempesta di neve
volavano gli angeli feriti da streghe senza voce
tutti per un momento abbiamo ascoltato i cavalli della
morte. Da
città a città. Poi allontanarsi.
Ma c’è mai stato un campo a cui tornare
quando innocenza e bellezza
erano i solitari petali di una rosa?
Siamo venduti come gli schiavi sulla spiaggia
rubati nelle foreste
scaraventati nel mare
dimenticati al fondo dei velieri fra le scaglie dei pesci
– avremo mai la nostra giornata? Quando
la polvere del muro copriva il volo di stelle molto
lontane.
200.
Chi aspetta
seduto vicino al letto?
ho novant’anni
la luce è accesa
fuori il temporale fischia e se ne sta andando.
Dice il giocatore di calcio il fiume Po correva piangeva
gridavano i pioppi scarnificati sopra le ossa del fiume
che spaventevole mattina
gli oranghi sopra i tronchi dormono quieti
sognano la città.
Si vedono chiare le orme dei lupi.
Dice il signor D’Aubigné la
palla contro la rete è nel cuore dell’inferno
e quando l’uomo comincia a passeggiare con la morte
la signora si veste con l’erba d’autunno si
copre di nebbia raggela
nello scroscio delle fontane
è acuta nel diniego
esaspera l’ultima ferita dell’usignolo perduto.
Brividi di pensieri.
Il mondo non piangeva quando io non piangevo
il vecchio è vecchio
ma non sarà vecchio per sempre.
È tutta colpa dell’America è
tutta colpa.
201.
Il mondo si cancella
adagio i ghiacci franano
sul pelo degli orsi che si fanno guerra
(rapida primavera con poca luna)
– le torri delle città sono dipinte di bianco.
Spezzato in cento pani è il fuoco del futuro.
Si calmarono le acque dopo il primo diluvio.
Le acque dopo il secondo diluvio si calmarono.
Al terzo diluvio le acque si calmarono.
Al quarto diluvio la prima specie dei pesci scomparve
dentro le caverne dei mari.
Sulle pianure cominciarono ad esplodere i soli.
Il quinto diluvio sorprese un esercito all’assalto di
fortezze di pietra
spade spezzate gettavano ombra sull’uomo che gridava
così il sesto diluvio scoprì la voce il canto il grido la morte
d’amore
e odorò nel bosco il fuoco della foglia appena caduta.
Il settimo diluvio è il nostro calpesta il nostro piede lo
stringiamo nel pugno la coda ci ferisce
che mondo scegliamo?
Il mondo della memoria di una vecchia storia
il mondo incerto duroche apre il futuro?
Per le sue altere solitudini
e il suo sovrapposto furore
situazione d’emergenza.
202.
Non mi avranno, vita mia, nuvole arlecchine vaganti non mi
avranno dice il signor D’Aubigné nel cielo
che odora di fumo di grano e discende.
Non sanno dove mi trovo i cani
i passi nel fango inseguendo e
voi rondini severe il filo dell’orizzonte non indicherete.
L’economia di mercato dice il signor D’Aubigné al giocatore di calcio
l’economia centralizzata la burocrazia l’economia della
delazione della vergogna oggi sopraffatte dall’
altra cadono fra gli sterpi bruciano
con la statua di Lenin tanti
l’avevano predetto i vati
delle ossa frantumate dei perduti destini dei naufragi sul mare
e dei tesori nascosti.
Spettacolo della miseria chiamano
il piccolo fuggevole dramma di chi muore di fame
fra le mura delle città italiane
(oh in Italia non si muore di fame più
oh pietre di pallide ville antiche preservate dal saccheggio dei barbari
ville perdute fra i campi fra i lecci e le sere annegate
nella calma prima della tempesta negli ori
delle ultime api sciamanti)
siamo un paese ricco e disperato la danza sulla miseria
è solo una vergogna povera che offende ogni speranza.
Gol! grida la folla, le bandiere di fumo
irrompono negli occhi “batteremo i tedeschi a Stoccarda”
È l’ora in cui i vecchi librai chiudono la bottega
s’avviano con un volume sotto braccio
alla discreta povertà della casa.
203.
Beethoven sonata op. 110. Vedo? sento? ripeto? apro l’
occhio chiudo la mano
apro la mano ascolto correre l’acqua – nel fiume
un corpo abbandonato –
non lascia traccia il segnale si perde; la mano
strappa il sangue dal sole.
Grida il giocatore di calcio sulla sinistra
la palla Gould cautamente
fra i suoni della foresta indaga
la biscia inerpicata trafigge
IL NAVIGANTE CANTA DENTRO LA TEMPESTA
(l’azione è sulla destra dove è attestato il difensore centrale)
saprò rispondere se mi vorrai interrogare dice
scendendo a rete con il pallone incollato al piede
il giocatore di calcio
risponderò se hai la pazienza di brucare dalla mia
mano l’erba
della speranza
dice Gould tarzan fra le scimmie
inerpicato sui rami mobili dei suoni.
Volando.
204.
Il volo nello spazio con le parole di carta e l’
inchiostro la farina del diavolo.
Ritorno a casa trovo
la siccità di quest’anno
la terra nel veleno di crepe
– quando c’è il sole quando la notte non viene.
Il mondo nasconde le rovine
dentro vulcani di silenzio, i boschi
gridano nei boschi prima di scomparire.
È ancora da vedere se la povertà di ieri
era più triste della ricchezza esplosa
polvere di ghiaccio tra le pietre
in questi giorni rassegnati a un piccolo destino.
Il pane che l’Europa tocca muore.
Il viaggio così finisce. Il cavaliere così si allontana.
Mi rifiuto di sottoscrivere
qualsiasi forma di patto
con il diavolo. Mani di uomini neri
strisciano le lamiere arrugginite.
205.
La città emiliana è antica antiche sono le viscere della terra.
Irta di porti, di torri.
Ha ciminiere dipinte di rosso.
Gru tralicci e sopra camminano camminano
fumando cantano camminano parlano
di rivoluzione i vecchi operai che
hanno ancora la speranza di qualcosa
“prendo la macchina quando c’è il temporale
in mezzo al bosco con le foglie gialle e i funghi
con le castagne cadute, il cinghiale si avvicina
fino a leccarti la mano il fiato odora di vino
cadono i fulmini
aspetto la tramontana il grande vento del nord
questo mondo è pieno di inganni
chi parte qualche volta ritorna
ma il guadagno è alto per chi sa aspettare
almeno in ordine alla saggezza.
La pazienza è il nostro destino.
Ci salva l’immaginazione
se non perdiamo la traccia del nemico”.
206.
Quando il diluvio di Palermo
si quieterà sopra il sarcofago d’oro
del re arabo che dorme?
Raccolto il sangue del tramonto
lancio la palla dice
il giocatore di calcio ma è intercettata
da un killer appostato fra i
rami con un sacco di piccole pietre e il mitra puntato.
Finirà la giornata?
Lontano una donna grida sul prato è
pecora sgozzata. Le
pietre si sciolgono adagio nel traffico notturno.
Sui gradini del tempo un corpo di uomo è crollato.
Dice il signor D’Aubigné se taci hai salva la vita ma l’anima
tua s’invola è cieca
se non legge la scrittura di una penna d’amore e
il misfatto del mondo.
A piedi cammina cammina quell’uomo durante la guerra
all’alba il pane portava. Fischiando. Non
ho visto il mare quest’anno dice
il giocatore di calcio
la vita carica d’oro pesa per chi ha l’anima cieca. Vorrei
giocare il pallone ora per la generosa parvenza
del signor D’Aubigné maestro di una antica saggezza
che insegue il lavoro sul tronco scavato della foresta
superstite con un’ascia forte.
207.
Un frate imprigionato fra i topi
mi ha insegnato a parlare
e due uomini tedeschi stretti nel ferro mi hanno dato la vertigine
uno perché troppo saggio
l’altro travolto da un furore della poesia
è diventato pazzo travolto dalla pazzia.
Poi è finita la vita
poi è il giorno che si
muore
Qualcuno
andrà da
qualche parte
perché non c’è saluto
per chi vola in treno
né per chi arriva.
Oggi hanno vinto
ma non vinceranno domani
ho il cuore molto triste
un mondo senza il popolo degli uomini
è un mondo che non accetto.
La vanità dei poeti
rende inutile molta poesia.
208.
Il 2 agosto 1980 e poi il due agosto 1990
la morte in una stazione e
la passeggiata spaziale per non morire.
Le rondini bambine imparano a volare fra gli arbusti
la montagna annuncia la nube della tempesta.
Domenica Piccolo cucchiaio qua la vorrei ricordare
dice il signor D’Aubigné per il sole della buona sorte
con Mimmo a cavallo per l’O.K. Coral della Calabria
nella luce del giorno di un anno d’estate.
La voce di Jim Morrison la voce di Domenica la voce del fiume fra le
rapide dei boschi.
Una città di pietre morse dalla nebbia (è Bologna)
i diavoli cavalcano terracielo
veli all’alba stracciati da ombra e
improvvisi ricordi.
Un monaco conta le pagine con le dita
il mondo attraversa la bufera con il cuore in mano
l’aquila si stacca dal nembo e nel vento cala a chiamare il silenzio.
Sul viadotto l’asfalto non si vede
lì è inutile la preghiera.
Elementi determinanti della situazione
un motociclista senza casco
l’uomo sul palo da cui è caduto un filo –
i fogli dei giornali
travolti dal riverbero di auto interminabili.
Strisciano trascinati dal soffio delle parole
immagini a colori su grandi schermi piantati
negli altipiani silenti.
209.
Breve. Dove sono scomparsi gli uomini
dove le donne ancora oh povera Italia nei
paesi sperduti fra il verde giallo rosso dei boschi che
cercano aiuto con il silenzio? Dove
le lapidi gli incarti dei cibi
la timida aringa dispersa la pecora che segue altra pecora e va verso
dondolando la testa un burrone aperto nell’inferno?
I cimiteri stravolti dai marosi
senza ossa di morti
mura sventrate legni
levigati da una mano con pazienza
teneramente libera astuta
dove?
Voci si perdono nell’alto
portate da gazze in migrazione
poi la costanza di anni che non concedono respiro
perché la corsa si plachi si deve placare
così i secoli secoli ritornano sui solchi arati
da pietre graffite con gli occhi
di uomini vivi. E con questa voce.
La strada incendia case torri
abitacoli di commedie concluse
fra luna e Marte soldati abbandonati
navigano nello spazio sempre chiamano la terra.
210.
Dice il giocatore di calcio c’era
l’aranda sbucciata sul piatto il tavolo
da sparecchiare le bottiglie di vino i bicchieri
briciole voci i rumori di un tempo
è il pranzo di natale la
stanchezza dei bambini i ricordi di scuola la gente
perduta senza lasciare memoria
un fiore di plastica dondola se qualcuno accenna a cantare o se canta
anche le promesse non mantenute i regali
distribuiti fra grida il mondo sommerso
affiora nel mare in tempesta questo
l’bo preso per te
nessuno sa dire se il libro che hanno regalato a mia madre
è una lettura per le ore notturne ma
fra il luccicare delle signore un’ombra
distribuisce queste parole:
il Marechiaro non è il Mississippi
Zito e Zita due cercatori d’oro senza troppa fortuna
scavano scavano nell’acqua nella terra della vita
mi farò accompagnare dalle canzoni di Patty Smith oggi dimenticate
da anni non incide un disco forse ha dimenticato la musica ma era grande
lasciando calare lungo il muro la corda dell’impiccato
arriverò nel vestibolo di ferro per restare nudo e solo.
211.
Bestiario e timido erbario
con foglie e fronde.
Cade l’anno comincia il secolo
o sembra cominciare.
Fuochi sui monti nei campi sopra i coppi della città
nell’ombra di una cameretta
aspettando l’inverno che non viene.
Sulla piazza le orme dei giovani che non sanno
ancora camminare
ma con la mente viaggiano per la Spagna
pecore enormi guardano i fulmini cadere
sulla mano di un sangiovanni bianco davanti la chiesa.
Quanto c’è da fare perché una poesia sia una poesia
non solo correggere ma anche camminare.
È impossibile. Silenzio. Disse: “Signore, si può accomodare”.
Il sole di luglio tendeva il piede
cercava fra le ginestre la serpe verdolina.
“È vero che nessuna l’amava?”.
La stagione portava piccoli pesci verso la libertà della cascata –
ma non era vacanza
gli indios scomparivano con la giungla o si adeguavano ai bianchi.
Il sonno comincia non con il silenzio
ma con la violenza dell’amore
voglio essere ferito da un fulmine,
non accarezzato dalla prima pioggia d’aprile.
Piena di voci e fantasmi
questa storia ha avuto
una notevole risonanza.
Fu ascoltata da tanti che la raccontarono poi.
212.
Tutto è sommerso in un mare di carta, i cieli
coperti le strade i fogli striscianti le ombre
gravi ascoltano consentono prima di sciogliersi via.
Gould canta canta, le manifoglie trasmigrano
svolgono brevi percorsi da qui a lì
arcobaleno di parole nuove
strappa scivola arde sulla corda
insiste preme il pedale del piano
ripete incrina evade ritorna affonda s’innalza
sì così sì è così bada la strada del suono s’innonda.
Egli andrà in Siberia per una strada mai calcata da altri prima
accompagnato da tre ufficiali
ritornerà a primavera
il cuore rifatto dalla speranza per l’anno che viene.
Oggi vedo cadere brandelli di polvere da piccole nubi ah!
sulla mia spalla mentre
per una volta almeno l’ospite inattesopuò essere allontanato.
Mi alzo dal tavolo guardo il mondo dalla finestra
volo spalancano per me la strada volo
ascolto salire le musiche che accendono il fuoco del sole
vedo corpi di atleti nel marmo dello stadio
balenano da monte a monte le voci di una vittoria.
Vorrei parlarti in privato
la vita essendo arrivata a un bivio per l’attesa. Oggi.
213.
A chi la gloria futura?
All’uomo ossessionato dalla sabbia infuocata nel vento garbino?
Al pilone più alto del viadotto?
Al sapiente cascato dalla scala mentre cercava il libro corrotto?
Al fuoco del lago invelenito
all’uccello di penna nera sceso a terra dopo
il viaggio in un giorno di settembre soffocato dal salnitro?
Nel pavimento a mosaico si vedono gli animali fuggire dall’uomo
un gregge impietrito
in attesa di un angelo che lo liberi. Canta canta
fra gli alberi la voce
così lontana si perde
mentre resto in attesa. In attesa. Cambiare la vita.
Non calpestano i piedi
le meraviglie scese dall’alto
in un giorno memorabile.
Le pareti curve
impolverate dagli anni si inseguono tregua non danno
sul volto ombre di un palpito d’occhi.
Sulle pietre del prato la storia opprime travolge
non è l’amore vuota speranza del mondo
disprezzo del mondo
negli anni folgoranti di oro dolore vergogna
che non conoscono la giovinezza.
214.
Il giocatore di calcio precipita a terra e
tengo questa palla al piede, dice, fino al termine
del giorno, oh metà della vita mia
oh perdita
non della speranza ma ho perduto il tempo reale che è pioggia vera.
Così non so quando finirà la partita
non calcolo l’ora e il minuto
l’origine e la fine della partenza
o l’arrivo.
Questo è il tempo del non tempo
l’infinito del finito
impedimento o sollevazione per
chiudere gli occhi e non vedere
(ma gli occhi vedono ancora)
né io né altri oh non più non più
il futuro del passato la menzogna del tempo
è il presente del presente dopo che il fuoco
ha divorato la foresta
LÌ LA MIA PARTITA E COME SASSO SULLA RIVA DEL FIUME.
215.
Non pubblico più libri dice il giocatore di calcio
perché non voglio che qualcuno
tagli le pagine del mio libro
con un coltello sporco di burro.
Non saprei sopportarlo
né da vivo né da morto
non importano le critiche
non l’indifferenza non l’arroganza dei piccoli gnomi della foresta
ma lo sfregio dell’atto volgare
contro l’umile cuore di un libro appena stampato
fragile come l’agnello giovane.
Un bosco di alberi parole
chiede che l’occhio non si chiuda prima che sia accontentato.
La parola ha sempre
in serbo una sorpresa o un sopruso
per il lettore che non ha strappato la pagina.
Un lenzuolo di fuoco
ha preso il cuore del pesce navigatore
e l’ha coperto d’amianto.
(vv. 3 e 4: citazione mnemonica da un testo di cui non ricordo l’autore).
216.
Quali sono chiede il signor D’Aubigné
le ragioni della mandorla amara che avvelena
l’acqua dei pensieri?
La palla non è mai conquistata
per sempre.
La sua conquista non è mai
come la vita tutta compiuta non
può la palla essere distrutta
ma rasa al suolo
è diversa dalla fortezza severamente custodita
con rigore difesa
e con la morte.
Non è oggetto, la palla, di
lunga speranza o di fatica
che oltrepassi il giorno
non è guerra la palla
non è giuoco ma
riso di violenza e speranza
insegue la luce sull’ala della farfalla superstite
non è rondine che naviga
fra i venti delle nubi che cadono dalle Marche
a cercare la terra delle giovani vite.
Là dove aspetta il giorno e riposa.
217.
Il tempo della pace è una
attesa della guerra.
Il tempo del contendere prevale
sul tempo del quieto
operare, delle verdi albe quiete, dei
rossi inquieti tramonti
quando solo la speranza è signora.
L’ora del sangue impera
là dove
la tromba del giudizio
chiama raduna sceglie poi colpisce
prima che l’orizzonte del dubbio
apra le porte dell’Olimpo
colpendo il sole
e così
si consuma
218.
Divago sulle acque della città che tempestano
l’asfalto ribolle di piume perdute dagli angeli della foresta
i coltelli cadono e si riducono a colli mozzati di gallina
la distesa delle foreste bianche
le voci distese dagli altoparlanti
urla alte clamanti che s’alzano al mattino
le nebbie coprono i deserti che non hanno confini
sparano silenzi quando il porto è lontano dall’acqua
è il tumulto delle onde che avverte
negli occhi delle montagne socchiuse si spengono le cascate.
Strappano la pelle alla roccia
guardano negli occhi le caverne
aspettano di diventare cielo.
219.
OH ITALIA DESOLATA TERRA SANGUINARIA
chi è l’uomo nero, dice il signor D’Aubigné
non è mio fratello, è un uomo
trasceso dalla luna risalito sull’asfalto del mare
verso l’ombra di una notte più fonda.
Quali dice parole? Quali occhi? Dove sono per bere la luce
il tuo ultimo respiro di bosco prima del fuoco?
220.
DOVE I NEMICI DI UN TEMPO?
dove gli uomini dalle lunghe barbe con le alte spade
e gli occhi forano il cielo lanciando le fiamme?
Oggi erra l’ombra dei topi
fra le foglie che neanche l’autunno
chiama più con amore.
Dice il signor D’Aubigné sono queste le meraviglie?
Solo un vecchio può essere colpito al cuore
da un colpo di fucile?
Non abbiamo più nemici
siamo uomini spenti.
Che vita è questa?
Immanuel Kant muore
sospendiamo la partita dice il signor D’Aubigné
sospendiamo il gioco delle ombre
oggi sotto lo striscione d’arrivo cadiamo nell’eternità.
Chiedo alle rondini di tornare
se viene meno la speranza
sia chiara l’attesa
sia giusto l’ordine di migrare.
221.
DOMENICA ALLO STADIO, ANDATA E RITORNO.
Buone poesie
mancano alla storia di casa nostra
così ne scrivo una io stasera
per provvedere
ne scriverò una io stasera cominciando
dal piacere dell’andare a piedi oppure
da Marte guerriero o
dalla presentazione della neve.
Meglio ancora
avendo ormai i secoli addosso
parlerò del tempo trapassato (per un momento)
quando anche la canapa viveva.
Smarrisce il senso della vita chi non abbevera i cavalli
alla fontana in piazza o chi
chi non ascolta il canto delle rane quando la luna si
impunta si inquieta e
si attarda sotto il lume della vecchia piazza
dove scendono le rime di poesie
fra le ali bruciate delle farfalle troppo curiose.
Si può perdere il sonno. Ho visto
l’ultimo maggiolino rossocrociato
durante la partita Inter Roma su campo neutro
nell’estate del ’57 dopo il gol
di Sivori o di Lorenzi non ricordo bene
era così leggero il maggiolino trionfante nel circolo
del pallone scompaginava
le linee infarinate del campo
sparì durante un’ovazione e le grida susseguenti a
un gol mancato (nonera ancora l’epoca degli sbandieramenti
a tre colori).
Il cavallo Nearco ne aveva uno simile appoggiato
all’orecchio durante il pascolo di erba verde dura
da pensionato nei
campi di una Inghilterra ventosa.
Se vado a piedi può accadere
che un maggiolino impazzito cada
sulla mano chiedendo aiuto
lo posso aiutare io navigando sull’acqua del mare ai tempi d’Omero
perché ricordo come una voce lontana la lingua della poesia
e con il maggiolino posso parlare
non lo scalcio via
lui rossocrociato maggiolino superstite e io
spettatore non dimentico della poesia durante la partita
Inter Roma su campo neutro assiso.
222.
Solo sprofondo nella caverna del niente
solo allontano con la manoi piccoli gnomi
pipistrelli impazziti dal fuoco e dalla neve
senza più sonno dentro alla fame dell’oro
solo ascolto la voce nuova del cuore
della violenza inquieta
di un lume che chiama da lontano
solo so fare del piccolo disprezzo la più folgorante vittoria
nella giornata che segue quando
i lupi si addormentano
per aspettare l’eclissi di sole
e muovere contro il nemico
raccogliendo la rabbia nascosta fra gli alberi.
223.
Ho visto l’orso morire
verso il tramonto solo nella vallata
volavano uccelli enormi senza ali
cadevano conficcandosi in terra risalivano
stringevano in bocca l’agnello.
Dice il signor D’Aubigné «troppo vecchio per eccellere
ancora nella conquista dei castelli
oggi sono condannato a soffrire per la morte di un cane
di pelo bianco paziente come l’eremita
il giorno dell’ultima battaglia.
Alle giovani penne che oggi interrogano il mondo
che mondo consumato consegno
io che ero aquila predatrice e volavo oh volavo?
Manciate di polvere alzate da un vento della sera con brividi sulle spalle
senza tristezza. Oggi
lavorare aspettare
dolorare le mani
nessuna pietà per i vincitori.
Ci tocca l’onesto soffrire del momentaneo tramonto.
Ma non saremo altrove
il giorno della danza fruttifera
della lieta mattanza».
224.
GIRONDELLA FRA NEVE SABBIA DI DESERTO E IL COMMIATO DI UN
SOLDATO A CAVALLO CHE VA A MORIRE.
Ho cominciato a morire della morte
piuttosto che della vita
nella giovinezza
quando
rose parole
sopra le tombe dove non era nascosto il vento
dei guerrieri uccisi
si spargono.
Così ho sparso anch’io le mie lacrime.
Dove comincia il giorno e finisce la sera?
La morte è trasparente è
melliflua è una nebbia di pensieri già consumati
neve fra le foglie del sonno di un uomo
incanta talvolta
più della vita. Il giardino non è ancora fiorito
e lei così libera e snella da cantare.
Cavalieri radunati con stendardi
la chiamano per signora
nemici non ha nemici non dà
lei con il viso di teneri marmi
che delle api ha il forsennato intuito nel volo.
Dice il tempo è venuto
in cui contiamo le ore
ma senza voce.
Senza voce
per conoscere l’errore di partire
e l’errore di un arrivo in volata. Precipitoso.
225.
Se mi lasci sotto un cielo bruciato dal sole
se mi lasci solo
se mi abbandoni
sotto un cielo sciolto in polvere nera e senza destino
vedrai le orme
sulla strada
confluire fra silenzio e silenzio
inseguendo il destino.
Ti cerco compagno amico di questa sconfitta
non perderti nella folla silenziosa dei cani
grida come l’eroe un tempo conosciuto nell’isola che non ha nome.
Nevica la partita riprende il sole è lontano
Francesco Lomonaco giacobino dice vedo
gli uomini migliori morire di dolore
e muori per la seconda volta Guevara
offeso dal silenzio come un cristo camminatore su povero legno.
Cosa devo leggere chiede Glenn Gould
per capire l’Italia? Il paese che corre mozzafiato
verso un futuro indimenticabile
non l’italietta di ghirlande seduta sulle colonne di Roma
con gambe scheggiate sospese nel vento
un’Italia ferita a morte ma che la morte non vuole.
226.
Il lancio è stato perfetto, da campo a campo
sibila nell’aria della prima sera il pallone canta
piange lacrime della madre
sul corpo del figlio tu cosa vuoi ora,
ah, gridalo, nessuno può salvarmi
da campo a campo per l’intera partita
dal primo al novantesimo minuto
ah se potessi stendere la mano al mio destino
aiutarlo a piangere nel dolore
perché io piango
con la notte che cade nascondendo sotto un
cumulo di pietre la spalla tremante di una vita sperduta
perché i giorni italiani sono avari
e proteggono gli assassini.
Glenn Gould passa rapido non ha pazienza d’aspettare è chiamato
da sibili che il percorso di uomini scalzi
alza fra la polvere.
227.
I libri alla notte gridano s’infuriano
vogliono camminare volare navigare
sprofondando nei venti del mondo e nei cupi cieli
non stretti fra legni tarlati a lacrimare
aspettando una mano
che raccolga il grano del loro campo.
Ma quel libro lì inclinato
lui sì che sa aspettare
l’unica mano che lo voglia accarezzare.
Una pagina di venti parole.
Ascolta come la sera gioca con le ombre
la strada brucia e nessuno vuole ascoltarla
se un lupo chiede aiuto
cento mani si allungano per strozzarlo.
Un libro non è un lupo
o un libro è un lupo
le mani dove si nascondono?
228.
Una pagina di venti parole.
Padre e madre si perdono
ma
venti parole sono troppe
venti parole.
Ascolta queste parole
oh com’erano i prati di Pamplona
nei giorni dell’ultima corrida
la Spagna bianca
era la statua dell’angelo
che vola sulla chiesa dei paesi della montagna.
Ascolta le parole se ancora suonano
come la pietra dura
dico la parola amico e cade
sulla mano dell’uomo più vicino
la ferisce nel sangue si frantuma a terra.
Lunghe file di luci gialle
segnalano l’autostrada
e i Tir spagnoli passano con voli spaventosi.
Che ombre lunghe hanno gli uomini
quando smettono di suonare
e accendono candele alla luna.
Ma che silenzi strepitosi i libri
allineati nelle grandi sali con le pitture antiche
quando il temporale urla a mezzanotte rovesciando il mare.
229.
È nero è nero è nero
l’avversario da azzoppare
viene dalla relegazione della banlieu
e non porta grazia. A casa, dunque, a casa.
È nero l’immigrato
calciatore a sbando sportivo per denaro
mercenario ha il cuore e il piede anche il pensiero.
Siede per terra il giocatore di calcio e dice che
il treno passa alla notte
trascina pensieri trascina la notte
ma lascia i pensieri lascia a terra la notte
l’indifferenza impietosa
stravolge consuma i pensieri. Oleandri
nelle foglie nascondono il veleno
e il ricino ha un fiore
largo come i semi della morte.
Fra quindici giorni l’estate è finita.
Quando alla notte nella casa i libri
aspettano l’estate e contro il muro
è nero è nero è nero
l’avversario da azzoppare
i libri sibilando abbaiano correndo sul prato
cercano una voce perduta
230.
Quando alla notte nella notte casa
i libri contro i muri
frusciano sono foglie
a rivedere stelle pellegrine
è il momento in cui gli occhi del silenzio
seguono le parole ricomporsi e
i filosofi muoiono nella solitudine molto vecchi
perché hanno il pane del tempo da spezzare
parole da consumare una montagna di piccoli segni
per costruire la casa caverna dell’immortalità.
Solo i filosofi dal lungo pensiero non muoiono mai.
Le parole inseguono non la verità ma l’incertezza
che inebria più del vino rosato di Cipro
il fuoco del dubbio
il brivido dell’oscura offesa lanciata contro un dio sconosciuto
il brivido della morte.
I topi sono più valenti portatori di speranza
dei fragili poeti che si inchinano come le canne
o delle mani benedette di santa Eurasia
che proteggeva dal vento i misfatti del vento.
Povera Italia povera Italia povera Italia
devastata da venti impietosi
deve essere grande ed eretta
dentro alla sua cella devastata di monaca
povera Italia indossa gli abiti della sconfitta
grigi pronti per il fuoco
se dentro alla nebbia della ragione
vuoi ritirarti confonderti pensare
sul mancato guadagno della sorte
VEDENDO TE ABBANDONATA AL TUO DESTINO ORMAI CRUDELE
231.
Metto una colomba vicino a una colomba
un lupo vicino a un lupo
metto una colomba e un lupo
un lupo e una colomba
li metto vicini.
Suona e canta
muovendosi come fa il pioppino
scoccando scosse dal maestrale inviperito
foglie accartocciate raccapricciando vibrano bianche.
Strauss Ophelia song opus 67
ta ta ta ta
ta
ta
ta
ta ta ta ta
ta ta ta ta
ta ta
ta
ta
to o o o o
4 ottobre 1982
Oltre a questo
doveva lottare col vento.
Un ritorno, con diversi sentimenti.
Glenn Gould riusciva assopirsi anche con il vento d’autunno.
232.
Riflessioni osservando il mare in tempesta
nell’agosto del 1999
il mondo s’apre come la mela tempestata dalle api.
I libri ascoltano il rumore del mondo
pigolano come gli uccelli negli scaffali
dentro la grande foresta dei segni.
Cose grandi accadono
che la mano nel pugno
non può contenere.
Gli occhi piangono la primaveramorte
l’estatemorte e nessuna alba precipitosa
sopravviene a digrignare denti sul ghiaccio dei pensieri.
Laggiù stanno annidati
gli uomini con gli occhi socchiusi
là un dio tuonava inseguendo il fuoco del tramonto
e i libri lividi nel silenzio delle sale
vibrano e si stringono impauriti.
Fulmine e fuoco oltre i vetri nel mondo.
Gridano i libri
perché la città è assediata.
Temono essi il fuoco.
Cosa vedranno ancora i nostri occhi?
Navi affondate nel mare.
Ma sulle onde camminavano gli uomini
233.
Italia maledetta con mancanza d’onore
vivo in te come vive il cinghiale nella radura
o il disastrato scricciolo disperso
nell’incavo dell’albero centenario battuto dal fulmine.
Troppo vecchio per morire per ascoltare le voci.
Italia maledetta dentro la foresta di luce
oggi urlando sembri l’oceano adirato che mi sfugge dalla mano
o la lamiera di due automobili in fuga.
Senza più galere tu fatta padrona dai ladri
in verità hai la coda tagliata di un pesce alla deriva.
Che bandiera porteremo nella luna?
Carichi di barattoli di birra
lanciando lattine vuote nello spazio
per il giuoco o l’ozio degli angeli.
CHI È RIMASTO DI QUELLI CHE
TENEVANO DURO QUANDO LE COSE
ERANO VERAMENTE IMPOSSIBILI?
La fierezza del cuore viene meno
se non è fierezza organizzata.
Quella cultura è passata attraverso
la morte
e adesso poco per volta rinasce.
234.
Comincia una rissa al settantesimo minuto
davanti alla tribuna del re decapitato
dove nell’ombra siede il padrone di un potere senza onore
e il diavolo ghigna da una tomba scoperchiata.
