I diecimila cavalli: l’ultimo romanzo di Roberto Roversi
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Scuola di Lettere e Beni Culturali, Corso di laurea in Lettere Moderne
Tesi di laurea in Letteratura Italiana
I diecimila cavalli: l’ultimo romanzo di Roberto Roversi
Relatore: Prof. Gino Ruozzi
Candidato: Bianca Casoni
Anno accademico 2013/2014
Sessione II
INDICE
INTRODUZIONE
CAPITOLO 1. Roberto Roversi: l’“ideologo-letterato” sommerso nella realtà
1.1Il giovane Roversi: tra guerra e letteratura
1.2 La Palmaverde: sede di idee, luogo di incontri tra intellettuali,
magica bottega di libri
1.3 La “rabbia politica” di Roversi. Il tempo dell’azione
1.4 L’ultimo tempo: l’attesa
CAPITOLO 2. Un mondo in trasformazione. Contesto in cui nasce e galoppa
I diecimila cavalli
2.1Uno sguardo agli anni Sessanta e ai primi anni Settanta
2.2 Il neosperimentalismo: sperimentare in nome del rinnovamento
2.3 Il ciclostile: la reazione di Roversi al sistema capitalistico
CAPITOLO 3. I diecimila cavalli. L’ultimo romanzo di Roversi
3.1 Il lungo percorso de I diecimila cavalli: dall’alba al tramonto
di una tendenza
3.2 I diecimila cavalli
3.3 (S)fortuna del romanzo
CONCLUSIONI
APPENDICE
BIBLIOGRAFIA
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INTRODUZIONE
Questa tesi verte sulla figura di un uomo, un poeta, un intellettuale bolognese di grande spessore ma rimasto sempre fuori dalla celebrità. Sono pochi i critici ad essersi interessati alla vasta opera di Roberto Roversi. Il testo critico più importante finora e che riprende in maniera più ampia e dettagliata il percorso di Roversi, dall’esperienza di «Officina», alla produzione poetica, quella narrativa, fino a quella teatrale, è la monografia Roberto Roversi. Un’idea di letteratura, del Professor Fabio Moliterni. Il mio lavoro cura solo un aspetto della produzione dell’autore: l’analisi del suo ultimo romanzo, I diecimila cavalli. Prima, però, traccio un breve excursus biografico e letterario dell’autore per creare un’introduzione alla vera materia presa in analisi. Il lavoro letterario dell’autore si può distinguere in tre “fasi”. Nelle prime opere, fatta eccezione delle due primissime raccolte di poesie Rime e Poesie e del romanzo Umano (in queste, nel tempo, non ci si rispecchierà più), incide particolarmente l’esperienza della guerra e della lotta partigiana; entrambe determinanti nel formare la personalità e la scrittura del poeta. Verso la metà degli anni Cinquanta Roversi è tra i sodali della rivista letteraria «Officina» e con questa attività, l’autore, elabora un nuovo pensiero, del tutto autonomo, sul ruolo della poesia come denuncia nei confronti della società. Questo è il periodo in cui prende forma la vera personalità dell’autore, di stampo militante. D’ora in avanti, la poetica di Roversi è contrassegnata da quella che i critici chiamano la “rabbia politica di Roversi” e la sua scrittura raggiunge l’apice; è qui che scrive le sue opere maggiori tra cui il romanzo I diecimila cavalli. Infine, l’“ultimo” Roversi, al quale accennerò solamente, quello che attende, che predica la pazienza in una società tutta all’insegna della velocità. Attesa e pazienza sono, oltretutto, i temi principali del suo ultimo poema L’Italia sepolta sotto la neve. Egli si appropria di questi due atteggiamenti al fine di contrastare la fretta spasmodica della società contemporanea, sempre più tecnologica e sempre più lontana dalla sua integrità. La società della fuga dei cervelli, dell’angoscia di non trovare presto una sistemazione con l’urgenza di abbandonare un Paese che potrebbe costare, ai suoi cittadini, enormi sacrifici.
Partendo da questa premessa, nel primo capitolo cerco di delineare le caratteristiche che creano l’uomo Roversi. L’espressione con la quale Ferdinando Camon indica l’autore è ripresa nel titolo del primo capitolo e intende dare l’idea della duplicità della sua persona: un intellettuale attento e impegnato politicamente che si esprime attraverso la letteratura e varie forme artistiche. Un riferimento per molti giovani e coetanei ma che si è sempre tenuto abbastanza in disparte, “sommerso” a detta di Alba Morino, ma anche immerso, aggiungo io, nella realtà. Roversi lavora con coerenza e determinazione alla propria politica di mantenere viva la parola, di continuare a ricordare il passato senza fossilizzarsi nel ricordo ma utilizzandolo per trovare una motivazione per cui lottare, agire e sperare nel futuro attraverso il potere della penna e della comunicazione.
Partendo dall’ambiente storico generale degli anni Sessanta e accennando agli anni Settanta, nel secondo capitolotratto in breve la nascita e l’affermarsi del romanzo neosperimentale dei sodali di «Officina» messo a confronto con il movimento della nuova avanguardia. Termino il capitolo spostando l’attenzione su una scelta determinante per la vita e il nome di Roversi, la scelta del ciclostile. Tale metodo alternativo di comunicazione nasce in contrapposizione alla mal gestione della comunicazione che ha comportato la chiusura dei suoi rapporti con le grandi case editrici prediligendo una tecnica che ha permesso a Roversi di gestire autonomamente la diffusione dei suoi elaborati. Dal 1969 in poi, Roversi si occupa autonomamente della gestione comunicativa, stampando, impacchettando e distribuendo da sé i suoi scritti.
L’ultimo capitolo comprende tre paragrafi. Nel primo riporto le attività e gli scritti che più hanno inciso sul lavoro di Roversi e sulla realizzazione del romanzo dei Diecimila. L’analisi contenutistica, linguistica e stilistica de I diecimila cavalli è esaminata nel secondo paragrafo sulla base di testi critici e secondo una valutazione personale. Roversi non gode di particolare notorietà perciò, nell’ultimo paragrafo mi occupo di fornire le motivazioni principali a questa mancata fortuna.
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CAPITOLO 1
Roberto Roversi: l’“ideologo–letterato” sommerso nella realtà
La letteratura per me è il solo modo, mentre per altri è uno dei tanti modi per rispondere, o corrispondere, alle provocazioni della realtà. […] Quindi non si dà letteratura, secondo me, se non si è ben dentro, con i piedi, mani, braccia, naso, occhi e orecchie, nella società.
Roberto Roversi
Roversi è conosciuto dai più come poeta ma ha scritto anche racconti, romanzi, articoli, saggi, sceneggiature per teatro e per il cinema. Non solo, ha scritto numerosi articoli su riviste e giornali, saggi critici e canzoni. Inoltre, ha lavorato come libraio nella sua libreria, la Palmaverde, a Bologna, dal ’48 al 2006.
Ferdinando Camon riassume bene in due parole la personalità di Roversi, definendolo un “ideologo-letterato”. Dentro a questa espressione si spiega la figura poliedrica della quale mi accingo, non senza grandi difficoltà, a parlare.
Roversi nasce come poeta e solo successivamente decide di esplorare altri generi letterari. In un’intervista rilasciata a Ferdinando Camon, presente nel libro Il mestiere di scrittore, si giunge presto a parlare del ruolo della poesia nella società e Camon cita il suo interlocutore che anni prima, sull’argomento, si era espresso così:
è necessario che la poesia si assuma l’impegno di partecipare, con gli strumenti linguistici integrati, alle contestazioni continue dell’equivocità delle operazioni di ammorbidimento e cooptazione che i sistemi ordinati compiono contro lo svolgersi delle ricerche, la libertà delle strumentalizzazioni e dei specifici interventi.1
La dichiarazione di Roversi, allora, ottiene «pochi consensi e molti dissensi»2, come afferma poco più avanti lui stesso. La sua idea di poetica viene criticata da Franco Fortini il quale mette in dubbio il compito della poesia come «contrapposizione più operante, più cattiva e più scaltra alla condizione attuale e agli organismi politici che la determinano»3. Il punto è che Fortini non credeva più “alla battaglia delle idee” ma aveva deciso di scindere le due cose credendo «a una e all’altra». Roversi, al contrario, mantiene sempre uniti i due elementi: la letteratura dell’autore assume carattere ideologico, caratteristica fondamentale per capire Roversi. Infatti, più avanti nell’intervista, precisa:
So bene che il “lavoro” letterario non serve, ovviamente, a fare la rivoluzione o a produrre il dissenso politico, ma so altrettanto bene, intanto, che posso e devo scrivere per questa rivoluzione e per questo dissenso. […] Adatto la mia biro a picchiare sul viso e dico con gli altri, ripetendo con gli altri, che bisogna uccidere il tiranno. […] La battaglia e le idee; purché non si dimentichi che le idee accompagnano ogni battaglia e viceversa.4
La “battaglia” e le “idee” sono quindi due elementi inscindibili. Roversi aveva una sua idea di letteratura che, col tempo, si è rivelata una poesia che resta in quanto a chi legge giunge sempre in stretta relazione con la realtà circostante.
Nel 1973 Roversi crede nella forza della poesia riconoscendola come uno strumento potente in grado di dare un contributo sostanziale all’andamento della storia e in questo continua a crederci per tutta la sua vita.
