Zum Arbeitslager Treblinka
Dedico questo componimento al signor Angelo Terracina,
detenuto, processato, assolto (a Roma,
il 15 giugno 1962) «per insufficienza di prove».
Come e perché in queste notti
di prima estate, così brevi sfuggenti,
alle luci dell’alba gonfia di un mare,
a questa luce d’alba fresca suadente fragile e come
rosata, terribilmente radiosa –
un rumore di treno lento su lunghe rotaie
stride fra i neri boschi,
si posa sulla spalla,
per me a galla questi foschi neri pensieri
e immagini di morte (la fredda zaffata
che esce dalle peschiere)
e sudando nelle immagini
questi pensieri incombono,
e piango sul cuore di un ebreo
che ha il suo banco
nell’antico cuore di una strada
ed è vecchio stanco come un padre ariano.
Scomparvero nelle piramidi di fuoco.
Quel tempo sporcò di melma le mani
dei sopravvissuti, dai gelidi cancelli
precipitarono ancora ancora
le mandrie nei macelli –
belare straziava la lama dei coltelli
in mano ai giovani carnefici.
Non è questo che voglio: ricordare.
No ritornare a quei lontani
anni, a quei tempi lontani.
I cani erano più felici degli uomini.
I mici versi sono fogli gettati
sopra la terra dei morti.
È oggi che dobbiamo contrastare.
Allora le greggi si sparpagliavano
picchiate dalle verghe nemiche
e i libri superstiti
le lacrime esauste
i codici che restavano
«oggi 13 aprile sono morti 800
oggi 30 giugno via Polkiava è sbarrata
oggi 5 luglio il ghetto è solo un muro»
e un uomo era nel profondo interrato
vano della terra, nel suo immondo
silenzio, fra corpi nudi di morti.
Chi tradiva, smagriva, chi pativa,
chi sapeva aspettare un poco, chi impazziva
all’improvviso e dava il grido di sirena
(era la fine di un mondo).
Le ombre dei morti di Norimberga
scheletri feroci
azzannavano i diavoli sconfitti
uscenti a gorghi da fiamme.
Oggi sono rimasti in pochi a contrastare.
I reduci invecchiati
lacrimano in silenzio all’angolo
della tavola, asciugano le palpebre amare anche le madri
col figlio giovane alla parete.
I ragazzi hanno vent’anni d’età.
Il loro riso è tremendo, furibondo
più della iena tedesca, più duro
a sopportare di un supplizio politico.
Non danno nulla, non vogliono
nulla sapere né altro intendere; sta
la loro splendida forza disarmata
e dolente come il sasso in un prato.
Non riconoscono debiti, non vogliono
neppure conoscere la tristezza dei vecchi
– né la voce, sola voce, voce di notte
che dice di passate miserie, che affonda
fra le pietre di tombe
«oh voi prefiche rauche» (gli ridono)
incombe la loro voce insulsa stridula,
è una cagna urlante nel vicolo.
Restiamo imprigionati
contro il muro, deserti nel pericolo;
ed essi con le mani di viola
devastano il silenzio
di gente già distrutta nel cuore anche per noi.
Nessun altro corpo è stato più colpito
del petto di un ebreo.
Oggi che tocchiamo con le dita
nelle sbarrate ilari vie della vanità
altre gemme (parvenze minerali, fosche,
che diciamo verità)
oh non voglio (facciate che non…) sulle devastate rovine
dove sano buttate in confuso riposo le ossa,
altri dalle macerie alzino ancora case
da distruggere; poi che il ritratto dei figli
sul letto di anziani coniugi non si spezzi
nel piancito al tonfo di uno stivale;
siamo vivi solo per questo, per dire
parole, adagio, misere, non altro
è rimasto fra le mani
ammuffite bruciate
dal sole di lacrime ormai spente.
Non una tiepida canna per cantare
a giuoco col vento. È il rumore
di passi furtivi pesanti – alzare la testa
(c’è amarezza e fiele
in questo oscuro petto di povero,
ancora c’è il rombo nell’orecchio
dei muri che s’aprivano,
le risate dei vivi
uguali, uguali, uguali, allo spiegato
riso del vincitore).
L’uomo s’adegua al fango della terra.
Solo a un popolo vecchio sconfortato
sorpreso nell’astuzia dolce da un’astuzia
più feroce e improvvisa…
«Che cosa dice il vento?
che cosa dice il mare?»
sono i ricordi di uno scoramento
che trascina a ritroso, indietro, a naufragare
(frasi di un tempo giovane da amare
certo non era il male che noi poteva far sanguinare,
o forse proprio questo è il rumore del vento
che taglia con la lama i girasoli?
il mare è uguale dappertutto
coperto giallo dai girasoli sbattuti?).
Dappertutto è anche uguale il male.
