Frammenti da un deserto

…perché dalle pagine o anche solo da varie righe di questo autore che avevo letto o riscontrato fino ad ora, magari estrapolate in diversi contesti, mi sembrava che le conclusioni di critici autorevoli e attenti tendessero piuttosto, se non sbaglio, a un non-giudizio; trincerandosi e avvolgendosi dietro o dentro i veli di una sottile ironia gustosa, del giuoco itinerante e intelligente, della sofisticazione argomentativa bibliograficamente ben aggiornata…

un non giudizio che riassumerei così: sotto il vestito, niente; pepli e non ossa manierismo raffinato ed esagitato, o dissacrato; un batti e ribatti senza un rovello del fabbro, ma in camicia e cravatta, facendo solo scintille. Faville…

a me, non avendo impegni di accademico decoro o dio intrattenimento salottiero ma solo obblighi di attenzione privata, pareva che le cose si muovessero invece per altre strade e deducevo proprio all’incontrario: sotto il vestito, tutto; carne e ossa (piaccia o dispiaccia all’autore). Così il re – il piccolo re, il grande re, il delfino, il nipote del re, il predestinato al trono – anziché nudo andava in giro vestito, eccome; sempre ricoperto da un armamento affatto compiacente: segni appuntiti come spada, spadone, elmo, corazza…

cos’è che mi portava a questa compiacenza?

potrei rispondere: dati, riferimenti molto personali. Appigli, ad esempio, che come un rocciatore in libera andavo perscrutando con attenzione gli anfratti della ripida parete della scrittura; per appoggiarvi il polpastrello di un dito o la mano intera al fine di sostenermi e semmai avanzare, da riga a riga, verso una finale comprensione. La difficoltà della risalita apparteneva per intero a me stesso (i mezzi per ben comprendere) ma la parete dei segni non era mia e stava lì davanti a minacciarmi un poco e ad esigere molto (secondo il dovuto)… appigli, dicevo, per continuare la risalita della riflessione (e mi piace questo, dato che partecipo alla convinzione che in vita, da cima a fondo, bisogna sempre e solo impegnarsi e impegnarsi fino allo spasimo per imparare, correggere gli errori, lasciarsi scorrere dagli altri e ringraziare alla fine senz’altra rivalsa che questo sentimento di buona gratitudine)… ma per anticipazione enorme alla chiarezza, che mi consenta di disporre sul tavolo le poche carte delle mie argomentazioni, vorrei sottolineare una possibile definizione della mostra qui in atto, e più in generale dell’opera dell’autore quando si dispone nella direzione dei suoi testi di scrittura: la splendida modestia dell’inquietudine…

splendida, nel senso che, dentro continui mugolii di rabbie concettuali introiettate (come se l’autore avesse attivo, nella sua elaborazione culturale, un marzo ’77 in ebollizione e in contrapposizione inesauste) si percepisce una tensione dinamica – una masticazione continua, ma con gli occhi ha perscrutare le vie della terra o del cielo – che si rovescia dentro e contro i numerosi giudizi e pregiudizi ufficiali e i luoghi comuni (così invadenti) di un esercito della critica ormai largamente congelata supponente ferma…

e questo movimento in ebollizione costante, pronto ad ogni scontro necessario e sempre disposto a verificarsi e aggiornarsi per supportare l’impegno degli scontri, è riscontrabile da ogni foglio che si legge, da ogni immagine proposta e disposta per la comunicazione. Non c’è angolo, in cui questa continua violenza di ricerca non vada ad insinuarsi e per tradurre in una enunciazione più schematica quanto ho appena cercato di precisare, mi aggancerei all’appiglio di alcune domande, a questo punto, in riferimento al rapporto autore-lettore, testo-lettore ecc.: quante volte, ripeto, quante volte devo capire questo che vedo, che leggo; non solo, ma anche tutto ciò che vedo e che leggo? Quante volte riesco a capire; quante posso capire? E ancora: quante volte voglio capire?…