Da questa prima considerazione mi collego alla seconda “parte” del titolo di questo capitolo. Credo sia utile ma soprattutto giusto quando si deve analizzare il lavoro di un uomo, coglierne il lato umano e caratteriale. Roversi non ha mai amato parlare di sé e parte delle persone che lo hanno conosciuto e hanno scritto di lui lo ritraggono come un uomo schivo e solitario. Questi attributi gli sono stati cuciti addosso a causa del suo rifiuto nei confronti di quella brama di successo che i personaggi pubblici, spesso, inseguono. Salvatore Jemma, socio di Roversi alle iniziative della Cooperativa Culturale Dispacci, riassume bene questo aspetto del poeta:
Il mito di un Roversi solitario, se qua e là ha ricevuto le dovute smentite, nei fatti appare come una semplificazione di ciò che è stato e di quello che ha fatto, dato che nel senso comune del mercato delle lettere, chi non vi appare non esiste.5
Eppure, Roversi, è un amante del dialogo come scrive Camon:
Tiene sempre il colloquio su toni alti, sui temi di fondo: e questo non solo per evitare scadimenti e non impaludarsi in zone morte, ma anche per guidare sempre il discorso sui temi storici obiettivi e non parlare mai di sé se non in caso strettamente necessario.6
“Il sommerso”7 nella realtà. Roversi ha sempre conservato con cura la sua discrezione, senza lasciarsi abbindolare dalla fame di successo che di solito è complice dei personaggi pubblici. La distanza che Roversi ha preso da tutto ciò che si può definire di facciata, non è avvenuta quando lo ha pervaso la necessità primordiale di gridare contro la nuova società: la sua, quella degl’anni ’60, ormai vittima del sistema consumista del neocapitalismo. Appartato nella stanza della sua libreria, dove non c’è spazio per il bianco del muro perché tutte le pareti sono coperte di scaffali vive, sommerso dai libri, un uomo di lettere. Egli diffonde le sue idee da un luogo lontano dal chiasso della città ma, allo stesso tempo, immerso completamente nel mondo, con la volontà e la speranza di ghermire per sé e per gli altri la verità.
1.1 Il giovane Roversi: tra guerra e letteratura
Non v’ha cosa che pesi meno della penna, né più di quella diletti... Non temo d’affermare che di tutti i piaceri sortiti all'uomo sulla terra lo studio delle lettere è non solo il più nobile, ma anche il più durevole... E se frattanto giungerà la mia fine... bramo che essa mi trovi intento a leggere e a scrivere, o se Dio voglia, a pregare e a piangere.
Francesco Petrarca
Scomparvero nelle piramidi di fuoco.
Quel tempo sporcò di melma le mani
dei sopravvissuti, dai gelidi cancelli
precipitarono ancora ancora
le mandrie nei macelli –
belare straziava la lama dei coltelli
in mano ai giovani carnefici.
Non è questo che voglio: ricordare.
Non ritornare a quei lontani
anni, a quei tempi lontani.
I cani erano più felici degli uomini.
I miei versi sono fogli gettati
sopra la terra dei morti.
È oggi che dobbiamo contrastare.
Roberto Roversi (“Zum Arbeitslager Treblinka”)
Roversi nasce nel 1923 a Bologna. Frequenta il liceo Galvani dove conosce e stringe amicizia con Francesco Leonetti e Pier Paolo Pasolini. Tra i tre giovani nasce un’amicizia letteraria che dopo la guerra è sancita con la nascita di un’importante rivista degli anni Cinquanta: «Officina».
Allo scoppio della guerra Roversi ha diciassette anni. Chiuso nella sua stanza, con il rumore della guerra fuori dalla porta, tra le poesie di Baudelaire, i Colloqui con Goethe di Johann Peter Eckermann e le canzoni di Tommaso Campanella – testi che Roversi definisce le “pietre del mio edificio”8– e più tardi con la scoperta e la lettura di Petrarca, Dante, al quale però preferisce Cavalcanti e poi Thovez, Rebora, Saba, Campana, Penna si forma il giovane poeta.
«Mi rendevo conto», dice Roversi in un’intervista
che la poesia non è solo il testo che scrivi, o che leggi; che puoi scrivere o puoi leggere; ma che richiede per essere giustamente scritta e giustamente letta, secondo le proprie opinioni, una partecipazione d’attenzione continua alle cose del mondo. Era una giovanile deduzione, che ancora conservo.9
Ed è proprio con questa convinzione e con questa spinta che Roversi comincia a scrivere poesie. La prima di una lunga serie s’intitola Cavalleria Polacca che Roversi scrive attorno al ’39, quando la Germania invase la Polonia. Dopo questa ne seguono altre che vengono inviate a Saba. A seguito di tale contatto, Roversi comincia a leggere Saba con grande attenzione e ammirazione. Ma «il suo riferimento di una vita» 10 è il frate Tommaso Campanella:
il giovane nel leggerlo si sbalordiva, si stravolgeva, si pigliava mal di stomaco e la nausea dietro questa esaltazione gridata; ed era spinto a specchiarsi precipitoso incatenato insolente ma pazzo di curiosità per il mondo che fuori avvampava.11
Roversi, tramite la lettura di quei testi, si sente sempre più coinvolto dalla condizione del frate eretico. La camera da letto è come la prigione del frate. La sua situazione, in quel momento, è la medesima tragedia sofferta dal frate. La paura della guerra, l’educazione fascista che i ragazzi sono costretti a non mettere in discussione. La fatica a non pensare al mondo fuori da quella stanza che lentamente viene schiacciato da un’ideologia malata e massacrato a colpi di fucile, portano il giovane Roversi ad abbozzare pensieri inevitabili:
Mi manca la voglia di restare seduto, tutti sono in piedi e corrono. Di restare seduto, no. E di godere di questo mio restare. No. Ma poi restare dove, come? I muri fra cui mi trovo, con l’intonaco azzurrino, non sembrano neanche sfiorati dal tempo anche se la casa è vecchia. Non hanno crepe né traccia di umidità negli angoli. […] Ma basterebbe una bomba, una sola bomba a sbriciolare casa e tempo. A far saltare il tempio dei giovanili pensieri.12
Al giovanissimo Roversi non rimane altro che scrivere. Le parole sono la sua unica valvola di sfogo, reale, tangibile poiché esse «restano ferme, infilzate come la farfalla azzurra ad ali aperte nell’album di un entomologo scrupoloso»13. Il primissimo libro che pubblica è Poesie. Un libro ridotto, di quindici poesie dedicate al padre, con l’epigrafe iniziale che cita i versi di Baudelaire: “Volentieri non scriverei che per i morti”, che denota la conoscenza del libro del poeta francese e l’amore di Roversi per lui.Nel 1943 esce per i tipi di Landi la seconda raccolta di poesie: Rime. La dedica è a Tommaso Campanella «che lo aveva sorretto e aiutato»14. In seguito, quasi tutte le sue opere saranno a lui dedicate. Rime è la prima raccolta significativa dell’autore e contenente «certe tracce utili», come dice il critico Giuseppe Zagarrio che individua in esse la presenza di una «severa compostezza»15 tipica dell’ordo classico; la presa di posizione nel non prendere in considerazione alcuna ricerca novecentesca e infine un «rigorismo di tipo calvinistico»16, il rigorismo che assumerà l’espressione di “rabbia di Roversi”. Il suo rigorismo subisce un’evoluzione nel tempo e diventa rabbia, ribellione violenta nei confronti della società neocapitalista. Queste sono le caratteristiche del linguaggio usato nelle Descrizione in atto, ma anche nei romanzi Registrazione d’eventi e I diecimila cavalli. Il linguaggio di Roversi nasce con una durezza intrinseca che difficilmente abbandona ma che scema con il passare degli anni e con l’avvento di nuove esperienze di vita privata e pubblica. Rimane, comunque e sempre un certo rigore, segno della personalità del poeta e della reazione alle delusioni subite.
Durante la guerra, nel 1943, scrive il suo primo romanzo Umano. Questo testo, molto strano, è da considerare una forma di autoanalisi; la continua esibizione dell’analisi del sé, in cui emerge di nuovo la personalità dell’autore, caratterizzata già allora da un sentito autocontrollo. Roversi prende due amici ai quali dà il nome di Umano e Disgrazia, creando un’avventura di amicizia. Muore Disgrazia e Umano deve continuare a vivere pensando a Disgrazia. Il narratore, ironicamente, dice ai lettori di non pensare che questi due personaggi siano dei superuomini. Probabilmente, secondo l’intuizione del Professor Marco Antonio Bazzocchi, “l’autore voleva tenere lontano il polo di Dioniso, voleva tenere tutto sotto controllo, parlare di questo ma senza farsi travolgere”, per paura di farsi catturare dalla volontà di potenza e dall’irrazionalità, entrambe bandite dall’uomo-Roversi.
A causa della guerra è mandato in Germania, con la Divisione Monterosa, dove viene addestrato l’esercito della Repubblica di Salò. Più tardi torna in Italia e insieme ad alcuni compagni prende parte alla lotta partigiana in Piemonte. Per quanto la guerra e, subito dopo, la Resistenza siano state due esperienze faticose, ferito nell’anima, nella memoria, non sarà da lui crearne un mito nelle sue opere; gli orrori del passato gli serviranno solo per contrastare il presente.
Calandoci in quegli anni, così tetri e inflessibili verso la libertà di pensiero e di parola, si assiste al progressivo formarsi della generazione degli anni Venti tra cui lo stesso Roversi, ma pure Pasolini, Leonetti, Serra, ragazzi ai quali è stata imposta un’istruzione fascista. Tra i ragazzi più interessati è bandito il discorrere di politica. L’unico argomento, quindi, di cui parlano Roversi e i suoi compagni è la letteratura. Nel 1940, il giovane Roversi conosce Renata Viganò e Antonio Meluschi con i quali stringe un forte rapporto di amicizia. Entrambi lo aiutano a sviluppare una sua coscienza politica che finisce per riconoscersi in quella antifascista. La condizione di emarginazione in cui vivono la Viganò e Meluschi e «la loro scelta di non sottrarsi alle proprie convinzioni pagando la persecuzione politica anche con estrema seppur dignitosa povertà»17 conquista il giovanile entusiasmo di Roversi abituato, fino ad allora, a vivere da borghese benestante (qual era la sua famiglia) indifferente alla politica.
