L’inquietudine dell’incertezza

Devo scrivere, per questa occasione; sento che devo scrivere; ho certamente voglia di scrivere eppure patisco un impaccio non precisato, perciò indefinibile, che mi costringe di volta in volta a rimandare. Scriverò più tardi, nel pomeriggio, concludo; stasera, domani. D’altra parte non mi capita nemmeno per un attimo di pensare o di decidere di non scrivere. Le “cose” da discutere, da chiarirci, sono tante infatti; i problemi che ciascuno di noi deve affrontare ogni giorno, ogni ora, direi ogni minuto sono così vigorosi strazianti impellenti e sminuzzati, che sarebbe davvero impensabile, da parte di chi vive nel mondo d’oggi, non sentire oltre che l’impegno privato, proprio la voglia di partecipare almeno con la scrittura a ogni tipo di discussione – con tutta la modestia del caso. Eppure questo spazio aperto e direi drammatico fra la voglia di fare (meglio, di dire) e l’atto diretto dello scrivere e del concludere è ben disegnato; capita di sentirne il fiato sul collo in più di una occasione; quasi che fosse in corso una sorte di feroce rarefazione nella sostanza dei problemi – proprio mentre i problemi nella loro generalità e globalità sembrano tutti pesanti come massi. E siccome questa situazione si è variamente e faticosamente ripetuta anche in altre occasioni, da parte mia cerco in qualche modo di spiegarmene la ragione, per superare utilmente questo impaccio, se possibile; e per non disperdermi troppo; anzi, per tentare – se mi riesce – di trovare almeno un bandolo di questa maratona argomentativa, partendo intanto, oggi, da questo mio impegno per la rivistina. Così mi accorgo che progressivamente, e certo non all’improvviso, è andato annebbiandosi fin quasi a scomparire un concreto riferimento all’idea di città. Nella sua corporeità vitale, nella sua sostanza reale, nei suoi minuti impegni e cavilli, nei suoi obblighi precisi e decisi, nei suoi diritti chiaramente dichiarati e imposti rigorosamente. Ma a questo proposito è forse opportuno chiedersi se possiamo trovare in Italia una città che si possa proporre, anche se parzialmente, esemplare al fine di suggerirci stimoli argomentativi e un poco tranquillizzanti. Torino, Genova, Milano, Roma, Napoli, Palermo? Bologna? In questo momento, a mio parere, sussiste soltanto un vorticoso cono d’ombra sotto il quale tutto sembra appiattirsi e involgarirsi. Siamo d’accordo tutti, o quasi tutti, che al tempo presente sembra essere diventato un impegno di enorme difficoltà e complicazione anche l’atto stesso, lo stesso impegno di amministrare il bene pubblico; ma è soprattutto vero che è saltata in aria, se esaminata e controllata specularmente, ogni possibile e omogenea chiave di lettura e ogni probabile previsione del futuro prossimo delle città. Sempre più trasformato in un generico e trasandato contenitore di monumenti inviperiti, di proliferanti sedi finanziarie, di gelidi palazzi per la burocrazia imperante, di case e casone ristrutturate e sconvolte al servizio di miliardari di ogni risma e cultura; infine, di una periferia enorme, sempre più distesa, non più controllata né controllabile, in cui si depositano milioni di anime morte o perdute, presenti solo per gli infidi registri statistici sempre inviluppati in approssimazioni.

