Una storia di fatiche per sopravvivere
C’è un modo e un modo di parlare, o di scrivere, di ogni regione italiana; e dunque è naturale che c’è modo e modo di parlare e di scrivere di una regione come l’Emilia – e la Romagna, che le è strettamente legata: «L’Emilia è una dal Po a Cattolica, dall’Adriatico all’Appennino: in essa, dentro essa, si distingue per propri peculiari caratteri storici, etnici, ambientali, più nettamente delle altre, una parte che si chiama ed è la Romagna» (ha scritto, con esattezza, il geografo Umberto Toschi nel 1961). Voglio dire che ci si può accontentare a descriverla per quello che è soltanto in superficie, e come è illustrata, o quasi sempre illustrata, in tutte le belle tavole alla Beltrame (o nelle pubblicazioni ufficiali): con i colori lucidi verdi della pianura tagliata diritta dal filo rosso della strada romana, con i colori ocra delle propaggini d’Appennino che via via si inerpica fino a diventare montagna, con i colori lucidi azzurri del mare Adriatico che si perde a distesa; oppure, voglio dire che ci si può accontentare a spenderci sopra un bel po’ di buona malinconia di una descrizione a fil di penna, ricordando o riinventando in un giuoco fantastico dei sentimenti le profonde nebbie autunnali, i grandi freddi e le superbe gelate che strinano le cose (tali e quali sono descritte, fin dai tempi antichi, in un modo inimitabile, dal cronista medievale : «E quell’inverno ci fu molta neve e un freddo assai crudo: le vigne andarono distrutte e gelarono le acque del Po e su di esso le donne facevan danze e i cavalieri correvano in loro torneamenti. Ma anco i villani passavano Po con carri, birocci e tregge»). Ma questa «Lombardia di qua dal Po», come la chiamava nel 1550 Leandro Alberti nella sua Descrittione di tutta Italia, a considerarla dal di dentro e sfuggendo se è possibile al semplicismo della retorica tradizionale, ha poche ragioni, o nessuna ragione, per offrire di sé una immagine di lieta oleografia, come si è detto; o una immagine soltanto lirica; poiché ha una storia dura che lega il passato al presente, una storia dura davvero, spesse volte tremenda («E volentieri vedeva l’uomo in quel tempo andar per strada un altro uomo, come vedrebbe volentera il diavolo»; «e un deserto era diventata la terra: non c’era uno che coltivasse i campi, uno che passasse per strada») e altrettante volte gloriosa (…Scrivo ai fratelli Cervi, / non alle sette stelle dell’Orsa: ai sette emiliani / dei campi. Avevano nel cuore pochi libri, / morirono tirando dardi d’amore nel silenzio. / Non sapevano soldati, filosofi, poeti / di questo umanesimo di razza contadina. / L’amore, la morte, in una fossa di nebbia appena fonda, / Ogni terra vorrebbe i vostri nomi…); e questa storia ha segnato le vicende della regione e ha irrobustito la grinta della gente. Talché sono tutti, per un verso, uomini e donne indomiti.
Varie ondate etniche, nel corso dei secoli lontanissimi, sopravvennero e lasciarono tracce: dal nord-ovest Galli e Liguri, dal sud-ovest gli Etruschi, dal nord-est i Veneti; poi Italici, Romani, Germanici (Ostrogoti e Longobardi), Romani d’oriente, cioè greci o ellenizzati; e già sotto i Romani si stabilì una struttura amministrativa e di limiti geografici in qualche modo corrispondente all’odierna, con il nome prima di «Gallia Togata» (Togata enim incipit a Rubicone flumine et Placentiae terminatur), poi di «VIII Regio» al tempo di Augusto, infine di «Aemilia» nel I° secolo d.C. In tempi più moderni fu Repubblica Cispadana (dal settembre del 1796 al giugno del 1797), quindi incorporata nella Cisalpina prima, nel regno d’Italia (napoleonico) poi. Il nome di Emilia, unico per tutta la regione, fu richiamato da Luigi Carlo Farini quando, dopo Villafranca, assunse nel novembre del 1859 il titolo di «Dittatore delle Province dell’Emilia», e in tale veste preparò il plebiscito per l’annessione al Piemonte. Il duplice nome di Emilia-Romagna, nel senso sopraindicato di «Emilia compresa la Romagna», fu infine riproposto nella Carta costituzionale della Repubblica il 27 dicembre del 1947.