Nel 1945, Roversi, ritorna dalla guerra con la speranza di un cambiamento, pieno di passione e con la sola preoccupazione di fare presto qualcosa, per non soccombere alla tragedia dell’errore appena addossato. Si laurea in filosofia nel ’46 con una tesi su Nietzsche. A questo proposito, il già citato Professor Bazzocchi ha espresso una riflessione molto interessante. “Roversi sceglie Nietzsche”, probabilmente, continua Bazzocchi, “per rovesciarvi dentro qualcosa di importante. Quando scrive ha già scritto tante poesie e lo stesso Umano (titolo che allude ad un’opera di Nietzsche). Si confronta con un intellettuale completamente diverso da lui: uno tutto proiettato in fuori, Nietzsche, e l’altro, tutto in dentro. Uno verso il polo dionisiaco e l’altro che ha paura di estromettere questo dionisiaco”. Bazzocchi conclude: “la tesi su Nietzsche sembra un po’ il grande sforzo che ha fatto con se stesso, per distanziarsi da ciò che lo affascinava molto. Per tenere sotto controllo la propria esistenza”.
Dopo la laurea si apre una breve parentesi come assistente di Giovanni Natali presso la cattedra di Storia del Risorgimento – il vero interesse di Roversi – che si chiude molto presto.
Intanto lavora ai racconti Ai tempi di re Gioacchino pubblicati nel ’52 che, più tardi, nel 1959, in seguito ad alcune rivisitazioni, diventano il romanzo Caccia all’uomo. Questo romanzo, un po’ fuori dal solito genere a cui si era abituati in quel periodo, documenta le vicende della Resistenza dal punto di vista dell’autore. È un romanzo particolare, «dalla difficile lettura critica» ed è stato definito «la più insolita e non realista opera della letteratura della Resistenza»18. Il tono del linguaggio è alto e solenne, forse dovuto alla contemporanea produzione lirica. Roversi usa di frequente artifici retorici. Prevale lo stile lirico-evocativo indirizzato all’introspezione psicologica e sono presenti molti arcaismi linguistici. Tra tutte spicca la forma del dialogo popolareggiante – nel dare la parola ai briganti che si ribellano al dominio francese. Sono frequenti le immagini e le descrizioni paesaggistiche, come nelle prime poesie; si riconosce anche un bilinguismo, non ancora ben definito, «che interessa piani verbali fra una dialettalità appena dissimulata (i dialoghi tra briganti) […], e un’aulicità di media tensione»19. Roversi prende le distanze dalla scrittura neorealistica. Infatti, le vicende narrate, non si ancorano direttamente alle cose accadute ma sono volutamente trasportate dall’autore nel clima storico del primo Ottocento – periodo dell’occupazione napoleonica – al fine di «renderle meno assillanti e per renderle più determinate in profondità»20. Nel risvolto di copertina di Caccia all’uomo viene precisata la natura di questi racconti nei quali cova «compresso e come inutile, sotto tutte le contraddizioni e la terribile incoscienza popolare […], un bisogno di ribellione autentica»21. Da qui parte la svolta ideologica:
La “rabbia” e la “spina di furore”, l’interesse per l’uomo nella sua condizione storica di “pene infinite e infinite illusioni”; “una precisa passione per creature e passioni modellate dalla lotta sociale”, che implicava l’opzione, il giudizio e lo scatto morale.22
Nel ’54 Leonardo Sciascia cura la pubblicazione di Poesie per l’amatore di stampe. Il critico Zagarrio, analizzando una delle poesie della raccolta Ritratto del vecchio Celso (testo che entrerà a far parte del volume feltrinelliano Dopo Campoformio), ne deduce interessanti considerazioni «trovandovi intanto una ben delineata tecnica della ritrattistica e della propensione a stilare una certa galleria di eroi» senza però quella pomposità tipica dell’eroe stereotipato; smitizzato e calato in una quotidianità rimitizzata, sollevato «a segno imponente dell’esperienza vitale e del suo farsi nell’uomo capacità di offrire al proprio destino di vita-morte il consuntivo di un’esistenza coltivata a “un’odissea di mali”, che implica cioè un’infinità di ‘ingiurie patite’ ma anche l’esperienza resistenziale della lotta ad oltranza»23. Inizia a delinearsi l’eroe roversiano che, a detta di Zagarrio, è caratterizzato da una duplicità: una spietatezza ma anche una tenerezza d’animo. “Odissea di mali” che implica un’infinità di “ingiurie patite” che non fanno soccombere il poeta, che non schiacciano l’animo resistente di Roversi il quale, di fronte ad una tragedia, personale e collettiva (la guerra), reagisce andando contro corrente: per non soccombere.
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2.2 La Palmaverde: sede di idee, luogo di incontri tra intellettuali, magica bottega di libri
Nel frattempo Roversi comincia a coltivare una passione, nata un po’ per caso ma divenuta presto l’esperienza più significativa della sua vita. Nel 1948 si sposa con Elena Marcone, compagna di una vita e, con lei, apre la libreria antiquaria Palmaverde. Questo nome viene scelto estraendo a sorte un libro, che si rivela essere un annuario di Casa Savoia, dal nome “Il Palmaverde”. Inizialmente Roversi collabora con Otello Masetti, che si ritira dopo breve tempo. La libreria cambia diverse sedi: dall’antica torre all’angolo tra via Rizzoli e via Indipendenza nel ’50, si trasferisce in via Caduti di Cefalonia tra il ’58 e il ’63; successivamente in via Castiglione, fino a stabilirsi, all’inizio degli anni ’80, in via De’ Poeti. Roversi trasformerà la sua “bottega di libri”, come la definisce Vittorini, persino in una casa editrice. Presso la libreria Palmaverde vengono pubblicati testi di Pasolini, Leonetti anche i racconti Ai tempi di re Gioacchino, di Roversi stesso.
Dagli anni ’50 fino agli anni ’80:
Roversi editerà con il marchio Libreria Antiquaria Palmaverde un grande numero di libri, molti compresi in numerose collane e alcune riviste. Per le collane si ricordano: la Collezione di Opere inedite e rare, i cui quattro volumi usciti sono Andrea da Barberino, L’Aspramonte. Romanzo cavalleresco inedito, Gaspare Visconti, Rime, Giovan Giorgio Alione, L’opera piacevole, Michelangelo Tanaglia, De Agricoltura. […] Oltre a queste, la Palmaverde editerà la collana di Studi mediolatini e volgari, la collana Biblioteca Musicale della Rinascenza e la collana Biblioteca del Conservatorio G. B. Martini, queste ultime due curate da Giuseppe Vecchi; la Biblioteca di Cultura, diretta dallo stesso Roversi, per la quale si cita la Storia del calcio (1863-1963), di Luciano Serra, e Le poesie di Martin Soares, di Valeria Bertolucci Pizzorusso; la collana Biblioteca degli Studi Mediolatini e volgari, nella quale si trova una preziosa edizione critica a cura di Marco Boni de Le poesie, di Sordello e Le biografie trovadoriche, curate da Guido Favati.24
Nel ’55, la Palmaverde diventa la sede della rivista letteraria «Officina». Non è mia intenzione approfondire tutto il lungo e articolato percorso del suddetto periodico peraltro già ben illustrato nella monografia di Fabio Moliterni, Roberto Roversi. Un’idea di letteratura. Tuttavia mi limito a riportarne qualche informazione, per conseguire una maggiore conoscenza del “primo” Roversi. Il primo numero di Officina esce nel maggio del ’55. I redattori sono Leonetti, Pasolini e Roversi ai quali, più tardi, si affiancheranno Angelo Romanò, Gianni Scalia e Franco Fortini. Il progetto nasce negli anni che precedono lo scoppio della guerra (inizialmente, la rivista, si chiamava Eredi). È caratteristico l’atteggiamento anti-novecentistico e anti-avanguardista officinesco che si impegna a rilanciare figure chiave come De Sanctis e Renato Serra ma anche, dal punto di vista più strettamente letterario, Leopardi, Carducci, Pascoli. Roversi e Pasolini propongono la lettura dei cosiddetti “maestri in ombra” della poesia vociana: Sbarbaro, Boine, Rebora e, caro a Roversi, Pietro Jahier del quale, all’interno di suo intervento (in “Paragone-Letteratura”, 1965) evidenzia «la sua fisionomia democratica, la sua tensione didascalica, il suo fervore pedagogico, da ape operaia, il suo impegno di vita piuttosto che un progetto letterario»25, in quanto modello di poesia civile e impegnata. L’obiettivo che si propone la rivista è quello «di verificare criticamente le due egemoniche tradizioni letterarie italiane, l’ermetismo […] e il neorealismo in crisi, attraverso saggi monografici e schede su problemi letterari o storiografici»26. Tra il ’55 e il ’56 la poesia neorealista, che dal secondo dopoguerra fino a quel momento era stata la corrente letteraria – “antiletteraria”27– più in voga, subisce un esaurimento. Si comincia ad avvertire la necessità di nuove sperimentazioni e questa esigenza coincide con la fondazione della rivista «Officina» che, con il suo sperimentalismo, si promette di riformare alcune questioni poste dal Neorealismo. A tal proposito è pubblicato uno scritto di Roversi su «Nuova Corrente» riguardante un dibattito promosso dalla rivista sul realismo. L’intervento di Roversi ripercorre gli anni del dopoguerra, mediante le varie speranze che sono nate dalla lotta per la liberazione, fino agli anni della ricostruzione e del ritorno all’ordine. La critica che Roversi rivolge al Neorealismo è mirata all’aspetto che Roversi definisce patetico e «zavattiano, accusandolo di una falsità di fondo involuta ed esasperante, intellettualmente deamicisiano, decadente e calligrafico».28 Se il Neorealismo riempie il suo linguaggio di un sentimentalismo commosso, al contrario, Roversi, affronta il dramma della guerra con cautela, senza perdersi in alcun patetismo, bensì esaminando la materia in maniera seria, senza fronzoli.