Napoli perduta dice la mezz’ala napoletana
lanciando il pallone oh Napoli mia d’oro
sei caduta nel mare tu
Posillipo la stringo fra le dita
è la piuma di un tordo caduto dopo il lungo viaggio.
Oggi non si può vincere e lui non vince non vive.
Gli passo la palla perché è infelice
solo ricevendo il messaggio che rotola nel vento
si quieta e può sperare
che non sia l’ora bella di morire.
Per colpa di colui che là siede fra i fari e i fori
sempre corrotto ignobile e volgare
abbiamo toccato il fondo dell’inferno.
L’uomo è stravolto dalla fame di emigrare
ha sete di viaggi in fuga
approdi nell’eldorado della terra
là dove uccelli d’oro
covano uova da cui escono angeli. Li risucchia invece la caverna
del niente.
235.
I libri corrono ansimando
si appoggiano ai muri con la mano sul cuore
nelle sale che l’autunno inquieta.
Dicono ahi povero
amico
hai trafficato in libri per la vita intera
senza scriverne uno
come un vecchio che vede figli di altri per i prati correndo
nelle domeniche d’estate.
Parlano i libri
essi avara mercede
sopravvissuta al massacro delle anime.
Preannunciano con il soffio dei fogli nuove parole.
Un libro corre la rondine l’insegue
con un riverbero che sanguina
nel riverbero vaga fibrillando la sua ombra impazzita.
Le pagine fuggono e seminano oscure orme
un antico cifrario per uomini ormai indifferenti
si perde sul prato e
oh amate macerie il libro declama nel giuoco nel crollo
di questi piccoli segni che andranno oggi perduti.
236.
Li uccidono.
Italia maledetta maledizione d’Italia.
Li uccidono con sapienza con pazienza
smorzano le candele e l’Italia è nella cenere
li uccidono tutti
specchi non appannati da un fiato
cuori di sangue antico
li spengono soffocando le parole
resta l’orma di un piede nella trazzera
IL PASSO CHE ALL’ALBA È GIÀ DIMENTICATO.
Allora i vestiti in nero del potere piangono
maschere in gondola ridono
diavoli di tombe etrusche inesorabili ladri
dicono verbi stringono foglie fra i denti bianche le mani
per l’attimo televisivo.
POI LE GRAVIDE JENE ATTENDONO ALTRI SEPOLCRI.
L’acqua scomparsa dal mondo
gli occhi si bagnano nel sangue dei cani
tutte le maschere alla finestra
RESTANO COLONNE SMOZZICATE SULLE MONTAGNE
237.
La mia patria sulla tomba paterna toccata.
Il ramo del biancospino stanco di polvere si appoggia alla siepe.
Nubi spezzate dal jet contendono al prato
un sole rosso prima che cada l’autunno.
MA SE VI MORDETE E VI DIVORATE GLI UNI CON GLI ALTRI
BADATE DI NON LAVORARE ALLA VOSTRA ROVINA.
Non mi defilo.
Quando già avanti negli anni vicino alla morte
scrive a un discepolo lontano
affrettati a venire prima che sia l’inverno
è giusto stringere la tua mano
io ti saluto addio
QUELLO ERA IL TEMPO DI SCENDERE IN CAMPO APERTO
[PER LA BATTAGLIA.
Non esacrerò le mie memorie
finirò con questa foglia sul petto
raccolta polvere dopo polvere
inquietudini di tempesta e
inesorabili notti d’attesa ascoltando il sangue del mondo
gridare dilapidare la speranza.
Mani giovani hovisto protendersi verso l’infinito.
La ragione è il vomere che scava un piccolo campo
non lascerò che le povere ossa
siano accompagnate nel fuoco
se non dagli occhi di unamore.
Ahi, lacrime giuste per mio padre.
238.
E in questo mondo perduto che ritrovo
l’origine del mondo la speranza
del mondo
fra foglie cadute da mani
silenzio non consumato dagli occhi
le farfalle ricondotte a miti frammenti d’agnelli divagano
ciò che appartiene al futuro è rovesciato
nel tempestoso passato.
Mi rifugio nella polvere del tempo
soffiata dal dorso di un libro del Seicento
era dimenticato nella casa perduta sui monti.
Torna il suono segreto del silenzio
lascia il vertice dell’acero
risale la collina
si perde fra le ombre della sera.
Nell’ordine severo del prato appena sfiorato da un suono
i libri corrono inseguiti dal fulmine.
239.
Ghiacciai come l’occhio di un deserto
abbassate le rive del lago
l’acqua brucia l’acqua scompare crepe di alberi
fiumi lividi sbalorditi.
Dice il giocatore di calcio vola la palla
taglia l’erba verso una bandiera
– cosa aspetta dalle sue mani il portiere
se non prendere e lasciare
accettare rendere o il severo aspettare?
Oh i libri si muovono corrono gridano cantano
pregano chiamano
i libri aspettano una antica ventura
di notte lacrimano
nelle sale di nebbie deserte di luci
i libri gelano di silenzio nella solitudine dei conventi
il libro solenne
s’aderge proclama
la fine del mondo. È una nave sull’acqua. Si muove
la città di Gomorra invasa dai topi
calpesta i piedi dei diavoli in rotta e
i libri s’incendiano e incendiano il fuoco del mondo
bruciano avvampano nelle
sere che l’autunno trascura. L’inverno avanza.
Posso restare senza amore
se la tua mano non è protesa
dice il signor D’Aubigné padrone di castelli
devastatore di fortezze e profeta di rondini.
Adesso nello stadio seduto.
240.
Ti sei rovesciato bicchiere di fiele maturo?
Ricavo rabbia affanno cammino sul filo delle cose
uomini non navigatori
intersecano il mare che non ha più tempesta
cratere immobile nero.
Placate le furie questo è il tempo
degli uomini che si perdono
non sono eroi non camminano sul filo del sole
stringono una margherita mozzata a ricordo del tempo.
HO FATTO UN LUNGO BAGNO DI SILENZIO
perduto sono lontano solitario
in un mare d’erba vedo la città con torri franate lontana.
Le conseguenze del maltempo si calcolano a fatica.
I libri tremano per i peccati
gli angeli li bruciano ancora
angeli vendicatori senza il dono
della pazienza.
241.
Navi si muovono navi arano il campo navi gridano.
Gridano le anime perdute in volo da strani navigatori e
cercano approdo.
Navi anime ombre ali penne solcano i flutti.
Quando atterrai le fortezze, dice il
signor D’Aubigné, quando
da rami i nemici…
Quando la partita si concluderà,
dice il giocatore di calcio, quando
con questo caldo nella sera nera…
Quando ascolterò il profumo dell’acqua caduta dal sole
perdersi nella risalita
alla basilica
fra le voci che invocano…
Vedo i libri che fuggono scendono
alle pareti strisciano nelle sale senza un’ombra buie
e sulla pianura padana la voce di Salimbene chiama
chiama a raccolta altre voci per aspettare l’inverno.
Gridano i libri e
battono ai vetri chiedono aiuto.
Dice il signor D’Aubigné bruceranno tutti sperduti
polvere bianca e fatica
prima dell’arrivo delle rondini.
E la fine? Sopra lo stadio un elicottero
getta volantini
per la prossima festa nella giungla.
242.
È un cospiratore oscuro quello che corre sulla sabbia vicino al
mare e non lascia orme.
Achille Varzi arriva di sera e
“so che ti perdi nell’attesa
ma nell’attesa è inutile aspettare l’ombra di un volo”.
Il signor D’Aubigné dalle alte scritture e dalle uova d’oro risponde
nelle tempeste e nei venti dell’Africa
esse pellegrine leggere ruotano forse disperse
immerse fra i capelli dell’oceano.
Aspetterò ancora. Nell’attesa
cadono fortezze si sbriciolano muri di cinta
ponti di ferro avvampano
la pazienza dopo una sconfitta è l’attesa per l’inverno che viene.
Con lui
navi cariche d’anime per la partita
trascinano fischi di navi che inseguono il cielo
occhi di uomini aggrappati alla fune del giorno.
Dice il signor D’Aubigné nei castelli assediati
i libri erano la sola ombra viva. Respiravano forte.
Fuggivano pipistrelli
nelle sale infuocate dal sole al tramonto sostavano.
La biblioteca era munita era
porte di legno dipinte d’azzurro
noi l’espugnammo.
243.
Il giocatore di calcio corre lungo il filo di lana
il prato è bagnato
piove una pioggia leggera.
Deve arrivare la nave
da dove, da chissà
viene dall’Africa, dall’Asia
la nave deve arrivare
è una nave ma non arriva mai.
È un peccato è una vergogna
il pontile è deserto
il mare è senza navi
e io uomo sul molo
aspettare aspettare non posso più aspettare
la nave che dall’Africa deve sempre arrivare.
Qua è la stessa menata
sempre la stessa finestra
non cambierà mai niente qua
la nave non arriverà –
quando tutto e già fatto già detto e
niente per me e per te potrà cambiare
cambierà.
244.
Appartengo ai soldati gettati fuori dal campo
ruota di una piccola vergogna
oggi legati alla gogna
agli abiti appiccano il fuoco.
Uno le prova tutte
il resto deve ancora venire.
No, caro amico, no, non ho paura
sono molto amico delle acque
esse fanno bene al mio spirito
una terra senza acqua
è un cuore senza speranza.
È cosa meravigliosa
vedere il cielo inghiottire il petalo di una rosa
mentre le acque del mondo scorrono
fra una roccia dura.
Oggi contemplo l’occhio giocondo di un cielo
ruotare cantare volgersi e dire venite
nella terra Italia maledetta
dove il fiume dei campi è latte di miele.
Arrivano allora da tutte le parti del mondo
come rondini perdute
ma bevono solo il fiele
fra l’erba che adagio sbiadisce.
245.
Nel salone è deserto della biblioteca
accucciato contro il muro
muove il libro adagio lo sfoglia
lo prega. Adagio.
Il freddo dell’inverno di un azzurro pavone
nebbia sale risale la pianura
dilata la terra padana cercando l’avventura
così si cerca una canzone piena di luce ma che fa paura.
Se celebrato dice il signor D’Aubigné
mi sentirei offeso mortificato
il bidone del pattume
trascinato nel cortile sotto il lume
di una lampada solitaria che dondola.
Questo è un colpo, dice il giocatore di calcio con la maglia
verde rossa
questo colpo risveglierà le voglie addormentate
del consumismo
lo renderà agli occhi giovani delle parti in guerra
fiore appena raccolto
con l’occhio di brina di un diavolo.
246.
Ha perso le piume un angelo narratore
quando quella terra si muove
e nembi si scontrano con le ombre
uomini giuocano con la spada calano fendenti
donne consumano gli occhi su terreni disabitati
specchi crepati
nel mare senza respiro le navi transitano in affanno
ma il grammofono suona un disco della Voce del Padrone.
Riusciranno i pompieri a spegnere l’incendio che arriva dal
bosco sfiora la periferia approda al palazzo dei libri?
Sotto il verde della fabbrica di vetri
tre uomini freddi di neve
lanciano bocce palle di legno corrono
lasciano orme di sangue
coltello cavato dal cuore di un toro macellato.
Aiuto aiuto grida la donna
nel silenzio della sera
la vita porta lontano ma non è ancora il suo tempo.
In quell’inverno grandi freddi improvvisi
dice il signor D’Aubigné
ricordo una gelata sul fiume
il fumo delle lampade nelle sere che non
finivano mai
gli scaffali dei libri immobili rabbrividenti.
Ero solo nelle sale perfide alate e camminavo aspettavo
247.
Essere con coloro dice Che Guevara
che scendono dal cielo e portano il fuoco sulla terra.
La giovinezza com’è lontananza dice il signor D’Aubigné
come è bella la giovinezza ma
anche la vecchiaia da poco cominciata ha il verde di un’erba
nuova
barbaglio di spade per la gloria del giorno.
Non c’è via di scampo.
Dice il signor D’Aubigné nell’ultima biblioteca assaltata
nel castello preso bruciato distrutto
s’alzarono civette nere
ali piegate dal fuoco dal fango
senza voce
bruciarono i libri come teschi di capre
le nere civette affogarono in un lago italiano
Italia è il paese coperto di lacrime
dove è fiorito tutto poi ogni cosa distrutta.
Sono un guerriero di pietra fermo alle Termopili
la sera è quieta la sera non ha voce la luna
è un’ombra aggrappata ai rami che chiamano il cielo.
Un rombo il braccio la testa di Lenin
sull’asfalto e i carri armati appostati.
248.
Guarda che orizzonte furioso
nero annerisce nel rosso
il fuoco addosso è cielo dolore
furia del cielo il cielo è dolore.
Cicale spente ridono nella tempesta del cielo
Le nuvole corrono indecise rosate se
andare o tornare
i cieli annegano dove non c’è più la
terra
dove il mare non c’è. Neanche spiaggia di mare.
Lo stadio brucia la partita è alla fine
l’urlo del giocatore nel cielo infuriato
rosso dolore di nembi.
La palla urlando
rincorre il vento furibondo del mondo
vola s’esalta.
Il canto delle erbe superstiti sfiora
la memoria dei giovani esaltati
ma il Che non è l’ultimo degli uomini invecchiati
è l’asteroide frammento di un mondo disperso caduto nello stadio
dopo mille anni di un viaggio nel nero della solitudine.
Il cratere è la rossa ferita nella terra.
O tu che arrivi alla nostra casa
portato dalle tue cavalle, giovane ancora
e ancora non sei morto e ancora noi ti aspettiamo.
(I due versi in corsivo, presi da Parmenide, Frammenti 1).
249.
C’è qualcuno che si salva se c’è la bufera?
Non è questa l’Italia maledetta che amo desidero non è
l’Italia che vince
non è l’Italia superba
questa è l’Italia che annega dentro a nubi sconvolte
i delatori della notte camminano con la lampada sotto il mantello
l’Italia è nera dice il signor D’Aubigné.
L’uomo soldato che andava per mare
cercando la terra cercava la patria e portava guerra di spada
ma Itaca approdo di pietre splendeva di rose.
Il giocatore di calcio la palla al piede inseguito dice
nelle biblioteche severe gli angeli con le ali aperte
contro il soffitto bianchi corpi rosati
gli occhi senza più tempo le dita sperdute fra i veli
volarono
sullo stadio stracolmo di gente e giovani voci fumavano
e io trafiggo il mio corpo
ombre notturne colano sulle maglie la partita è alla fine.
La prima parte del corpo la regalo al mio capitano
la seconda al compagno vicino ancora ansimante
vigilatore con gli occhi rossi di un leone africano
sulla nostra buona fortuna
perché la mia patria maledetta è ai libri ingrata.
E non ho più nemici non ho più amici non più non più.
250.
Il sole brucia nell’ultimo tramonto
l’ultima avventura. È venuta la sera.
Fiamme radono le erbe fiamma è nel cuore
di piccoli animali spauriti nascosti dietro i sassi
bruciano i vetri delle biblioteche
gli scaffali di legno odorano di onde di boschi
avvampano i libri chiedono pietà
o muoiono in silenzio o scendono in battaglia contro il tempo
che li tempesta.
Cenere nelle biblioteche con gli avidi pipistrelli
chini sopra gli ultimi fogli. Fumo.
La patria e i suonatori di tromba
dice il signor D’Aubigné declamano alla notte
nel calore di una stanza allietata da quadri
di uomini trapassati…
Allora è il caso di fare a loro vedere il fiume della
rivoluzione
il tempo che cominciava
il tempo in cui è fallita
perché tutte hanno vita breve
e gli uomini scambiano l’entusiasmo per necessità
così la spengono con un soffio lieve
e dimenticano. Essi perduti.
Una nube reale li coprirà di sangue nero
da regni sconosciuti ma, dice il giocatore di calcio,
un uomo ha macellata la Russia e
non veniva da lontano;
nel nostro campionato non potrà gareggiare la Stella Rossa di Mosca
251.
È il giorno delle rondini in arrivo?
Rondini bianche con ali bianche di polvere
dice il signor D’Aubigné.
Il giorno che mi sono capovolto racconta Varzi ho
ascoltato il pianto di un bambino
l’erba bagnata fasciava le impronte
mentre lentamente morivo.
Le rondini dice il signor D’Aubigné sono colombe del sole
vengono da lontano.
Anche la morte racconta Varzi lei sola sa guardare
il rosso del cielo che si spegne, il rosso del cielo lo guarda quando
promette la notte. Lei resta in attesa lei sola è paziente.
Lei sa aspettare.
Se posso giocare gioco gioco gioco. Se posso giocare senza
lasciare spazio al nemico o al gelo che fruscia fischia si esalta
dalla collina travolge la città si inchina sulle gradinate se
posso dice il giocatore di calcio giocare senza regalare spazio al
dolore
ma cuore e gambe in corsa e l’orecchio attento come il
cane alle voci che salgono scendono ci offendono dalle gradinate
è una strana miscela di fiele il mio giuoco
non lascia scampo deve travolgere il nemico per sempre per sempre
oh allora quanto più mite e giovane sarebbe riposare
trafitto quattro volte da una spada
ascoltando le voci del padre che chiamano a un onore scomparso
e io con gli occhi a terra guardo senza pietà
quello che ancora resta di vita nei suoi occhi.
252.
L’anno della grande nevicata ero certamente vivo oh come ero vivo
anch’io correvo fra la neve
quando sui tetti di Bologna quella neve cadeva.
Grandinava la neve
non sembra vero una montagna di neve rossa sui tetti di Bologna.
Dopo il comunismo il vento non si è più fermato ma non è così
freddo
come vogliono i sacerdoti del bel canto le voci bianche del
coro.
Il presente stato d’Italia lo racconta il grande frate sapiente
se dice a toccare la terra mi meravigliavo e tacevo.
Amore è un sacrificio che deve ancora venire, bellezza
è la speranza che arrivino in porto navi e fortuna
vele di uomini e pifferi che arano il mare come una
prateria.
Basta vivere e non disperdere le parole, dice
il giocatore di calcio mentre il
giorno tramonta in mezzo a trecento uomini di pietra.
Ho camminato per un’ora dice Glenn Gould e ruderi ruderi mi
sono imbattuto nei ruderi
al bordo delle strade
sul primo viottolo di una pianura.
ruderi erano in polvere lungo il fianco di monti senza nome
ruderi affioravano nello specchio di laghi che riposavano splendendo.
Piccole rughe fluivano anche sopra la mia mano.
Era questo che chiedevi? Spettatore
dello staccarsi dei ghiacci, ribollire di scaglie scagliate lontano
ribollire di acque nei fiumi prima deserti
e il rancore armato del mare che si risveglia oggi e non chiede più
aiuto?
253.
Sempre vivente vincente dice il signor D’Aubigné il mistero era nero
nero mistero mistero misterioso un vessillo furioso
sbatteva fra le inferriate arrugginite
significava nella lontananza
resistenza a oltranza.
Un mistero nero un mistero misterioso un vessillo furioso
nella pianura non un’anima trascinava ombra. Spettatori
noi soli.
Contro chi faceva resistenza il vessillo disteso vivente?
Contro chi proponeva nella lontananza
resistenza a oltranza?
Fra macerie mi siedo dice Guevara osservo
la giovinezza del mondo vorrei
cantare il ritorno dei giorni.
Penso a un raduno nella pianura padana dice
Chet Backer tutti si incontrano sono amici si aspettano
parlano ascoltano
Woodstock sul fiume Po dopo il ponte a Ferrara
giallo impaziente il fiume fiuta la foce si inarca.
La pianura è terra di un silenzio perduto
e nelle nebbie terribili dice Varzi correvo di notte
la strada non finisce mai la luce folle dei fari.
Se la partita è finita dice il giocatore di calcio
vorrei volare con le rondini sopra i filari respirare
con una biscia viva
mi viene in mente che posso sfiorare le foglie senza abbandonare la terra.
Nei pozzi di petrolio con le fiamme lucidano la luna nera
gridano le rondini in arrivo dalla frontiera del cielo.
Le conto dice il signor D’Aubigné cadono una per una sono palle di fuoco
ma noi seduti fra pietre
possiamo ancora aspettare un altro futuro.
Parte terza [254]
Astolfo trasforma sassi in cavalli
L’intera parte terza è dedicata a un dialogo interferente e continuo fra l’astronauta sovietico Serghei Krikalev, dimenticato per mesi nello spazio durante la crisi al tempo dell’ineffabile Gorbachov, e la derelitta signora Mirella Silocchi qua da noi in Emilia (e poi in Toscana), sequestrata per denaro, torturata, seviziata, uccisa dopo essere stata imprigionata per mesi nel fondo di una buca come un osso di cane. Testimonianza dei tempi e dell’umano dolore e dell’umano furore.
254.
Tutti col cappello in testa
tutti con il cappotto scuro
tutti allineati per la storia ma il dadaismo
non esiste più
l’acqua sotto i ponti di Parigi di Berlino è nera
la ricerca dei pesci resta immobilizzata
dalla mancanza di editori euforici
mentre il linguaggio della poesia torna di attualità.
C’è qualcuno che resta fedele fino all’estrema luce della vita
a un ultimo amico
e per quanto allucinato
questo tipo d’uomo non fa uso di droga.
C’è qualcuno che scrive mentre dorme
e ha potuto assaltare il fratello con un coltello
così per continuare a scrivere a un certo livello
mi sono fatto ipnotizzare
chi arriva a Parigi a Berlino da New York
rompe tutti i vetri delle cattedrali
batte i morti fino a che sono caldi
saltato sull’affusto di un cannone
prima balla poi dà un addio alla libertà
infine accende da nord a sud una lunga rivolta.
In tal modo mentre uno girovaga per i boschi
e l’altro si preoccupa della bellezza del linguaggio che usa
e un altro ancora parla poche parole con pochi poeti
e schizza bozzetti per uomini non superiori ai trent’anni
ah, si può commentare, la lingua francese è certamente ammirevole
ma è anche ammirevole la lingua italiana almeno quanto
la lingua francese
soprattutto quando è cantata da Jim Morrison nei pochi
momenti in cui si dimentica d’essere americano
lui un cantante che non si stancava mai
fino a morire
(a morire, ad essere sinceri, per la fatica di vivere
fra le lucertole
il cuore non gli ha retto
e si può anche morire quando non si può parlare e canta-
re una canzone o scrivere
una parola).
Poi c’era la solitudine intorno che nuotava veloce.
L’uomo chiamato Theodor ascolta le cose quindi
le dimentica in fretta, laggiù dove c’era una nuvola nera
adesso il vetro del cielo insegue l’estate sui monti
e l’uomo che ascolta la sera venire
non può essere giovane ancora. Non può essere giovane. È un vecchio.
L’altra parte del bosco è stata colpita dal fulmine
l’incenerimento delle foglie uno spettacolo
da non perdere
il mondo si orba della luce le stagioni si sovrappongono
intanto Theodor taglia il pane sul tavolo con molta amarezza.
Che poesie scrivo (pensa) con le frontiere assediate?
Le spiagge insanguinate a non più di cento chilometri
questi nuovi cieli che hanno perduto la luce
e l’ultima strada consentita al branco di pellegrini
conduce a un mare sporco di legni che uccide le onde.
Che muse trafiggere con la freccia bagnata nel fiele di un
lupo impazzito?
Non so a chi parlo quando parlo
a chi rivolgere domande
perché nelle città le ore notturne sono inverosimili e lunghe
e uno non vede alcuna verità messa
come la ragione vuole.
Quando uomini dalle lunghe barbe sono alle porte che poesie scrivere e poi
si possono scrivere poesie si deve?
Le poesie portano la lama del barbaro lontano?
Forse l’olio bollente di una parola
mentre i nemici scalano le mura
vale quel gruppo d’arcieri con l’occhio di falco?
È finito il lamento è finito il lamento sento
muoversi le radici di un albero che si scuote
respira sotterra apre le maglie beve
luce dal giorno appena acceso.
Forti correnti di venti dell’est trascinano nuvole rosseggianti
verso distese con ghiacci immobili silenziosi (come viandanti
di pietra)
e lì si riflettono le ere trapassate i voli
della speranza e l’ombra degli uomini che bevono i vini micidiali.
Ciò che era terra non più. Notte dov’era giorno.
Gli animali (e gli uomini) restano folgorati nelle caverne
da un sole troppo forte troppo alto ma
se fuggo dal nemico
non sapendolo riconoscere
perderò la forza di fuggire
o d’incontrarlo
il giorno in cui dovrò riconoscerlo.
Ragazzine nude vendono fragole d’inverno ma si sa
sciupano parole
spezzano noci dal gheriglio di latta davanti agli specchi
lanciano sassi ai vecchi che dormono sotto il sole
intanto ammirano nelle vetrine il proprio profilo di bambine.
Ometti nanetti girano per la città
sputano verbosi calamitosi fra i sassi delle aiuole.
Saturno d’oro con il pallone d’oro
Saturno con al piede un pallone
guardami bruciare gli dico fratello
tu sei tremendo e non hai paura di morire
guardami bruciare chiuderò gli occhi nei tuoi occhi
ma tu non ascoltare altre canzoni
l’aria è un vento di fuoco per gli alberi che hanno i capelli.
Quanti anni ho vissuto?
Conto gli uccelli nascosti su quel povero ulivo
li ascolto mentre si affannano a chiedere pietà
da mare a mare non basterà un’occhiata
se il destino del mondo sarà ancora la guerra.
Il soffio della spada sulla pianura di Ilio.
Attendere senza speranza non è destino per l’uomo
perché ho visto molte volte che la storia
ricomincia da capo o non ha soluzione
So bene che una mano la mia non può prolungarsi nella
caverna del mondo
né può sfiorare la coda del jet che nella notte migra
sopra l’Europa in tempesta
ma so che l’Italia è un prato di pecore grigie disperse. Di neve di-
spersa. Disperse.
Una parete nel mondo resta ancora per l’uomo in fuga sui monti?
L’uomo può mordere l’ultima mela
senza attesa di morte nel paradiso perduto?
Nel confronto l’esistente siede
sulla polvere dell’esistito e
l’ombra dell’esistito rende giganti le formiche.
I miei contadini usciti dalla storia
rientrano nella storia armati di denti e di fuoco.
I tempi odierni i tempi odierni
welcome welcome da qui entrate nel regno della felicità i tempi moderni
portano sulle autostrade. I gelidi colli delle auto
nelle domeniche d’abbandono
prima del ’53 si combatteva per la divisione del latifondo
oggi si lotta ancora e ancora per l’esistenza nuda e cruda.
Oh preziosa famiglia degli ingegneri di anime
il colloquio dell’argento e dell’oro
della polvere con la foglia e con la lacrima
del legno cavo di una noce abbandonata.
La pietra è tua la pietà è tua scagliala. Dove?
Dove c’è l’ombra grande e
dove l’ombra della città senza silenzio
siede aspettando la sorte. La sorte.
Colpisco? L’avverto la chiamo la risveglio
dico anch’io ti vedo solitaria aspettare
sei la linea di fumo sopra il tetto inclinato
la lama di un sole perduto e ritrovato
che sciabola sopra il mio letto
come sarà la giornata l’immagino all’improvviso.
Addio Fidel nel sole del tramonto le piccole amebe
incrociano sull’acqua le alghe in tempesta e verdi
negli antri le sibille mormorano parole sconosciute.
Il fuoco che brucia vuol parlare.
La terra avvolta nella foschia
una città antica sarà presto distrutta dalla guerra
ma adesso è ancora in pace
e nessuno può immaginare il destino che l’attende
la guerra è durata qualche ora appena
poi tutto il panorama è cambiato.
Sul luogo dello scontro l’erba non cresce più.
La donna non parla o non vuole parlare
in quei giorni gli uomini cercheranno la morte
e non la troveranno tutto sembra spazzato via
e la terra una regione di antichi ghiacci senza voce senza urlo senza grida
una luna di cera alza candele sublimi
e fa luce sull’alba del giorno nuovo.
Durante lo sciopero ogni camion che esce è una mazzata
sono dieci auto di meno in ostaggio
l’ostaggio è quello che conta quando la lotta è dura
ti senti liberato? non mi sento liberato.
Con leggerezza sogno dispongo le danze
prendo le distanze.
Quando lei fu rapita la danza era leggera
nessuno sognava il passato se non
con la tenerezza dovuta
e nessuno immaginava che il futuro
poteva diventare più doloroso del presente.
Potessi
dentro alla tempesta del tempo
rinascere bambino
perché non mi rassegno
al tempo proliferante di stracci battuti da un vento scabroso
vivere in un paese disarmato di benefici
senza più argini e confini.
Che luminosi tramonti
che albe invereconde
quale ribollire di carpe d’oro
sulle sponde dei maceri emiliani
allora verdi per rane.
Acque sperdute fra i pioppi
di una pianura che non si rassegna
oh fiume che di balza in balza cadi sulla schiena della pianura
ti avevo perduto per la paura di perderti
adesso ti trovo accosciato come un cane
bagnato dall’autunno
davanti a una chiesetta abbandonata
tremante di fame.
Come ti incontro amica mia all’angolo di questa strada?
o nel quadrivio acerbo
dove i campi si aggregano si consumano in solitudine?
le ombre appaiono scompaiono incombono come una mano?
Suggeriscono che l’orma della vita (tracciando) lascia un suono
e non è interamente scomparsa
parliamo sillabando tocco con il tacco la terra
ogni parola cade e si incendia ma subito è spenta
appunto con il tacco il mondo ha già troppo fuoco
perché il bosco delle parole sia lasciato bruciare?
Sono calati in branco come lupi affamati sulla città
e i ricchi sono sempre più ricchi
i poveri non hanno più scampo
questa Italia questa Italia
questa Russia questa America fanno orrore
la violenza iperrealista è il suono è la voce di questi anni senza onore
caliamo in branco verso il mare e prosciughiamo il mare
grandi lavori dappertutto sventrano le case
dalle finestre vuote
arlecchini di legno guardano il cielo contano le stelle perdute.
Le ruote delle auto sono cerchi di fuoco
non è così sapiente da potere fermare il tempo
ma bisogna sapere che i vulcani corrono e la pianura si dimena
il pescegatto trapassato dall’amo è abbandonato sull’erba
come la carpa quando i maceri erano nell’occhio del bue
o cantavano sopra il cuore della canapa che sbiancava.
L’acqua l’acqua l’acqua chi la salverà
con le sue mani con la sua bocca di vetro ferita dal morso del
leone? Con la sua coda di vitello?
Bocca che bevi bevi l’aria abbandona il sangue
sul corpo del fiume e appena lo intravedi colpiscilo a morte
sotterralo nella sabbia di questo deserto
che ha custodito fra le sue penne la pergamena di Alcmane.
Il sangue diventa oro se guardo dall’alto la terra
con la schiena di un orizzonte senza confine
delirio di colori
nel silenzio che ha paura della notte.
Paura del silenzio nel mondo del silenzio della notte
il silenzio percuote
l’uomo perduto nel silenzio del mondo che accende le luci della città.
Sembra che la vita sia un canapo lungo disteso ahi tagliato dalla
falce di un giorno
ecco il cielo diventato più piccolo della
terra ristretta fra la sua faccia d’arancia perduta nel volo e
la nebbia del mondo
poi la terra si amplia come il lamento di una tempesta
quando la stagione matura sopra un mare d’acqua che non dorme mai.
Le cose vive della terra ferme in attesa ascoltano.