Prendiamo questa nostra a Bologna, nel mazzo delle città che ho prima elencato; precisando, solo per scrupolo, che come cittadino che la vive da sempre, ho ritenuto con tranquillo impegno di stendere alcune minute e varie considerazioni in parecchi fogli già negli anni passati; suscitando per lo più solo rimbeccamenti indiretti e infastiditi e magari l’esclusione dal saluto – anche nei mesi passati. Ma è necessario insistere senza arroganza però con convinzione, parendomi che una città sia una parte della propria vita o, meglio, del proprio cuore; non pietra soltanto. Se essa si perde, si perde anche la nostra vita – almeno quello spazio lungo o breve ma fulminante che a ciascuno resta. Napoli, per esempio, in questi giorni ad agosto, è orrendamente abbandonata a sé stessa, ed è un esempio micidiale di cultura amministrativa – nonostante lo straordinario popolo napoletano soggetto e squinternato. Bologna sembra vivere un poco più in alto, anche se in questo momento fra i mille problemi, il determinante sembra essere quello delle piste ciclabili. In una città, tanto per precisare, e non è la sola, con un inquinamento atmosferico sempre al limite del disastro, proporsi questo impegno primario sembra avventato; e semmai susseguente alla risoluzione del più importante e tragico problema del traffico – che si prolunga con modesti i rappezzi giornalieri; e sembra irrisolvibile, al momento. Il nodo, dunque, è che stiamo parlando del divario sempre più accentuato fra un problema amplissimo e di enorme difficoltà e un problema idillico e modesto (un problema quasi campestre, fra uccellini e margherite sopravvissute) – a cui si dà appunto per questo il privilegio della precedenza. Per i grandi problemi, invece, accade ormai come per gli eterni lavori di rappezzo nelle autostrade; interventi sommari per coprire buchi e difetti sul momento e domani si vedrà. La metodologia del tampone, senza alcuno sforzo per riuscire a ridefinire in modo diretto il futuro che ci aspetta – il quale è grigio assai, a dir poco.

Su questa linea di agganci problematici per approssimazione, basterebbe anche riferirsi a un secondo esempio, che contiene una intervista del 17 giugno con l’assessore Bottino. Cito: “Quel qualcosa in più da fare a Bologna è la volontà di realizzare con l’Arena del Sole un palcoscenico mirabile di livello internazionale”. Mentre i lavori procedono sobbalzando come un vecchio camion con le balestre in disuso, è almeno la decima volta che si ascoltano elargiti con gioiosa e generica convinzione questi megapensieri.

Una città che è letteralmente senza teatri (e non dico senza teatro); in cui i buoni e saggi e attivi e stimolanti sono acquartierati come truppe disperse dentro e sotto strutture di latta o relegati quasi nella campagna come fori boari; che ha per teatro “principe” il Duse; che ha lasciato smantellare indifferente il glorioso Contavalli, dissipando le sue glorie dialettali; che da dieci anni spende e spande interminabili blabla intorno all’Arena (come intorno alla Manifattura) non dovrebbe darsi finalmente una mossa risentita seria e realistica, espungendo le alate fantasie e ricuperando con onesta convinzione la concretezza, per concludere subito i lavori di questo tormentato teatro e renderlo un luogo immediatamente fruibile di divertimento teatrale e di riconoscimento teatrale; di spettacolo teatrale – come già stabilito fin dalle sue origini; aprendolo oltre che alle compagnie di giro, anche alle avanguardie locali, al teatro dialettale bolognese (e non solo) che è un pozzo ancora tutto da esplorare. Perché non sono i politici a dover “fare” teatro, ma la gente di teatro, i seri organizzatori; quelli che sanno molto bene le cose e non si lasciano incantare.

L’assessore conclude: “Io in genere amo il teatro che c’è. Mi innamoro però sempre di più dei progetti. Quindi mi piacerà vedere l’Arena del Sole come palcoscenico. E come produzione non c’è che l’imbarazzo della scelta”. Per me è come dire, adesso tiriamo su la fabbrica e copriamo il tetto; seguirà una bella bandiga ufficiale secondo la norma. Penseremo dopo, tanto non c’è fretta, se produrre automobili, bicchieri, carta vetrata o salsicce; oppure pappardelle della nonna.

In effetti il teatro non è un progetto ma una costante e drammatica realtà (necessità) della vita mai consumata. Della vita privata e della vita sociale – che non si accontentano (o non dovrebbero) di parole. Con tutto quello che c’è in giro nel mondo proprio in questo momento.

 

 

Nunatak, settembre 1993.

 

(Questo contributo è stato pubblicato con la collaborazione di Eugenio Chemello e Giovanni Gheriglio)

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: articoli su riviste
  • Testata: Nunatak
  • Anno di pubblicazione: settembre 1993
Letto 3046 volte