Pasolini si allontana dal gruppo, va a Roma e diventa famoso. Il Professor Bazzocchi, durante la conferenza sulla tesi di Roversi, ricorda le parole di quest’ultimo riguardo a Pasolini e all’esperienza di «Officina» (l’incontro avvenne anni fa in occasione del lavoro del professore sulla tesi di Pasolini): “Noi facevamo Officina ma lui (Pasolini) l’ha portata verso qualcosa che non era nelle nostre intenzioni. Ci siamo dovuti lasciare lì. Noi volevamo rimanere attaccati ad una dimensione volontariamente tenuta sotto controllo, trattenuta nella provincia in un certo modo”. Nel marzo-aprile del ’59 cessa l’attività della rivista. La motivazione “ufficiale” è quella dell’epigramma per la morte di papa Pio XII scritto da Pasolini. In realtà Roversi afferma, in seguito, che si erano creati «solo alcuni problemi privati dell’editore Bompiani»29. La verità è un’altra e Roversi la rintraccia nel fatto che la rivista stava prendendo una strada puramente letteraria quando, la realtà di quel periodo storico, necessitava di riflessioni nuove:
Il dopoguerra finiva, era finito rapidamente, nei suoi necessari entusiasmi, nelle sue ultime violenze e si metteva in moto una diversa violenza, torbida e costante, inesorabile; meno manifesta ma atroce perché non lasciava scampo [...] dato che era finalizzata a compiere uno sterminio da anno zero contro la civiltà, il mondo, la cultura contadina.30
Poco dopo la fine dell’esperienza officinesca, Roversi intraprende una nuova via dando vita alla rivista «Rendiconti». In Italia, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, prende piede il mercato capitalistico. È in questo periodo che si colloca la nascita della rivista. Il primo numero esce nel 1961. L’obiettivo che essa si propone è quello di «affondare la lama della riflessione politica e sociale attraverso la scrittura e la comunicazione culturale» al fine di approdare a una diversa funzione della letteratura e dello scrittore nella società italiana. Ecco che si fa più sferzante la “rabbia politica” di Roversi nei confronti della nuova società. Senza troppi strepiti inizia la letteratura dell’impegno dell’autore, rivolta a contrastare ciò che non è stato e quello che è nuovamente.
Nel frattempo, la Palmaverde, si avvicina sempre più a divenire ciò che sarebbe rimasta fino alla sua chiusura: un centro, quasi una casa, dove si coltivano interessi culturali; un luogo di incontri tra poeti di tutte le età. “Quei pomeriggi alla Palmaverde” sono così ricordati dal poeta Sergio Rotino, più giovane di Roversi. In un articolo di Federico Mascagni si legge:
Portai come tutti i miei coetanei, nel fermento dei primi anni ’80, delle mie poesie dattiloscritte. Quando venne a sapere che ero uno studente leccese mi chiese perché avessi deciso di trasferirmi a Bologna e non avessi almeno tentato di combattere la mia battaglia intellettuale dove ero nato. Questo era un esempio del suo forte senso civico, un aspetto della sua militanza culturale per migliorare la propria comunità.31
In quel luogo Roversi ha sempre tentato di porsi in relazione ai fatti quotidiani: dai più piccoli, limitati alla realtà bolognese, fino ai più grandi, riguardanti la situazione italiana. Conferma questa visione politica Bruno Brunini poeta e amico di Roversi: «Anche se non è mai stato per sua volontà un caposcuola, alcuni di noi si sentivano Roversiani non per l’aderenza al linguaggio, ma per la condivisione totale dei vulcanici progetti culturali che ideava»32.
I libri hanno funto da cornice nella vita di Roversi. Il suo rapporto con i testi non si limita alla compra-vendita anzi, specialmente quest’ultima, risulta essere per lui «la parte più dolorosa del mestiere di libraio». Tuttavia, tale rapporto, è sorretto dal coinvolgimento sentimentale. Come non amare i libri dal momento che (come confessa in un’intervista del 2011, poco più di un anno prima della sua morte) «gli hanno salvato la vita»33. Infatti, nell’intervista, egli racconta un piccolo fatto accaduto quando era al fronte (tra l’altro uno dei pochissimi aneddoti di guerra raccontati dall’autore):
Al fronte, nel ’44, dopo il mio battesimo del fuoco, ero perso, disperato, sul punto di scappare. La sera sotto un covone di paglia mi tastai e trovai due libriccini che non ricordavo di avere preso, scelti perché stavano in tasca. Uno era Goethe, lo aprii a caso e lessi due versi: “Se l’inverno viene, può la primavera essere lontana?”. Quel libro mi salvò dalla fucilazione per diserzione.34
Nel 2007 la libreria Palmaverde chiude, con grande rammarico nei cuori di quei tanti che l’avevano frequentata e amata come Roversi. Ma, perché chiude?
Stefano Benni è uno tra i pochi degli assidui frequentatori della magica bottega roversiana e solleva tale quesito in un articolo scritto in ricordo del poeta scomparso circa un mese prima. «Roversi non ha mai chiesto che venisse chiusa, come qualcuno ha detto», così scrive Benni, «le autorità avrebbero dovuto sentire l’esigenza culturale e morale di salvare una delle bellezze di Bologna: un prezioso monumento all’intelligenza»35 ma la libreria ha chiuso e i politici hanno optato per non intervenire. Il motivo, secondo Benni, è rintracciabile nel ricordo delle parole del poeta quando parlavano del modo con cui saziare gli affamati di cultura a Bologna.
Citando a memoria le parole di quel dialogo, Benni scrive:
Bisogna fare il possibile da soli, disse lui, non per superbia, o ritenendosi depositari di qualcosa. Perché la nomenclatura sventola sempre una bandiera della cultura, ma non la coltiva, anzi spesso la teme. […] Certi signori sanno, in cuor loro, che Bologna ha prodotto uomini di cultura molto migliori della sua classe politica. Li spaventiamo – concluse con una risata – siamo i fantasmi del castello.36
In realtà, la Palmaverde cessa la sua attività per motivi anagrafici. Roversi nel 2006 ha ormai un’età avanzata per continuare un lavoro così faticoso come richiedeva la libreria (gestita con la moglie fino agli anni ’90 e poi da solo). Il nipote, Antonio Bagnoli, durante una chiacchierata, ha detto una cosa, a proposito della Palmaverde, che condivido in pieno e che riporto: “quando si è trattato di venderla, nessuno avrebbe potuto raccoglierne il testimone perché essa era nata intorno alla personalità di Roversi. Se adesso esistesse una libreria Palmaverde, chiunque ci fosse dentro non sarebbe Roberto Roversi”. L’anima di quel luogo è del tutto legata alla figura del poeta intellettuale e tenendolo aperto non avrebbe più svolto la sua funzione. Grazie alla Coop Adriatica, i libri non sono andati perduti. Essa ha acquistato l’intero fondo dei libri, stratificati in sessant’anni di attività, li ha catalogati e donati a tutte le istituzioni bolognesi che ne hanno fatto richiesta, tenendo la dicitura a fondo Palmaverde.
Il protettore dei libri, custode fedele e attento della cultura e vero amante del sapere, lascia per sempre quel luogo ma la Palmaverde rimarrà un pensiero felice nella memoria di coloro che hanno avuto la fortuna di viverla. Lo stesso Stefano Benni, al termine del suo articolo, con nostalgica tenerezza, ci lascia una bella immagine della magica tana e conclude con un insegnamento merito del poeta bolognese:
[...] Quando entro in una piccola o grande libreria, anche la più fredda, sempre più simile a un supermercato, guardo i libri in un modo diverso. So che sono lì per essere venduti, che sono merce, che sono di tutti, ma anche che sono speciali, che hanno un segreto, che aspettano la persona giusta. E sarà sempre così anche se molti, chissà perché, sembrano godere all’idea che il libro muoia. Ma è da secoli che i libri attraversano le guerre, i roghi, le censure e i terremoti tecnologici. Quindi ho ancora fiducia.37
Sprofondare in un libro
per essere liberi,
un libro d’antica scuola.
Ricavo dalle carte il delirio del sole.
Sottraggo alla pagina la voce delle parole,
le parole perdute.
Ti divoro ti bevo ti lappo ti lecco
vulcano di voci di fuoco
gutenberg viaggiatore e canto
canto cacciatore.
Il libro in attesa sotto il ramo
si specchia nell’ombra di un tiglio;
come il batacchio della campana
immobile quando la corda non tira e
il vento non corre,
brilla sul prato dell’estate
è presenza e vigore senza alcuna cautela.