E via, il cielo quel cielo è diventato timido vuoto
gli uccelli superstiti fissano le ali con gli spilli
per restare sospesi, gli uni diversi dagli altri
nessuno in compagnia. Gemono un poco o
chiamano da soli.
Il tempo consiste in aridità di luce
la polvere sopravvanza
scoppiano cicale nascoste fra le canne nella
solitudine dei solchi vicino alla città, alle case
affiorano dalla sabbia le teste delle balene
si offrono spolpate ai predatori calati da rocce sublimi.
Sono qui (pensa) e resto
mi spezza questa tempesta d’autunno
mi scuote il ricordo della pioggia leggera
lei mi porta il sentimento del tempo.
Il giornale sotto l’albero spaccato dal fulmine parla.
Guardo il tramonto del sole fra il carbone del cielo
quando ero giovane ancora
una nebbia così fitta d’autunno non si vedeva mai.
Laggiù è la terra volo vedo le formiche del silenzio sul
collo della terra
una diversa realtà colpisce nel destino.
La parola mi lascia addio addio vado per mare per sempre, vago per
cieli
oggi l’attesa della guerra come spettacolo
è la partita di baseball in uno stadio verde americano
maledetta merica ti amo. Vedere la copertina del giornale lucida di
pioggia con il soldato disteso che brucia.
Anche la fotografia è come la TV, racconta l’uomo di questo giorno
sempre in attesa dell’evento.
Non l’uomo nudo ma l’uomo vestito
non l’uomo triste ma l’uomo tradito
l’uomo coperto d’ombra, uomo dell’ombra. Nell’ombra.
O morto o morte vecchio capitano.
Sono felice felice sono felice
ho il fuoco del mondo dentro agli occhi le mani e
lo spengo col sangue
le foglie cadono, un’allegria morsa dal vento
scuote la quieta follia di questa notte di luce.
Si balla sotto la neve sotto le foglie sopra le foglie cadute
novembre è il mese della nebbia e di una antica vittoria.
Escono dal cancello della fabbrica
un uomo cammina a sinistra un uomo cammina a destra
un uomo ha le mani in tasca stringe il coltello
l’altro sfoglia guarda legge il giornale
un uomo aspettava ieri aspetta domani
i cancelli chiusi sono i denti del leone mai stanco di azzannare.
Vedo Bologna la ricordo nelle sue frecce di Messico e nuvole.
Questa crisi mette in pericolo la democrazia
intollerabile fiume d’odio ma anche rivalsa d’amore.
Italia ingrata grata Italia con Messico e nuvole
i capitali emigrano
code d’auto verso Lugano la bella
la signora parla con 40-50 milioni dentro le borse intanto
corrono fra gli alberi al bordo di un asfalto assonnato
così nuove le banconote le lecco con la lingua di foglie le tocco
mentre la BMW corre invasa dal volo di formiche sapienti.
Mi immedesimo con la mia vita appena vergognosa.
In quella casa
ancora il fuoco era vivo
palpavo il fuoco con la mano lo stringevo fra i denti
ma era la parola a riscaldare il cuore.
Gli gnomi dicono è una pazzia!
Lei era quieta come può essere quieta
una donna nella valle padana poteva
accedere a qualche minuto tesoro nella sua
villetta fra i campi lei che aveva camminato
per le strade di questa terra e poteva sapere cos’è
il dolore
la sua abbondanza e
il cadere di giorni lunghi lunghi sui gradini di una casa.
Ricordi le passeggiate per i viali d’inverno?
Solo dopo aver vissuto molto
sono diventato giovane.
Devo liberare la mente
dai pensieri che avevo appena ieri
stamattina
devo diventare non la casa della follia ma la casa buona della collina
disabitata per l’inverno
franata dentro le ali del gelo che non suona alla porta.
Arriva un postino zoppo butta le lettere giù dal camino
brucia la voce per sempre
non mi avranno fuggirò lontano sempre più lontano
là dove i mondi si scontrano
illustrerò il mio diagramma con bandiere di foglie
non vinto cucirò la bandiera
Appoggio la testa sopra un cuscino bagnato è
l’anno 1995 turbini eccelsi
pietre cadute dal cielo
a significazione dell’ira che costringe gli uomini
a temere. Cominciano a cadere
pietre bianche di fuochi.
Vicino alla casa pietre di fuochi. Maria
Sirocchi il destino segnato da pietre. Lontano
il giardino l’orto. Romagna
con frecce di acque fredda montagna d’amore
è lontana. Per sempre?
Lei ombra lei si solleva lei si protende a riguardare il mondo.
L’uomo non è così buono
mai. L’uomo è così lontano nei freddi deserti di neve.
Mai è buono l’uomo in terra di Romagna
con i boschi che parlano i boschi che ridono e
hanno i silenzi terribili nei giorni della luna piena.
Qua sono e resto nella notte dei tempi
neanche le rade stelle vedo
disperse in cieli di polvere bianca inquieta.
La Romagna è perduta l’Emilia è perduta
forse è perduta l’Italia
in un cielo tempesta di nuvole onde
ancora la vedo respiro le betulle percorse dal vento
(il giorno a cavallo vola di una luce perduta).
La vedo la sento terra disfatta da toccare con mano
sono entrato nella nebbia che arriva lontano e
ho visto il fuoco. Fiamme e
mi è parso d’essere perduto per sempre perduto
un sasso scagliato contro un tronco di pioppo abbattuto.
Anita dice il mio primo nemico è stato
il mio primo collega di lavoro.
Ma io una vita tutta da vivere avevo
non consumavo le ore le ore le vivevo
l’acqua scorreva ancora non era sangue grido
non carne di cane divorato da un lupo sulla Maiella.
Lui dice la Cina e le sue acque più rumorose
come un occhio aperto per il terrore del mondo
soffi di luce entrano dove cantano i pipistrelli
in queste caverne antichi re dormono vicini a cavalli di paglia.
Vedo la terra dice e la terra ha paura.
Io non gridavo nell’urlo mi consumavo intera
l’urlo è speranza ficcata come il chiodo nel legno di una
croce nera vicino al deserto
la mia vita è offesa alle radici più tenere
vedo la terra e i fuochi
vedo la terra e l’acqua
le rivedo acque profonde vene di desiderio
e là i soli indecisi
lune stravolte in rapidi arcani di luce
vedo i suoni che danno i brividi alle foglie
uomini corrono verso altre morti
auto incendiate in ogni parte del mondo
sonni profondi nelle notti profonde
le case incendiate crollano si coprono di foglie piangenti
i bambini giocano fra il sangue
qualcuno muore sull’asfalto
mentre i cani si montano gemendo.
I fiumi della Cina gli uomini della Cina sono così lontani
e non potrò riconoscerli io conficcato in caverna.
Questa è l’alba della mia memoria.
I tempi si accavallano diventano corde di pece
i ricordi navi affondate nella laguna in un giorno di nebbia.
Gli onorevoli signori della guerra sono
coloro che estinguono il destino dei giovani
e di tutta la gente riunita.
Pranzano senza pietà il sangue champagne della loro vita.
Ho sempre aspettato che qualcuno mi venisse a cercare.
Sono senza musica il mio silenzio è totale.
Come un uomo sul tetto
che sembra vicino al cielo
ma i colpi di martello le voci
lo inchiodano alla piccola terra che lacrima
conservo spada speranza per l’ultima battaglia
vedo spazi infiniti più piccoli del cuore di un cane
la terra è un’astronave l’astronave è terra ancora terra
l’astronave è terra. Solo quassù toccando lo spazio col dito
nessuna strada vedo non
le formiche scuotere ali per strade trafficate.
Ogni mese che passa mi sento sempre peggio.
Posso solo immaginare il diluvio del mondo
scendono dalle montagne i falsi vendicatori
ferro e fuoco nell’occhio
chi chiede pietà al lupo è destinato all’inganno della fame.
La terra come un’astronave l’astronave come la terra
la popolazione della terra come l’equipaggio di un’astronave
ma come può l’equipaggio occuparsi dell’astronave se
nessuno si interessa e preoccupa dell’equipaggio? E
come può la popolazione della terra queste grigie formiche
occuparsi della terra se la terra è andata perduta nei
fiumi nell’acqua e cupe metropoli sovraintendono
di frodo al suo effimero destino? Tutto è immobile
laggiù eppure ogni cosa si muove, cinque miliardi e un miliardo
metà vive in città metà vive in campagna
si oscurano i tramonti per i fumi che divagano sulle pianure
improvvisamente i vulcani s’alzano in piedi brindano al fuoco
hanno la spada in pugno assaltano l’uomo e ridono vomitando vino.
Due grandi ricordi della vita che corre sopra e sotto di me
di loro. Cinema e memoria. Viscere infrante.
È scritto: la più raffinata razionalità tecnica e
culturale può essere anche il più alto
livello di barbarie.
Un possibile ritorno sarà il mio nel giardino delle rose?
Il nostro tempo può ancora sopportare la violenza di chi è
invischiato nella terra e nel fango fra mille coltelli?
Prima che venga la neve
vorrei vederti casa mia. Ma allora
non era impossibile sperare nel tempo dell’estate più errabonda
e mattiniera
l’autostrada cantava vicino alle case e i fari
all’improvviso si spegnevano
facendo impazzire le lucciole
fra i fili di erbe nascoste dai muri.
Oh la vittoria dopo la faticosa tenzone dopo la risalita
la gioia di perdersi in un sogno (dove era la vita?)
il respiro del compagno trionfante
il mio respiro esitante
questi silenzi spezzati quante inutili attese
speranze speranze nuove speranze protese
come il deltaplano in volo sull’orlo del cratere
prima di arrampicarsi per rompere il cielo con un coltello
raggio di sole africano.
Sole. Silenzio miele. Poi parole. La vecchiaia è giovinezza di morte
non teme la vita se
per libertà degli anni, per il carbone cavato dal monte di cenere e
non ancora cenere fredda
può l’uomo dal passo violento giovane ritornare. Via
la tempesta via il tempo via gli anni i giorni i giorni gli anni
si scontrano con i giorni solcano un campo di colza
invaso dai topi con passi leggeri.
I venti decollano urlando papaveri alti infuocati.
Camminerà la vita sulle ali di farfalle feroci
prevede i fuochi ascolta le ombre le voci le albe stracciate
mani toccano mani ascoltano suoni nudi prima della
battaglia d’amore
o del sonno regale.
La gente di città nella notte arriva ansimante aspetta di guidare gli
eventi.
Prati di guerra luce di sangue terra emiliana
occhi di ferro parole tedesche fra i denti
New York gioca a bowling con le vecchie città italiane
whiskey d’Irlanda galleggia sul fiume fra morti tronchi d’ulivo
cannoni inglesi sputano saliva di sabbia con morte.
Spezzò strappò bruciò i capelli soffriva tradiva
la terra emiliana pregava moriva copriva di fango la neve e
i vitelli nei campi ma
per la morte c’è tempo.
Per la morte c’è tempo nei campi di colza con passi leggeri.
Lenzuoli fucili uomini donne nei campi dei topi con passi leggeri.
Usa inglesi tedeschi penso ancora a questi anni
vedo Astolfo volare la terra cadere sul prato
fiumi nei mari dipinti sparire perdersi andare
un filo di seta la mano della bambina che trema
una croce di Cristo buttata nel cimitero delle scorie d’amianto.
Oh Russia perduta ti chiamo (egli dice) ti chiamo
annoto negli occhi le cose accadute
finestre aperte una piuma nell’aria volante
la porta s’apre sulla foresta d’erba che l’occhio non può toccare.
Cosa succede?
La nave rotola sulle onde poco tranquille
ha odore d’abete l’alba che non dorme mai.
Nessun uomo sa disegnare gli occhi della pace profonda.
Accendimi cuore
ho voglia di fumare
accarezzo la terra con le mie vene celesti
non hanno spine le vele
in gara con il fantasma di un vento troppo giovane.
La tempesta può vincere un uomo travolto da furiosi pensieri
tracce di naufragi terribili di improvvise disdette
la primavera è percorsa dal grido dei cani infelici. Grazie
per questa storia. Dormirò imbucato in una caverna e ti ascolto
senza vedere.
Non vedo rondini non vedo basse nere leggere volare le rondini
il silenzio ricorda estati che raccoglievano canapa
lungo strade deserte
polvere sopra i sassi polvere sopra le rose
grida di donne in mezzo alla spagna.
Fra vespe e tralci d’uva lionza settembre spegneva i fuochi.
Giorni con divisa da guerra
uomini ragazze sbiancate nel fango e dai branchi di api
è il giorno del ricordo
vedo dalla buca gli uomini avvampare di cenere
vedo ascolto la terra piango il mio giacere.
Quando andavo verso Roma
quando ritornavo da Berlino
quando gli alberi mi chiamavano per nome
ero l’amica l’amico più vicino. Ho tre dita per suonare la tromba
per svegliare i soldati stesi per terra
sangue per scrivere parole sulla pelle
ma gli anni ceduti possono mai ritornare?
La pianura aprirsi la madre Russia nuda restare
chi mi ritrova fra le foglie degli spazi infiniti?
La terra madre del ghiaccio è sorella del fuoco
scoppiano i fiumi gelati sibilando anatemi
il sole disegna profili di antichi misteri nel timore del sogno.
Forse è concluso il giuoco dei dadi. Disperse le carte
ascolto segnali. E i leoni?
Non chiamo soccorso se arriva la morte. La morte è silenzio.
Il giorno del tuono è il lampo del sogno che esalta
lo dico con poche parole
io contro un muro lui mi guardava guardava. Lui mi guardava
contro il muro. Parla ancora ti ascolto mi senti?
Ho preso la valigia il cuore è scoppiato scoppiato
chiusa la valigia in fretta il treno qua sono tornata. È la casa.
Mia graziosa persona
hai ascoltato la voce l’eco la caverna il mio canto e come scrivevi
lontana la città con rose spaccate da strane primavere
qua nell’ombra di una sera attaccata alla parete di una stanza
barriere di ferro di fango di neve contro la barca del tempo
non ti lascio andare seguimi ancora un poco entriamo
a piedi
nell’antro dove l’amore è annidato
non spine non giuoco di serpi nel deserto che chiede
la voce all’orizzonte.
Guardami la mano è di carta viva
il sole non la ferisce l’attraversa appena
solo un uomo d’altri cieli può sfiorarla quando
con un urlo sulla terra atterra si placa.
Calda di latte sento camminare la luna
lei arriva addestra i pensieri i cani
inseguono i lupi al filo della montagna più alta. Fra i boschi
piovono frammenti delle lamiere perdute nel ciclo ricurvo.
L’arrivo di luci straniere guardare
voci straniere ascoltare
fra i razzi voci di marmo scandire nei campi le ore
perché l’uomo se perde l’amicizia del tempo
dicono le leggende
è solo…
piovono pietre cadono luci da nubi ricurve
sulla terra così desolata nei giorni senza amore
le città chiudono le porte quando è l’ora del
ritorno delle pecore
per sgomentare i leoni.
Correndo vedo pianure calpestate dalle navi in arrivo
sull’acqua le stelle scuotono bandiere sconosciute bruciate.
Quale amarezza nell’ora della sera più fonda.
Suonano chitarre spagnole negli angoli
dei paesi persi fra i monti
cavalieri infuriati insanguinano le piazze
so come fermarli gridano uomini giovani tra i lampi
inseguono le persone fuggitive.
Quello che è da dire è detto, in giornate cruente.
Al primo autogrill ricordo
il caffè fuma nella tazzina gialla di plastica
ascolto una canzone di Jim e sono arrivato alla luna.
Il motore del TIR tedesco è uguale
al concerto di Bach in una sala deserta
corre sull’autostrada aperta
per le gallerie di gelo verso le montagne
là dove una tempesta può portare primavera.
Esulta esulta anche tu sul filo
vieni vieni a guardare la fronte corrugata
della pianura che un fulmine
ha appena svegliato da un sonno di nebbie
il suo sangue è l’azzurro volo del biplano a elica
sulla pazzia per prati di un cavallo albino.
Divorano le ossa cantano
scavano la terra scoprono città immemorabili
affiora oro bianco fra la polvere
è lo specchio del tempo e noi qui insieme a
contare i passi per arrivare al fiume
ci aspetterà l’amico decapitato dalla nostra voce
il rullo dei tamburi i fucili puntati l’uomo insanguinato.
Il giorno
è un giorno diverso anche le ragazze impudenti camminano svelte
non guardano intorno
la città assediata brucia di fiori aspetta il
barbaro che porta tempesta
il suono delle sue spade dice parole non conosciute.
Se questa è la fine si può
domani trovare un faro sul mare
esultare perché le parole cadono prigioniere
rane bagnate dal fango fra i piedi
di mendicanti e soldati che dormono in mezzo alle rovine di Roma.
Questa non è una fine è il principio di un mondo
con il suo grido che apre le acque dei fiumi
un uomo a cavallo oltrepassa al galoppo veloce le sbarre di
ogni confine.
Lasciami posare il coltello sul tuo cuore vita perduta
vita ritrovata
il principe del silenzio vola sopra le foglie
tocca gli occhi del bosco risveglia api enormi
la città ha un brivido urla un jet lontano
l’arte come la vita ripete il futuro.
Leggo mille significati
quando viene la sera
e li accende come perle nere.
Nel tramonto ascolto suoni rumori
il Che come un Cristo con le ciabatte
su tavola di legno.
Il Che nella memoria questa sera mi arride e
sento la montagna camminare
sulle mie gambe in un vuoto che non vedo
dentro la solitudine della lunga strada inquieta.
Il giorno in cui mi hanno cavato la vita strappandomi da casa
erano soldati i bottoni lucenti
vestiti da soldato luccicavano le divise
splendevano gli occhi avidi sembravano soldati.
I passi del dottore argentino che chiedeva una verdura nuova.
Quando questi anni saranno polvere nella polvere
la vergogna dell’uomo ricadrà sopra me sopra te e non sulla terra
salvata dalla vergogna che l’uomo travolto
nell’oceano di dolore voluto non può sopportare. Il cane
dove sarà il cane? Leggero
con la pazienza fra i denti a raccogliere foglie. Odio
le foglie indifferenti alla morte
nella vita di un anno sono rassegnate al destino
sento le foglie cadere in un soffio il vento non dà più la vita
le foglie il mare di foglie mio rosseggiante cuore di foglie
foglie ansimanti
cuore d’agnello appena squartato
onde di foglie si inseguono nell’autunno italiano
risalendo dai prati agli appennini scontrosi
nelle case fra i rami con vestaglie di donne.
Foglie una foglia cadono cadono cadono ancora
rosso tramonto sul marmo appena lavato.
Che segnali mettere per dire
agli abitanti del futuro
di non scavare sotto Carlsbad nel New Mexico?
Nel fatidico ’68 non ero ancora nato.
Casa che non sei casa ma acqua sfiorata col dito
la casa era la casa della formica del ragno
che ride a un giorno verde appena uscito dal sole
la casa della carpa addormentata al bordo del macero
la casa dell’uomo perduto poi ritrovato
l’uomo senza fortuna l’uomo dimenticato
la casa era la casa delle scarpe ordinate
la punta delle matite nei cassetti dei mobili vecchi
riflessi da specchi straniti incrinati
vicino a finestre socchiuse
e, oh anche tu lo sapevi amor mio mio cuore
era la voce la casa dei passi in arrivo
luci di porte socchiuse
voci le voci le voci correvano andavano
per le scale di pietra fino ai paradisi infiniti
pioggia sul tetto bagna gli occhi a me stesa nel letto
ascoltavo.
la casa era la casa nei suoi odori bandiere.
piangevi il fuoco brilla sull’acqua la
casa è la casa ha Caterina seduta sul letto
lei tenta la scala
striscia giovani piedi ruvida pietra
domanda il futuro alle formiche alle api violente sui fiori
gatto la segue segue il gallo sovrano
dentro al furore che arde Montaldo.
casa annusa la mia ombra
sguaina la spada in guerra per me non lasciarmi mai sola
casa le voci non vanno perdute
racconta le noci castagne cadute dall’albero
il moscerino sfuggito al vento tempesta
raccogli i pezzi di pane il latte versato e
l’ombra che resta di me
ti ho perduta per sempre? non lasciarmi mai sola
mattone del focolare pelle di foglie fra occhi di polverefango
fienili accesi lune soli spezzati arriva ansimando lasera.
Vecchie signore cantano
cantano adagio
bambini occhi di fiele
scivolano al bordo delle foreste in cerca del sonno.
come ti vedo (casa) ti spezzo fra i denti
contro le erba mi sono seduto i capelli bruciano le porte
d’amianto
nella casa d’amore il ramarro correva su lingue difuoco.
sulla casa bianca il fuoco di legno sulle
case d’amianto il ramarro lo scoppio dei vetri grida
il sangue nel fuoco del latte
giovani ombre mitra le voci degli ja
la pioggia travi bruciate la nebbia
il fuoco non lascia la mano
ilcielo prigione di ferro i pezzi di pane il latte
versato poltiglia
di morti inseguiti sulla proda del fiume.
ti riconosco nelle piume casa mia perduta
la gente squartava i pioppil’aereo
trascina grandi nere farfalle acquattate
tronchi di pioppi betulle sulle strade emiliane.
il viso della bambina scalciata.
a pezzi beve sangue l’asfalto addentato dai carri armati
l’asfalto
l’asfalto ghiaccio sull’urlo della donna impazzita.
bella imponente non fermarti mi arrendo.
il muro crolla la vetrina si schianta le scarpe
il vestito avvampa corri corri corri non fermarti mai mi
arrendo.
Infuriata una morte vestita difuoco galoppa nei campi delsole
sultuo viso ti sfregia bacia la
tempesta d’autunno sorvola verdissima i maceri
innonda strade città senza nome
travolge la notte schianta caverne di luna
uomo nudo sul muro picchiato dal maestrale.
Fischia un treno mai preso in braccio dal sonno.
Può la tua vita arrivare nuova nella mattina del tempo?
Aspettiamo aspettiamo.
Mentos. The freshmaker. È presto inverno nei Balcani.
arriva inverno di neve anche in Italia stracciata
memoria di voci stridenti con rabbia di nebbia di torri a Bologna.
è lui il piccolo topo
visitatore incantato
adorato dal sole
ma questa mattina fa il mondo interonero.
monache accendono sotto il velo le candele
un prete magro ripete le parole a passeri di neve:
senza fuoco non c’è amore
morte non dà salvezza
un vecchio uomo di campagna impolverato
chiama chi si è sperduto
perché sottoscriva l’impegno
da lupo a pecora.
Nel mio disagio ho dormito sotto l’albero di tiglio
con te caduta da una stella strana
pagina vagante senza scrittura
con le parole da riempire
fioritura di una vite impossibile da preservare.
nessun fiore ha goduto più esaltantevigore.
nei fiumi rami abbattuti coprono le cattedrali
vento scompiglia le nubi come capelli d’amore.
scaraventata nel fosso calpestata col piede colpita con la
falce
cerco di vivere la mia disperazione odiando
la forma umana
emerge dall’acqua il ricordo ferito della casa spaccata
giorno per giorno la sento fra le dita
il suo occhio d’oro con lacrime rosse vibrante
i soldati disertavano cantavano canzoni e
ho raccolto dieci fucili nei fossi
olio verde per l’ultima battaglia sotto le mura diNarbona.
tu dici no e io mi consumo.
l’attesa approda sulle braci in quel camino straniero
potevo considerarla per leggere il futuro
quando scendeva in cenere.
vedo lettere antiche
una bocca mi indica fra i monti
l’uccello cacciatore che insegue l’ala del vento
la verità
cipolla capricciosa nel forno arroventato
tace
ancora.
Aspetto la parola che non dà scampo
……………………………………………………………..
Giocarsi la vita giocare tornare a giocare
mescolare il sangue al sangue osservare gridare giocare
una vicenda di ore
fa l’uomo nascere sei volte morire sei volte
il silenzio è un brivido nel freddo
il fuoco è questo animale con la gola sgozzata
il ritorno la foglia d’ottobre caduta leggera davanti alla porta
battaglia di mare e di terra tronco abbattuto tagliato
per giorni e giorni crudeli giorni crudeli
per un inverno camminatore spietato
per notti d’affanno e i bianchi fantasmi smarriti.
Mi chiami? Risponderò
rispondo con la terra che preme e non s’apre
se chiami risponde la polvere risponde la pietra.
Anche agli antichi cristiani lupi esaltati interrati
arriva un sole improvviso
per l’ora di grande travaglio di vita
mentre ciascuno guardava alle spalle
bruciare le navi affondare le navi negando
speranza alle navi – e la fine del giorno.
Chiami? Risponderò domani un gabbiano
vola basso sulla cima del noce
ansima il cane in tormento di voce
lascia un’ombra schiantata fra i sassi.
C’è grande movimento ma sono i vermi a muovere la coda
percorrono i fili della luce
dimenticando la mela e me derelitta
uguale alla donna che in chiesa solitaria aderge
il viso fra lacrime di ceri
e tace e sfiora l’acqua con le dita.
A chi parlo? Rispondi.
Ombre non conosco
parlano i solchi tacciono fra loro
silenzi imprevedibili
parlano una lingua da me dimenticata
non so rispondere più. Le sere
sempre più sere la notte sempre più notte
ho dimenticato luce giorno.
Treni mi sovrastano e mostri
volanti segnano la strada
davanti alla mia casa dipinta di bianco
i bambini hanno l’occhio delle favole
e con il sonno scivolano nel mare.
Mi rispondi se parlo? Chiedo
buoni ricordi per tacere e per
dormire se l’alba verde non mi strappa il cuore.
Viva viva viva viva adesso
mi faccio la casina vedi
il topino si è fatta la casina vedi
anche il gattino s’è fatta la casa e un’ape
brr brr vola via sopra il mio ginocchio
sopra la formichina
che porta il frustolo di pane.
Adesso guardiamo il libro dove c’è
il cane con la palla
il canarino rosso adesso guarda
il coniglietto oh adesso guarda guardo
quattro coniglietti con la mamma vedi
i loro occhi? Vuoi guardare leggere altre storie?
Una talpa… dormi? Non rispondi?
Vedi il rosso del foglio il verde del giardino
vedi il verde del prato e il nero
della tornatura arata? L’odore lacerato e
le formiche impazzite?
Non buttare in terra le cose se
le cose non le vuoi non buttarle ancora
dove vai dove ancora dove? Aspetta
un momento che raccolgo il libro
sfoglialo con pazienza puoi
strappare le pagine. Puoi strappare pagine se vuoi
tutte le pagine che vuoi. Ecco che
Caterina vuole ascoltare e vuole
vedere vuole anche strappare pagine perdute
Caterina li conosce i coccodrilli
vede il coccodrillo verde in festa
un viaggio lungo in automobile in treno
arriva in montagna fra gli abeti e la neve.
Così cerco di salutarti e ho poche parole.
Ricordi la prima neve Caterina? La neve cadeva
la neve sulla mano e la montagna
era di neve la neve ricordi Caterina? Hai
sonno chiudi gli occhi ormai è la sera.
La vita è camminare gridare nel silenzio del mondo.
Morirò tre volte prima che ritorni il giorno.
Sono la freccia perduta nel mezzo di una tempesta di neve
l’urlo sullo scoglio spiaggia mare dispersi
vento che recide col morso le rose
nessuna pietà per l’uomo che attraversa un ponte di notte.
Volo sopra l’Irlanda col fumo di mille candele
castelli di pietra dura sopra l’erba verdissima.
Il venditore di zucca nel villaggio sul fiume
nel forno di casa le patate annerivano adagio
scaldava le mani sul fuoco anche
la buccia si mangia ben cotta la buccia non si deve gettare.
Cosa contano gli uomini vecchi per gli uomini nuovi?
Può una giovane donna arrossire
per l’ombra o il vento di un antico faggio
ascoltare il passo del cinghiale
fra le foglie toccate dall’autunno?
Può la giovinezza tornare se la giovinezza è perduta?
Il terrore del cielo vede fuochi
linee d’ombra e il riverbero delle caverne.
Breve pausa sospensione di considerazioni
nell’onesto sentire
nel suono che luna sole trascinano con le ali
verso la solitudine di questo ordigno gelato
che mi porta a Singapore, adesso.
……………………………………………….
I miei brividi sono fuochi del sentimento
oh come sento la tua voce sulla spalla ma
non la riconosco più
esce da una casa lontana cento miglia lontana
io l’ho perduta e devo riconquistare.
Anch’io, dice, ho terra buona da riconoscere misurare
uscendo da una notte interminabile
con un sole fra le dita finalmente.
La voce di un uomo ripete a un altro uomo
«domani è tardi oggi non è tardi
oggi può accadere, per fortuna». Questo
è il libro delle mie manie
trascrivo l’ultima speranza dopo i mesi
del viaggio senza un ritorno.
Il gelo improvvisamente assurto a principe
poi la più modesta avventura.
In novembre lui pensa che esisterà ancora
amico nemico giustiziere
bianco carceriere
rovescia in terra l’acqua per non bere.
Italia maledetta con i lupi a schiera
agnelli scompaginati nel silenzio dell’eco delle montagne.
Sei un piccolo demonio diceva mia madre
guardando – un piccolo demonio
e guardava il mondo fra le dita della mano
sei un giovane mulo non andrai lontano
patirai la vita
senti nella notte gli ebrei che cercano la strada?
Non andare anche tu ti perderai disperso
anche lui si disperderà
le nubi nel nembo non si stringono in mano
non danno frutto. Il dramma lo concluderà
ma in giorni troppo lontani.
Ho guardato il cielo così da vicino alitando sul vetro
ho sfiorato la pelle di un dio senza pietà
non aveva timore non aveva più amore
per i giorni che seguono so come gridare
lo spazio del tempo è il foglio bianco in attesa
sopra scrivo aiuto o la poesia d’amore.
Non sapevo ballare ho imparato a ballare
i tiri al canestro riescono uno su quattro
a volte due se il palmo combatte quel giorno.
Il Vesuvio quel giorno col suo antico furore a fumare vibrando
e io non per carità avevo portato i lunghi calzoni e questo regalo
di parole e queste luci libere
e questo cuore con poco paura e poca memoria. Amorecuore. Dolore.
Mille api impazzite sui prati di Montalto
sono mille navi in partenza
sono meteore consumate per il lungo cammino
notturnoverso una chiesa abbandonata e sovrana
sempre sola e senza sole.
Il rombo del ricordo in questo mare infinito di plastica leggera
le gambe accavallate e corro sopra il mondo.
Io non so dire chi ha ragione
fra due che si stringono e vogliono spremere fuoco dalla terra
sperduta. Almeno per un minuto.
Non so dire se è migliore opportunità scendere o salire
inerpicarsi e la roccia dello spazio taglia la mano
o fotografare l’addio. Di un amore o di uno
condannato alla forca domani mattina. Nessuna domanda di grazia.
Non è sempre virtuale
la realtà virtuale
né si lascia consegnare alla verità
senza sbagliare.
Anche il computer è pazzo
di solitudine nelle notti d’inverno, è pazzo d’attesa
come il cane in attesa del padrone ricco benefico odoroso
nel gelo di un capannone senza vetri.
Fra cento anni di questo mese di marzo non
ricorderanno che le ciminiere spente
se non attraverso il disordine.
Come faremo a vivere senza ricordi buoni?
Vivendo si riconoscono le cose una per una
ma si è perduto tanto!