è possibile che in questi interrogativi così semplificati sia tutt’ora raccolto il dramma della comunicazione artistica; non solo, ma anche del villaggio totale (totale, piuttosto che globale, essendoci inserito il sentimento disperante di una oppressione senza uscita); come conseguenza, questa è un’altra mia domanda identificata nel mare della comunicazione: è meglio (più utile per l’anima che vuole sentire, per la testa che vuole ragionare) capire una volta sola, ragionare volendo concludere; oppure più volte di seguito, nuotando nella benefica incertezza, incorporando ogni incomprensione o eventuale schiarimento negli altri che conseguono e possono dunque di nuovo contrapporsi e annichilire? Un girotondo ebbro della ricerca, che porta da me a te e viceversa?…

questa inquietudine tende in modo generale a ritenere che ogni processo di comprensione sia, sul momento, quasi impossibile; e che è solo il dinamismo del processo di confronto e di razionalizzazione attraverso la verifica dei segni a rendere possibile, attuabile, ancora gestibili (non più detestabile per la sua ovvietà) la vitalità, l’autonomia sia pure regalata ai margini del sociale, del processo artistico. Una determinazione nella progressione continua, nel progetto del fare comunque, del produrre come emissione di sangue, nell’incertezza del viaggio in corso, piuttosto che adottare la speranza di una conclusione, di un cancello alla stazione terminale…

non possiamo più giudicare, perché il possibile, il probabile soggetto-oggetto della comunicazione non è identificabile, non sembra presente; si fa e disfà nel moto vorticoso di una ricerca che non è privata (dell’artista), non è formale (per l’artista) ma incatenata alla nostra realtà di smog nell’aria, l’una infranta, tenerezze senza lacrime, mondi di guerra e vanità presunzione superbia inganno costante e indelebile.

Altro che collages e formalismo curioso o incuriosito – dico io; e vorrei far ricordare una notizia di non troppi anni fa: nel deserto africano più infuocato, cammelliere e cammello procedono appaiati sulla sabbia ardente videro affiorare un frammento di pergamena o di altro su cui era scritto qualcosa. Era un frammento di versi di Alcmane, sacramora. Risalito per una spinta prepotente dal cuore della terra e lì – fra sabbia sole silenzio – adagiatosi in attesa…

questi frammenti di carta-cartone e altro, a me sembra non abbiano il beneficio di un’operazione freddamente concettuale, ma il livore salvifico e il fuoco di un’operazione di sopravvivenza, di recupero estremo, di lucida riconsacrazione di un frammento di terra. Sono, insomma tanti piccoli frammenti di Alcmane, che vengono a insinuarci come punture di spilli una quantità di brividi minimali ma indispensabili, urgenti: dubbi, perplessità, riflessioni…

perché, un’altra domanda proveniente da nodi argomentativi precedenti ma più in generale era la seguente (non proprio comune): queste operazioni di segni-segnali che non si sollevano sul mondo allontanandosi dal mondo ma restano in col mondo senza riposo; e che ieri oggi domani mi sono proposte; devo e posso – dopo averle individuate e ascoltate – rimuoverle per igiene intellettuale o assumerle e disporle come indispensabile nutrimento di riflessione? Come predisposto a ricevere questo o un altro messaggio, per salvarmi in qualche modo e non lasciarmi sopraffare, devo fare opera di rimozione o di accettazione? Assumo l’autore, rimuovo le occasioni? Assumo i luoghi, ogni specifico riferimento, anche solo in parte, ma rimuovo la zampata conclusiva dell’autore?…

sfiorando appena la risposta (non mi spetta altro, e in privato), dico che semplicità e complessità vengono di volta in volta riconosciute e definite a seconda dell’uso reale a cui vengono sottoposte; e per uso reale intendo un uso semantico, che è partecipazione e individuazione della mente dei singoli entro cui andare a disporsi; e dei giudizi, dei significati inseriti e proposti…

i frammenti di carta cartone e altro appoggiati alla parete li intendo dunque sollevati da terra, raccolti da terra come quel frammento dal deserto; e disposti non per l’applauso o il diniego ma perché gli occhi vi si conficchino dentro fino a ferirsi; o comunque a lacrimare.

Può essere la sabbia a fare questo effetto o il riverbero della luce in una stanza o il ricordo/saetta degli anni che non ritornano; o la comunicazione di una qualche idea che turba disturba invita

quell’inquietudine, insomma, talvolta splendida perché necessaria, che tiene in moto la vita…

così andrei cauto a sfiorare questi brandelli di carta cartine con le mani

o anche solo con un dito

 

(Alla digitalizzazione di questo articolo hanno collaborato Federica Polidoro ed Elena Bonfiglioli)

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: articoli su libro
  • Testata: Scrittura come arte: il corpo della coscienza, di Nanni Menetti
  • Anno di pubblicazione: novembre 1999
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