Tanto che un tarlo pallido di fame
l’apposta cerca la sua mano
ma invano.38
Roberto Roversi
***
1.3 La “rabbia politica” di Roversi. Il tempo dell’azione
L’istanza politica permane per l’intera attività di Roversi dal punto di vista creativo, teorico e pratico-organizzativo; la sua condizione di intellettuale riporta, in ogni suo testo, la testimonianza del suo rapporto con la realtà. La temperanza e la coerenza di Roversi gli permettono di insistere nel perseguire l’impeto intellettuale anche se consapevole dei suoi limiti, facendogli affermare che la verifica non è conclusa, ma è in atto, appena avviata. Tale atteggiamento dell’autore assume, nel tempo, i tratti di un impegno sempre più radicale verso le nuove problematiche di gestione, controllo e distribuzione della comunicazione; il ruolo dello scrittore intellettuale nei confronti del suo destinatario. Le opere maggiormente “rabbiose” sono sicuramente Registrazione di eventi, Le descrizioni in atto e I diecimila cavalli e il mezzo originale e anticonsumistico per diffonderle è il ciclostile. Gli anni Sessanta e Settanta sono il momento in cui si percepisce il massimo sdegno dell’autore nei riguardi della nuova società industriale e capitalista.
Siamo nel 1962 quando esce un articolo di Roversi sulla rivista «La settima zavorra», in cui spiega il motivo della sua “rabbia”: «per la o per una realtà autentica che, anziché opprimere, e dunque costringere all’azione, offende, e dunque addormenta e isterilisce – anche i propositi migliori»39. Roversi, non vede nulla di utile nell’uso della parola letteraria fine a se stessa. Le parole vanno riempite delle cose che accadono nel mondo, facendo attenzione a quello che ci viene inculcato. Roversi fa da portavoce, svolge il suo lavoro da intellettuale e asseconda la sua umana passione: avvisa gli uomini a non farsi schiacciare da questo nuovo-vecchio sistema malato; ci mette in guardia da chi scommette sull’ignoranza dell’italiano medio.
Sul finire degli anni Cinquanta la società italiana è cambiata. Dalle macerie della guerra si passa alle prime industrie e alla costruzione dei primi palazzoni; gli italiani migrano dalle campagne per cercare lavoro nelle ricche città. Roversi, di conseguenza, sceglie di intraprendere una nuova linea letteraria: una poetica civile, impegnata moralmente e razionale. Questo è lo stile dei testi poetici raccolti in una delle sue più importanti opere Dopo Campoformio.
Gli anni Sessanta rappresentano per Roversi un nuovo inizio; avviene uno scollamento dal passato resistenziale che cede il posto ad una nuova consapevolezza. Come dice l’autore, in un’intervista del ’66:
[…] Ora occorreva pensare nuovo, fare del nuovo, mutare pelle. Sempre seguendo lo stesso impegno, e avendo magari la stessa forza. Erano i tempi a mutare; e noi dovevamo cambiare, non invecchiare.40
Con questa nuova e importante spinta comincia l’esplorazione di altri generi artistici. Oltre alle poesie e al romanzo, Roversi si cimenta nella sceneggiatura di film. Per il regista Carlo Di Carlo scrive il testo del film La “menzogna” di Marzabotto, nel ’62. Comincia a lavorare per la sceneggiatura di opere teatrali che vengono messe in scena da Arnaldo Picchi come Unterdenlinden, il suo primo lavoro teatrale al quale succedono altri lavori importanti: Il crack, per la regia di Aldo Trionfo nel ’69; nel ’71 scrive La macchina da guerra più formidabile, il suo terzo lavoro teatrale che viene interpretato da Gruppo Libero (laboratorio di ricerca e sperimentazione teatrale). Il quarto lavoro teatrale è Enzo Re che esce in una prima versione ciclostilata nel 1973. La macchia d’inchiostro, che Roversi scrive nel ’76, è l’ultimo lavoro teatrale di cui si ha notizia e viene pubblicato da Pendragon trent’anni dopo.
Inaspettatamente, lo schivo Roversi, collabora con il cantante musicista bolognese Lucio Dalla. Siamo nel 1973 quando ha inizio il sodalizio tra i due che dà vita a tre album: Il giorno aveva cinque teste, del ’73, Anidride solforosa, del ’75 e Automobili, disco del ’76 anno che coincide con la rottura tra i due. Dalla dice questo del collega:
Non è che cercasse il successo, cercava una risposta che non arrivava. Diceva: “[…] Mi piacerebbe agire in una zona dove normalmente non agisco e potere in qualche modo cambiare il percorso della canzone rendendola ‘civile’, non solamente fine a se stessa”.41
Roversi ha uno scontro con la casa discografica e con lo stesso Dalla. Il cantante bolognese era troppo poco idealista, secondo Roversi, perché quel rapporto continuasse a funzionare. Quando è arrivato il momento di aprirsi e capirsi l’un l’altro, è emersa tutta una serie di pensieri contrastanti che ha messo fine alla collaborazione. Roversi percepisce la fragilità del sodalizio, retto da un filo troppo sottile. Roversi crede non ci siano né rabbia, né reazione, nell’interpretazione di Dalla. Il cantante, a sua volta, è stanco di “indossare abiti non suoi” e sostiene che la canzone sia solo un oggetto che dura pochi mesi, viene ascoltato e digerito per poi venire accantonato, aggiungendo che «sbagliano quelli che vogliono far credere che dietro una propria canzone si possa nascondere la verità. Per fare canzoni amate dalla gente bisogna amare la gente, starci in mezzo»42. Roversi non è affezionato alla gente che canta i suoi testi, infatti, scrive, in un articolo, che i giovani che riempiono gli stadi per i concerti sono indifferenti a ciò che ascoltano: partecipano senza pensare, la loro aggregazione è “mercificata anche ideologicamente”. I due, come appare chiaro dalle loro lettere e dalle interviste, non si capiscono più, forse non si sono mai capiti del tutto ma nel ’76 è diventato un rapporto più faticoso che proficuo. Dopo una lunga rottura, nel 1990 i due si ritrovano. Anche la breve parentesi come paroliere non smentisce il carattere combattivo e impegnato di Roversi che non abbandona mai il suo intento civile e morale.
Nel ’64 Rizzoli pubblica il secondo romanzo Registrazione d’eventi. Il romanzo è testimone della nuova realtà: «quella della fabbrica come sistema culturale che si impone»43. I problemi che si presentano sono quelli che aveva già avvertito «Officina». Comincia per Roversi una progressiva modifica del linguaggio che assumerà maggior durezza e si farà più difficile nel decifrarla. Contemporaneamente Roversi avvia la scrittura del Le descrizioni in atto, più precisamente, nel 1963 escono cinque descrizioni (in poesia) per una cartella di acqueforti di Giuseppe Guerreschi e due sul n. 8 di «Rendiconti». Da qui, Roversi, parte a mescolare due tipi di scrittura: quella critica e quella poetica, entrambe tese ad aprire il discorso politico. Le Descrizioni sono la raccolta poetica più intensa del percorso roversiano che decide di raccogliere e ciclostilare nel 1969. Il ciclostile, probabilmente, era l’unico metodo che rappresentasse una forma di ribellione adeguata a quei tempi. Infatti, la sospensione di qualunque forma di collaborazione con la cultura ufficiale, il rifiuto delle pratiche e dei mezzi tradizionali della comunicazione editoriale erano i mezzi di protesta più efficaci e, forse, i soli adottabili per combattere l’era consumistica. Roversi, come mezzo editoriale, utilizza sempre il ciclostile ma lo abbandona, momentaneamente, per la pubblicazione de I diecimila cavalli, discorso, questo, che approfondirò nel secondo capitolo. È arrivato il tempo di agire, di fare qualcosa perché “qualcosa deve essere fatto”: il leitmotiv del romanzo. È importante puntualizzare che il senso del romanzo e di tutta l’opera di Roversi si regge sull’alternanza tra costruttivo e distruttivo, «denuncia-rappresentazione della violenza nel reale e forza resistente della progettualità (dell’attesa) e dell’operare»44. «Messo insieme con pazienza e senza approssimazione»45, I diecimila cavalli è il romanzo che situa un punto su quel genere che non viene più ripreso ma che serve come trampolino di lancio verso una consapevolezza nuova e matura.
Il furore roversiano si è mutato in uno sguardo acuto e consapevole per le cose fatte, per quelle da fare, secondo le capacità e le possibilità date – e forse anche oltre quelle, talvolta – con una parola che non si sente più ferita, per questo colpisce più in profondità.46
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1.4 L’ultimo tempo: l’attesa
Alla fine degli anni Settanta e, più precisamente, nel 1977 (anno violento per Bologna), Roversi continua il lavoro teatrale. In questo periodo è impegnato con Enzo Re. Sempre di quest’anno è l’impegno con la rivista «Il cerchio rosso», fondata da Roversi insieme a Gianni Scalia, Pietro Bonfiglioli e Federico Stame. La rivista è di stampo politico e poetico uscita sull’onda dei fatti successi a Bologna quell’anno. La strage del 2 agosto dell’80, dà avvio ad anni di intensa partecipazione da parte del poeta ad iniziative sulla poesia, con la proposta di «farla parlare e renderla partecipe del e nel mondo»47. Legate a questa tragedia sono anche: «Il foglio dei quattro giorni», che si propone come registro degli stati d’animo dei giovani venuti a Bologna per le manifestazioni del 2 agosto dell’81 e Agosto è un pesce sventrato, breve inchiesta sulla strage alla stazione di Bologna, pubblicata con «Il pesce solubile». Per tutti gli anni Ottanta Roversi lavora attivamente dando vita a riviste ed esperienze legate alla scrittura e all’intensificazione della comunicazione, ne sono un esempio la Cooperativa culturale Dispacci che si propone di ricostituire una coscienza collettiva; le riviste: «Le porte», «Numero Zero», «Lo Spartivento» e i lavori di gruppo presso il Carcere minorile del Pratello.