Anche il tempo è perduto
per questo chiedo aiuto
chiamando a perdifiato anche la luna
il tempoera la memoria di una gloria giovane
e nessuna parolaera sicura
memoria di uomini senza corazza che sfidavano i cavalli in corsa
sotto la pioggia di novembre poi
accendevano i fuochi.
La ragione della vita la trovo
in questo movimento che non ha fine mai
è la rinuncia dell’approdo
il rifiuto dell’ultima costa dell’ultima birra fra onde tempesta.
Io lo so che tu lo sai
da qui ogni giorno è buono per morire
dunque viviamo
come se la vita fosse
un volo di storni di passeri intorno a una torre
e di colombe viola all’infinito.
Sicilia amica delcuore, Russia più vicina, Itaglia disperata
orme di gatto sulla sabbia di un mare appena calmato
……………………………………………………………………………
……………………….
tu non perdonare se nelle foreste diroccate
consumi nell’ultimo falò la tua disfortuna
la lacrima e l’elegia deituoi scribi ferventi.
Le orme cancellate sulla sabbia
da un vento così saggio. Arriva da lontano e
non ricordatemi vi prego neanche un giorno
né un’ora, per carità, non un’ora. Viene da lontano ma
dimenticate la mia orma vi prego
siete pochi e vi consolerete.
Morire è opera solitaria
addio
lasciare la carovana
perdersi nel deserto
dimenticare la borraccia dell’acqua
la sabbia che brucia
alle spalle l’ultima luna o il primo sole.
Un mio antico padrone diceva
ho novant’anni
la morte sulle spalle.
Comecanta serena.
Acque limpide rare
il riflesso dei voli
polvere che divaga in strani cieli.
Qui non aspetto, guardo.
Il giorno del sì che
diventa un giorno
azzurro o tuttonero
il giorno del giorno che
ha inizio e non ha
una fine vicino.
Allora
lasciai la strada di un
bosco sconosciuto dai forti odori
entrando nel
labirinto
d’erbe
nel labirinto di pietre
e lì un uomo
poteva sedere
perduto
avendo perduto il destino
e perduto nel sogno.
Fragore di mille cascate d’acque
colpiva da lontano e
precipitare di greggi in fuga precipitosa e uomini
soltanto immaginati.
Oltrepassavano cerchi infuocati
aquiloni diferro cadevano bruciati.
Come una Groenlandia di solitudine di sole
è bianca l’Etna sopra
l’erba dei fiori dei fiumi violenti.
È un lungo fiume di
parole / pensieri
nel silenzio
dei mondi che si muovono
ricercandosi.
Duro verde su l’ira dei fichidindia
ma il cielo così severo
senza una ruga
dove l’avrò osservato? Su quale mare?
Tutto sembra in attesa anche la pietra
delle case anche l’orma
del piede contadino vincitore con la morte
nel ballo
sopra la fiamma di un vulcano.
Circolari nubi bianconere intorno.
Un cucchiaio fugge dalla mano
nel sogno di un prigioniero incatenato
e la città per mesi ha gli occhi rovesciati
scivola via sopra la linea d’ombra
brucia l’asfalto il sole non lascia in pace
chi dorme per terra
nei vicoli uomo / donna può leccare il miele
dal pugno del bambino che si è perduto.
Musica rock come polvere fra le torri chinate
per ascoltare e
questo è il tempo della paura paurosa
del lungo aspettare l’inverno.
I cavalli battono i ferri per terra
lo scolaro alla lavagna intatta guarda i vetri
soffia sulle mani dell’incerto destino.
Chi studiava nelle scuole di notte?
Quali le voci?
Poco sappiamo di tutto. Voi terrestri
siete poco consueti con la speranza.
Stelle passano nel cielo oggi e mai più
fra quattromila anni riceveremo il nuovo
saluto.
Oh benedetto futuro vieni vieni da me
lascia correndo la traccia di uno sparo
irridente
bagna i piedi nei venti soffiati dai mostri
stellari
non lasciarmi più solo
non ho paura di niente.
Solo della terra ho paura.
Il futuro deve arrivare è venuto
è tempesta
è passato.
Lo scolaro alla lavagna traccia segni di
mostri sul vetro appannato.
………………………………
Il cucchiaio d’argento la scodella di ceramica bianca leggera
picchia striscia ara la pelle
il cucchiaio brucia la mano
immerso nell’acqua bollente è l’inferno di un vulcano.
Grandi dolori. Precipitare di stelle insanguinate.
Uguale destino il mio se levigo questo arbusto
con la schiena di gatto si flette stridendo non
promette si piega
lo chiamo – stravolto per terra si lascia chiamare. È vivo
lui solo –
gigante di umanissime veglie mi sa consolare.
Le voci si spengono
fra cartoni spaccati tazze sbrecciate sacchi di plastica nera.
I gabbiani afferrato il delfino alla gola lo sprofondano in mare.
Lasciare il mondo al suo poema d’amore di morte
non è possibile
così prigionieri fra ghiacciai di memorie
abbandoniamo le case vicine ai pioppi non piegati dal vento.
Nessuno ricorda
che tu soldato hai corso per le terre dei solitari ciclopi, nessu-
no ricorda le guerre di un tempo impigliate nel gelo nessu-
no ricorda i vecchi soldati caduti in battaglia la fi-
ne è il cucchiaio d’argento predato stretto fra i denti scagliato
coperto di terra su una terra di neve. Lì dimenticato.
Dietro al tronco mezzo nascosto dal tronco c’è un uomo
nella solitudine del disordine
l’ala del dolore fuggiva dal tronco mentre l’uomo scolpiva
nel bosco
colpito dal faro di luce è un’ombra che merita nuova fortuna.
Parlo di Cervellino parlo di Cervellino di Mimmo voglio
parlare
in questo silenzio di terra franata e di boschi
parlo della sua barba irsuta, di Ca-
labria Lucania celesti che Giove stringe sul cuore.
Le mosche. Il rapido volo del viola un fiore che vola.
Le timide ali di ferro di aerei sopra montagne.
Calabria si rotola a terra – pecora matta ferita fuggente.
Italia sepolta sotto la neve Calabria la chiama.
Sono perso sono persa nessuno mi può ritrovare
io solo io sola leggo il destino se voi
dimenticate il vostro destino anime affrante
dal fischio di una nave che avanza.
Ricordo la cucina di casa rami appannati dagli anni del fuoco
il fuoco a una cenere bianca favole bianche diceva
favole. Nessuno ascoltava.
Sere di pesci neri addormentati nei maceri
le carpe con monete fra i denti sfioravano il bordo dei laghi.
L’ora avvampa d’amore.
Mai mai mai come oggi
giorno d’aprile d’aprile
mai un giorno d’aprile è andato più verde di questo
giorno verde d’aprile.
Mai come oggi
la strada semina un fiume conduce a un fiume
la strada ha due chiese con torri mozzate
una dal fulmine l’altra da un cannone tedesco.
Il giardino diventa giovane con fatica
dai rami cadono magnolie.
Hérode ordonne le massacre.
La Russia in alta liquida fiamma la vedo
ogni tre ore annerire nel fumo ma il cielo
questo dannato infinito di sabbia
è un bosco di betulle toccato dal sole al tramonto.
Laggiù la terra.
Lontano dalla terra volo cammino come non fossi mai nato
……………………………. e il cucchiaio nel piatto
il suo rumore la mano di mio padre le dita
l’occhio nella luce la mosca sul vetro l’oro dell’ape il giardino.
La première tentation: la faim.
La deuxième tentation: l’orgueil.
La troisième tentation: la richesse.
Sulle spalle della pianura le rane cantano la paura della notte.
Mi riposerò dal freddo se arriva l’estate?
Dico qua maledicendo:
l’albero più vecchio più storto pesante di anni
si abbatta su te mio nemico carnefice
dentro alla tempesta del giorno vedo solo te maledetto
la tua ombra di morte fra i sassi vicino alla casa
nessuna pietà può fiatare sul prato
sento il cuore battere bronzo.
Non rischi troppo? Non sei giovane ancora
per la solitudine e
ormai vecchio per una speranza che dura?
Nel fragor di un turbinar di vento infuriato
dentro a questo spazio fuggente nel niente infinito
se chiami ascolto ma se chiamo puoi
dal vuoto del mondo ascoltare?
Mi senti o sei affondato nel tuo pensiero?
Diffido da quelli che vogliono camminare da soli.
Si vive e accadono le cose.
Ho visto il vuoto del cielo brillare nel buio profondo
un’orda barbarica
cavalcava su nuvole fragili barche del vento
era una nuova morte una nascita antica era
ma le ragioni restavano sconosciute.
All’agguato sulle montagne che custodiscono gli anni
si vive aspettando. Le
donne gli uomini soli
………………………………………
Dietro i soldati Dietro i soldati
corre sempre corre sempre
la morte
la morte
Casa casa casa casa lontana lontana
quando non ci sei
ti vedo. Casa
di memorie consumate in cento giorni
casa di veli fuochi modesti ma casa.
La verità sta per arrivare.
Quante cose dopo Napoleone il re della Francia morto
in miseria nel deserto dell’acqua
quante guerre quanti soli sprecati con
albe nate storte e precipitate mentre il
giorno si strappa i capelli fra il mare di nubi
al primo temporale.
Quanti uomini cacciatori quante donne occhi turchini
da una saetta di ghiaccio infuriati.
Quante ombre di mani paesi da visitare
città sotto la sabbia mazzi di carta da scompigliare
non è difficile dire addio
la primavera è più lunga dell’inverno.
Pasolini avrebbe cent’anni
il suo respiro mentre sale i gradini di san Petronio
la voce che stride sotto il portico
poi seduti
a parlare con Gatto che aveva ombre severe negli occhi.
Il furfantello dell’ovest a voce bassa nel corridoio di casa.
Il padre lontano non ricordo il fratello.
Dentro la città non puoi restare con la faccia tranquilla
colpisce agli occhi con frecce la città che lecca
la mano prima di uccidere
e la mano stringe percuote solo alla gola.
Passano corrono volano
le auto sull’autostrada fra i monti
l’estate non è più quella
ha suono di uomini in fuga non voci
nessuno guarda lo sciame di cavalli che trottano in cielo
l’erba intristisce senza morsi di capre.
Entri nell’infinito
tu che sei destinato a finire
quante volte rimpiangi la tua faccia scambiata
con un morto di antiche città coperte di terra di sabbia
quando la terra non aveva i fiumi
e le sere invischiavano i veli fra i rami del sole impaurito.
Non voglio insegnare la guerra a nessuno, diceva,
anche se ho vissuto tempi di guerra case incendiate
non posso insegnare la pace a nessuno
perché non ho avuto il tempo di guardare in faccia la pace
sull’erba non ho veduto cadere le rose ma il sangue
sull’orma di uomini in corsa e donne spaccate
non ho veduto gli abiti nuziali
negli album ben rilegati
ma giovani che un fulmine solo ha sconfitto e nessuna memoria consola.
Essendo questo
un tempo
senza memoria.
Sto cercando di ricordare
come sono andate le cose.
Unico padrone il vento.
Vedo transitando
sul viadotto sconvolto dal fumo di foglie dell’ombra
il piede dell’Italia terra di miele ma di grandi sventure
di statue sconvolte di soldati in battaglia senz’occhi
galleggiare in cerca di Ulisse e compagni per la sepoltura.
Ah, è dura.
Cattura la mia vita soltanto con i ricordi, dicono,
racconta del naufragio. Racconto
del naufragio (a chi, io solitario pellegrino intorno alla luna?)
proverò con i ricordi ma
non siamo cani
pazienti alla tortura delle brevi ironie.
Morta pietà morta rassegnazione antica
oh pianura pianura pianura barbarica amica di nevi
pianura piegata dal piede cancellata dal piede
per una sola stagione dal grido del cruco
il pioppo in file accecate dal sole
le manze nelle solitarie stalle piangevano
fango polvere fame paura e
giovane sangue nella speranza dei giovani.
I cipressi in Toscana colpiscono al cuore.
Dal ponte del cappello magre figure nude
cadono nel fiume di pece bollente
solo i corpi delle giovani donne si salvano
perché più forti del destino più di ogni umana miseria.
Da quassù col vento del volo sul fianco
vedo la Russia cos’è diventata grano sparso sul campo
schiena di balena soffiante approdata su riva deserta.
Le campane suonano a morto chi è morto?
Chi è vivo che le campane suonano festeggiando la vita?
Chi vive in questa Europa piccola deserta di fede?
Chi vive non lo sa se vive – oggi il silenzio è costante
nessuno parla per testimoniare
il mondo con le sue mani sta per rivoltarsi.
Manca un’ora all’alba arriva il giorno
di questo sono sicuro
l’arco dei monti si fa meno scuro
promette una buona giornata. Per un momento.
A Woodstock la terra si è aperta sprigionando saette
sulla foresta dei cuori
le voci reclamavano un dio zufolante sul prato appena falciato
ma la sera era già tutto fango desideri stracciati
barattoli e orme.
I cavalli (allora) fermi all’ombra dei tronchi.
No, John, no John non uccidere farfalle con le mani
fuma l’ultima sigaretta prima del diluvio.
Dicono. Dicevano. Bevi il miele delle api in volo.
Ci sarà un’altra età uguale a questa
capace di dividere il pane fra il leone e l’agnello
fra l’asinello bianco che sta scomparendo e
la piccola margherita sui pali della luce parole brevi d’amore.
Voglio comperare voglio vendere a piccole scaglie questa
mia terra stretta da mari
naufragare senza pensare alla morte
tornare fra le piume dell’uccello di fuoco che vedo
vola radendo le praterie innevate
approda in una città che non dà scampo.
Il tema riguarda tutti
bruciare il fiore afferrare il sasso
non piangere sulla lana della pecora
arrotare i denti al microfono
sentire il ferro più morbido del pane
più di un fiore che ardendo odora
il ferro porta lontano (anche il legno veloce)
è il respiro irrequieto della terra.
Libertà libertà libertà
per gli altri non per noi
per chi deve raccogliere non per chi è fortunato.
Ehi, ehi, ehi, battete le mani
picchiate il piede sull’asfalto
il terremoto del mondo si sente arriva gridando.
Che tempi.
Le bandiere stracciate
le navi in grande travaglio di onde
i giovani non temevano
formiche radunano parole per l’inverno
e lei
canta cantava canta senza la musica cantava.
Taci sorella buona ascolta
le rondini. Parlano sulla terra sul mare vicino alla riva
sulla coda dei gabbiani neri di petrolio che dormono.
Gli occhi della città si aprono a controllare.
Questa città era grande un tempo la prima volta che è stata veduta.
Serpe nelle sue vene
verdi trasalivano al suono degli spari.
Fu guerra. La
polvere coprì gli occhi. Caterina ancora non c’era
ecco è lì luce d’erba sull’erba
soffiata dal vento della sera sulle nostre finestre che non si
chiudono…
Essere vivi in questa terra di morti.
Stracciare anche gli ultimi fogli
ma la parola ritorna sul sasso
di sangue. Lì resta.
Parla con gli uomini scomparsi.
Parla del futuro.
Primavere di lampi.
Cavalli in lontananza hanno le spade.
Il sonno di Caterina è il sogno di una rana
trasformata con un bacio in regina
della festa ma
l’amore è aquila che resta
ferma in volo
per una intera
giornata
i passeri poco mansueti corrono a
pizzicare uva lionza che deve ancora maturare.
Banchi di nebbia.
Voli voci notturni incubi fantasmi dispersi.
I capelli di pioppi bruciano vicino alle case…
Le case? Conosco case conosco porte colorate per tepori
incredibili conosco
Mimmo fra cento alberi di fico in un giorno d’agosto
con asini che hanno pazienza di ruotare.
Le sinopie di chiese abbandonate. Bruciate.
Mimmo con il dito segue le siepi di mortella fino
alle onde rotte da scirocco libeccio e oh!
lontanissimi sono gli aceri d’Aspromonte sradicati dalla
bufera nella primavera dei lampi.
Una pastora lo ascolta ruinare dichiarare squassare
ascolta
Mimmo raccontar
l’amicizia del topo divoratore di sale
errante nel silenzio di una cantina lontana dal mar.
La solitudine del mondo cala improvvisa sul mondo
si spengono le luci la tivù dà inizio ad ansimar.
Si illumina il mondo di sangue e di immenso.
Vedo
il volto della Russia
non più patria sovietica
consegnata alla ruggine delle nuove catene…
oggi anche Fellini è morto
ha tagliato l’erba ha seminato altri fiori
con passo leggero ha sospirato lasciando la terra…
ma noi non siamo il mondo
non andiamo alla conquista dell’Australia
a forza di bollicine
non conquistiamo col mitra Messico Olanda
non siamo Germania braccio e mano di guerra
il futuro non è ancora passato è dentro di noi
polvere che dispare al soffio della…
Ma voglio raccontare una storia prima del tramonto
andiamo a bere qualcosa
mi ricorderò di questa storia
prima o dopo doveva accadere amico compagno
il futuro non è ancora passato non è migrato nella
caverna del niente ghiaccio delle memorie…
ascolta il giorno non piangere per me non lamentare
il giorno nasce col verde fuoco del sole non sarà
l’ultimo sole…
Vecchi uomini donne credono di perdere la vita
una mano frugando nelle viscere li conquista
onde tempeste arzille li aspettano
strade foreste sono da raccontare
così l’età dei capelli caduti è un segno perso appena sognato
non è aperto il botteghino del lotto non c’è
tempo nel tempo per ripren-
dere il cammino salpare veleggiare acque cupe salutare
aspettare l’arrivo dei naufraghi approdi improvvisi gettarsi
contro la scogliera ferirsi la mano nella
sabbia scrivere sulle orme bagnate baciare la terra
fare guerra al destino allora
la morte è impossibile. E più non si tace…
Si parla col topo re della foresta
topo bianco topo nero
topo cauto casto topo del mistero
il topo conduce in processione le formiche verso la luce
il topo francescano cerca l’obolo del pane
anche dalla tasca del rapinatore
topo distruggitore di fortezze
con latte e vino con pane e noci
topo uscito dal silenzio delle radici dopo aver spezzato coi
denti le noci
topo giocondo dentro alla guerra del mondo perché adusato
alla solitudine di un silenzio e
a cercare un’avventura a cercare
la misura del futuro dentro l’ombra che non conforta.
Ecco mi stenderò e sarò il sole
mi stenderò ancora e acqua sarò
(precipitosi emblemi)
mi stendo sulle foglie d’oro del cipresso emiliano
le foglie cadono dai rami sfiorano la mia mano
rotolano sull’autostrada gelata
chilometri di auto camion fermi con i fari accesi
a perdersi nella notte più fredda dell’anno
il mare fa paura a chi deve partire. Il mare
la scia della nave canta forte
più del soldato in marcia verso la battaglia
ascolto il suono della radio che supera la foresta
fa sussultare gli uccelli rannicchiati fra i solchi
poche pecore radunate si contano si azzannano
buttandosi fra l’erba. Io con loro. E
non perdo la voce rinascerò più felice.
La ragazza che cerco corre scalza ride
ma non mi accompagna invece s’allontana…
Sono vicino al suo corpo che un TIR spagnolo ha custodito con
rancore
aspetterò il giorno dell’avventura finale
mentre Napoli brucia in un delirio di cenere e
le montagne di marmo si sfaldano.
I pascoli si confondono nei valichi della neve
forse sarò tu sarai questa neve sarò tu sarai la neve su quat-
tro cime disgiunte fra
nebbie senza più età…
forse sarò la slavina la valanga che rompe la notte del
monte sarò la pietà
dell’uragano solitario e piangente.
Sarò tutto e niente ma sarò ancora. Sarò. Mi è
impossibile altrimenti pensare. La speranza è tempesta
è il getto improvviso del petrolio da una ferita della terra
urlo delle moto in gara
è il colore del quadro di Fontana e la donna di Hopper
è il cielo sopra una tenda nel deserto
questo e altro sarò ma una speranza vera…
non stringerò la mano…
dormire sul sasso è ancora vivere
La nebbia arriva scompare è una lepre che
non lascia orma non incanta non si lascia incantare.
I pascoli in queste caverne
bevono aria bevono luce bevono rosso il tramonto
avvinti incatenati per dolore del sole. Scorre via il sangue
le navi portano olio le navi affondano
terra terra chiamano, i sentieri dalle
città conducono a lontanissimi approdi. Dov’è l’approdo felice?
Rumore di una festa. Suoni. Tamburi nel cielo spezzato.
Voci di campagna metalliche, risse.
Se leggi mia lontana nipote
nell’angolo più fondo fra
coltelli arrugginiti vecchi aghi bicchieri di vetro spezzati
ascolta il respiro del tempo almeno una volta ascolta
ascolta il rumore. Se mi leggi, nipote.
Vedere le acque i paesi i mari l’oceano infidi
impennarsi
in un’ombra e sono
nebbia alzata dal fiume
polvere sopra il lume nella vecchia casa
le mele distese sopra i tralicci le canne la paglia
il cavallo azzoppato che si lascia morire
polvere alzano anche i puledri al trotto e non conoscono il destino
polvere le memorie incatenate
quando si è felici. Poi viene la notte.
Le voci fra gli alberi si inseguono dicendo
sopra i sedili delle loro Mercedes
«faremo castelli di cartone di sabbia
i popoli si vomitano addosso senza confini
ma io sono uno che va verso il sud
verso il mare non verso la montagna
l’ebbrezza del vino è una ebbrezza d’amore».
Lungo le mura di Bologna
frantumate dall’erba che l’autunno fa chiara
quando la città si apriva al fiore dei fiori
era la primavera
che anni quelli
l’uomo raccontava la speranza
la speranza bruciava bruciava bruciava
con bandiere di luci di voci di sputi bandiera grigia violenta
con una nonna Adalgisa o Enrica
lei aveva dieci vite
pescava le rane con le mani
chiamava sfiorando l’erba e una rana cordiale
scivolando sull’acqua schizzando sull’acqua arriva fischiando.
«Non conosco nessuno più felice di lei in questo momento
signora rana
la mia mano è una buona bandiera per il suo futuro di fango».
Bruciano verdi cieli presagi sulla campagna emiliana
uomini in silenzio accendono il toscano
zingari con i carretti di legno
stendono fieno al cavallo vicino a un fuoco di rovi. Cala la sera.
A Coblenza gridano Sieg heil! e
lungo il Reno guardano Loreley
seduta sullo scoglio alta sul monte ride la giovinezza
sciogliere trecce a fiore dell’onda del Reno.
OGGI consumata dal silenzio
come la radice di un albero
sotto la terra
anch’io interrata sono la radice
senza più foglie senza il futuro più mai.
Trascinerò nella fiumare del tempo i miei anni i miei anni. Con me?
Il pranzo si addiceva a chi teneva
grande malinconia
ma nel ricordo mi addormento sopra il foglio
vedo ancora una volta il topo scorrere soave
amico di ogni solitudine
lungo la radice dell’albero
così un fiume nel riposo dei prati si muove verso il mare
o quando risale alle sue fonti d’amore lontane.
Oh vane età della pietra. Le navi
affondano crocchiando
vicino alle rive affollate
solo i bambini vedono i démoni fuggire con brevissime grida.
Le sedie ravvicinate nel pranzo familiare
parlano fra di loro
oltre i vetri ci stanno i prati piantati flagellati
da un sole troppo adirato.
Così il velluto del tempo
si addormenta fra le aiuole
nessuno osava dissentire
alle parole del vecchio vuoto d’orecchio ma labbro loquace.
La morte è mia, lì si placa scendendo.
Sempre correndo. Mi
sono mai fermato a considerare la vita che vive?
Ero sull’incubo e cime ritorte di onde
come arredi nuziali si torcevano caute
la morte è già con me vicina di fango di buca
con me oh gioia esplode la vita
inerpica le sue luci
esalta il mare sconvolto di voci
invade invade invade sono libera salva.
Ho taciuto perché volevo tacere
mi sono scoperta
piccole piaghe nelle parole da stendere.
A Roma capitale sono arrivata calando da un treno
ho lasciato Bologna la città amata e perduta al gioco imprecando al-
la sorte la città si è abbassata sopra di me mi ha cancellato eppure
mi ride il vetro del cuore se la guardo in quest’ora di ardito stupore
la città crolla adagio
aperta in un vulcano di nebbia la città cerca adagio
si inquieta è ardito stupore dolore
due monache fumano la pipa davanti a una porta di ferro.
È guerra fra la gente. Guerra. Taci. Per un momento
ascolta. Ti ho nel cuore
marchio arroventato sulla spalla del vitello pezzato
solitario agnello
sbandato chiama le vette nelle montagne che hanno piume di neve.
GIORNO DOPO GIORNO
le occasioni mi accompagnavano
attraverso terre di verdure
dimenticate
di arance bruciate in vulcani affamati di cielo
lei così superba
poi mari feriti a morte da una lama di sangue.
Questo disegno del mondo futuro nel sogno notturno:
i poveri tacciono gemono imprecano lacrime amare soltanto
invocano pregano allungano mani attraverso i cartoni
ma quando la mano la mano la mano la mano
è stanca di stringere carta stringe la morte
fra bocconi di pane molliche agli uccelli stringe il coltello
non ci saranno lacrime più non sorrisi di lunghe preghiere
pietà per nessuno contro le case di vetro che l’uomo travolge.
Vedevo la fabbrica chiusa cimitero di ombreparole
il vento scuote le carte i muri spezzati
fantasmi di antiche tragedie i fuochi erano spenti.
Ascolto piangere il mondo ridere il mondo soave danzare
fra le radici che il bosco difende dal fuoco tormento senza destino
è lì che inchioda l’ascia la croce
il mio medievale aguzzino. Ho vergato la carta
sulla pagina neanche un segnale di vita
ho carpito due voci
«la porto lontano mi lega la mano mi porta
la porto lontano domani è buona la sorte
se corre lontano la morte».
Le foglie d’autunno sono di fragile amianto
il the è offerto a quest’ora la tazza
con il miele si placa. Una guerra civile.
Battaglia senza la spada.
Ogni volta che vedo la pioggia cadere sui fiori
ricordo visi che il tempo lento cancella.
Ti regalo il mio ride mia madre esultando.
Oggi a Indianapolis astuta
Nuvolari fra i tuoni di un motore infuriato
si presenta vince vola. Vecchia torre
della città emiliana dammi la pietra
domina il gesto della mia mano
torre albero vela solo per me
ma non ricavo dai fogli che la fatica d’arare
il mio destino d’attesa in un mondo di boschi e di cenere.
È incerto il destino
copre le mani di fango e orme di popoli in fuga
non lascia dormire. Straniero dammi la mano
strisciamo per terra sopra il cuore del mondo. Ancora
aspetto la voce del cane le ruote del treno la
goccia che cade sul cappello dell’uomo fuggiasco e le
foglie d’autunno.
Così è. Lei tace per un momento. Chiede
nel sonno sottovoce una forma di pane
prima che il sole inverno balzi su cavalli di neve.
Ma sei precipitoso a frustarli, sole mio, e a te parlo
angelo che hai visitato la luna con ali d’amianto, tu
gnomo di erbe gialle di occhi gialli socchiusi
tu nel pugno prigione nascondi solo una mosca.
Nel sonno chiede brandelli di pane da spartire col povero
leggera la farfalla contro il muro.
Sui fiumi d’Europa i cigni cantano parole sapienti
tra il fumo di fabbriche grigie distese a morire.
Feroce è la battaglia delle formiche sui tronchi anneriti.
Uomini e donne migrano in questa età matrigna
inseguite da api infuriate
da colombe pazze che urlano fino a scoppiare.
Le città sono sposate con il fuoco che dal cielo imperversa…
in Islanda andare. Vorrei andare.
Là da monte a monte non sole cala la sera
la notte bianca cammina sulle acque
e si può essere saggi appoggiando l’orecchio sul sasso senza ferirsi.
L’altro uomo solca prati di cielo pronto a partire. Incerto
il ritorno.
Dipartita pesante tornare è impossibile
difficile il viaggio. La gelida rabbia dell’uccello con il petrolio di
ali
al vento gelido grida
vola nella notte con la bava di un lungo sgomento
lo sento dalla caverna guardare la città moltamata
nessun altro dormente lo sente
spazzato via dal sonno riottoso motore del mondo.
Ero solo in quel momento solo davvero
nessun pensiero era vero ma vero
era il buon esito del giorno di festa
la neve fitta di sassi di piscio e sulla testa
gli angeli disperati a divagare
il mondo pende legato alle foglie di un albero
è il corpo dell’impiccato non ancora consumato
dall’odio di dicembre.
Ho anche sognato di vincere una Rolls-Royce
acquistando Chivas Regal
sono andata per il premio leggera leggera secondo tradizione
negli alberghi più esclusivi
su spiagge di diamanti e cime di montagne
si toccava il cielo lo succhiavo con una cannuccia di latta.
Un’epoca senza nemici non ha storia è senza
gloria non segue la violenza degli aquiloni
impigliati fra fili foglie alberi decapitati tralicci
o veleggiano alzando le ombre fra cattedrali seminanti tempesta
sopra rotoli di fango vicino a un mare di fuoco.
Penso agli uomini antichi che scrivevano il futuro
oggi uomini e donne approdano e scrivono lacrimanti il passato
camminano scalzi su viottoli di cenere polvere.
Chiuse le città dal grande cuore travestite da ballerine di scena
nei conventi i topi riposano in silenzio sazi di libri
vibrano le antenne su mari fiumi e ancora
montagne montagne. Altro non chiede il futuro, sperare
giovani ali oh liete avventure sorprese
oh liete nel secolo nuovo e Arlecchino vestito danzante di fiori e
colori
l’odissea dei giorni con i cammelli assetati
deserti africani sabbie mari di sole e
l’ultima spada per la terra e la guerra. Per la mano che trema.
Con la data nell’occhio
calcolo dico i pensieri
stringo in braccio la luce.
Lei giovane guarda lontano. Lontano
oltre i confini di cielo terra vedo
i cervi della sapienza involarsi.
L’irrequieto seme del mondo
non si raduna più a parlare
sottovoce da mille anni
– noi via per l’aria adesso erriamo.
Erano le favole di un focolare che ancora splendeva
a tenere accesa una candela notturna. Senza fine l’attesa.
La città mi ha preso. Mi prese così forte. Ahi! non ero morta. Era
ancora una vita vera. Cieli spenti senza misura
ciminiere immobili gridavano senza ragione ma la
violenza della città è sublime
ivi donne uomini si spengono ma risorgono ogni giorno dal sepolcro.
La città mi ha preso, urlava. Scappai dalla selva.
Oh prateria della città coperta di api morte di fuchi trionfatori di
merli trafitti da frecce di nebbia nell’aria
persone scure masticano la vita come un pane di sasso
bagnato nel vino rosso. Era
grande mistero.
Sedeva la guerra per terra
seminava morte nel mondo guerriero
signora bella spegneva soffiando la vita
soffiando la morte la vita esaltava.
Il vino bagnava il pane ed era nero.
Là dove stanno i morti senza il pensiero della vita
sono posti scomodi. Per lo più.
C’è sempre la campagna (dicono) vicino a un odore forte di fiori
bagnati con i colori
della giovinezza che non finisce mai. Ma sono dolori.
No, sta a sentire. Non
mi contenti con le
parole.
Arrivano da molto lontano
i visi degli uomini perduti
delle donne dimenticate.