Anche la morte è uguale a un’altra morte
e a questa vita,
anche la morte è uguale
– se è certa e resa viscida imponente
dal nostro sangue umano.
Battono dodici colpi, sui tetti
striscia un riverbero nero,
il rumore delle macchine lanciate,
piangono le gomme per strade
poi verso chiese sprangate
fra ombre di statue pietrificate
a braccia spalancate,
le ali di luce si spengono sull’erba.
A questo penso lungo la notte quando
– dans le bruillard s’en vont un paysan cagneux –
potrebbe un altro passo raggiungere la mia porta.
Nella notte, io chino nell’alone del tavolo,
la luce bassa, i fogli, le pagine sacramentali,
un colpo, il tonfo — (tutto può rimanere
così, fermo per sempre, immobile, per sempre può la vicenda
sognata)
la casa devastata, aperta, smascherata,
cassetti spalancati, dalle pareti gettati
i quadri, pochi quadri, rotto il vetro di tutti
(Manzù dal cristo morto
l’ombra di un impiccato)
sgualciti i fogli, calpestati per terra,
l’urlo della donna seccato nella gola,
ad uno ad uno cadono dagli scaffali
i libri, bruciano nelle mani
— il volume quinto di Lenin
«Altra cosa erano gli arresti e le deportazioni
durante il regno dell’odiato Nicola»,
Herzen agli amici di Russia:
«In ogni riga delle mie lettere avete visto il dolore»,
le fatiche, le pagine nel fuoco di questo dolore.
Bisogna forse morire per colpire più a fondo.
La vita sola non basta.
Siamo troppo sporchi di dentro
per capirci, e troppo poveri per l’amore.
Non c’è porta che basti e nel pensiero,
nell’immagine che la notte dilata
sopra immemori tetti
— tu scrivi W Stalin sul ponte di Roncrio
poi la pioggia di un autunno nevoso
distrugge il ponte e Stalin,
o ti lasci perdere all’acqua del canale
verso il volo degli angeli scolpiti
nel volo, su gli uomini ancora vivi alla Certosa
ruotante luce in grido nel profondo
circolo del pozzo.
Questo è tutto, nell’anno sei e due
mese di luglio, venti, a luce d’alba
– nella gelida alba, alba rosata (con dita…)
– certo non si può consumare un aggettivo per l’alba,
essa non è, ma è il fuoco degli alti forni
è la sirena che chiama, lo sciamare grigio
svelto compatto degli uomini in bicicletta.
Se leggo le voci degli amici,
oh la mano non può sfiorare
la mano dell’amico,
impetuosa corrente divide i nostri cuori
siamo sempre più antichi e soli.
Tutto, d’altra parte, è previsto e disposto,
la lucida intelligenza accede e provvede,
gli attuali problemi sono già circoscritti,
dilagano le parole in Shadow corpo dodici
(le note in otto); formato sedicesimo,
copertina Fabbriano è sfornato il volume.
Mi inchino all’arte, alle parole sapienti
(ho assistito una volta al ditirambo
reciproco di due retori che s’invischiano
in lodi per lo scritto stupendo);
poi una semplice millecento nera,
targata Roma, entra nel ghetto, brucia
devasta infanga insulta si accanisce
e il tempo si frantuma, non conta nulla il giorno,
la vita, le vicende dei quindici anni passati
e io che vivo ancora per ascoltare ancora
indifeso illeso il pianto di quella gente
(così altri, in silenzio);
nulla conta più
del labbro dell’ebreo
spaccato da un pugno poliziesco,
del numero sulle braccia, delle donne ammassate
in mucchio come un tempo nel freddo di una colonna.
All’ombra dei portoni uomini furenti.
Le vostre parole allora? la nostra ipocrisia,
la nostra pietà che stride, la nostra vereconda
indifferenza. La parola che pesa?
i sottili riverberi, i giuochi, trame, aneliti
ammiccanti, a che servono lieti ragionari?
Sotto il cielo romano (siamo i figli di Roma)
l’uomo ebreo è un pugile con il labbro spaccato,
con un’ira divina, col braccio tatuato
– alberi enormi si tendono al ponente
hanno brividi leggeri, profumati
da un’erba strana e da ali,
mentre ai tavoli dei caffè
i poeti discutono
dei principi immortali…
Nota
Zum Arbeitslager Treblinka (Al campo di lavoro di Treblinka) con questa indicazione sulla bassa di passaggio, per usare il gergo militare, gli ebrei – o i gruppi di ebrei polacchi – erano avviati al campo di sterminio di Treblinka.
Nuovi Argomenti, n. 59-60, novembre 1962-febbraio 1963.
(Pubblicata successivamente in Dopo Campoformio, Einaudi, 1965)
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: poesie pubblicate in quotidiani o riviste
- Testata: Nuovi Argomenti
- Anno di pubblicazione: n. 59-60, novembre 1962-febbraio 1963