A fare da ponte tra Le descrizioni in atto e l’ultimo poema di Roversi, L’Italia sepolta sotto la neve, sono le Trentuno poesie di Ulisse dentro al cavallo di legno insieme ad altre tutte riunite ne Il Libro Paradiso, dove la scrittura di Roversi risulta meno rabbiosa rispetto a quella usata nelle Descrizioni anche se di queste troviamo ancora qualche traccia. È bene citare almeno il testo di apertura che dà il nome alla raccolta. «Cosa grida la città?» che «la violenza è stupida e imperfetta./ La violenza è il luogo comune. / La violenza è vecchia e senza fantasia./ La violenza è inutile e malada»48. Tutto il libro gira attorno alla distruzione, alla morte di un’idea e di una generazione di uomini che avevano dato speranza di cambiamento; una forte delusione che, tuttavia, non annulla il discorso. Mi collego, da qui, al poema L’Italia sepolta sotto la neve: l’ultima opera di Roversi, una vera e propria opera monumentale. Il testo è stato pubblicato parzialmente a partire da metà degli anni Ottanta in volumi e riviste, ed è stato raccolto in un unico volume solo nel 2010, da Roversi, in una edizione di 32 copie numerate (a cui hanno fatto seguito altre 20 in altro formato) con marchio AER di Pieve di Cento. Marchio che è l’acronimo di Antonio, Elena e Roberto, i nomi del figlio e della moglie di Roversi, mentre Pieve di Cento è il paese nei dintorni di Bologna di cui era originario il padre del poeta. Io ne possiedo una copia del 1989, gentilmente donatami dal nipote di Roversi, pubblicata per l’editore “Il Girasole”, la quale raccoglie le quattro parti di cui è composto il poema (82-409), saltando la premessa (1-81). Scritta tra gli anni Ottanta e gli anni Duemila, l’opera è suddivisa in cinque parti (compresa la premessa), che sono state pubblicate separatamente nel tempo e poi raccolte tutte sotto un unico titolo. In quest’opera emerge un nuovo Roversi. Rispetto alle Descrizioni in atto, cariche di discorsi sentenziosi, imprecazioni e moralismi, il poema tende verso una maggiore introiezione sulla situazione della realtà. Il motivo della necessità di affrontare un discorso più individuale che generale e sentenzioso, trova una giustificazione nella stagnante situazione politica-ideologica di questo ultimo ventennio. Oggi non si percepisce più la spinta politica tipica degli anni Sessanta e Settanta che si impegnava a delineare una chiara prospettiva di trasformazione sociale, al contrario, Roversi, descrive un’Italia nel pieno della deriva delle prospettive politiche. Il discorso poetico di Roversi, in questo caso, oltre ad avere come base l’abituale impulso etico e civile è tutto attraversato da una cupa malinconia, dalla paura della propria vecchiaia che sente tormentata dagli orrori passati e incredula del presente. Il poeta bolognese si fa carico degli errori del mondo e ne soffre per tutti. L’inverno e la neve sono i due simboli ricorrenti nel poema (sono, anche, le parole chiave de I diecimila cavalli); essi stanno a significare un presente vuoto ed invivibile in contrasto, tuttavia, alla luminosità del futuro. Il tempo – passato presente e futuro – è una costante nelle opere roversiane. In tale contesto, il poeta lascia la parola a personaggi noti distribuiti tra presente e futuro: Kennedy, Che Guevara, Lenin; Beethoven e Jim Morrison, Patty Smith (e altri grandi della musica); filosofi; Giorgio Morandi e, più di tutti, Agrippa D’Aubigné il poeta ugonotto perseguitato, del secondo Cinquecento francese. Quindi, Roversi, non è coinvolto in prima persona ma, allo stesso tempo, partecipa al colloquio con drammatica presenza, come scrive Moliterni, “in una condizione di solitudine e isolamento”: «[…] è l’ora in cui i vecchi librai chiudono la bottega/ s’avviano con il volume sotto il braccio/ alla discreta povertà della casa»49 (39° poesia).
Dentro alla malinconia, allo sdegno verso l’antico errore (la guerra) ed al terribile presente (industrializzazione, capitalismo), si costruisce automaticamente una risposta positiva. Il poeta nonostante sia consapevole del minaccioso degrado sociale non soccombe e a questo risponde con virtuosa pazienza: egli trae «dalle sconfitte del passato, dalle possibilità fallite del passato»50 un’occasione per trasformare le disfatte in auspici. Infatti, l’attesa, la pazienza e la fiducia nel futuro sono gli atteggiamenti di cui Roversi si appropria sia nell’opera che nella vita. Il tempo, perciò, sta all’origine di ogni discorso. L’ultimo tempo, il futuro, è atteso nel presente con speranza e volto alla ricerca continua della verità. Per tal motivo non trovo corretto parlare di “pessimismo” roversiano, di cui parlano alcuni critici. Roversi non ha mai dato prova di una negatività senza prospettiva di ripresa. Nessuna delle sue opere è avversa fino alla fine. Si nota, nei suoi testi, la realistica consapevolezza della condizione in cui siamo costretti a vivere e, nel farlo, non si trattiene di fronte all’orrore da denunciare. Di fronte alla tragicità che Roversi descrive, non risponde con un atteggiamento negativo, al contrario, egli non esaurisce mai la speranza di un ipotetico cambiamento. Persiste, nelle opere di Roversi, una scrittura che appare sempre sull’orlo del precipizio ma che, all’ultimo verso, viene quasi raccolta da un soffio di speranza nel futuro di cui, il poeta, si è sempre servito per mantenersi vivo. Antonio Bagnoli ricorda le parole di Roversi: «“Ogni mattina mi sveglio pensando che posso cambiare il mondo con quello che faccio. È così che vai avanti. A cosa serve la letteratura? A vivere.” Questa è la cosa che aveva sempre ben in mente». Forse un po’ utopistico come pensiero ma, di certo, niente a che vedere con il pessimismo di cui alcuni critici parlano.
A proposito di ottimismo e pessimismo, termino il primo capitolo con le parole inaspettate che il poeta ha esternato nei confronti del cantante Jovanotti, in occasione di un’intervista rilasciata all’agenzia stampa La Stefani, palesando un pensiero singolare sebbene in apparenza e, per qualcuno, poco rilevante:
C'è un grande filosofo contemporaneo che ho già citato facendo ridere mezzo mondo. Ma l’ho citato con serietà in testi abbastanza seriosi: è Jovanotti che canta “Penso positivo perché son vivo, perché son vivo”: sembra Kant, Hegel, Leibniz, non oso dire Platone o Aristotele. Questa è la massima che i giovani dovrebbero portare con loro. Non con superficiale ottimismo, ma con generosa, drammatica volontà di superare le difficoltà.
***
CAPITOLO 2
Un mondo in trasformazione. Contesto storico-culturale in cui nasce e galoppa I diecimila cavalli
In un racconto autobiografico, Vincenzo Padula – un prete rivoluzionario vissuto in un paese di Calabria tra il 1819 e il 1893 – ricorda la prima lezione di vita ricevuta in famiglia, quando era ancora un giovane studente. Avendo dato una risposta insoddisfacente a un’insidiosa domanda del padre (“come si fa che nell’alfabeto di ogni lingua l’A sia prima e l’E sia dopo?”), il seminarista ascolta con viva curiosità la spiegazione fornitagli dal suo genitore: “In questo misero mondo chi à è, e chi non à non è”, per questo la lettera a precede sempre la lettera e. Ma c’è di più: coloro che non hanno, costituiscono “nel civile consorzio” la massa delle consonanti, “perché consuonano alla voce del ricco, e si conformano agli atti di lui, il quale è la vocale, senza di cui sfido io a fare che la consonante abbia suono”.
A distanza di quasi due secoli, l’immagine di una società dicotomica rigidamente distinta in padroni e servi, in ricchi sfruttatori e in poveri degradati a bestie, così come l’aveva descritta Padula, non corrisponde più, o quasi, al ritratto del mondo in cui viviamo. Resta però in forme molto diverse e più sofisticate, una supremazia dell’avere sull’essere: una dittatura del profitto del possesso che domina ogni ambito del sapere ogni nostro comportamento quotidiano. L’apparire conta più dell’essere: ciò che si mostra – un’auto di lusso o un orologio di marca, un incarico prestigioso o un posto di potere – ha molto più valore della cultura o del grado di istruzione.51
Sarebbe, probabilmente, d’accordo Roberto Roversi se potesse leggere le parole di Nuccio Ordine, professore di Letteratura Italiana dell’Università della Calabria; facilmente si armerebbe di carta e penna e comincerebbe a riempire pagine intere con parole rabbiose, piene di sdegno per questa logica così inumana. Roversi si è sempre tenuto lontano dalla pura apparenza. La logica del sistema capitalistico ha introdotto superficialità, sperpero del denaro, maggior corruzione e inconsapevolezza. Credo che la figura di Roversi spicchi tra quelle degli intellettuali suoi coetanei, peccato non se ne parli abbastanza! La carica che possiede e che trasmette nei suoi testi non dovrebbe passare inosservata. Roversi è un esempio per tutti, non solo come letterato ma, soprattutto, come persona. La sua coerenza, che si adatta al cambiamento, l’intransigenza sui valori fondamentali e la grande attualità dei suoi discorsi dovrebbero essere le fondamenta della società attuale che, giorno dopo giorno, inaridisce l’uomo senza che se ne accorga.