È l’ora del giorno di un riposo profondo
stridono le porte arrugginite
s’aprono finestre in case bombardate. Case dimenticate ab-
bandonate.
Cos’è questo mondo
questo ilare mondo
che si scompone facendo le guerre
nel mare delle parole?
E se cammini se lo cammini adagio in tondo
non appare non arriva così rugoso mai alla fine?
Il drago fa furibonda la città e
sputa fuoco.
Gonfia di perle la città sventola bandiere.
Più rapace del falco è nera (benché lucente).
Più assorta della colomba sul filo teso
è bianca.
Pallida lustra d’acqua divaga nella notte emerge nel giorno
è l’alba
verde infine d’alghe marcite fra le pietre e
comincia a vivere urlando pazza di nuova vergogna.
Ma
nessuno è come lei quando tende la mano per
cercare consolazione. La città dove vivevo deve vivere.
Oggi scopro che il disordine
è la regola e l’ordine una eccezione
nella città mai dimenticata. Ah città mia
indice della mia vita casa della mia casa.
Le torri fioriscono sulla pianura prendono fuoco.
Io in mezzo agli astri sempre benvoluti
vedo le città della terra
ardere. Vedo la terra bruciare fra le braccia di guerrieri stranieri.
Bruciano le biblioteche severe i libri piangono.
Mani allungate rubano rosse auto veloci barche d’altura.
Mettiamo la Russia
mettiamo la Merica
sono fiumi sconvolti dall’acqua che non dorme mai.
Nelle pianure dell’Asia cavalli veloci
polvere polvere polvere sulla città di New York
sangue nel cielo di Berlino di Roma
città dove annegano pesci in un mare d’acciaio
la città è la città nessuno la bacia
ha le sue rapide luci feroci furori
all’improvviso è buio
la terra con un urlo può finire sulle mie spalle.
Questi cieli questi cieli questi cieli
senza un confine di Germania o Russia
nubi nere rosse svanenti sulla pianura padana
nubi ali nubi piccioni nubi storni con piccoli occhi di pianto
nubi italiane.
Le cose che non hanno peso
non volano. O volano nella sorpresa generale.
La leggerezza del niente ha conquistato la terra
l’invade con parole
e la donna arrivata alla sera vomita rose
vomita rospi
vomita serpi nella caverna senza nome e
ormai senza speranza (così pare). Senza speranza più?
Vomita rospi quando la notte naufragio di astri caduti
sente il rumore dei treni lontani
è luce un solo momento
penso alla vita legata perduta
compagna al mio grillo al mio rospo al mio topo alla
mia tiepida formica
e la donna vomita rose fra i serpi.
Qua nel bosco le voci di una città vicina
alberi parlano strisciano parole
sul muro di terra segno la curva del tempo come una croce
veloce la luce avvampa penso alla vita perduta.
Foglie d’autunno leggere piume divine nei parchi di Mosca
mi hai tradito patria mia
sono qua nello spazio nero di vita e senza la voce
pellegrino perduto sulla sabbia del deserto di stelle
fra le stelle l’uomo vive senza sonno e dice
ciò che è lasciato non è mai dimenticato
l’ordine dei giorni la sosta nella casa patema
quando in silenzio cala l’inverno con la mano aperta sui campi.
Il mio cuore nella paura del viaggio non aveva mai fine.
Oggi
chi riconosce senza sospetto
il dolore che scende dal treno vestito di nero
e affila l’occhio e raccoglie il giorno dall’ombra
ascolta il suono della tromba nella pianura bianca solitaria
sul quaderno delle miserie
scrivo le vicende di questi anni che non conosciamo.
Fossili. Cupi fuochi. La sera
ride sul fiume del tempo. Da riva a riva
orizzonte di pietre
campi polvere fiori di marmo. La roccia
è pane è miele per il falco pellegrino.
Correva fuggiasco l’uomo correva correva è arrivato
alla fine del giorno
vola sopra le città non può fermare la luce
questo sole di ferro fa scendere il futuro a precipizio.
Frammenti di latta
l’orma di un piede nel mare di fango ma tu come
vivi?
Tu come vivi? Aspetta.
“La casa è così lontana oh! meravigliosa casa”.
“Le armi atomiche sono sconfinata brama di potere”.
C’è un coyote addormentato in mezzo alla strada.
“Era come una vera e propria droga raccontava vicino
all’orecchio l’amico
ero come drogato.
L’idea di poter immaginare sempre nuove armi”.
Costruirle.
“Di notte facevo sogni a base di esplosioni atomiche”.
Secolo coperto di sangue come una montagna
di neve.
Allora alziamo una foresta di mani
in questa sera di ombre
anche i lupi devono avere paura.
Case ardere sulle foglie senza consolazione.
La terra in braccio a questo scrosciare di foglie.
Prima dell’alba impiccati donne squarciate.
Polvere nei capelli degli occhi le bambine
piedini di panna paura abbandonate nel gorgo.
Gli alberi. Ragni. Erbe. Macerie. Penne di uccelli inseguiti
la notte è l’inverno d’inferno.
Tutti dicono “il dito di dio come comandava”. Lontano
la pianura piega una palla di fuoco
il leone accarezza con la lingua una gazzella addormentata.
In solitudine la natura si esalta.
Dov’è la vita dell’uomo?
Nessuno dovrà dimenticare come si muovono le cose verso
i confini del mondo.
Eh, sì, c’era un coyote addormentato sull’asfalto.
886 esplosioni sotterranee hanno lasciato sulla pelle del deserto
crateri vasti come interi quartieri di città
e 4500 chilometri quadrati non più abitabili
almeno per anni cinquemila.
La Russia chi la riconosce più? chi più ricorda
la freccia nel fianco della bambina fuggente
dalla nuvola bianca nel cielo verdeazzurro? Le notti
rosse di neve a Stalingrado?
L’Europa stringeva le mani sul collo di vecchi nemici
mentre Faeyberg massacrava Cassino
e corpi ardenti di strade camminavano sempre senza destino.
Poi l’oblio delle cose accadute in quel particolare momento.
Meravigliosa cosa è non cedere alla meraviglia
di una libertà perigliosa. Grande era l’esultanza
delle vicende accadute in quel particolare momento
ma per non dannarsi la coscienza
si cercava di fare senza
dell’automobile, dei suoni musicali, dei nuovi vestiti, di
creme di pane di libri. O di fiori.
Era tutto un correre gridare scalciare ballare e astratti furori.
Per terra: un foglio stracciato brandelli di disperata scrittura
la sigaretta che brucia ancora accesa
il randagio impaurito fradicio inseguito.
Quella sera sono accaduti eventi da fine del mondo.
La donna vecchia sale oh sale le scale canta
contro la luna – un
animale di antichi tempi sulle tegole guarda
brillano i fuochi degli occhi guarda
precipita il fumo sulla città poco tranquilla
la città divincola voci segnate dal ferro degli anni
non trattiene nessuno
la luce fugge e nel cielo tutto il cielo è stellato
CHI ARRIVA LA PRIMA VOLTA
in una città
sa bene (forse) cosa ha lasciato
ma non sa
che cosa troverà. Una certezza muore.
Entrare in una città la prima volta
è come entrare nella vita
lasciando la tradizione
della solitudine. Nessuno si commuove.
Gli alberi del viale portano alla luna dimezzata
453 modelli di auto nelle città del mondo
una catena di montaggio può produrre
sessanta macchine all’ora
in america quarantamila macchine nascono ogni giorno
corrono per gridare ridono consumano fumo
brillano con i giovani gangsters vicino alle colonne
della chiesa.
Un’ora di pazienza d’amore corre sopra la spalla.
L’acqua del fiume non ha la pazienza d’aspettare e guardare.
Fermo davanti allo specchio
il brivido dell’attesa mi sorprende se guardo la
luce del delirio nella vetrina circondata da fiori.
Una pioggia di parole dà ombre all’angoscia.
Quanta neve cadeva intanto sento le voci
fèrmati, dico, adesso ti chiamo
sento il tonfo della vanga e della colomba colpita dal fucile
sento il passo di gente in fuga
dalla città alla campagna.
Vivo con tre catene al collo topi biscie vivo
odoro l’uva appena raccolta da lontano.
Così era l’inferno di Cassino nel rombo del sogno più fondo.
Vorrei che lo provassero i miei nemici
il tormento dello stesso dolore
coltello gelato sul cuore
silenzio di neve nera la casa bianca di rosso dolore.
Radici formiche inferno di nuvole nebbia
meglio sarebbe fuggire anche se il mare è infuriato
e
se alcuno mi domanderae
perché (T) introe nela nave, io
diroe ch’egli v’introe più per
intendimento di morire che di
guerire
anch’io sono sfiorata dai venti di una carezza di morte.
L’anno ’48 le bandiere soffiavano da calanchi di un
silenzio strano. Era strano quel silenzio
il fiume delle acque incute rispetto
è un cielo di tempeste questo cielo irrequieto
lui che tocca le ossa dei compagni morti con le mani
e nuove foreste che
bruciano poi ma gli occhi non vedono
parole corrono via solo il silenzio e lì consumato ferito.
In quel momento si nasce. Anch’io
in quel preciso momento. Non
è l’alba
il giorno insegue e striscia.
In quel momento
i generali cuori di vetro testa
lingue di legno testa di cristallo guardano
i soldati fuggire fumando. E dopo tanto volare
e partire arrivare
le strade le piazze del cielo sono deserte
nessuno chiama la terra
l’uomo aspetta altro partire altro arrivare altro gridare e di
nuovo partire.
Ho aspettato l’arrivo delle rondini da un’Africa che
non si vede ancora fra polvere di sole distrutta
ma questa sarà un’estate di misteri
uccelli bianchi cupi divagano
sopra i castagni della città
gridano sopra le ombre medievali. I cuori sono neri.
Quando i carri tedeschi correvano la neve della prateria di russia
quando corrono ancora il sole della pianura padana e
inseguono la luce fra i campi seminando la morte e
la canapa si piega perché sangue di un uomo giovane muore
esultando
quando la città di Colonia geme come la nave di legno stretta
dai ghiacci e
da lì nessuno si muove mentre altra città distrutta almeno
gridava
beh! ai miei tempi
avevamo poco pane delle idee
fra i banchi di scuola ma
se perdi la terra dove la vita si salva
dove la terra
ritrovi?
Nella prima morte del giorno ritrovo la strada o
nella vita ritrovo la terra perduta
ma forse mai più la conquista è dispersa la inseguo
percuote lo spazio si svolge
sazia di tempo sazia di invecchiare.
Sono precluse a noi le notti senza quegli astri della memoria
senza misura nelle notti di nebbia
quando le folaghe si perdono senza luce negli occhi
e gli uomini intorno a un fuoco raccontano le storie
nessuno imbroglia il passato la meraviglia paziente di ognuno
giovani donne piangono raccontano il loro destino.
Le oscure cose vedo penso temo. E affronto.
Ma io che qui divago in cieli smisurati e sono perduto
navigare sanza tiro d’ostra ver’ la Gioiosa Garda tu mi vedi
come un lupo impazzito
così mi perdo dietro lucciole spente disperse nella città
così ritrovo il sentimento della
solitudine e
della morte leggera
il fischio del treno lontano
il rumore dell’acqua improvvisa una ferita di mille anni
la polvere verde brucia i fogli le orme
Eh! non ci avranno
no non avranno fra i denti le ossa da frantumare
non le ossa da spolpare gettare nella
nebbia d’inverno nostra è l’ultima parola
la consegneremo noi ai cani con le nostre ossa da mordere in
una domenica di festa in onore di un santo guerriero.
Sotto i ponti annidati
sotto i ponti sotto gli archi diruti in compagnia della morte
vicino alle mani il lungo futuro dei secoli che sbattono la porta
cercare parole nel giorno del sole che tarda a venire
quando il falco afferra fra i sassi agnelli scampati al diluvio.
Il topo non mi riconosceva
dopo avere lungamente parlato –
le favole nere della vita
si corrompevano in vento
il piede del vento era freddo – così lontana
la vecchiaia che esce urlando dalle finestre e si frantuma
al suolo e
nessuno l’ascolta
il vento era freddo
il travaglio delle armi si confondeva col gelo
la guerra che c’è
non muore mai la guerra non muore
ma quando Gagarin è scomparso fra nubi di nubi
ero giovane giovane ero e nessuno sapeva
se lo spazio del cielo era vero o solo cristallo appannato del
cuore pensieri
ma quando da spazio a spazio si tenderanno le mani
e uomini strani diranno strane parole arrivando fra noi…
mi riferisco alla grandezza levigata dei cieli
da mondo a mondo
al percorso dei fiumi che vanno come uomini vecchi a morire in un
mare
inseguendo confini di terre appena sfiorate
ascoltando la luce battere colpi e grida amare lanciare per aprire
la notte.
Il topo mi riconosce ancora e io gli parlo a quel topo
siamo andati qua siamo andati là vagando insieme nell’infinito dei
sogni
il circolo era completo per una fantasia
neanche un uomo non una donna era restata viva nel terremoto di
onde
in quell’inferno senza frontiere e allora
nessuno sapeva gridare alla vita.
La vita era stata gridata.
Mi sono invecchiata io
tempestando sui nastri io
e così suonavo l’arpicordo io
come fosse un aquilone sperduto fra nubi veloci
aquilone appoggiato all’orizzonte
che stampava il fuoco lontano di un dio degli abissi.
Nero signore della notte.
Nessuno suonava a mezzogiorno nel paese fra i monti
ragazze stringevano in mano piccole bandiere
per salutare partenza di navi dentro la nebbia.
Era la casa mia la più bella casa foresta. Casa mare. Casa di luna.
Topo te la racconto. Non era casa
dei desideri
non la casa dei pensieri grigi pensieri sabbia di nebbia
lei distesa nella pianura non ha compagnia
la casa era di alberi vecchi e nuove voci preziose.
Qui seppellita ma quanti con me seppelliti
non solo il topo ma il ghiro la lucertola astuta
la faina che sfiora le luci dell’alba cercandola con la coda
non solo il gatto impaurito ma i morti sperduti fra i morti
perché la terra è percorsa dal rullare del tempo nelle pianure
dell’anima.
Sono molto solitario. Cammino per viottoli oscuri
ma anche per città percosse dai piedi deformi
di un elefante in fuga incalzato dai leoni. O da te topo
che non dai tregua.
Topi che tramano inseguono e hanno il pelo bianco di una rosa
sognata.
Lassù nuvole erte di sole ma come parla grida la terra.
Io, solo, pellegrino nel bosco del cielo
è presto sera è subito notte
qua l’infinito del cielo non ha confini alla notte e
cerca altro cielo perduto disperso.
Così si contendono i confini della vita e non lasciano tregua
lungamente sono rimasto in attesa
con gli occhi dei miei cento pugnali li strisciavo sul ghiaccio
a morte il cielo ferivo.
Qua sulle mie mani di sangue via via si raccoglievano le storie
presenti
soffiando la polvere
ecco cenere accesa sugli occhi dei giovani morenti
dei vecchi dimenticati accatastati
al bordo del campo prima del bosco e addio.
Le rotolanti sfere.
Vola tutto quassù leggero è leggero
nebbia fra le dita di polvere d’oro
pianure di silenzio il silenzio è laggiù leggero
ironia della terra che si consuma ridendo
un io che gira vestito da contadino
un io che si compiace
un io che raccoglie foglie e li porta in paese
un io che perde poi insegue infine ritrova orme perdute
là dove il cielo lo sfiori sembra infinito
un io che si quieta quando (la sera è venuta) si parte trascinati da
fuoco e uno è perduto alla terra e ti urla all’orecchio il
terrore del grave silenzio –
la terra si scompone e compone
fiumi consumati dall’odio dispersi sotto i deserti
denti di mille anni bianchi nel desiderio
in tombe scoperte dentro la sabbia deserta
nelle città le bandiere esultano per la furia d’amore.
L’orizzonte è un uragano
l’esplosione atomica i coralli del fumo si aprono in fretta
montagne del cielo con nuvole sparse divine
un silenzio in attesa
con stupefazione l’occhio beve la schiuma dell’onda
nessuna voce è in agguato
nel primo giorno del mondo. La città si accascia sotto la polvere
immane.
La grande sete verrà a sconfiggere l’uomo
nelle sue nuove rovine.
Ma perché guardo la terra e non mi riconosco e
spero di essere dimenticato per salvarmi da solo
ruotando in questo delirio di silenzio?
Perché non ho altri occhi che i miei occhi
per guardare l’ombra della terra
dentro i miei occhi?
Resta lì dove sei oh mia mente oh mio cuore
non lasciarti turbare dalla volpe che alza il suo grido di guerra
Hitler era un cattivo bambino
i calzoncini al ginocchio
baffetti da cherubino mentre
non ho molte frecce al mio arco
non un glorioso passato
solo il presente e mi manca il futuro.
Porto una candela fra i monti
la riparo con la mano
se alzo la testa vedo segnali di luci di pallide lune di
strade che affondano fra i cespugli del cielo
ah casa della mia casa ti amo per le finestre lucenti
dai vetri verdi la neve cadere
brividi fra i capelli di una madre al balcone.
Bruciano le biblioteche in questa età della vita
i fogli fuggono il lamento del fuoco
la pagina chiama la pagina adagio si svolge poi fugge
lontano riempita di segni.
Non mi quieto e se il mondo vuole quietarsi
al suono di trombe risveglio i miei morti*
* con riferimento a questo testo dal fiato interminabile, al momento direi di sentirmi come mi fossi buttato a fiume (non con il proposito di suicidio, però); un fiume abbastanza rabbioso che transita non troppo lontano dagli occhi; e di essermi buttato tutto vestito; e di sentirmi trascinato via dall’acqua che ha il suo impeto ma, da parte mia, senza palpiti di paura. Un po’ come il Piccio pittore, che invece si buttava dentro nudo per scrollarsi dalla calura e si lasciava portare adagio riparandosi dal sole con un ombrello, abbandonandosi intanto a un sonno lieto e tranquillo sul fior delle onde. Così, un giorno, nel fiume Po scomparve, annegando credo io senza dolore. Per me, più modestamente, a tutt’ora, è come essere (e in qualche modo sentirmi) un tronco sradicato d’albero dentro a quest’acqua; simile al tronco anche nel grigiore cupo, bagnato, che non concede sprazzi di luce. Consentendomi anche senza scrupoli, per quanto si riferisce alla stesura, di essere denso, molto o troppo denso e contratto. Confuso anche, con preoccupazione? Intanto, fra mulinare di acque e certamente senza ombrello ristoratore, siamo scivolati verso la foce. Ma non ancora alla foce. Soprattutto, quale foce? Per me è molto simile al momento di sospensione che sopravviene quando ci si ritrova, dopo un peregrinare con affanno, nell’obbligo di rovesciarsi in mare aperto, dove l’acqua di ogni fiume, e anche di questo mio fiume va a finire spesso, oppure inevitabilmente, tumultuando. Voglio, insomma, dire che la parte del testo qua presentato non è ancora la conclusione. Ripeterò per scrupolo che i monologhi dei due protagonisti sul precipitare di eventi avvenimenti ricordi furori dolori mai neanche una volta si scontrano o si incrociano. Ciascuno come incatenato a un destino furente. Sempre, se uno dice l’altro è come reclino (ma non spento) dentro all’armatura di uno strazio che si teme senza futuro. Il destino scivola come una slavina verso la morte semplicemente mostruosa della signora innocente e derelitta; e verso l’allucinato vorticare dell’astronauta sovietico, camminatore solitario dello spazio. E tutto il dire fare temere sperare vivere morire va a perdersi, a disperdersi direi, fra le parole vere già dette, le ombre, le grida, i comandi degli astronauti d’america e russia che per primi salirono la scala del cielo, spesso precipitando senza salvezza. Una sorta di antichissime olimpiadi nello spazio, con la celebrazione, per vittoria o morte, di parole emozionanti. Tutto dunque, ripeto, è come disperso nella vorticosa solitudine dei cieli, che attendono solo, con un brivido, l’arrivo in massa dei pellegrini della terra, nei secoli futuri. Per dar respiro un poco a questo nostro pianeta amato e affaticato. Che adesso impietosamente stiamo, io tu lui, depredando. Ripeto: senza pietà e discernimento. Ma il testo timidamente e pazientemente racconta, ha raccontato; è fermo al suo posto; non pronuncia voti, non stabilisce ammende, non giudica. Ha ascoltato e temuto. Tutt’ora teme. Ma vuol conservare, se è permesso, un suo modesto coraggio. Che è merito dovuto da ognuno, non certo un merito grande…
……………………………..
i vetri rotti le serrande spezzate
lunghi silenzi nelle stanze abbandonate
la polvere sui libri
dio sembra un uomo
forse dimenticato nell’abisso del cielo.
Resta lì dove sei
schiavo d’amore furibondo scrutatore del dubbio
leone trafitto da un dardo
lieve piangente. Con la punta avvelenata.
Passerà l’estate
dopo l’inverno la primavera è sempre più lontana.
Ripartire. Inseguire le ore l’orma desiderata.
Addio terra in tuta d’amianto fra il fuoco per sempre lì vincolata
ristretta fra canapi
come il pellegrino di foreste nel sud
amico del leone
fra le foglie ferito a morte dal silenzio.
Se urlo a me solo rispondo. Se chiamo mi trovo fra spettri
ombre della terra
l’urlo è il mio urlo è il porto mai più ritrovato
l’oblio ricade sulle spalle dei portatori di pianto.
Vedo la morte del mondo ruotare sul mondo
ma dove sono dov’ero?
Ti parlo teatro del mondo terra nel silenzio dei mondi incrociati
ti prego non rispondere parole
guardo osservo le mani aperte sopra molte ferite
occhi aperti chiusi per non vedere la
luce negli occhi chiusi aperti degli uomini bambini
per ascoltare la voce di chi è muto fra i muti
– la speranza lenta s’invola
dagli occhi che cercano segni di ferro sui monti dell’alba.
Gli uomini bruciano i libri
il legno delle parole nel fuoco
le fiamme impietose
le biblioteche alzano travi di fumo per mille chilometri.
Un uomo corre scalzo sulle rive del cielo ritrova le ali.
E lei? È viva nella terra sepolta.
Nello spazio senza il pane senz’acqua
lei vedo te vedo
vedo il topo nella foresta
tra le foglie di perla trionfare
esultare esitare nel pericolo delle ultime sere
quando accendono i fuochi
e lui resta incorrotto e solo signore del silenzio.
La terra ha lunghi fiumi leggeri come anelli
le vette dei monti percorsi dalla paura dei pensieri trascinati
dall’alba
la terra fa guerra alla terra e la consuma.
La luna del fosso
nella notte d’agosto bianca per la luce dei fari
donne fra i piedi del sole
fra lucciole solitarie dannate smarrita sperduta è la vita.
È la rotante novità della terra che stringo fra i denti
assisa come il pavone dell’antica novella fra le spade
di uomini guerrieri e cavalli
toglie il sonno a donne lungimiranti
poi si quieta sul dito di uno strano bambino che corre verso una casa.
Ultimo tentativo domani l’aggancio della speranza in orbita.
Perduta la rabbia nello spazio lei vedo te vedo
intravedo il leone in una giungla di parole spezzate
la pantera nera l’asino che scalcia
le cataste di auto devastate colorate che gridano
mentre cala una sera lenta a disperdere mirtilli
sopra le mani di vecchie donne sotto un lampione
la luna non ha colore
quanto lontana è la vecchiaia che inganna
quanto vicina è la morte così concreta uguale
al bicchiere lasciato cadere per terra.
E noi viviamo
cavalchiamo le onde del tempo siamo immortali
scimmie elefanti uomini nella nuova foresta
tempesta di foglie di suoni di lampi caduti in terra per sempre.
Ruvida la casa pungeva come la rosa pellegrina che
alla notte non si sfoglia non si inchina
e quando splende suona risuona è un concerto di antiche campane per
una sposa bambina
che non si lascia gelare dalla nostalgia nell’albeggiare
ma corre sul prato a guardare il jet che esplode disintegrato in
volo
jet bianco che si schianta al suolo
un farsi disfarsi di brividi in mezzo al vecchio cielo paradiso. Poi
tutto bruciare urlare paura niente più aspettare.
Così la desolazione del campo di battaglia nel silenzio gelato.
Le sventure non arrivano sole, mare montagne tempeste le inseguono
in terra straniera in oceano sozzo profondo
gli anni si inseguono sono lepri braccate dalla furia di cani
tregua non danno non chiedono tregua per azzannare.
Ti saluto allora tu che hai il beneficio della porta sempre aperta per
guardare
occhi di pantera distrutta dalla corsa dalla fame
nella radura dove la polvere gialla dorme in attesa.
Tu
quiètati nel respiro degli aceri da poco addormentati
approda rotola rotola rotola
nella terra mia
casa mia chiave perduta
casa sommersa dal maestrale sostenuta nel gelo
di inverni precipitati dal riso di un piccolo arlecchino e
ti vedo ora riconquistata dai secoli sporca di fango
la mia voce corre per cercarti.
Tutti sono uguali a tutti ognuno somigliava a se stesso
era l’immagine dell’altro
nessuno può pronunciare un nome seguire una strada
senza il suono della tromba amica
senza il piano superbo che Gould eleva a monumento.
L’ora dei neri tizzoni scivolava tra i tronchi di legna bagnata
la nebbia padana castigava la luce la luce
nessun’ombra sull’asfalto di uomini
in fuga alla fine del giorno correvano
per la scommessa tendevano la mano
imprigionavano il fuoco dell’orizzonte che si nascondeva.
Inatteso mai visto
il fungo ventritre secondi prima a Hiroshima
lì era nebbia poi luna poi sole poi nebbia poi gelo di neve
vicino alla casa
il cardellino inseguiva le mosche
sulle labbra di un bambino.
Altra parte del mondo. Il ragazzino Enola Gay.
Il ragazzino Enola Gay fra le nuvole sfuggito alla mamma
con l’acquarello dipinge il cielo di rosso
lo dipinge di bianco di rosa
lo dipinge di verde
un fiore sbocciato nell’aria delizia di vento è
uccello di morte. Il ragazzino Enola Gay
stringe la cloche polvere calda pioveva
dalla farfalla di lega leggera
il dono era a tutti sconosciuto
cresceva cresceva il fumo la nebbia annegava l’azzurra impa-
zienza di dio
sole fumo la nebbia del cielo rosso di cuore
nuvole erano nubi nere erano bianche e fuoco di montagna.
Sono qua nella caverna del niente
a te penso, Che, dalla buona vita
dalle parole pulite dalla mano ardita.
Non ha avuto paura della guerra la mia casa
(non) del fuoco tenero delle bombe
che cercano la terra per dormire
non delle ombre poco conosciute non dei riti della neve quando
scende non si ferma
la neve ha le ali delle galline fuggite sui rami
gli occhi di pietra delle rane nei fossi.
Tutto si toccava con le dita
anche vivere anche morire (palpare la morte)
anche lacrime anche il riso a sospirare.
La sorpresa dei piccoli topi impauriti.
Padre madre? Riposate? Vivete? Vi cerco vi uccido.
È vostro questo rompersi del cielo precipitare di vento questo
lied della pioggia che ascolta nitrire un cavallo nel
campo senza padrone.
Sarà mai capace di tacere
lui così vecchio e solo sempre impaziente
per il gregge disperso?
Era uno che non voleva morire ma in guerra si può?
Così viveva male vecchio e solitario da ricordare rincorrere
quasi piangendo i fulmini e la luna
per dirupi di lava calanchi bocche di vulcani italiani
disperso e molto triste giorno dopo giorno
invincibile nella sua armatura di antiche parole di sabbia
giorno dopo giorno sempre era l’ultimo giorno e pieno
di uno strazio malediceva la sorte amava la vita.
Non era male da vecchio quando
sorrideva. Anzi
stendeva la mano senza tremare. Era un vecchio. Un
tempo è passato. E
imbucato alla fine del millennio
è l’eremita nella sua caverna nei monti della Laga
l’eremita pazzo e senza lume nella notte che stride
l’eremita nello schianto della folgore sul masso
l’eremita nella nebbia
annaspa si chiama per ascoltarsi morire.
Null’altro sa ormai se non il solitario grido del tordo sperduto
o dello storno quando s’invola precipite per sfuggire il fucile
i tordi sono depredati dal fumo dei pozzi incendiati
e tu resti lì fermo per ricevere il fiato di una piccola voce?
Io dice sono il primo Ulisse mai uscito dal libro
divago fra mari di stelle e
addio secolo senza nemmeno un fiore
solo il furore degli uomini degli astri caduti nel mare
ti ha più volte ferito
e dentro di te la notte.
Ma voi
aspettatemi
voi che secoli e secoli…
voi che avete perduto la paura della vertiginosa corsa sul mondo
vertigine quieta sulla minuscola terra
voi…
e io che divago sulle
onde
senza ascoltare le voci la voce
né suono
ascolto remare la barca nella solitudine di uno
spazio
che non finisce mai.
Senza lumi senza segnali e voci di uomini grida
di donne dai corti capelli
seduto sul mondo racconto le storie del mondo
la terra è una ruota si svolge stridendo
i monti schiacciati sono formiche impaurite
ho strane sensazioni
sospeso nello spazio l’occhio accecato
da una luce senza sole
sfioro la terra un tempo padrona del mondo.
Tutto si fa anche oggi e oggi ancora si fa
ma domani in una città che corre stravolta da bombe
un soldato sotto la pioggia ha il fucile bagnato.
Mi consegno all’estate all’inverno all’autunno scomparso a una spe-
ranza mi affido
frantumo fiori che seguono funerali pagani
tocco la mia ombra nell’ora del riposo
i treni non arrivano mai non partono mai
si perdono nella polvere di gallerie senza fine, non chiedono aiuto.
Guardo ancora la terra la
cerco per questo perduto mi sento perduto squarciato da angoscia
avvilente. Forse per sempre. Perduto.
Spazio senza lacrime in una foresta di stelle di luci senza voce.
Saremo presto come Giorgia tutti come lei dice d’essere
mormora l’uomo con il bastone di ferro in mano
scarpe infangate ha l’uomo
viene da lontano non ha bisogno di consigli. Il mio nome?
Ha importanza? Meglio se
almeno più cortese
mi offre la sigaretta
mi infiamma con l’accendino d’oro
per soffiare fumo sopra la montagna del mare
dove siede un vulcano che guarda cupo in attesa.
Chi dorme fra gli uomini
può sognare tre volte un sonno uguale
mai stanco di sognare
precipitare
non rassegnarsi di cadere al suolo fra nembi
cadere è una vicenda più volte ripetuta ma questo è un volo
per un uomo solo
per una volta sola
un uomo che vola
così finisce il viaggio? ma
il viaggio non è ancora compiuto
……………………………………………..
il viaggio è cercare un tramonto o l’alba con la mano
è lungo il viaggio andare tornare
il viaggio deve ancora approdare finire e
compiere la meraviglia il
mare era silenzioso come la morte…
ma la morte fuggiva al
sopraggiungere del
guerriero….
…………………..
Dall’isola felice arrivano profumi d’Arabia
dolci di miele mandorle teneri cuori di erbe
sapore di rosmarino in un vento portato dai capperi
le ali delle farfalle divagano nella luce di mezzanotte.
Potrei anche imbarbarire guardando la formica appannata
il topo divulgatore di favole ardite
l’ombra dell’airone che ha perso la strada e chiama
in una tempesta di sabbia.