L’Emilia è dunque un bellissimo triangolo (in un certo senso), abbastanza snello e ben tracciato in tutti i suoi rilievi, col segno grosso e viola del Po che corre (scorre) da Piacenza a Goro e con l’Appennino all’opposto che cresce fino alle sue punte del Cimone e di monte Cusma (ha scritto Silvio D’Arzo: «Là al fondo le gole avevano il colore della ruggine vecchia e l’aria dava già nel celeste; e chi non sapeva che più in là c’era Bobbio poteva anche pensare di trovarsi ai confini del mondo»). Ma disposta in parte nella strozzatura d’Italia, dopo il grande fiato della pianura padana, che l’ingloba, è anche un passaggio obbligato, sia per chi scende a godersi gli aranci del sud («Son salito sulla torre a consolarmi all’aria aperta. Veduta splendida! A nord si scorgono i colli di Padova, quindi le Alpi svizzere, tirolesi e friulane, tutta la catena settentrionale ancora nella nebbia», J. Wolfang Goethe), sia per chi sale con la sua valigia in mano a cercare lontano una qualche aspra fortuna; ma anche, e soprattutto, nei secoli fu passaggio per truppe ed eserciti e luogo di scontri, d’assedi e battaglie («Ed io ho dimorato cinque anni a Faenza e cinque a Imola e cinque a Ravenna; e in altri conventi della Romagna, vari anni: e un anno a Bagnacavallo e un altro anno nel monastero di Monte del Re. E ’sta maledizione delle guerre invase l’intera Romagna, dilagando da ogni parte e guastandola, nel tempo che io ero là». È il grande Salimbene de Adam, lo storico del Duecento, un’aquila emiliana, che così racconta gli anni della sua vita in quella Cronaca che ognuno dovrebbe conoscere; e par di leggere un resoconto appena di ieri: «E c’era una violenta e feroce guerra in quei tempi, la quale durò molti anni; né potevano gli uomini arare né seminare né mietere né tirar viti né vindemiare né abitar nelle ville»; e più avanti: «Nessuno potrebbe credere, se non avesse veduto come ho visto io, gli orrori che si compivano in quel tempo, tanto dagli uomini che dalle bestie di ogni specie»). Cronaca di ieri, dicevo, se soltanto pensiamo, riflettendo sui dati, che l’Emilia è stata la regione italiana più devastata dall’ultima guerra, dallo scontro lungamente contrastato sul crinale appenninico fra tedeschi invasori e americani avanzanti mentre la guerriglia partigiana si conduceva con il più consapevole coraggio, giorno per giorno, notte dietro notte, per mesi interminabili, vicino e dietro il fronte. Bastino, per il ricordo, i nomi di Marzabotto e Corbari; di un paese e di un uomo. Un paese massacrato e un uomo fra tanti, che è diventato leggenda; ed ora in Romagna per affermare un qualche episodio o fatto di coraggio (straordinario) si dice «come al tempo di Corbari».
Mi accorgo ancora una volta che parlando o scrivendo, sia pure in modo chiaro e piano, della mia terra, è impossibile sfuggire alla semplicità e in qualche modo all’esattezza delle cose da dire; e come sia impossibile scivolare nella tenerezza equivoca, e un poco untuosa, e in una forma di nebuloso lirismo; perché tutto ciò che si vede o si tocca, o tutto ciò che si ricorda, ed è storia, è di un realismo crudo, severo. E questo, e basta. Anche se si ripropongono alla mente i nomi di grandi personaggi, o di personaggi illustri per merito, ci si accorge che furono tutti attenti ai fatti e alle cose, pratici e precisi in una loro intelligenza acuta o straordinaria: Irnerio, il più grande fra i glossatori (cioè fra gli annotatori del Corpus Juris di Giustiniano); Accursio, adunatore della Glossa Magna; l’uno, che avviò la scuola di diritto bolognese e l’altro che raccolse sistematicamente la produzione della scuola stessa; il gruppo dei glossatori che illustrarono la fama dello studio bolognese per l’Europa; i dottori della scuola di arti liberali fra cui primeggiò Guido Guinizelli; e Rolandino Passeggeri autore della grande Somma di Arte Notaria; e, fra maestri e allievi nel corso dei secoli, Dante, Petrarca, Pico della Mirandola, Copernico, Marcello Malpighi, L.F. Marsili, A.M. Valsalva, G.B. Morgagni, Luigi Galvani. Insomma, se già in Marziale, come è sempre ricordato, Bologna (cioè Bononia) è chiamata culta, è pur giusto ricordare che tutta l’Emilia sviluppò una cultura attiva e provocatoria nel corso dei secoli, soprattutto attraverso le sue antiche università di Bologna, Ferrara, Modena, Parma; e che la regione si illustrò con la fama e il sapere di uomini straordinari (basta ricordare, in questo secolo, Marconi), per lo più dedicati alle scienze, a studi precisi, o a precisi impegni sociali; in quanto la natura degli emiliani è attestata su un realismo talvolta rabbioso e talvolta puntiglioso ma abbastanza scettico sempre; realismo che può diventare spesso, nelle occasioni, uno sgomento, un sospetto di ciò che può sembrare, o è, equivoco o poco certo – insomma misterioso (anche solo per un momento). È infatti caratterizzante, nell’uomo di queste parti, a mio parere, la mancanza di debolezze sentimentali; e per la fantasia, se qualche volta cede o si concede a un tale richiamo, tale atto è compiuto in una forma cauta, abbastanza dubbiosa; ed è piuttosto una perplessità curiosa, come vorrei chiamarla, che un abbandono o una eccitazione (per ricordare un proverbio romagnolo: «Uns’ pò dì d’iqué a n’passarò»; non si può dire che di qui non passerò mai. E Bertoldo, al re che l’interroga su «qual è la più gran pazzia dell’uomo», risponde «il reputarsi savio»). La curiosità è nel conoscere le cose, nel saperle e disporle; nel realizzarle in pratica, più per tutti che per sé. Perché l’emiliano è, soprattutto, un uomo politico; cioè un uomo che fa politica; che partecipa alle vicende pubbliche, provocatorio, implacabile, talvolta impaziente. Ma anche ostinato, duro a perseguire e pronto alla difesa. Di memoria pronta a ricordare; e pronto a pagare di persona. La sua storia, come abbiamo appena visto nei rapidi stralci delle cronache, è fin dai tempi antichi una storia di sofferenza per vivere, di fatica (di fatiche) per sopravvivere; ma non è soltanto una storia di tempi antichi; è anche una storia recente – come ben sapeva, o meglio, sentiva, quell’ignoto di cento anni fa, durante i moti per il macinato, che scrisse, sulle mura non ancora devastate dalla speculazione post-unitaria, in gesso bianco, la celebre invettiva: Bologna Carogna. Perché la città non si muoveva; e i contadini, i contadini erano in armi.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: prefazioni / postfazioni
- Testata: La cultura delle regioni. Emilia e Romagna, a cura di Tommaso Di Salvo e Giuseppe Zagarrio
- Editore: La Nuova Italia
- Anno di pubblicazione: 1970