2.1 Uno sguardo alla situazione degli anni Sessanta e ai primi anni Settanta
Nel 1945 il mondo esce dalla seconda guerra mondiale e subito si ritrova partecipe di un altro scontro, quello tra Occidente ed Oriente, che ha come protagoniste l’America e l’Unione Sovietica, raffiguranti rispettivamente l’ideologia capitalista e l’ideologia comunista. L’Italia è in una situazione devastante, il Paese è in macerie ma, con l’aiuto dell’America, riesce lentamente a riprendersi. All’inizio degli anni Sessanta, il processo di industrializzazione spinto dal capitalismo statunitense è ormai in atto nella maggior parte dei paesi occidentali. Negli anni Sessanta, scoppia il boom economico, figlio dell'espansione edilizia e della diffusione del pagamento dilazionato – la cambiale – che consente la vendita sterminata di merci, case, automobili ed elettrodomestici. La conseguenza di questa ventata di benessere è la diffusione della scolarizzazione che, in quasi dieci anni (alla fine del boom economico), consente il posto scolastico di forza lavoro disoccupata. In Italia persiste il grande divario tra Nord e Sud. Gran parte del Meridione non partecipa a questi cambiamenti e, a peggiorare la situazione, è la migrazione di molti giovani che abbandonano le terre del Sud per cercare fortuna al Nord (tema affrontato da Roversi ne La raccolta del fieno).Ha inizio il progressivo distacco dalle campagne per trasferirsi soprattutto a Milano e Torino, città trasformate, ormai, in due grandi città industriali. Dietro a tutto questo sistema, vengono a crearsi intrecci fra potere politico centrale e poteri locali – ne è un esempio quello mafioso. Il boom economico si avvia verso la crisi mentre la classe dei lavoratori avrebbe voluto incassare qualche miglioramento delle proprie condizioni di vita. Il nuovo contratto e lo Statuto dei lavoratori sono il risultato della battaglia sessantottina che vide gli studenti scendere in campo a fianco del proletariato. Dal ’68 al ’77 si ha una lunga rivoluzione culturale che segna nel mondo, particolarmente in Italia, una stagione di riforme istituzionali; di conquiste salariali e di qualità del lavoro, di rivalutazione di importanti componenti sociali (le donne, i bambini, i giovani, gli anziani), di profonde mutazioni nella mentalità collettiva e nei rapporti interpersonali. È possibile affermare che, chi in quegli anni si è impegnato nella politica attiva ha avuto la fortuna di vivere un momento storico di rara intensità, ha partecipato a una rivoluzione culturale che purtroppo non ha toccato i centri del potere reale, ma ha influito profondamente sulla società e sul costume di questo Paese. Tale rivoluzione culturale ha contribuito, in modo decisivo, a creare la consapevolezza di una comunità culturale e lavoratori, impegnandosi nel cercare di unire il mondo del lavoro in fabbrica, i ceti subordinati e le battaglie degli studenti.
Dopo la contestazione del ’68 iniziano altri anni difficili per l’Italia, i cosiddetti “anni di piombo”, durante i quali sia i gruppi di estrema destra che quelli di estrema sinistra compiono gravi atti di terrorismo. In questo contesto, Roversi si confronta con quella che lui chiama l’“azione” della scrittura teatrale. Egli vede il teatro come la messa in atto di partecipazione della totalità e della comunicazione diretta con il pubblico.
Sul piano sociale-culturale il grande cambiamento di quegli anni ha investito anche simboli, valori, norme di comportamento, modelli culturali. Inoltre, sono stati introdotti nuovi linguaggi scientifici e tecnici che hanno prodotto come conseguenza controversa da una parte nuovi sistemi di conoscenza e dall’altra, fenomeni di nuovo apprendimento semantico del linguaggio letterario (con le rinnovate teorizzazioni dell’opera letteraria come “opera aperta”). Di fronte alla questione socio-letteraria, gli intellettuali ne avvertono subito la grande portata e presto cominciano a lanciare nuove metodologie di soluzione sebbene con modalità diverse. Si formano nuovi gruppi tra cui il “Gruppo ’63”, di stampo letterario, impegnato contro la letteratura “di consumo”, ritenuta incapace di rappresentare l’alienazione che ormai domina nel mondo capitalistico. Contemporaneamente, nascono nuove riviste importantissime per il dibattito culturale come «Il Verri» di Anceschi, il «Quindici» nata da alcuni esponenti della neoavanguardia, «Quaderni piacentini» rivista impegnata politicamente, «Rendiconti» di Roversi stesso, finalizzata all’approfondimento delle questioni politiche e sociali attraverso la scrittura e la comunicazione culturale.
In ambito letterario, oltre al dibattito sul ruolo dello scrittore e della letteratura – in particolar modo della poesia – attraverso la conoscenza più ampia della “nuova letteratura” europea ed internazionale, con la reinterpretazione e reintegrazione di movimenti dell’avanguardia novecentesca (Kafka, Musil, Miller, Eliot, Pound, ecc), gli scrittori italiani si cimentano nella scrittura “sperimentale”. Alcune forme sperimentali appaiono già negli ultimi anni Cinquanta e nei primissimi anni Sessanta, ne ricordo una: l’antologia poetica dei Novissimi, curata da Alfredo Giuliani, uscita nel 1961. I poeti della neoavanguardia sono tra i primi esponenti della nuova tecnica; essi acquisiscono un successo parziale ma il merito riconosciuto consiste nell’aver messo in moto «il confronto delle poetiche, mettendo da parte i vecchi schemi neorealisti o neo-crepuscolari per affermare l’esigenza di una nuova nozione di “realismo”, non più fondata sulla mimesi naturalistica della realtà, né sulla mera pronuncia di contenuti ideologici, bensì sul montaggio di linguaggi e punti di vista diversi»52 alludendo alla crisi della comunicazione che ormai stava investendo la società italiana a causa dell’industrializzazione e della massificazione capitalista. Anche Pasolini è tra gli iniziatori del genere ma la sua idea di sperimentalismo si comporta diversamente da quella degli esponenti della neoavanguardia. Nel saggio pasoliniano, Libertà stilistica, brano di prefazione alla Piccola antologia neo-sperimentale, sono presenti la poetica e tutte le indicazioni in base alle quali Pasolini compone le sue poesie più sperimentali: i famosissimi poemetti de Le Ceneri di Gramsci. A lui, come vedremo nel prossimo paragrafo, si avvicinano anche altri scrittori, tra i quali: Francesco Leonetti, Franco Fortini e Roberto Roversi.
Nel ’68 i fermenti innovatori che anni prima si erano espressi nel dibattito letterario passano da un rinnovamento letterario ad uno sociale. L’attenzione è concentrata, prevalentemente, sul piano dell’azione politica e la sperimentazione letteraria si autocondanna fino ad ottenere una frantumazione del linguaggio. Si è dentro ad una fase, com’è stato notato, di passaggio: «dalla Letteratura del Rifiuto, di marca sperimentale e avanguardista, al Rifiuto della Letteratura»53 che investe tutta la cultura in particolar modo la lirica che passa nell’ombra e viene alla luce solo tramite i condotti di semi-clandestinità, anche editoriale.
Nei primi anni Settanta il movimento neoavanguardista giunge al termine con il risultato di non aver colmato il divario tra letterati e masse, le quali accolgono più facilmente la saggistica politica e le canzoni di protesta, rispetto alla poesia neoavanguardista (dentro questa ragione sta anche il mancato successo di Roversi).
Gli anni Sessanta, come ho detto nel primo capitolo, sono anni impegnati politicamente e fortemente polemici verso la classe del potere. Questa atmosfera di ribellione si acquieta verso la metà degli anni Settanta, anche se, gli “anni di piombo”, lasciano il segno nella letteratura, reperibile nelle opere di Roversi e in quelle di autori più noti: Volponi, Fortini, Calvino, Sciascia. Nonostante il periodo necessiti ancora di essere difeso, la letteratura comincia a prendere una piega più “disimpegnata” che inaugura il periodo postmoderno, ma questo è un altro argomento.
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2.2 Il neosperimentalismo e la neoavanguardia. Sperimentare in nome del rinnovamento
Prima di affrontare il discorso a proposito delle differenze tra neosperimentalismo e neoavanguardia, è necessario fare una piccola premessa su ciò che si intende per «sperimentale». Nel 1880, per la prima volta, si parla di romanzo sperimentale. Tale definizione appare nel saggio Le roman exspérimental del francese Èmile Zola. Zola prende a prestito il termine da Claude Bernard dalla sua Introduzione allo studio della medicina sperimentale. La nascita di questo termine ha un’accezione diversa rispetto a quella che viene data in Italia fin dai primi anni del XX secolo. Attraverso le parole dello scrittore francese si apprende cosa intendesse per sperimentalismo e quale fosse lo scopo originario del metodo sperimentale. Zola spiega che, tale metodo,
consiste nel trovare le relazioni che collegano un fenomeno qualsiasi alla sua causa prossima o, per esprimersi diversamente, nel determinare le condizioni necessarie all’insorgere di quel fenomeno. La scienza sperimentale non deve occuparsi del perché delle cose: essa spiega il come, nient’altro.54
Zola prosegue affermando che il romanzo naturalista non è più interessato all’ingegnosità del racconto romanzesco né l’immaginazione serve più, come non sono più importanti l’intreccio, la trama e la conclusione della storia. In pratica, l’opera sperimentale si basa sul concetto di «metodo» che «si sostituisce al prestigio di un singolo autore o alla riconosciuta dignità di canone scrittorio. […] Non si pone nemmeno il problema della finzione, o meglio lo si pone e lo si scavalca a priori, ritenendolo non essenziale»55. Il metodo sperimentale ha sostituito il criterio scientifico all’autorità personale. Zola vede il lavoro dello scrittore sperimentale rivolto alla ricerca della verità che, una volta dimostrata, può essere applicata. Al contrario, in Italia, l’aggettivo “sperimentale” (lo attesta la voce «sperimentale» del GDLI) coincide con il concetto inverso a quello francese. Lo sperimentalismo, in Italia, richiama ad un’idea di stravaganze, bizzarrie, atteggiamenti fuori dalla norma; tutto ciò che non si conosce, poiché al metodo sperimentale si associa il vero significato di “sperimentare”, ovvero «conoscere direttamente per esperienza personale» e, da lì, come fa notare Luigi Weber, il verbo assume il valore di «tentare la sorte». Per tale motivazione, è avvenuto uno sdoppiamento nel concepire questo termine: l’accezione originaria di sperimentalismo, quella che determina la poetica di Zola e di una parte della prosa europea della fine dell’Ottocento è chiara; l’altra accezione è indefinita e addirittura opposta.