La mia casa è là dove uno deve sognando restare
o partendo lui povero
è là che deve tornare
dopo una vita perduta correndo sul filo del mare.
Naviga naviga naviga navigatore di onde
ritorna parti ritorna naviga sul legno macerato dal sale
sotto una vela inzuppata dal sangue di una balena arpionata
lancia altrove le monete che odorano di tristissimo oro
nessuna notte calerà sulla mano stanca di remi.
Vedi che l’onore del verde è solo un piccolo onore
il verde com’era un tempo altro non era il verde
compagno di ogni avventura e della luce sperduta nel silenzio vagante
senza traccia lasciare o impronta contro il muro del pianto
fuggiremo a piedi sui monti per ritrovare l’arco dell’onore
delle campagne distrutte e dei dialetti irsuti scagliati nei laghi
accendendo fuochi dentro la nebbia
seguire almeno una traccia del cinghiale nei tempi di caccia.
Evento eccezionale la mancanza di uccelli in questi cieli
sperduti
neanche una piuma vola nel buio d’attesa.
È l’inizio di un secolo
gli uomini non ancora muti ma ciechi oramai
cavalcano ombre sul ghiaccio nel silenzio di un inverno in arrivo.
Crudo. È arrivato.
Il ragno diventò un nano di quattro colori
la luna broda da circo per l’elefante in amore
la città con le sue pietre dedicate al nevischio e all’affanno
si offriva talvolta sull’altare del fuoco. Per amore.
Non si contavano i giorni erano gli anni a pesare
serpi striscianti sulla pelle del mondo
in una polvere d’oro.
Poco si poteva fare
nella foresta dei segni
con nostalgia di un paradiso perduto. Ah, il mare!
Essere vaganti in cielo essere peregrini in terra o
dentro la terra affondare sotto il suo cuore di ghiaccio
con la paura di non essere salvato. Un’angoscia sublime.
Ho rifatto la strada senza ritrovare le orme
le orme di ferro il cavallo screziato
pascolava fra meloni gialli non fra l’erba rovente
– un vento radeva la sabbia alzava polvere grigia
cancellava i passi degli uomini senza barba e con gli occhi sbarrati
la luna si doleva con sospiri nel silenzio del bosco.
La storia, la casa, famiglia, ricordi; era andato distrutto
il destino viandante su un’autostrada di marmo
la speranza era un filo nel sogno
ma l’inverno è crudele. È crudele l’inverno e
la terra è schiacciata prende la mano la morde.
(Guardate antiche montagne che attendono il capestro).
Balene corrono a riva lasciano un fiume di sangue.
Ricompenso con alcune parole l’attesa degli amici.
Ho il mio Goethe miniato vicino al cuscino di stracci
un piccolo topo è fermo sorpreso dal sole e dal volto
di un vecchio signore che aspetta il cavallo
bardato di lacca.
Una battaglia era appesa a un chiodo nella litografia di Daumier
tutte le cose accadono poi si ripetono nel brusio delle spade.
Dieci ombre di uomini un’unica voce o una morte crudele
getta correndo sul deserto di sabbia.
Non riconosco altro dio che questo silenzio che grida e travolge
come il miele sceso da un tronco lasciato
nel vento del nord e accarezzato dall’orso
mentre calo gli occhi sulla ghiaia di questo percorso di guerra.
Non disturbo il sonno dei popoli
Imballati nel ghiaccio dell’indifferenza affamata.
Senza il risveglio di uccelli che hanno perso le ali,
ho perduto memoria della felicità.
Schiavo nel volo da confine a confine
l’uomo non aiuta l’amico
nessuno aiuto ha l’uomo da una sapienza senza parole
che risale stanca dalla notte dei tempi.
Ti trasmetto allora segnali col fumo nella pianura che avvampa.
Gli occhi di una ragazza sono altri segnali nelle prime voci dell’
alba
le regalo la rosa del mio forte rancore
mi raccoglie la rosa della sua felicità.
La foglia cade. È il preavviso di un viaggio per mare.
Allora la mia gioventù si disponeva a tornare
ferita da mille formiche guerriere
mentre i giorni quasi volavano parlavano.
Distrutti i paesi lungo la via consolare
rovina di case le rive dei fiumi le dighe le torri le ossa
che alle volte ridevano.
Luci in un mondo avaro di luci.
Nella violenza di un cuore violento
neanche una nave di legno alzerebbe le vele
ma l’imbianchino pazzo in attesa
ancora ha l’orecchio appoggiato sul nudo petto del mondo.
Dove andare – domanda – dove andare con
le mie braccia di ferro dove andrò con la polvere
in un viaggio intorno al mondo sporco di luce?
fra vampate di sole fuoco da troppi fucili
elicotteri che si inerpicano sulle montagne del cielo e
cadono con picchiate vertiginose
paesi dimenticati dalla lebbra del tempo in grotte
inaccessibili
città si esaltano ridendo per un futuro che arriva fulminando.
Dove, anima belluccia di vita dopo lunga censura
per l’autostrada percorsa da pecore transumanti impazzite
ambulacri di sangue giovane a favore di un dio senza memoria
dove andrò
andare andiamo
se ogni voce è voce che risponde a una voce?
Dove andiamo
se l’ultimo campo fiorisce rose di filo spinato?
Andare con le mani di lei blonde nella mano
passi minuti polvere l’orma dei passi
verso l’ombra dell’ape contro il pioppo che dorme.
Seguiranno altri giorni per loro nella favola di albe di sere
squarci di tramonti neri di soli e canzoni
misericordi pazienti. Dove?
Attenti a parlare ascoltare anche a cantare ma io
chiamato in caverna dalla pazienza vecchia del mondo…
La terra è una vacca ubriaca di sale di miele
si completa si squarcia si evolve
ascolta crocchiare i cannoni le foglie d’autunno sui rami
contempla il danno si adegua alla gravità dell’evento
difende l’ultimo fuoco l’ultimo ghiaccio l’ultimo grido
d’amore.
Ma io non ero ancora nato io e
il linguaggio correva via con le gambe di vetro
gridavo al topo: dove sei? Aspettami! Diventa un re!
non ripartire al segno della piccola luna
lasciando me nell’ombra di una terra immortale.
Tutto l’inverno ho navigato nello spazio
è venuta primavera piena di selve
continuo il mio viaggio sulla nave che
dalla luce conduce alla luce
dalla luce come una piuma mi scarica alla notte
sono un vagone disperso in una stazione di frontiera in Patagonia ma
non posso lamentarmi perché sono solo – ero
nello spazio che non ha voce
e tacevo
percosso dal peregrinare degli astri coi piedi di velluto e
il loro percorso di guerra è vicino alla schiena di dio fra
nuvole irate.
Ascoltate! Ascoltiamo. Il loro tamburo. Combattete
gentiluomini di Russia questa ultima battaglia
meglio morire sul campo che andare erranti incalzando una gloria
che la vita rende arlecchina. Ascoltate!
Sproniamo i cavalli del cielo cavalchiamo nel sangue.
Ascoltate! Cavalchiamo cavalchiamo nel sangue
la paura del cielo che strappa manciate di stelle
oscura la voce un abbraccio di gelido fuoco poi silenzio e silenzio
solitudine antica – la terra è nel vento di foglie strappate
una morte è in corso
le onde uguali si sciolgono gridando vendetta.
Forse è la morte annunciata del nostro pianeta?
Morire da straniero come
i profughi sulle barche vaganti fra tormenti e l’arsura?
Non un mondo di eguali tracotanti ma
uomini e donne uomini e donne diversi e l’albero
della libertà sferzato da gelate non vinto
nella battaglia.
Tornerò. Io ritorno attraverso il cuore della mia terra natale
tocco il cielo coi miei capelli seduto
ho i piedi sopra la testa del mondo
penso alle piccole prede risparmio le ore
oltre l’oceano sento il respiro di un amico che dorme.
Coraggio, la festa dell’uomo è in arrivo
l’orma dei piedi è sospesa sopra i millenni.
Sono stimolato, egli dice, dall’attesa di una voce
tracce d’oro sulla sabbia di un fiume che corre nel cielo
immergo le mani nel cuore della terra profonda
essa perduta in un cammino senza tramonto
si quieta nella tempesta
punisce le città acquattate come cinghiali nel bosco
come ragazze caute esaltate fra la polvere della memoria.
Una luce impaziente
si presenta suona alla porta nel primo verde del giorno
si guarda intorno annuncia il destino di un uomo
assassinato nel buio.
Domando se ancora pioveva
la notte in cui re Teodorico è stato sepolto
nel fiume Busento e se la notte pioveva campane o spavento
poi ho raggiunto l’America
l’America che è sempre lontana. Così i giorni scadono via uguali
e albe uguali e tramonti veloci
le erbe scoppiano al morso di un insetto
gorghi d’acqua fremono nella gola degli uccelli sui rami
nere piume straziano nubi conficcate nell’aria
osservano i fiumi bruciare e le rive deserte
chiamare chiamare. Ah! le
canzoni di Dalla un tempo s’alzavano dai prati
come trottole lanciate dai bambini.
Orsi risalire montagne
l’odore del pelo bagnato di neve e di miele
ombre di pellegrini con fiaccole
sui sentieri dei boschi
fra ossa di animali uccisi dal gelo impietoso
anche la natura è caduta prigioniera del sonno
nessuna primavera rasserena la voce delle fiabe
fra i tizzoni fradici d’inverno.
La natura del sonno sfugge dunque a se stessa
come belva si rintana dentro caverne.
Ancora. Gemme del cielo invernale nel cielo invernale
spunta la primavera italiana errabonda
insiste gemma invernale insiste insiste la
primavera non solo italiana e gli applausi
volo d’ombre trapassate trafitte
dalla freccia di Diana volante urlante cantante. Altro non vedo.
Non so altro. Brilla di magnitu-
dine 1,6 Bellatrix (gamma Ori) un gigante blu
distante 360 a.l. lo tocco con la mano sinistra e
brucia brucia anche se è dalla parte del cuore non
mi lascia partire trattiene la corsa la nebulosa d’Orione
qua perduto in uno spazio che il mio occhio non vede
sopra le città giganti della terra
unificate da una pietà senza strazio
solo gli occhi cavati ai giovani soldati
le giovani donne sgozzate nude
solo le mani tagliate ai vecchi davanti alle case infuocate
solo frecce sul petto delle bianche bambine coperte dal carbone mai
acceso
solo raffiche raffiche raffiche nella schiena dei ragazzini che ridono
fra luci di carnevale e
guardando i vecchi bagnati di sangue scendere a terra
si addormentano lasciando la vita sorpresi.
Le gemme del mio giardino non sono i cieli notturni
a Betelgeuse che sostituisce il sole inalbera vele
naviga onde di uno spazio giallo arancione
ignorando fra un tumulto di astri cadenti
le grida di naufraghi e il rombo dei cervi inseguiti dai cani.
Volo nello spazio ignoro gli incredibili futuri
i se e i ma e la vita senza bandiere.
Lei si consumava tutta in un bacio e le sere
erano giorni. E i topi?
Ritornano in compagnia sono cauti leggeri ascoltano pazzi di sospiri
da lontane finestra illuminate sperdute.
Non avevo altro che la mia casa
non grande ma apta
e come l’accarezzavo con le mani
nelle mattine d’inverno fra la nebbia distesa dormente
erano d’oro i suoi occhi e i miei occhi splendevano.
La casa luccica sempre appena cavata dall’acqua.
Il castagno, il pioppo, il larice, l’abete
il castagno con le foglie strizzate da un gelo stridente
sono tutti lì i miei morti
che non si consumano.
Grandi ragioni di disputa legavano le stagioni
a settembre le mele esalavano tiepidi odori nelle cantine
nessun navigatore solitario
alza in gloria uguali vele e rami
esplodendo i colori sulle onde. Solo Guido Cavalcanti poteva
in anni di grande mistero e carestia del cuore
dire addio casa addio destino della vecchiaia fra luce e silenzio
ascolto solo piccoli rumori come cannoni
gli slanci si consumano della vita
fra i sospiro cortese dei topi.
Vedere l’albero non vederlo più
vedere un campo un lago non vederli più
mai più. Neanche vedere foglie cadere
nuvole volare su luci strane dell’autostrada che si inerpica
chiese sopra colline coperte di boschi
non vedere boschi non vedere le chiese
non sentire il trattore che parla con l’erba falciata
arrancare il camion della Ferrero per l’erta di Senarica
non sentire vedere ascoltare mai la
città vertiginosa scontrarsi con i nemici frontali
lo specchio dell’asfalto sotto la pioggia d’aprile
le voci stampate contro i muri
ombre di donne scendere salire
parlare fermarsi salutare correre lontano
il bimbo bambina accarezza la madre con la mano
poi è cancellato l’affanno del giovane aereo che decolla
fra le torri mozzate della pianura padana.
Vedere non vedere sentire non sentire. Mai più. Questo
è certo morire. I tempi di gloria verranno contro la storia.
Mi sento morire e non è finita.
Le contingenze inducono a considerazioni affrettate cuor mio
per resistere agli eventi disporre le giornate
non trascendere nel pessimismo imperatore
strappare due pagine di Brecht per accendere il fuoco
la vampa non l’uccide. Lo esalta.
È evidente che la terra cambia maschere e uncini
da montagna a formica
uomini donne fuggono temendo l’estinzione (ma
poi usciranno dai boschi)
arriveranno presenze d’ombra
a restaurare la pagina lacerata di Brecht (a
ricomporre le ossa dall’antica ruina)
ignorando la morte del tempo. E di Dio. E la morte
della poesia.
Ma intanto. Uomini mani adunche e
aquile di poca tempesta
nelle città antiche di polvere
scafi consunti in anse sperdute di fiumi
saette nei sette cieli
gridano abitando il caos.
Brescia suicida a tredici anni in un biglietto
frase de Il Corvo: non può
non può piovere per sempre. Addio.
Stop alle stagioni del sabato sera alle stragi
del sabato sera stop alle stragi
del sabato sera ma non alle stragi di domenica sera
la successiva alba i cani annusano tracce di sangue
e le gomme bruciate
allora via per il cielo dei cieli dove si annida sfortuna fortuna
coperta dai frammenti di pianeti distrutti.
Anche i marziani sono figli di dio di un dio del silenzio ma
io sono figlio di quella terra laggiù nella sua vena di fiumi
occhi di foreste lingue parlanti di fuochi e
ghiaccio infuocato dentro tumultuanti mari
montagne di fragili foglie inquiete
sono anch’io figlio di foreste e di onde
sento le voci di notte che sono al confine del mondo.
Fidel il vecchio Fidel lo vedo che giace aspettando la morte
insegue fantasmi di guerrieri scomparsi soldati decapitati
di marinai addentati sbranati da onde voraci
grida col cuore gli amici sono perduti
lasciamoli riposare
– un sole africano striscia e brucia i muri.
Quando nei tempi lontani si passò dalla scrittura alla
stampa la metà degli artisti-copisti cercò col veleno la morte.
Non so altro. Queste morti violente
corrispondono all’attesa del vecchio Fidel sulla riva del mare
affondata la speranza nel gorgo degli infranti destini
mentre domani è già ieri.
Aspetta che per via aerea arrivi con fanfare e bandiera
il cranio del Che ripescato nel fango.
Chi sei? Come sei arrivato qui pellegrino di cento altipiani?
E a lui venne gran voglia di pianto – ma il mondo
è lungo da camminare
la morte si vive morendo
la vita si muore vivendo
dimentica l’origine dei giorni da calendario
le albe dei prati invecchiati nella solitudine
le albe trafelate dalla neve che si disperde
l’occhio del cielo impazzito nella tempesta degli angeli
con le ali coperte di gelo
piangono i cavalli appena svegliati pronti da macellare.
Ah vita mia vita tua l’uomo si rivolge a te che hai
gli occhi di serpe
addolciti dal sole
serpe senza speranza eppure nutrita
dal pane del tempo e dell’acqua storie
di vicende di treni e cannoni
di uomini uccisi nel sonno.
A chi lo dici che lei forse è morta? Vedo la sua ombra
come un’ombra di lepre sulla pianura
da albero ad albero pioppo a pioppo neanche un filo di luce…
Le foglie del nostro pensiero sono impietrite.
In periferia s’alzano all’improvviso altari per gli arlecchini
danzanti.
Su nel granaio si consumò la cosa
fra il topo e la cicogna
una rosa d’ombra un cono di silenzio
non c’era sgomento nel modo e nel momento
nessuna ora è senza attesa.
Stammi a sentire tu cielo hai il colore
della piuma dell’upupa caduta nel fango
del giardino davanti allo scannatoio del maiale
o al convento del duecento dove oggi essiccano le castagne.
L’upupa è sperduta nel suo volo notturno senza luce
e io nel volo.
Badate a voi nella furia di tramonti spezzati
da venti senza memoria
fra le erbe stravolte dai soldati coi piedi di fango
venduti al destino di morte
giovani soldati volati via senza lasciare
il nome sulla pietra.
Questa è la catena dell’Italia senza memoria (povera donna scalzata).
Lacrima la risibile scarpa italiana immersa nell’onda
si morsica la pelle si insanguina
talvolta grida per un dolore inatteso
mentre si scalfisce il viso con unghie laccate di rosso.
Lasciare memoria di una paura della fine del mondo
cicli vitali incrinati da misteriose avventure
città foreste di polvere fina
mari in orizzonti anneriti di nafta.
Ora mi acquieto. Mi acquieto. Mi
quieto. La
morte, poi, è vicina. Ancora. E nuovi soldati
arrivano sul campo a contrastarla per una volta – ancora.
Posso contare ad una ad una le erbe del prato.
Un ragno si inerpica scende discende la farfalla pigra è braccata.
Che giornata! L’inquietudine è somma
legni scorrono nell’azzurro
voci non ci sono
tu sei sulla retta d’arrivo e ridi
ragazzo di cento anni?
Mare di nebbia senza un porto per l’approdo
stelle transitano rapide e si consumano
un lacrimare fitto senza luce
noi ascoltiamo io ascolto io ascolto
nel silenzio di questa pianura che non conosco. Addio monti.
Segnali bagnano di luce le pianure fino all’orizzonte
poi mille anni e mille e nuovi cieli
saremo polvere ombre non vaganti
senza memoria
fra le braccia di strane primavere.
Eppure…
oh benedetto futuro vieni vieni da me
lasciami sulla spalla traccia delle tue ferite irridenti
bagnami i piedi con i venti che esultano
soffiati da mostri
– non ho paura di niente così navigando così
navigando sui solchi arati delle pianure.
La neve che vedo oggi induce all’aspettazione.
Seduto vicino alla luna come Pierrot lunaire
guardo la terra lenta danzante
sopra l’erba che nasce in prati dormenti
ma poi, helas! cittadini di cento città
tempesta in atto solitudine senza quartiere
chi mi riporterà sul ponte bianco pizzi in braccio a mia madre
o al tempo delle idee che volavano aspettando gli eventi?
Quale patria? Che amore?
Luogo d’approdo vedo dopo un lungo viaggio ma
ogni giorno arriva fra noi per cancellare le orme.
Noi, ora? Farfalle di luna
per spazi feriti da gli arcobaleni di fuoco
possiamo volare
la terra si adagia rumina forte
beve dai fiumi che si lamentano.
Tramonti nel sonno li vedo avvampare.
Mi sono ben guardato da pretendere
qualcosa
quassù
errando.
Biscotti intinti nel rhum.
Estensori di timidi versi
esigono scuse formali e inviti sul palco
nelle feste di paese. È l’Italia.
Le vergini del passato sono nonne
scheletri di guerrieri soffiano dentro corazze arrugginite
la notte nei conventi sui monti
è terribile lunga
le campane nel freddo dei lunghi corridoi
chiamano al combattimento vecchi monaci
che aspettano la morte
è così conclusa la speranza del mondo?
Villaggi nell’isola spaziale.
Villeggiare non dà sgomento
il mondo sembra una luna
in attesa del carro del sole
disordine nello spazio
dissennato remigare di oggetti sostanze lacerate
distanze oscure ombre illuminate
colori del mistero
voci urlando nel silenzio.
Dice: quando è venuta l’ora di morire
il tempo si è fermato
non sapevo se restare o andare
ero la lumaca in mezzo a un prato
all’improvviso un vulcano si è messo a soffiare
svegliato di buon’ora dalle voci e Ulisse adirato
faceva il giuoco del fumo per annientare il gigante.
Oh uomini dei tempi antichi uomini combattenti
conoscitori di stelle di spade
di spiagge foreste onde di mare nevi della montagna
terre da investigare e città dell’oro
sperdute in questa pianura desolata.
Il coltello dei pensieri
rimanda noi a una perduta gioventù
a un futuro senza attesa
polvere strana è sulla pelle.
Dare acqua ai pensieri
come giovani leoni da allevare
perché oggi siamo poco consueti con la speranza
eppure ero allegro in quell’ora della partenza.
Vedo.
Vedo la terra palpitare di un fuoco improvviso
mari che si disseccano dopo ferite tremende
e neve
le nevi volare dai monti
correre vedo correre vedo
correre
ruote gommate danno suoni d’argento
l’autostrada cantare
la storia degli uomini fluisce al piccolo trotto
su auto di fibra leggera da un’alba a un’alba feroce
quando arriva la notte si accendono i fari.
Vederlo il riverbero del sole
sopra le montagne che ascoltano con paura il rantolo
del ghiacciaio che si spezza.
La libertà del volo mi consente qualche pensiero
non vincolato al mio sangue così
sfioro il castagno
che nasconde gli uccelli e chiama il tuono
nel giorno della grandine e del fulmine.
Fra cento anni che sarà la vita?
Dove i persiani dove i neri d’Africa dove
i bianchi che l’Italia fanno
grande e funesta o i gialli
che l’oceano fa lontani? Tutti
grideranno per la solitudine
nelle metropoli del mondo.
Uomini e donne renderanno rosso il tramonto ogni sera.
Domanda risposta speranza le trasferisco al maestrale
torbido di tre numeri al lotto
al fine di trovare
qualche appagamento.
Alla sepoltura del secolo sterminatore
queste domande le mando a monsignore Dubbio e alla signora Incertezza.
L’aria,
come l’acqua del lago per il sasso scagliato
che si inoltra a balza sussulta striscia fischia affonda
e nessuno può dire dove il sasso è caduto
l’acqua è livida e fredda.
Vedo topi sfiorare le chiese del Trecento
gabbiani avventarsi feroci sulle discariche
fumi neri accanto a fiumi ciechi invecchiati e stanchi
alzo la bandiera del mio addio muovo
per la terza volta la pelle del destino. Oh!
sogni bianchi ubbidienti che avete vita e
la conservate sapienti
nel buio che vomita più luce.
Muoio ancora una volta e non lascio tracce
addio sabbia calda fra le dita addio
sospiro delle foglie che cadono nel bosco la
morte è questa.
Sull’asfalto mandrie inquiete trascolorano.
Un giorno
appoggiati al bancone del bar vetri e rancore
luci calate sulle mani sui piedi
uomini con birre guardano la strada
fumano sulle spalle di ragazze africane.
Aerei bruciano schiantati fra i grattacieli.
Il ricordo della patria trafiggeva la masnada ma
il mio ricordo – dice un uomo – ha già spento la luce.
Parole.
La miseria non cammina sola
annusa fra i sassi si abbandona al futuro. “Posso
– dice un uomo – declamare le mie virtù di soldato?”.
Il terremoto fa nude le piazze
le donne gelide strisciano contro i muri.
Pellegrino per osterie abbandonate
leggo tracce di vecchi omicidi nelle stanze deserte.
Ascolto passi.
Case sull’acqua. Il tempo trascorre non invano.
Il ceduo oltre il burrone con l’ultimo falco che stenta a rientrare
striscia sulla pelle del cielo
anche il cane può unirsi al pianto delle rane.
Dopo il sole
venga la notte l’assoluto
bisogno di dormire
le mani allentano le catene
il tempo si è fermato un soldato armato di mitra
è fatto santo
secoli fa un papa si è spretato per lanciarsi nella mischia
cent’anni fa un altro ha lasciato mille misteri
scomparendo nella nebbia di novembre
non più ansimare di pellegrini a piedi nudi
lungo i sentieri di montagna
– le auto farfalle sovrastano i viadotti
quest’anno il Partenone è crollato
nel tempio di Agrigento affittano camere a ore
molte donne sono scomparse nella campagna vicentina
la più grande petroliera del mondo è
affondata nel porto di New York. La città è nera.
Ancora pazienza per i domatori di cavalli e delfini
nei circhi russi
solo le colombe portano le notizie sfuggendo ai fucili.
La morte è niente
la morte lascia gli approdi in un silenzio
senza le navi.
In epoche passate (forse) vulcani
hanno eguagliato le presenti fiamme così disadorne.
Astri solcano il cielo in solitario fulgore.
Cavalli buoi nei campi percossi dal cannone
mitraglia per l’abete il pioppo il noce
per la casa che brucerà senza più voce
impossibile non udire lo schianto
le persone inseguite nel sonno
scagliano sassi e sassi volano negli occhi. Ah! la
la giornata impigliata nel miele della battaglia
finale. Caterina dice
apri il baule dei sogni ancora una volta
questa è la chiave racconta la storia di Marco e Anna
fa parlare la gente racconta quando eri bambina
ricorda quanti sogni notturni la giovinezza faceva.
Voglio cercare trovare una vecchia signora dei campi
parlare dire cos’era la canapa a maggio
odore profumo di monti di menta volare di api
a luglio fatica di schiavi immersi nei maceri neri.
Tornano le gambe
a questo sole che arriverà domani.
Amici oh amici chi
porterà sulle spalle il ricordo
se i compagni dalle lunghe barbe
del lungo cammino
sono nel vento
se tutto scompare delle antiche battaglie il ricordo
e i vecchi soldati non sono più neanche parole?
Noi siamo qua
a contare i sassi sul greto.
Qua stiamo. Restiamo.
Rabbiosa luna sulle ombre alla ricerca dell’acqua
ma dove sono? cosa
mi diventi pellegrina ladra del cielo?
di quanti fuochi comprimi oggi le vene?
Le voci della terra a intermittenza
raccontano la scomparsa delle parole.
Oggi resto senza conoscenza (reale).
È male il buio, ascoltare il respiro nelle stanze di un mondo
virtuale
pietre dure da consumare nel parquet di lava
dove pochi appoggiano il piede e non c’è futuro.
Nella miracolosa virtù della parola vera
sta l’ordine naturale delle cose.
Tre rose indistruttibili
inducono il ricordo ad essere impetuoso paziente
dell’altrui dolore e
qui per sempre (forse) resterò come un’anima perduta
pellegrino nel foglio di un libro che non ha misura.
Non primavera non la morte della cattiva sorte e in attesa
lo spazio non suona lontano è vicino
il viaggio prolunga pensieri di un furore amaro
così invecchiamo e invecchiamo insieme ai giorni che sono anni. Sono
anni. Ma io
no. Io invece
conosco la tua storia topo e una vicenda in mezzo
a inquieti misteri
cercare cercare cercare da pellegrino cercare
più della luna che cammina fra le pietre e scivola sopra cataste di ferro
lungo periferie delle metropoli congegni infernali.
Com’era quando guardavo il mare dalla finestra e il
vento sul mare il vento e l’ultima vela?
Letti di fiumi sepolti sotto la sabbia
tutto cambia il secolo è più breve del giorno
l’acqua dilava le erbe precipita in baratri brucia
la terra come la pelle delle capre strinate dal sole
laggiù le ossa dei guerrieri caduti in battaglia
crateri di occhi senza luce
scivolano i ghiacci fantasmi fra la nebbia leggera
ci sono cose che non puoi dimenticare
neanche volendo. È bello
lacerare la realtà con le parole come l’uccello con l’aria
ma la realtà precipita si ricompone esalta stravolge
non si accontenta se le parole restano inerte e non sono
pugnali.
Il bambino con una mela in mano
guarda lontano è già un bambino vecchio è vecchio
la madonna lo stringe in braccio è amorevole assorta.
Arrivano sempre con le loro robe all’improvviso
e sono bombe
non se ne vanno, no, non lasciano ombre di terra morta sconvolta
questa è vera guerra è le guerra su terra emiliana
grida fra le pietre
uccelli di ferro scivolano dai tetti del cielo
mani armate lasciano cadere il grano e non è festa.
Eppure si vive.
Sono più di centomila, dicono, le giornate perdute
non si ha necessità di curare i campi
i campi non dormono mai non riposano mai sono così trascurati
la tornatura si fa deserto
le pietre cadono precipitano. Oplà!
C’è una luce stamattina neanche una nuvola strana
neanche un aeroplano
il tempo promette tranquille giornate per fine settimana
adesso è sera si vedono appena fra gli alberi le figure
e a metà della costa la luce di una finestra si
spalanca sullo scroscio di una fontana.
Non ho ancora finito di dire
devo ancora morire la mia fortuna è di vivere ancora.
Il rumore della talpa è una canzone lenta
così tu puoi dire le parole che vuoi
non sono tuoi i miei sogni le ultime speranze (per fortuna).
La sera è tutta luce è falce di luna calante ai confini del mondo
che non ha confini
si disfano fra le mani della nebbia
le navi percorrono mari di sangue.
Affiorano sulle pianure le montagne
colline con piume di neve si protendono all’improvviso
uscendo dai fiumi mentre gli speculatori di cime
allungano le mani per sfiorare i giganti appena nati.
Il tempo ritorna e avanza
ormai non è più ombra o respiro ma uomo vero intero
che dà forza alla vita e la prolunga
come il canapo della vela stridente nel vento
oppure l’accorcia sottraendo fatica a fatica
e irride alla sapienza dell’uomo alla sapienza del secolo.
Forse è laggiù la mia casa
fra il mare e quel mare
Ulisse non ritrova la rotta sulle onde che parlano
ha stracciato le vele ha squassato la nave il timone
il legno è bagnato dal vino delle memorie perdute.
PAESAGGIO INVERNALE.
Sangue di nebbia le
città esplodono, si contorcono gridano
i pesci senz’acqua, gli alberi delle foreste
nel silenzio intonano canzoni di guerra
l’acqua del fiume dei mari delle sorgenti prevale
sulle piazze del paese senza difesa di mura
li trascina fra i gorghi dei secoli che non hanno nome.
Grilli formiche scimmie volano nello spazio
verso luna lunella un tempo signora della
candida notte nel silenzio dei prati.
Le vipere infuriate strisciano sopra le pietre.
Sole, per errore strappato via dal libro dei sogni
piccolo lume del mondo ti ascolto
limone stretto fra le labbra delle foreste
ti ascolto. Fischia racconta le storie del tuo destino.
Oh casa! siamo in tanti sui tetti
per fuggire le acque e una prigione che ci rende mortali
mentre agnelli travolti belano chiamando dall’ombra.
Dall’alto vedo paesi interi coperti di fumo paura
scheletri sotto la pelle della pianura
donne vestite di nero pendono dai rami
conficcati sull’orlo delle colline dentro a
una luce rossa al declino.
Sarà il tempo della speranza più rapido
del vento della memoria?
Saluto l’ultima fiamma della notte addio
qua è segnato qua approda il cammino vicino
a un suono di zampogna
per l’uomo sul sentiero fra i boschi.
Si è scatenato un secolo nuovo
massacri trasformano il mondo
navi dimenticate gemono dentro l’inverno del nostro dolore.
Prima del tramonto ascolto
ancora ascolto il
canto de
gli ultimi pellegrini del vento.
E io a volare. Correre. Anch’io a volare… Dormire. Chiamare.
Non vedo una bella terra
a fior di sonanti primavere e di solchi e di anni
ma erbe poi erbe poi mine pronte a esplodere
non ci sono lampi
ma ferro combusto
il brusco sapore del limone invecchiato
urlano bambine sconvolte da notturne paure senza
sogni
nel silenzio di vite dimenticate nell’oblio.
Nelle strade di Colonia
nessun vuol più giocare
mentre per tranquillo delirio cadono bombe sui fiori
divisioni corazzate tedesche nell’anno duemila oltrepassano
oltrepassano ancora il confine italiano è la terza volta
il soldato Ramitti fuma la pipa accanto a un bivacco
dice quasi cantando andiamo a morire per la patria ancora
con il fucile in mano
naso contro naso il cruco non mi darà mai pace è il destino.
Perché Colonia? il soldato Ramitti sputando sul fuoco dice
non è la nostra città è lontana è una tana tedesca
con mille passi il ciclope arriverebbe a lei con fatica
allora perché Colonia? Siamo
senza fantasia incalza Ramitti soldato
affaticato dal fucile caldo ancora dobbiamo ricordare
che una città ha mille volti mille latrine
mille bordelli mille chiese ma una sola
biblioteca chiusa alla sera
così i soldati dopo il combattimento non riescono
a leggere Dante o il vecchio Goethe che mai si quietava
avido infido sublime. Colonia è Roma Parigi Pamplona è
il paese falco è il paese bosco è il paese Appennino
cuore italiano distrutto dalla mano del traditore vulcano
Roma è la povera Roma città dal mantello usurato
bucato dalla malafortuna morsicato dai topi
Roma pietre rubate al tempo che tutto divora.
Vedi, dice il soldato tendendo la mano a la brace,
come vola senza pietà la macchina del tempo
è lì che ci aspetta con uno schianto di meraviglia
ma una voce mormora oh dio
non deve morire il bravo soldato diamogli un giorno d’attesa
si sente all’improvviso cantare
lascia una traccia di sangue contro il castagno
potevo lasciar cadere le buone occasioni
pellegrino senza albergo e merenda?
Potevo non dubitare dell’oblio
della terra stravolta in fuochi che danno un orribile riso?
Vedo bandiere vedo bandiere vedo
l’ombra degli alberi inchinati in adorazione per terra
le campane seminate sulle colline bruciare cantare
mi perdo nella nebbia
risuono contro il vetro del sole
non c’è tempesta non onde per le nuove paure
accarezzo sfioro con gli occhi i solchi dei campi
mi rassicuro sentendo alle spalle il passo del tempo
mi porta alle rive di un nuovo mistero ma
non ancora sono conficcato con i chiodi nei giorni
dell’infinito
non ombra stanca d’arrivare e di ripartire
ma cursore in uno spazio lacerato da tragedie speranze
sulla traccia di orizzonti mai prima raccolti nel pensiero.
Fra il silenzio nel silenzio delle parole che escono in corsa
sibila la vita sopra questa prateria di stelle
non hanno voce ma luce
morte vivono ancora il silenzio dice accorrete
guardate la vostra umana passione come erba falciata
l’anno duemila di vita ha un principio di ore
raccolgo una piuma che vola nello spazio
la nube navigante è la ragazza intravista
sul crinale dell’Appennino che è un serpente di verde paura
a far la guerra ai falchi che
ipo ipo po po po po po po po po
ipo ipo po po po po po po po po po
trio to to to to to trix
amano planare di notte presso le acque correnti
dentro la luna piena e
così amano cantare gli usignoli
dentro i boschi di Maratona
cantano notte giorno non sanno più tacere aspettare.
Prima di morire cantare.
Precipitare nel canto che aiuta a volare.
Non aspettarmi più se devi incontrarmi
legato alla tuta di amianto
colomba solitaria del cosmo
con la corazza del guerriero in un secolo che non ha nome.
La luce ha la criniera di un cavallo senza gli occhi e le piume
è un’onda che fascia la ferita del giorno
è il galoppo della cavalleria tartara sopra una terra nemica
che si torce senza suono e sembra in disdegno di vita.
Prima di entrare forse nel nulla te vita supremo delirio di un uomo
saluto con la voce indifferente del fringuello
tanto vicino che sembra riposare sopra un raggio del sole
cin cin cin cen cen cen chiovovovo zveiò
zin zin zin cirò ciò ciò zio zio gripeo peo peo cich.
Nella caverna di terra dove lenta risuona
la tenera estate di luce addio addio
addio albero vicino a casa con lunghe ferite per l’inverno di fiele
formica mia speranza negli anni
addio e per una volta sembra la speranza perduta
ho già subito la prima violenza del dubbio che trapassa le vene
ferisce la terra e resto solo per sempre.
Per sempre? confitto in un cielo che non ha confine
bosco straripante di stelle irrequiete
in quest’ora il silenzio mi afferra le spalle
la terra è troppo lontana per ascoltare una voce
che dice aiuto nella notte d’estate.
Terra sotterra sono ragno radice di frassino talpa
formica minuscola e le foglie cadere
non mi lagno non dispero tengo irta fra le mani la sorte
palla di fango di fuoco di amori ricordo passato
incubi nella disgregazione
confermati gli avvenimenti
mi esalto perché il passato è passato…
Cosa importa se lascio alla frontiera
milioni di pellegrini in fuga gridando
qua vacanze di suoni fra alluvioni tremende
nell’aria nuove macchine sfiorano trapassando le case
gridano chi sei tu che mi chiami?
rispondo vieni
ti ricordi quando
sulla scialuppa
siamo fuggiti insieme prima della guerra?
In Europa è notte
gli uomini non hanno cuore.
Amore gridavo
il petto ferito da sette frecce gelate
tocchiamo la riva prendiamo il caffè fra il verde
rendiamo oggi il cammino migliore di ieri
perché la vita non sia consumata intera.
L’eco raccoglie parole
l’abbaiare di un cane
l’odore del pane
l’inverno viene e fa bianco il silenzio.
Le orme si perdono in un prato.
Quale nave attraccherà fra i ghiacci
per salpare verso una notte che incatena al cielo la luce?
Nessuno ignora che l’oblio è dovuto.
Così ho ascoltato per la prima volta il tempo
che mi dice aspetta
ancora tutto non è compiuto
ho attraversato per brevi momenti un deserto
quieti all’ombra tre cammelli posavano
poi tutto accadde o è accaduto
in quella successione di ore.
È stato il lampo del faro
per aiutare l’occhio dell’uomo
superstite di un’antica razza.
Oggi la sonda avanza… Le ombre eventuali…
Il nucleo. La coda. L’inizio della coda.
A mezzo milione di chilometri
con trentasei paesi collegati
cento miliardi di comete attorno al sole.
Per il momento non polveri. Le polveri in movimento
sono molto fini.
La terra. Il sistema solare in formazione.
Una nube collassa verso il centro
dove sta il sole.
Il rosso si accende la nube che
fra le stelle stava
viene aspirata dai pianeti.
Ecco la terra
i crateri formati dai meteori
col tempo cancellati
dalle tempeste vive.
Aspetto il susseguirsi degli eventi
ancora non mi danno notizie
se onde particolari e violente
si sono incontrate.
Ma io sono vivo
spero ancora.
Eppure chi voltola
così nel cielo
perduto?
Solitari pastore delle stella
nell’inquietudine vago.
Le nubi nel tramonto cadono a pezzi.
È giusto consegnare la vita a questa attesa?
Consegnarla alla notte? Se
poi un’ora arriva a liberarla?
La notte consuma dieci soli da
aiuola a aiuola e
nelle stalle gli animali tremano.
È possibile scambiare il loro respiro come una nebbia
della pianura padana.
Ancora non sapeva, cucire il vestito della vita ri-
tagliare le maniche da bottone a bottone
perché ieri non era uguale a oggi domani essendo
oggi pieno di un domani fratello di ieri.
Terra, la terra come la terra brucia. La terra. Mistero.
S’involve è vicina.
I mari i monti città gialle distese
città bianche distese. Città nella nebbia senza colore nude.
Nei campi le querce navigano da secoli
ombre si accasciano le voci
chiamano.
Oh Valentina
camminatrice di nuvole instancabile ridente
le nubi corrono via in attesa della tempesta
tutto si ribalta il mio cielo
è acciaio di fiamme è una
via d’acqua è la vertigine del tempo
che non si contenta di aspettare.
Oggi essendo pieno di un domani misterioso di ieri.
– Questo è il mio ragazzo
– Molto lieto
– Questa invece è mia sorella
– piacere piacere piacere (a voci intrecciate) molto confuso piacere ma
donde viene tanta felicità in un momento poco tranquillo?
Mettere al volto una maschera di ferro?
Ho sulla croce un chiodo lo squillo della campana
il piede trafitto dalle frecce di un arco senza memoria?
La donna abruzzese con le sue orme sul marmo del mondo la seguo?
Non mi piego. Ancora. La fine è vicina. Controllare
la vita in questo gennaio dell’ultimo secolo errante
e quanta luce è in questo luogo appartato.
Posso perdermi così senza gridare?
– Prego, si accomodi – diceva la sorella dell’amico
– Piacere piacere piacere ancora ho molto piacere.
Intorno al tavolo si giuocano i nostri destini.
– E se quel mondo fa crack?
La terra laggiù non è più
la mia
terra.
Luogo di sangue luogo di perdizione le biblioteche bruciate.
Non sapeva ancora cucire il vestito della vita
ritagliare le maniche
bottone a bottone
perché ieri non era uguale a oggi non era uguale a domani.
Intorno al tavolo giocano i nostri destini.
Possono perdere così senza gridare?
La terra non è più la mia terra oh Valentina.
Tali luci rendono i mari oceani senza confini
piccioni senza occhi nel cielo che non ha voce….
Ombre occasi alpe luciferine
smuovono le bandiere e i cani nei casali della campagna adesso
splendente di biacca
strisciano contro i muri dei palazzi che sanguinano
ai piedi degli alberi fulminati dai secoli.
Le trombe del destino fausto infausto svegliano la notte
nessuno può riconoscere l’amico fra il fumo di un sonno non consumato
e le discariche ilari dispensano fuochi fatui sopra città ansimanti.
(Ma trionferemo).
Oh speranze oh corruschi occasi da mesi da anni cammino
per la prateria calda fredda ma tregua
non c’è. Guardo il velo della terra grigia azzurra lontana lont….
Esplosione! ultima Thule oh! l’
assenza del vento oh l’
assenza di ogni altro dolore che il fiore non guarisce oh
l’assenza del profumo di donna che
non dorme mai. Profumo insonne oh
l’assenza della
architettura del mondo
una mano senza più destino
sfiora col piede col dito l’ombra dei mari
l’orma dell’orso sui monti della Laga
cosi inerme giovane è la terra sotto l’affanno del sole.
Lo vedo il paese dei limoni
lo vedo il paese degli aranci
sommerso dal mare delle parole
da lido a lido e
sopra gli alti campanili
oggi luogo solenne di tenere erbette.
Esplosione! Silenzio! Riverbero sui deserti
sulle ripe nelle
strade delle città del medioevo ancora intatte. I fiumi seccati. Le
albule acque perdute.
Voleranno gli uccelli più alti verso la luna?
Le penne nere nelle notti sul mare bruciate.
L’attesa! Oh, i vetri del mondo
un urlo li spezza è spietato.
Roteante salire in una palla di fuoco lo vedo. Vedo
l’occhio della terra e i suoi bianchi capelli e
lacrime vedo. Gli occhi bevuto hanno la violenza del mondo.
Sperduto fra fulmini e nubi nel gorgo impaziente ruotante
quali lumi e canti lontaniho
per sempre perduti
per sempre sono perduti e per sempre oh! ritrovati?
Gli infernali dirupi ricoperti di ghiaccio
la terra invischiata nel viluppo dei pini
bandiere furore e nuovi silenzi
sere ferite a morte dall’impazienza degli uomini.
La impervia speranza mi abbandona correndo
come un sasso scagliato da Ulisse contro il destino più avaro.
Il mio galoppare lo hanno scordato gli umani
nella notte con il colore del giorno
il giorno della notte più lieve ha i colori che ridono
– ma un giorno tutte le questioni furono ridotte a una
con riferimento alla rapida assenza a una assenza di dubbi
dimenticata e sperduta per sempre
l’angoscia dello spazio
deambulante straccio scarnificato di ogni futuro.
Oppure oh! l’approdo al mare della felicità
oceano di ogni grazia goduta e il ritorno
rosa salvifica emozione di parole che cantano ridono chiamano
dalla terra pianura di spighe d’oro di canti serali di un sogno.
Ricordo (e ritrovo?) l’inverno davanti a un fuoco di torba
mors dulcissima in età da vegliardi esaltata
dal canto del rosignolo soave materia di piume.
Cosa dicevano all’ingenuo splendore dell’alba?
Arrivare a quel giorno segnato dal destino.
Questa è l’ultima corsa intorno alla terra
chiuderò la valigia del sonno dove ho conservato i dadi
per l’ultimo giuoco della mia folgorante puntata.
Sono ormai conquistato dagli anni e
mi è consentito correre dalle Termopili per
consegnare ad Atene l’ultima notizia
la inseguo fra la polvere dello spazio le formiche di cristallo
si spezzano nell’urlo di una solitudine sconosciuta. Altro
non so altro non posso dire
il fiore di una bomba sale s’alza ancora si apre mi prende alla
gola
come una rosa appena raccolta con celestiale imprudenza
si disperde fra i mondi
con le rondini portatrici di nembi scuri ad ospiti mai conosciuti.
Così un giorno verso l’alba ho pensato
al pranzo natalizio
per i miei cento anni occasione
per abbracciare il tempo come un amico
rasserenando l’ansia con l’arcobaleno dei piatti
bicchieri posate d’argento piatti spezzati
le tovaglie di un antichissimo lino
“questi oggetti si conservano anche
custoditi con l’amore del silenzio nelle povere case”.
Fuggire la vanità della luce le umide caverne
scegliere ombre ombre camminare per le vie dei lebbrosi
verso abbazie abbandonate campanili abbattuti da folgori e mani
che nella sorpresa di un giorno mi sanno ascoltare.
È raro
ascoltare il suono del cuore che sale
mentre laggiù la metropoli langue
nel disprezzo delle luci che mai si consumano
La terra è lontana la luna è lontana respirare la sento
ha dita di ragno per stringere alla gola la notte
inquieta come il pesce cane ha perduto il cammino.
Non vedo nubi non vedo
uomini sul pianeta solitario e irsuto
io volo su mondi che ho già dimenticato.
Sei agosto millenovecentoquarantacinque
primo luglio millenovecentosettantuno
alle una e trentacinque ora di Mosca
tre astronauti sovietici…
poi ho sentito era notte
l’urlo del tempo aggredire le spalle del mondo
scendere sulle mie spalle
era il pellegrino che fugge dalle sventure del fuoco
mi ha ricordato gli anni
mi ha ricordato quanta poca sabbia per il piede
mi ha ricordato il mare steso davanti alla casa immobile
come la pelle di un bufalo appena scuoiato nel sole.
Non avevo più voce.
Ascoltavo.
Ricordavo nomi parole
il fulgore passato di regioni distrutte
uomini donne fuggenti nell’orrore corrusco.
Quel giorno quell’anno quel nome la solitaria ascensione
chi mai lo ricorda negli anni?
Stringo fra le dita la pipa del sole
accarezzo la luna lucciola ubriaca di fieno.
Vorticando anni giorni della vita contavo
quanto silenzio di fatica ho consumato.
Qua finisco là ricomincio.
Là finisco.
Qua ricomincio. Battaglie
mai concluse se vivi nel tempo che è dato –
racconto battaglie scomparse non più ricordate.
Chi erano i Beatles? Stalingrado cos’era? io povera donna
sconsolata signora (addio monti) – signora
qua conficcata ancorata nel sasso
travolta da onde di ore
donna senza consolazione addio
mondo montagne pianura padana. Io
povera donna rondine di magra montagna
nel volo dell’aria d’aprile
quanta libertà vorrei fermare con un dito
fare con te un nido d’amore sul mio cuore
il tuo volo è chiaro chiaro di nuvole bianche
segnali antichi scoprono foreste sepolte
adesso è la prima mattina del mondo che il cielo
si inalbera scompare
fra i pioppi
precipita.
Incominciò la battaglia con
disastri di neve fiumi violenze di uomini in guerra
conficcate nelle mani del cielo le stelle esplodevano
vampe le notti sovrane
sciame di api sopra i fiori del melo impietrito
la luna parla alla terra l’induce a dormire
profonda nel sonno e
Isabella ultima stella pescata stamani fra il caos
del cosmo che delira
il suo ondulare mi induce a sperare. Non a morire.
Il mondo non è mai stanco di guardare – e di stupire.
Mare delle crisi mare della serenità delle piogge lago
dei sogni baia della rugiada mare d’onde
mare del nettare mare della tranquillità mare di Mosca
mare di Smyth mare degli umori
catena dei monti rook helvetius la pé rouse
ausgarius petavio furnerio oken
sei agosto del quarantacinque
quattro maggio del sessantasette
ventun luglio del sessantanove
le fotografie delle orme dei piedi sulla luna
mentre A. va e viene intorno al modulo da sbarco
il suolo lunare è come un nevischio di piccole sfere vetrose
dietro c’è la storia del cosmo
“Le plus grand western de tous les temps”.
Liberatevi ovunque, nello spazio immenso
come fu il sogno antico degli dei
gagarin glenn titov
vladimir komarov precipitato in fiamme
dalla sua orbita
è stato fino all’ultimo cosciente della sua fine e
fino all’ultimo ha comunicato per radio col cosmodròmo
“rotonda la terra si tende distende
dentro all’oscuro cuore del cielo e io
ho sotto i mari che non sono mari
e la rugosa bianca pelle dellaterra
invecchiata invecchiata eppure ancora bambina
così solitaria nella sua inquieta grandezza e
per me immobile, da contemplare”.
Poi i mari sono mari e sono profondi
la terra è acqua.
Ci abitueremo alla luna come ci
siamo abituati agli aerei
l’uomo ormai può vivere dovunque.
Il mare è nero nero
la terra è rosata
è verde come una carezza di verde
la mano della natura cercando divaga nell’etere.
Il modulo lunare galleggia nello spazio
venerdì quattordici aprile sessantuno ho visto
la divisione fra notte e giorno
ho osservato la terra diventare rotonda
nero il cielo mentre scendevo ho cantato
“la patria sente, la patria sa”
gambe e braccia pesavano niente
gli oggetti navigavano nella cabina come in fondo al mare
anch’io galleggiavo fluttuavo a mezz’aria felice.
L’uscita dall’ombra proiettata dalla terra
fu improvvisa, voglio dire che
tra la zona d’ombra e quella della luce
dalla parte del sole
non c’era una zona intermedia di penombra
questo si spiega con la quasi totale assenza d’atmosfera.
Il cielo è nero la terra è blu.
Ho potuto vedere i continenti e i mari
le montagne le grandi città
“il cosmo è dell’uomo”.
Il volo continua osservo la terra
è coperta da banchi di nubi.
Il cielo è molto molto scuro
la terra è bluastra
si vede tutto molto bene
proseguo il volo è tutto normale
tutto alla perfezione mi sto allontanando
continuo il volo
la macchina lavora alla perfezione.
“Il modulo lunare galleggia nello spazio
come una barca nel mare come
una barca sull’acqua profonda dell’onda
e tutto è lontano laggiù”.
Le parole di Yuri in volo il giorno
giovedì tredici aprile sessantuno dell’anno.
La terra adagio rotolando
risale il crinale
striscia stridendo s’appoggia sfiata
è una balena sul deserto lunare.
La terra è azzurra è un canale
grigio è questo deserto della luna
immobile paziente – Voci non vagano
voci non ascolto
echi di fiumi non prorompono e intanto
oh amico oh patria vittoriosa
può perdersi la terra nello spazio
rotolando veloce frantumando
nella corsa asteroidi
sempre più piccola sempre più lontana
sempre più isolata solitaria sola
sempre più incerta e vuota di memorie.
Ma Yuri è morto terre piangete è
morto con un compagno (Seregin) il corsaro del cielo il docile
cercatore di lune è morto in compagnia
lassù dove anche le aquile aquiloni del cielo sovrane
perdendo piume si perdono per sempre.
Oggi è un giorno ventisette è marzo è l’anno sessantotto
nessuno sarà più leggero di lui nella storia
dei navigatori dei mari e del cielo nessuno
ha ascoltato sulle mani il respiro
caldo freddo mistero della luna.
Il padrone della gloria
regala a te l’ombra per guardare il sole.
Ancora sembra lontana la terra è laggiù
rapidi voli nubi rosate da un’alba appena compiuta.
Io povera donna desolato frammento di cielo
calcato nella terra
io osso di cane ho visto tempi migliori
mentre muoio relitta derelitta abbandonata
conficcato carbone che arde nel costato
altre donne adesso felici corrono verso l’amore.
“Lovellandersborman” razzo saturno
sessantotto è l’anno dicembre poi ventuno
un palazzo di quaranta piani
lo trascina in orbita lo solleva in mano lo cala
su strade irte e sublimi sempre in attesa. Ore
undici e cinquantuno
avventurieri cavalieri pellegrini dell’infinito che non ha frontiere
incredibili le pianure scoscese
lovell racconta dallo spazio il pianeta
appare sospeso nel cielo
lucciola pellegrina è una palla
misteriosa splendida brillante.
Il giocatore di calcio in un campo della periferia
cade trafitto da una grande palla di fuoco.
Riflessioni e passioni
fra chi si sente perduto e chi si sente morire.
Leonov colonnello il giorno diciannove
sessantacinque l’anno marzo il mese
esce cortesemente dalla capsula nello spazio per visitare
l’infinito
cammina e cammina per dieci minuti
lontano dalla terra fra gli alberi del cielo
cinquecento chilometri di vuoto sopra un oceano.
Uomini sobri pazienti ricerchiamo
per formare greggi da pascolo sui monti della luna
là dove le tempeste si spaccano con la mano
e i formaggi fermentano nelle baite fra i boschi e
si divideranno con l’amico e con il pane.
Intanto una ragazza ha raggiunto Valeri nell’orbita
volano appaiati
sulla vostok sei valentina è stata lanciata
torme di cavalli bianchi neri cavalcano a lei vicino
calpesteranno la luce del sole come l’erba di una pianura padana e
il silenzio della polvere ma valentina
non è più su solitaria montagna in attesa dello sposo sperduto.
Venti luglio del sessantanove
valentina ragazza teneva già i capelli grigi leggeri raccolti sulla nuca
collins solitario dentro l’apollo undici attende fumando mentre
armostrong e collins lasciano impronte dei piedi del fiato e il suono
dell’affanno sorpresa lassù dove anche l’inverno
si arresta sospettoso.
Terra di mille terre e luce cauta notturna
gialla di fiabe
e tu luna lunella candela notturna di una terra in attesa
luna dai mille piedi e dieci occhi
solitaria errante nel buio
perduta nello spazio cerchi aiuto e domandi riposo. Lì stai
faro notturno sulla costa del mare nelle notti cubane italiane
può la luna cadere nel gorgo dei secoli che raccolgono tutti i naufragi
dividersi con i lumi stellari ammassati
disordinata corrida
come i vitelli in maremma dopo l’abbeverata.
Mentre
la terra
nella sua sanguinante tragedia di luce
non può cedere armata ai quotidiani disastri.
Travalicati i sentieri del tempo.
La terra è lapidata da un continuo dolore eppure
i colombi i cinghiali i cervi dell’appennino
aspettano incerti nelle foreste e in campagne
primavere esplosive d’improvvisa bellezza.
Un eclisse fa nero lo spazio. Per un solo momento
gli alberi immobili in un superbo spavento.
Le nubi di marmo. La luce
è per sempre perduta.
Il sole rialza la testa mozzata nel sonno
la gente corre a bagnarsi si cerca
dice parole.
Lascio la strada del cielo
ritorno alla terra
frammento di specchio spezzato dalla rabbia degli uomini.
Una foglia
nell’aria portatada
un vento di pale e di strida terremota la terra.
Mi arresto mi fermo mi inchino.
Aspetto.
L’incubo è alla fine.
Ritrovo la madre i suoi furori la malinconia della sera
col sole spezzato in frammenti che corre sul mare.
L’abbraccio di una città lontana che altera
finalmente si scuote.
“Avanti – dicono – andiamo a cercarlo quell’uomo prima
che si perda nella tempesta che scende ghiaccia dai monti”.
E io qua sono. E questa è la vita. E
aspetto
Parte quarta [I/XXX]
Trenta miserie d’Italia
I.
Italia numero uno è l’antico sapiente:
“questo paese ha un’aria temperata
fertili campi piacevoli colli sane pasture
boschi ombrosi molte maniere di selve
colline ambrate biade viti ulivi
pingui armenti e lane
laghi fiumi fonti porti mari
è un grembo aperto al commercio del mondo
terra nutrice e madre di tutte le terre
per radunare gli imperi
per addolcire i costumi”.
Oggi Italia è al fioco bagliore di disperse candele
piagnucolosa statua di marmo scapitozzato
anche il tempo ha spazzato
la folle opulenza delle sue notti romane.
Bel paese col fascino
dell’orso fra le pere
o appisolato vicino all’alveare
di api laboriose beate intente e non prigioniere.
La desolata Italia
ecco le braccia stende
venite, liberatela,
da voi soccorso attende.
Da che parte guardi?
Perché mi guardi? Bada! Non
fingere, lo sai!
Io guardo te.
Allora il tuo sguardo è buono e
“niente, niente, mio caro
ti raccomando solo che mi tratti
da buon amico”.
Italia numero due bevi e cammina
e non te curà se lampa e tona.
Dice il bambino: bum bum bum è la guerra?
Italia numero uno o numero trenta è la guerra?
Sul prato ride e corre
corre e alza un aquilone al cielo.
Bim bum bam la casa cade brucia l’aquilone
la guerra arriva fra le mani del bambino
Italia numero uno ciau bambino per sempre
anche l’aquilone è caduto.
L’ardente fiamma di passione delle bombe.
Le bombe compiono il loro disperato dovere
hanno per sorte
di esplodere lucidi frammenti che avvampano e volano
a massacrare il tempo lieve della vita
per triturare le ore fino all’estremo destino
e fare di un minuto un secolo.
Che cielo c’è stasera!
Mormora: sai con chi ero prima
di salire le rampe della valle
in un epico tempo di morte
e vita? e per me
di napoleonico coraggio?
Dice: ero la grande armata
con altri uomini andavo
all’assalto di castelli su picchi inaccessibili
nella stagione di giovane guerra e speranza.
Italia numero trenta o Italia numero uno
dalle onde del tempo in brividi di primavera
vulcani che rombano
assisi su isole con lunghi capelli d’oro.
Una ragazza in quel tempo non nata
oggi potrebbe figliare.
La canapa non alita più le sue foglie di menta
nella pianura solcata da carri di guerra.
Esterno con figure.
Ombre di fiamma.
Il canto dei fiumi pellegrini.
Piove da giorni anche oggi il cielo
è basso sulla terra
come il ventre di una cagna
che si distende per allattare.
Italia numero uno numero trenta labbra di miele
capelli serpenti nel prato s’alzano tende
là in fondo pioppi paurosi stridono
al vento della notte
dentro alle tende risiedono senza futuro
soldati prima della battaglia.
Folgoranti naufragi.
Tuona la montagna e travolge.
Rose foglie di neve.
Descrive inebriato
anche lui come tanti per una volta sola
o per sempre partecipe o alienato
le ragazze che nell’autunno perdurano esaltate,
e l’improvvisa luce dei
fuochi notturni in una età che impazza
e solo l’amore emblema nudo
rende maturo bianco
sasso crudo.
Gli affanni gettati alla corrente
la vita si quieta ardita e sola.
La gente è malvagia
senza pietà spesso severa.
Buona giusta calma talvolta è spietata.
Italia numero uno Italia numero trenta porto di mare
destinata all’arpione
emergi dall’acqua irascibile e dotta.
L’archivio Datini disperso sui carri è cremato
ti inchini ogni giorno più volte
a Leopardi e ai suoi gelati alla crema.
Dicono sia giusto incidere sopra le pietre
parole di commiato o di
buon ritorno
anche se nulla è stato detto ma
tutto ripetuto.
Enea cammina in short per strade e sentieri
lascia il padre Anchise a lamentarsi sotto un ontano
entra nelle agenzie
cerca terreni in vendita se il prezzo conviene
per alzare città dai vasti destini e ora
ruine frastuoni di gatti pietre tamburi campane.
La terra si svena Italia numero uno o Italia
numero trenta Italia numero mille
alle finestre disponi le impolverate bandiere
canti per strada lingue sepolcrali o disperse
e accade che (canti prepotenti e volgari) nelle
sale vecchie e stanche delle tue biblioteche
caldo rifugio per i topi annoiati
uno studioso d’antichissimo pelo appoggiato al bastone
striscia sul marmo un’ombra lunga e impaziente.
Dagli scaffali i libri protesi gridano inermi
“prendi me! prendi me!”
e il traghettatore in questa piazza appartata
allungando la mano dice “prendo te che risplendi
nella corazza d’oro della tua pergamena
per delibarti come il liquore dei monaci arditi
e perché sei attrezzato per vincere tutte le battaglie del tempo”.
“Mi ha preso al volo e da quest’ora
non sarò più solo
da cinque secoli giacevo impolverato
nel mio silenzio di pecora macellata
e appesa a un ramo”.
Italia numero uno Italia numero trenta io c’ero.
Su montagne ferite dalla violenza del mondo
su piazze inzeppate di pietre
urlanti vendetta e canzoni
io c’ero. Su strade spaccate da un vento feroce
come un foglio bianco appeso a un tronco
l’amico ha lasciato la vita.
Italia numero uno o trenta stabiliamo i dettagli.
Sulla terra arriviamo facciamo le cose poi
il destino ci avventa lontano così l’uomo si copre
di sabbia diventa tratturo polvere bosco mistero notturno.
Solo un pugno fra loro
per un momento si fa
marmo che splende.
Passato contro passato il presente balza contro il futuro.
Dal fiume pesci enormi guizzano a mordere l’uva e le mele.
Sbattono contro le rive i corpi dei soldati.
La corona dello spavento si disegna fra nubi e tramonti.
Una giovane donna arde sopra uno scoglio.
Italia numero uno numero trenta numero mille
il futuro si accascia fra solitarie paure
davanti alla tua porta.
Le tue pietre spegneranno il sole?
Mi sovvengono Owen e Barnj il loro concitato destino
allungo la mano
sono vestiti di ghiaccio
e i silenzi spaccano cieli e trame.
Le generazioni si inseguono
non lasciano la presa.
Dalle barche rotolando sui mari in tempesta
scendono i nuovi crociati
spade o corazze,
non lasciano tracce non sottoscrivono orme
cancellano i fiati nell’aria
aspettando la notte
…………………………………………
aspettano la luce del giorno.
Del giorno.
Non hanno lance. Non scudo.
Non lasciano orme.
Io c’ero.
II.
Italia Italia Italia.
Dice: il Che mi è caro e non è morto mai.
Dice: in tanti lo fischiano io continuo a cantarlo.
È il mio eroe di Alamo
e la vita è battaglia all’ultimo sangue
alle volte capita di dover fare
di potere rischiare e di dover cadere.
Hanno memorie rapide e leggere
i mandarini di casa nostra.
III.
Nel precipitare d’eventi per la terza miseria
Italia mia patisce contorcendosi allo specchio
col cappio al collo legato al ramo di un noce impassibile
davanti alla stalla dove s’annidano i piccioni nella nostra pianura padana.
Troppo a lungo in passato abbiamo piantato grano e ulivi in terra dura straniera
oggi estate al ragazzo che si protende nella vita a sgommare
è obbligo fermarsi insegnare la sorte le orme di nuove avventure
la virtù dell’alma pazienza
non la viltà vile dell’obbedienza alla sapienza polverosa frigida
dei lenti camminatori con i bianchi capelli
non clemenza o partecipazione
ma costanza
perché i tempi chiedono di bruciare e lasciare in polvere il calendario
per la maledizione d’Italia finita sullo sterco di cane
dove la luna non si specchia
patria adorabile e sovrana
luce del mondo
sconvolto ludibrio sacco di carboni ardenti
sepolcri oscuri antichi
braci
furiosa onda del cielo
quando al cielo calano le pietre
fuoco foresta gelo
donne bambini uomini
astronauti non nominati fra le lamiere sul prato
cavalieri in fuga tra il volo dei gabbiani
campanili d’oro crollano
occhi freddi ridono guardano non sapendo gridare
………………………………………………………
resa o risveglio?
un sapore straziato inebriante prese i Tebani
prima della battaglia
la battaglia fu perduta
non chinarsi sui fiori stringere la folgore in mano.
IV.
Miseria delle miserie la quarta miseria d’Italia
sono le miserie stabili con la spada del dubbio
la pianura dei barbari i barbareschi sui mari la
tua Roma brucia la maledizione consuma le pietre.
Non voglio ascoltare l’altoparlante chiamare tre volte
la signora di Stoccarda
o la madre gridare al bambino che è l’ora di cena
oggi non vedo il cucciolo del pastore abruzzese sul prato
stringersi al vecchio cane che sopporta ogni morso.
Quando è notte l’ora del sonno sogna.
Con la spada del dubbio
interrompo il cammino da oscurità a oscurità
chiedo l’ora d’aria
per svegliarmi dal sonno dubitare un poco
agguantare la mano del mondo non affondare
nella micidiale tempesta che tritura i cuori.
Da oscurità a oscurità solo una foglia può raccontare
l’ordine delle foglie che cadono
ma il riscontro degli opposti è un giuoco che
fa incendiare le cime d’Olimpo percosso da risse
degli dei che sono inquieti in amore.
I motivi d’indignazione
uno per uno i motivi dell’attesa
ascolto vocaboli in una lingua mai parlata dall’uomo.
Parlare continuare a parlare senza sapere come parlare
scrivere continuare a scrivere senza sapere come scrivere
pensare continuare a pensare non sapendo cosa pensare e
continuare a voler sapere senza sapere che cosa sapere.
Nel corso della giornata
si disfano le montagne le nuvole delle parole
inseguono messaggi erranti senza tregua.
Come rispondere alle domande del fiume che custodisce
i cadaveri dei nemici?
La risposta è nella stanza degli ospiti ad accendere il fuoco.
Toccheremo domani il termine di questa prima avventura.
V.
La miseria d’Italia numero cinque una nuvola
molto bianca una nuvola bianca
calando all’improvviso molto bianca – bianca
ha divorato il gatto steso grigio in un sole autunnale
guardava la gente passare e la gente
nella sottostante strada dentro il traffico domenicale.
Via la nuvola il gatto l’ha stretta fra i denti ciabattando furtiva
come la scia di una nave che si addentra cauta nel
porto lasciando le onde grandi del mare
io vedo come accadono le cose fiorite o sfiorite
sono lacrime di una piccola suora diseredata
ma so che cavalco sulla lama della spada tagliente e la luce sanguina.
Anche la foglia nell’aria non ha più speranza di vita.
Mi domando dove trovare il tempo per sapere negli anni
che durano un giorno
per continuare lo scavo dentro la terra di sassi e toccare
la buona radice del pioppo sovrano
tutto è livellato ormai piallato appiattito.
Sovrana la solitudine della grande campagna conduce la danza
l’uccello nero cala gridando sul solco
per il terrore della navicella spaziale che fulmina
l’aria tracciando ferite di giallo.
Milioni di chilometri e Giotto il pittore divino
si muove fra le pecore dello spazio
tocca gli astri non si brucia le mani
potrà dipingere ancora il mondo
ricordare il buio di dio
riconoscere l’occhio dell’uomo da quello della serpe.
Invadere col fuoco l’infinito così lieto e vicino
senza bruciarlo.
VI.
L’Italia nella miseria numero sei allora
dei mozzamarilli parliamo che
di notte sopravvengono
a braccia alzate nei lenzuoli di cotone sovrano
camminano sfiorano i sogni
lasciano impronte sui prati inquietano
prima della stagione della neve.
Non inducono cattive o buone notizie
esplodono il riso così ritorna la buona fortuna.
Un tempo d’estate senza aliti di vento
liberi noi di cantare nei vicoli del ritorno
liberi di salire per antiche strade romane alle montagne
ma il mare del ricordo non ha confine mai.
I giorni dell’ira luglio novantadue povera Italia
serva mille anni li hai dimenticati
specchio spezzato
lacrime di miele scivolano sopra le schegge
per un’ora soltanto. Poi
settimane di riso il mese l’anno gli anni
senza memoria senza pietà questo paese di antichi uomini d’acqua
sul tavolo fra le pagine di un libro non ancora letto e
il pugnale
per la testa di capra recisa nella bottega di un beccaio italiano.
VII.
Con la miseria d’Italia numero sette
la squisita signora dal fiore rosso sul cappello che brucia
oggi la conduco io a camminare tra i fiori degli astri
nella prima giornata veramente calda di questa estate italiana.
Importa se l’autostrada è lo spazio infinito e non
la numero 14 che porta dalla pianura al mare più lontano?
La foglia la fisso la muovo la canto la dico la esigo la taglio
essa è lì ferma nell’aria prima della nebbia della sera
nella campagna la sola foglia ancora resiste
siede ansimando vicino a una siepe e premurosa si inquieta.
Come poter fuggire da un ingorgo
senza precipitare in un gorgo feroce maldestro
forse più spietato e con le braccia che arrivano al cielo?
Nello specchio il mio volto ricamato dagli anni
ricambia l’ingratitudine del tempo che è nemico alla gioia
vedo e sono veduto anzi
posso vedere solo vedere e ascoltarti dentro a nevicate tremende
i miei occhi senza sole
si muovono fra ombre veloci.
Lo so che il mondo potrebbe essere mio fino al più lontano domani
ma sono inchiodato a uno schermo che vibra
ferita da frecce accecate la memoria dell’infanzia.
Nessun allarme, la banca dati
è con minuzia trascritta nei dischetti
in una notte posso rivedere il passato
VIII.
Le miserie d’Italia maledizione d’Italia numero otto
una volta gli aranci oggi una nuvola nera
dove il mare ora l’onda si ferma nel rosso del fuoco tramonto
dove la speranza intera e uomini pescatori di spade
oggi pervade la landa un’idea di miseria dolore
ho visto molte ombre nel corso di questa giornata
ho potuto contare le orme
ricordo in Italia minuetti sui piedi danzanti
ariette napoletane in un cielo di Giove
oggi crateri a Palermo vulcani a Milano
con voli improvvisi di morte
inesorabile fato questa antichissima Esperia
nel fango non ha destino il futuro.
Ammanettati con piccole catene d’oro
simulacri di uomini tomba ridono liberi a Roma.
Sono difesi da pietre porte di una città devastata.
Solo il fucile d’oro è arbitro di queste contese
se canta da usignolo
sarà un nuovo mattino.
IX.
Povera Italia povera la tua miseria
Italia numero nove
albero disfogliato annegato nel riverbero amaro di un sangue assassino
non vede lampi la tua
faccia di strega dolore su dolore pianura lunga verde di cielo
fra infinite meraviglie folgori
Italia dispersa fra mala fortuna in preda
a brividi di morte
signora dai capelli di serpi
puoi cantare a piacere le tue mille canzoni
serrata nella clausura della tua storia
arrivi ansimando là dove il destino è segnato
dove è acquattato l’eterno nemico.
Tra i poteri criminali e lo Stato
ci sono troppi punti di confusione ma
in comune hanno faccia e piede.
Numero nove e povero nove ripeto ancora
rannicchiata nella caverna dove gridano antichi rancori
smantellare questo sistema significherebbe spedire
pezzi consumati e consistenti della classe politica all’inferno.
Gridano le voci picchiando contro i vetri non c’è
più
molto tempo spazio per annacquare il fiore della speranza
troppi farisei
troppi amici dell’ultima ora.
Dirti addio non conviene.
Buttata sull’erba sollevi la testa aspetti l’ultimo colpo.
Leggeri geni dell’aria non chiudete tutte le porte
l’attesa premia.
Fuoco di parole
e guerra sia.
X.
L’intervista a puntate è
la miseria d’Italia numero dieci
una scia di sangue lunga vent’anni
la mafia è
agile feroce dalla memoria d’elefante
un nemico in attesa di colpire
non è il corvo la talpa non è il falcone
che s’alza alto per guardare a lungo e punire.
Essa delinque senza soste
mentre noi litighiamo
perdendo l’occasione storica
di mettere in piedi una struttura vera.
Senza coordinamento la guerra
si può considerare perduta.
Lui non ha smarrito l’amara ironia la cadenza
ma ha messo da parte il linguaggio burocratico
i grandi silenzi che
hanno scandito
la sua attività come perno del pool.
La mafia non è il frutto malato di una società sana
è una realtà con leggi severe
dotata di una struttura di vertice
piramide di mattoni compatti infiniti
si fonda sull’assenza dello Stato
è come una chiesa
ha un ordinamento simile all’ordine ecclesiale
come la chiesa sa rinnovarsi
il capo della cupola è
soprannominato il papa.
La camorra polverizzata in decine di clan
non si oppone ma vive
dei buchi neri del Palazzo…………………
XI.
Undici, Italia patria
di vecchi pittori impolverati nascosti in cantina
di camerieri giovani che sognano l’eldorado
su navi di mare di fiumi di danze.
Italia Italia Italia tre volte chiamata con catene
fra montagne di poca neve e muri ventosi
troppo vecchia ormai per morire
così ti penso ancora viva e ho
Italia ottantaquattro vipere fra i capelli.
XII.
La miseria della miseria Italia numero dodici
la testa in fiamme la sterpaglia
dalla festa dei pensieri paglia che
avvampa brucia fra braci di fumo.
Si consumano notizie mescolate al ricordo
di vecchie età
l’armamento sul carro della vita in corsa
è spazio di fresca primavera.
Altrove polvere sollevata dall’auto nella strada di campagna
odora di mele mentre il merlo s’allontana
stride forte a filo dell’erba lungo il mare
siepi siepi siepi di oleandri abbandonati e
pini scavezzati dai venti secolari camminano a terra.
Può la morte ordire il suo acuminato massacro
ridurre in cenere il delfino
il vascello in fuoco
la sovrastante nuvola in ciclone e
travolgere la vita?
Il fervore trascinato in gorgo
l’esistente in un attimo è scomparso
giovinezza è il ricordo poi sull’occhio ottuso
del cielo interminabile di tetti
e alla fine dimenticare la tomba
dei vecchi eroi?
Quante primavere gli uomini fuggitivi
abbandonano alle giovani ali che arrivano portate dal garbino?
Si può considerare l’opportunità di non rassegnarsi
bruciare il carro del vincitore
anche le nostre bandiere.
Per favore.
XIII.
Italia numero tredici tre volte
Italia adorabile donzella
piffero risuonante
chi ti ascolta è perduto.
Il mare ti mangia adagio
il tuo riso è infernale
ingiusto e sprovveduto
smarrita dentro balli e suoni
neanche più chiedi o urli aiuto.
XIV.
“Ho passato il mese di giugno più schifoso della mia vita”.
Italia maledetta quattordici sono le maledizioni d’Italia
la vergogna di questa isola senza mari
senza monti prati cavedagne fiumi
senza più lunghi orizzonti di qua e di là dai guadi
il numero arriva con le prime tempeste di giugno
travolge i paesi i sobborghi della miseria feroce
così l’occhio del ladro si chiude sulla tasca
di un vecchio appisolato.
Il poeta delle favole cavalca un’oca superba e vola via
fra scoppi di parole
“quando ti sento dire: sei qua
non ti voglio
io dico la verità, ragazza mia,
vorrei morire. A noi ci specchia il sole”.
Nella piazza la gente si è radunata
per fiducia o sfiducia nel sindacato
sapere come il sindacato si muove
oggi è il problema la gente lo deve capire.
La paura resiste perché episodi di questo genere
possono stravolgere i rapporti e
il peso contrattuale dei lavoratori.
Non erano i pensionati a tirare le fila di questi cortei.
Una piazza compatta tranquilla
è una meraviglia.
Le tute blu sono giovani molto giovani, oggi. I nuovi operai.
XV.
Italia mia con il lenzuolo stracciato
della tua bandiera.
L’alloro di un tempo
è fresco soltanto tra le mani
di una cuoca o cuoco divaganti
per gli sgombri al forno nel ristorante sul mare.
Intorno a te si esaltano
arlecchini irridenti che sciolgono
parole parole dalle bocche umide e scaltre.
Timida e lacrimosa
sei l’orco della favola senza fuoco dal naso
ti salve lo strame della gente
che ha ancora voglia di vivere.
XVI.
Italia maledetta la maledizione d’Italia
numero sedici nella sua miseria mai dimenticata
l’Italia non esiste più l’Italia si è perduta
mucchio di carbone appena spento fra due pietre
verza strappata dal becco dei passeri vaganti
mare con ossa di delfini disseccati
certosa di vecchi scheletri cappuccini
frana scrollata dalle cime acuite di monti vicini
dentro al mare Tirreno solcato da velieri fantasmi.
XVII.
Quando la notte è zero
e le cicale scoppiano fra i sassi
Italia maledetta è l’ora in cui ritorni perduta
nella caverna della tua maledizione numero uno
e sette. Per niente sei antica
e hai Dante nel carniere.
“Datemi acqua!”
“Bastardo non siamo i tuoi camerieri”.
Quando l’uomo è topo al topo con furibondi duelli
la vita si perde nel letame.
Ti tradirò con sette baci
con la paura delle stelle che non cadono mai
occhio del diavolo nello spazio senza confine
in questa notte di una estate senza neve.
Taci sciagura e piangi
sulle tue mani mangiate dalle vipere
e allora?
Gli angeli troppo magri non hanno gli occhi per vedere.
Nessuna gioventù mi perseguita ancora.
XVIII.
Italia sepolta sotto la neve
adorata maledetta
perduta ritrovata
muta loquace assisa in un cortile a Venezia
dove trionfa Goldoni seduto al Caffè.
Incapace di fedeltà
distrutta dalle passioni
calpestata da una dolorosa viltà
trascinata dalle ruote della Ferrari
e dall’amore di un popolo che oggi è travolto
infuriato o inquieto.
Giardino dei ciliegi
diventato foresta frequentata da nani
con il pelo di ferro
divorata dalle cavallette avide e ciarliere
precipitosa armata incalzata dal vento…
XIX.
Qua non finisce il percorso
qua il camminatore non dà il saluto
tuttavia sempre aspettando
un’altra primavera e diverse occasioni.
La speranza è ancora in vita
e la vita non è finita
tutti in questa terra antica e scaltra
approdiamo venendo da un mare
abiurando la falsa pace
splendidi portatori di nuova guerra.
XX.
Venti. Ventesima è questa grigia
miseria ardente
sicché cenere viene
poi di nuovo fuoco grande
fuoco nuovo che accende
forse speranze. Sono speranze nuove?
Il camminatore fra boschi e calanchi
e città aperte sotto il cielo infuriato
dice (cantando)?
non ero io ma chi ero?
Lontano vicino il lampo indicava la strada di un cielo vagante
vicino lontano i morti di legno di pietra bruciavano
le case di pelle di sangue esplodevano
i cristi in croce su altari in cenere bianca cadevano
giovani col cuore spaccato ridevano fra mille bandiere
fuochi sui monti per la sagra di un uomo
decapitato sepolto senza gloria di un nome.
Cadaveri irati
alte sequenze d’amore.
Nessuno trapassa calpestando i sassi
tutto tace e il mondo sembra mio.
Mi placo sotto il vento delle ombre
il passato è una novella lieve
cancellata dal tempo che frantuma i visi noti.
Sia come sia mi inquieto
vedo bruciare l’orizzonte ma questa è l’ora che segnala il destino
in cui fra i boschi
il camminatore cerca pace nei pensieri.
Erano tempi, che tempi! La mano
allo specchio con il segno di lunghe ferite
aerei di nuvole stanchi
cercano terra in un abisso di acque.
Canta una voce la fame nelle notti di luna
le donne con gli occhi accendono fuochi
neanche una foglia è leggera in questi anni di secche castagne.
Il sangue perduta la luce s’annida fra sassi e capelli.
Che tempi si squarciano oggi?
Le case
bruciate nel sangue
non sono antiche memorie.
Gatto fra gatti, cane fra cani, cinghiale di selva e radura
ombra su asfalti dentro silenzio di mondi
cielo di fumo e nebbie di boschi bruciati.
Che tempo è questo? Senza ricordi mi perdo?
Reagivo come un sovrano decaduto
non mi lasciavo sgomentare.
Crollano i muri di pietra s’alzano i muri in oro blindati
diamanti splendono su dita misteriose
nella notte da terra a terra che non ha più confine.
Questo gridava alla notte il camminatore nel silenzio
della foresta degli anni:
cammino fra i sassi
mi inerpico sulla montagna
scendo nei mari
milioni di uomini stesi aspettano in caverne di fango
le donne senza età hanno consumato il pianto
come un pozzo lungamente bevuto.
Bruciano uomini e libri
bruciano i libri e le cose
(le biblioteche sono polvere grigia bagnata)
bruciano i ponti le case le tele
dipinte da vecchi maestri impazziti
bruciano le parole ai bambini che guardano il mondo
fra missili ogive sigarette vendute nei porti.
Vedo la morte regina del mondo ruotare sul mondo
per la violenza del mondo
nel silenzio del mondo.
Ma dove sono? Dov’ero?
Reagivo col furore della spada
mentre le nubi soffiavano sulla traccia
degli animali predatori che mi inseguivano.
Non mi lasciavo sgomentare.
Se la morte del mondo non testimonia della vita del mondo
come può il futuro crescere come il fiore
sul cuore di Caterina che chiama i colombi e
guarda la luna?
Ma io dove sono? Dov’ero? Mio è il silenzio
nel fuoco, mia la casa che brucia, io brucio le
mani che stringono il giorno perché non abbia destino.
Io contro un muro in attesa e
bruciano boschi le città bruciano bruciano
mute le acque i grandi monti sono solitari e perduti. Ma io
dove sono? Dov’ero?
Non mi lasciavo, oh
non mi lasciavo davvero, oh
Non mi lasciavo sgomentare.
Qua sono (egli dice) rispondo. Qua sto.
Come un soldato non vinto
sottraggo la morte alla morte
nell’Italia squarciata da trenta miserie sul fianco del fuoco e del freddo
Verrà pure domani.
XXI.
Hanno memoria lunga i mandarini di cosa nostra.
Pronta a colpire.
Falcone doveva succedere a Chinnici
gli preferiscono Meli
negano il suo intero lavoro istruttorio
con disprezzo definito il teorema
un corvo lo accusa
la mafia sistema 50 chili di tritolo
dicono a Roma a Palermo “l’ha preparato da solo”
l’accusano d’avere insabbiato le indagini sui delitti politici
corre per il CSM e lo impallinano gli stessi compagni di corrente
ripiega a Roma al Ministero
dicono che si è inginocchiato al Palazzo
è candidato alla Superprocura
il CSM lo boccia.
La mafia doveva solo presentare il conto
l’ha presentato ieri
come aveva previsto Buscetta
“l’avverto signor giudice
dopo questo interrogatorio lei diventa una celebrità
ma la sua vita sarà segnata
cercheranno di distruggerla
non dimentichi che il conto con cosa nostra
non si chiude mai.
È sempre del parere di interrogarmi?”.
Era l’oggetto di un odio implacabile, dunque
………………………………………………….
Italia numero ventuno Italia secca
tempesta di miele di pianto di fango
Italia
allora?
………………………………………………….
XXII.
La Grecia brucia.
Brucia l’Italia.
Antonio è partito.
Brucia cuore e futuro.
Morti Sciascia Calvino Pasolini
Fortini Volponi Vittorini persone
di alto gradimento. La giornata
è lunga amara in questa Italia
cavallo che caracolla azzoppato.
Sta arrivando l’inverno.
Sarà di nuovo il tempo bianco della neve?
O prevarranno giornate temute
con poche voci annidate nel petto?
Chi nel silenzio e l’attesa raccoglierà le nuove vicende?
Chi
raccoglierà fra i sassi le nuove canzoni?
Momento gelido da ricordare.
Vittorini cammina ancora adagio lungo i navigli
rapido e sicuro Calvino sta scrivendo una lettera
Pavese ha appena bevuto cicuta nel terribile
silenzio d’agosto
Fortini arriva correndo impetuoso e ammonisce la vita.
Sferziamo cavalli che sono bianchi cavalli di pietra.
Un vulcano aspetta di triturare il cielo.
Cenere bianca fredda si depone ai miei piedi.
E tuttavia anche noi aspettiamo.
XXIII.
Ho scritto l’evento
Italia claudicante con il bastone da vecchio
ancella defraudata dei giorni
signora offesa che rivendica polverose ruine
né sa adattarsi ai pellegrinaggi fra i fiori.
Tace e si attarda
ascoltando l’uragano che placa i suoi fuochi nei paesi d’alta montagna
e a Roma depone l’obolo o l’offerta.
È cronica la tua vecchiezza Italia dell’alto tormento
numero ventitre
incapace di lavacri salutari
cadremo insieme nell’inferno del tempo
senza cavalli al galoppo né città esemplari già assaltate.
Nessuna verità è più completa e terribile
della verità della memoria.
XXIV.
È l’anno ’68? l’anno ’77? l’anno 2006?
A Bologna
(Italia numero ventiquattro sconquassata da mille mani e colori)
l’estate scoppia sempre con lunghi singhiozzi
con ululi da sirena sperduta nel mare in notti profonde.
Contro la porta di una chiesa giovani giovani appena
nati stanno distesi. E aspettano.
Il cielo soffia sulla loro pelle che stride
perché non riescono a dimenticarsi di vivere.
C’è ancora un vecchio che ascolta esplodere la canzone delle pietre.
Un’ondata travolge la piazza.
Le torri sono tronchi di un legno molto duro.
I giovani hanno capelli di ferro e gli occhi di creta.
Si muove il vecchio con uno sputo che è un mare.
Tutti lasciano i buchi dove si va per confondersi
per visitare un amico o per piangere in solitudine.
Galoppa per la pianura il dolore incontro a un altro dolore.
È vero che all’alba
la vita è un’oliva verde appassita strizzata
e molti sembrano sulla riva in procella di
un fiume distesi.
Il giorno si mette a gridare a chiamare chiamare
le formiche pazienti
che alzano un muro con le seguenti parole:
Noi non dimentichiamo mai i morti.
Noi siamo uomini e anche noi piangiamo.
Ci guardiamo le mani che hanno stretto i fucili
ma non odiamo.
Sulla piazza di giovani barbe sbatte il respiro
da primo giorno del mondo.
È lì che ciascuno ha vicino una mano. Una mano.
E non si lascia incantare.
XXV.
Il giorno dell’ultimo sparo
non fu un giorno di gloria
gli urrah! non mancarono
ma si piegarono le ombre e
i morti erano lì sulle strade
composti come sacerdoti per ascoltare le voci.
Sia buona fortuna agli abitatori delle notti di ghiaccio
Italia venticinque sazia di parole e testardo aquilone
il telefonino nascosto sulla pelle porta
notizie in codice.
Chi ha avuto ha anche già dato
ma l’indifferenza è suprema signora del regno
l’orizzonte è aperto agli aquiloni che si
disperdono alti
la tua terra Italia attenta paziente sbalordisci e urli
“salvatemi abitatori infausti delle città impolverate,
gli anni si sono accaniti
non c’è più tempo per i tornei e le donne campestri
irrorate di soleventotempesta…”.
XXVI.
Trapassata da ferro d’amianto e polvere
da vetro e frammenti di astri solitari e straziati
il 17 febbraio 1911 fu oscurata la volontà di esistere in
buona compagnia
l’oscurità dunque sia giusta e permanga rintanata in un angolo
dove le pietre esauste si raccontano storie di guerre
cadono i lacci che imprigionano le penne nel volo delle cicogne
che planano solenni sui campanili per deporre uova bianchissime
mentre le donne si inchinano alla pietà
sul corpo degli amanti riversi nelle piazze calde di nebbia
e lacrime calano sul volto delle impolverate effigi dell’Italia
numero ventisei viandante di tormentate avventure
e sui letti ferite le donne
si trasmettono fra un urlo e un sorriso
la verità della vita
e la ricetta della torta di panna e castagne
da dividere domani al suono delle prime campane.
XXVII.
Ventisettesima peregrinazione Italia di sassi e di erbe
bruciate dall’arsura
Italia Italia Italia addormentata in una stalla
vicina a un cavallo normanno.
Leggere furiosamente
vecchi libri di carta
hanno odori che rimandano ai boschi di abeti e
non danno suoni di odori.
Poi parlano all’improvviso con la voce di un sole
o
soffio di vento africano
o
calura d’agosto
si raccontano cose.
In quegli anni. Cose.
Fiabe, favole, deserti? Anche deserti e favole antiche,
Anche favole antiche e
cose incerte non prima conosciute
in quegli anni ribaldi di vertiginose discese
e molto sangue intorno errava cercando.
Gli anni?
Vivere era un campo di conflitti di guerra
di fango spezzato, di giorno urlato, di magri pensieri
nel circo dismesso tutti ridevano in pianto.
Sulle spalle il vecchio, che è il tempo del tempo, fra i rumori
boschivi.
I giorni della vita censurati
ma poi contati (contiamoli bene)
rovesciati su un sasso come pesci verdi appena pescati.
C’è il guerriero con l’elmo il guerriero col pesce
il pesce è sullo scudo non sulla zampa del cervo ferito
la spada è nella mano del guerriero condannato a vincere la partita
i guerrieri cadevano leggeri come foglie autunnali
laceravano con un sibilo la speranza della vita.
Questo uranio inviperito signore solitario delle nostre giornate
adesso disprezzato e maledetto
dice (cadendo nel tramonto come un sole nel mare)
mi sembra, dice,
di dovere morire ma forse ancora non muoio.
Italia di ventisette gabbane trafitte dalle frecce e dalle
trombe di guerra
racconta,
la nave fischia nella nebbia per raccogliere naufraghi
per entrare nel porto.
“Salite vecchi soldati, grida il comandante,
fra i sacchi di grano e i topi
favorite il rifugio non disdegnate l’aiuto
un porto, è lì aperto davanti
accoglie chi è ebbro di pace…”.
XXVIII.
Italia ventotto statti accorta
tutto cominciò al dodicesimo
minuto del secondo tempo
quando l’uomo secco e nevrotico
che sedeva al bordo chiamato mister
disprezzato di molto dalla squadra
per turpe malizia senza guardarlo in faccia
gli urlò riscalda
quelle zampe entra nella partita
che è una battaglia
fra tre minuti al mio ordine.
Tre minuti! Una vita. Neanche il tempo
di struggersi d’emozione.
Stranghellini uscendo dal prato
era il numero trenta
non lo guardò neppure acidamente ardito
gli strinse la mano appena e
lo lasciò abbandonato sul
verde mare come in un naufragio di grida.
Fu dunque solo. Italia, dov’eri?
Lui e il pallone fra cinquantamila nasi che
sbuffavano simili ai bisonti in corsa
sulle rive del fiume Pecos.
Centomila occhi torvi infuocati e maledetti.
Un pallone docile di primavera e di canti
adornato di un gentile respiro
gli arrivò da destra sussurrando al suo piede
egli vide così portato il volto della madre
piangeva quieta vicino ai vetri della finestra in
cucina e il sigaro breve del padre spento che
rideva leggendo il giornale
le giornate di pioggia lungo le strade della periferia
il giorno della morte di Tommy poi
l’urlo colorato tuonando dalle bocche invasate.
Aveva segnato il punto
lui oscura conchiglia di mare gettato
dal mare sul greto
sul greto sul greto
del fiume Pecos dove affranti bevono i bisonti.
Aveva segnato il punto lui
oscuro frammento di legno nel bosco
lui mendicante solo di tempeste e di vento
lui padrone del mondo dei sogni
vittoria e mille bandiere
lo coprivano uscendo dal campo con rose e respiri.
Italia ventotto azzurro era il destino in quella sera d’autunno.
A quale destino
galoppava ora il mondo
dopo questa vittoria?
XXIX.
Ventinove sono ventinove i conti dell’Italia
nella polvere fasciata di bandiere lacerate
non lascia spazio ad alcuna novità
talvolta le attende poi le condanna.
Voci si annidano fra le braccia di un sole
unico superstite della disfatta.
Resto lì e ascolto, Italia con la spada impolverata e
senza filo al fianco.
Mi fisso immobile ad ascoltare
imparo di nuovo il fascino del vento
la frastagliata ebbrezza delle onde dei mari.
Il grido di vendetta del venditore di angurie è annidato nell’ombra.
Così la giornata si apre come un libro
(rispettosa di eventi)
da sfogliare leggere annotare
fino all’indicazione indice che serra il fiume di parole
e brucia le canzoni.
La sera viene.
Il 17 febbraio 1977 una voce fu oscurata e il ricordo è un’ebbrezza di suoni troncati da un colpo di pistola
La guerra non è l’ultima guerra
per telefono l’amico annunciò all’amico che
era tempo di grave tempesta improvvisa
chissà cosa ci riserva la sorte
se calano anche per un solo momento
cedere al sonno.
Questo continuo vociare
ciascuno a suo modo
è assalto rapido
la rapina della speranza è forse vicina
la scia di rancore è un forno che avvampa
di un fuoco astuto acquattato fra i muri e le foglie.
La pazienza per deludere è ardua.
Scriveva scriveva scriveva di cosa?
Di cosa si può scrivere in piedi
se non quando si parte?
Lasciare la patria immersa nel buio del mondo.
Addio terraitalia canzoni di Napoli con il vulcano che fuma e
aspetta. Così è stato detto inciso, sulla pietra.
Sono partito
un ritorno deve pure avvenire.
XXX.
Il tuo destino è oscuro
Italia trenta, trenta.
Ogni viottolo un tumulo d’antichi guerrieri
ogni cima una fortezza abbandonata
nelle vallate cunicoli di trincee
mani di vecchi soldati affiorano fra i sassi.
Con il fuoco nel cuore
e il suono
dolente di una campana
nell’orecchio.
Chi vincerà le tue battaglie?
Ancora una volta per te?
Il futuro ti aspetta…
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: poesie pubblicate in volume
- Editore: AER Edizioni
- Anno di pubblicazione: 2010