In sostanza, come termina Weber: «Tutto quello che rifiutava le leggi del romanzo sperimentale, è diventato sperimentale»56.
A partire da questa distinzione, mi collego al discorso sullo sperimentalismo o, meglio, neosperimentalismo di Roversi e alla nuova avanguardia del secondo Novecento italiano.
Nel 1966 Roversi dice:
Proprio gli Anni Cinquanta, con la loro data emblematica del 1956, rappresentano il momento-chiave di questa nuova presa di coscienza, l’apertura verso una maggiore dinamica operativa. Chi considera il ’56 come anno delle illusioni cadute […], si condanna all’impotenza […]. Il ’56 rappresenta in realtà lo sbocco di un marxismo ancora incrostato di rigidezze e ritardi, la presa di coscienza della necessità di impostare un programma di lavoro più rigoroso, serio, specialistico, a tutti i livelli, da quello letterario a quello politico. Ecco perché oggi si può avere sempre più fiducia in un marxismo sempre più agonistico, non compromissorio, scientificamente agguerrito […] su tutti i diversi terreni di ricerca culturale e di battaglia ideale.57
Qualcosa è cambiato, si è formata una frattura, quello che andava bene prima oggi non funziona più:
Il mondo stride [...] si muove e rivolge, non dà tregua. Ci si accorge, mutando le prospettive del mondo e distaccandosi dai termini tradizionali che lo pacificavano oscuramente, che anche i nostri strumenti, che addirittura si rifanno a Dante, è nella realtà dell’operare che non servono affatto. Che cosa ci manca? […] Di tutto...58
Con questo pensiero, Roversi comincia l’esperienza di «Rendiconti» e scrive Dopo Campoformio testo fondato sul «rifiuto del falso miracolo economico» smentita ricorrente tra i contemporanei dell’autore. L’opera può essere definita il ritratto della nostra storia; essa tocca vari accaduti: dalla seconda guerra mondiale, alla scomparsa del mondo contadino inglobato dai progressi fittizi della storia, con la successiva condanna della registrazione del reale. Dal nuovo mondo che sta nascendo («un mondo nuovo affiora ribollendo/ dalla schiuma aspra del dolore»59), si passa al chiaro sdegno nei confronti della realtà ma con il desiderio di «voler essere puro, incorrotto, compatto dentro la storia che è impura, corrotta e dissoluta»60 (si vedano i poemetti Lo Stato della Chiesa; Il sogno di Costantino; Prima dell’autunno sul fiume Leuter, in Germania; Le lupe dorate). Nell’evoluzione stilistica del poeta si riscontra un chiaro segno di maturità (Roversi è sempre protratto in avanti e il suo pensiero segue la via di un futuro speranzoso) rintracciato, specialmente, nelle ultime poesie della raccolta: Iconografia ufficiale e La bomba di Hiroshima. La tecnica stilistica di Roversi si avvicina sempre più allo sperimentalismo in quanto, i versi roversiani assumono carattere prosastico, dal ritmo narrativo incalzante. Roversi monta inserti verbali tratti dalla cronaca giornalistica; utilizza nomi propri di personaggi della cronaca politica; introduce anche numeri e cifre. L’indifferenza dei cittadini ai fatti quotidiani suscita nel poeta grande desolazione, autocritica e coscienza dell’inefficacia della parola poetica. Lo sperimentalismo di Roversi contrassegna anche l’evoluzione del suo percorso artistico che tocca diversi settori: quello della saggistica, della narrativa, del teatro e persino della musica.
Quando Roversi scrive Dopo Campoformio è in atto il dibattito sulla letteratura e due sono le correnti letterarie in contrasto: il neosperimentalismo e la neoavanguardia. La letteratura degli anni Sessanta non trova più soddisfazione nella scrittura neorealista perché il mondo è cambiato: il linguaggio e i temi neorealistici, proposti in quella maniera, risultano inefficaci e retrogradi. Oltre a ciò, la diffusione dei mass media causa nuove problematiche che rendono forte la necessità di trovare nuove forme letterarie capaci di confrontarsi direttamente con la realtà sociale. Tutto il ragionamento e il dibattito sulla letteratura degli anni Sessanta ha origine nella prima metà degli anni Cinquanta. In questo periodo sono attivi, in campo letterario e intellettuale, gli scrittori nati negli anni ’20. Questi autori si distinguono in due generazioni poetiche del Novecento: la “quarta generazione”, che comprende Pasolini, Roversi, Calvino, Volponi e Leonetti, ovvero gli scrittori nati nei primissimi anni Venti; e la “quinta generazione” della quale fanno parte Pagliarani, Sanguineti, Porta, Balestrini (ed altri), nati alla fine degli anni Venti. Sebbene la distanza tra le due generazioni sia poca, l’esperienza della guerra ha prodotto un divario gigantesco. La generazione che ha vissuto e combattuto la guerra (più frantumata rispetto all’altra generazione) si rispecchia nel movimento neosperimentale di «Officina»; essa, tuttavia, si mostra avversa all’altro movimento quello composto prevalentemente dalla “quinta generazione”, la cosiddetta neoavanguardia. Quest’ultima nasce nel 1956, in corrispondenza con la nascita della rivista «Il Verri» e tra il 1960 e il 1965 raggiunge l’apice della sua affermazione. Neosperimentalismo e neoavanguardia sono movimenti quasi contemporanei ma non coincidono nei momenti di successo ed espansione. Il neosperimentalismo è collocato fra il 1955, con l’uscita di Ragazzi di vita di Pasolini, e il 1961-62 con La religione del mio tempo, sempre di Pasolini. Per quanto riguarda la poesia, sono riconosciuti come “campioni sperimentali” gli ultimi poemetti di Dopo Campoformio; per la prosa, invece, il romanzo Registrazione di eventi. Il movimento neoavanguardista è posto tra il 1961, con la pubblicazione dell’antologia dei Novissimi, e il 1965, anno del Convegno tenuto a Palermo sul romanzo sperimentale con la conseguente formazione del “Gruppo ’63”. Due tendenze opposte, due generazioni diverse e con soluzioni contrastanti ad una polemica comune in atto: l’avversione per l’ermetismo e il neorealismo. Ecco come Roversi spiega il motivo del distacco preso nei confronti del movimento ermetico:
l’ermetismo assumeva l’impegno letterario esclusivamente come missione (“quel loro mutuo isolarsi”); esprimeva un atteggiamento mistico, venato di un cattolicesimo d’intonazione controriformista, un po’ perfido e ossessionato, intollerante quanto più pareva patteggiare; con curiosità non provinciali ma localizzate e identificabili, rivolte a testi, autori, e a princìpi che aiutassero a ricevere conferme non a sviluppare analisi, che non contrastassero e implicassero nuovi problemi. L’istituzione dell’équipe ermetica ha segnato il punto estremo non di una involuzione ma di una coagulazione della nostra letteratura, di una rarefazione dell’impegno che non fosse meramente stilistico.61
Gli officineschi propongono di portare avanti «una ricerca stilistica esattamente opposta rispetto a quella novecentesca»; se, fino ad allora, la lingua letteraria era stata tutta poetica ora, essa, deve abbassarsi al livello della prosa «attraverso la riadozione di modi stilistici pre-novecenteschi»62, tra i quali Carducci, Pascoli e Leopardi. Aggiungo, in proposito, una curiosità notata dal Professor Bazzocchi: i giovani scrittori che si sono laureati poco prima o poco dopo la seconda guerra mondiale, hanno scelto materie di tesi molto diverse tra loro ma hanno più o meno tutti le stesse idee. Infatti, Roversi si laurea su Nietzsche, Pasolini su Pascoli, Francesco Arcangeli su Guicciardini, ma ciò che unisce questa generazione è ancora una volta «il bisogno di uscire dalla guerra con la sensazione di poter ricostruire un mondo a cominciare dal pensiero che può essere: filosofico, letterario o artistico». Questo è il primo atto con cui, futuri intellettuali, hanno fatto uno sforzo su loro stessi per affrontare il pensiero. Si tratta di una generazione nella quale è presente più che mai l’attenzione a certi temi e la spinta a creare un pensiero di tipo nuovo, più appropriato alla realtà e, soprattutto, rivolto alla costruzione di un futuro diverso, più giusto. Al contrario, la fiducia nell’ideologia e nella storia, unitamente al recupero di autori tardo-ottocenteschi, sono respinti dalla neoavanguardia che si rifà alle avanguardie storiche. Queste riportate finora sono, in breve, le premesse al dibattito sulla letteratura e la poesia.
Il Gruppo ’63 sostiene non sia possibile «una interpretazione ideologica della realtà, irrazionale e caotica» perciò l’unica strada da perseguire è di «rendere la realtà stessa nella sua “intattezza”»63. La realtà è caos totale e, di conseguenza, il linguaggio dei neoavanguardisti deve essere il rispecchiamento e la contestazione di tale disgregazione sociale, così da smascherare la falsità della comunicazione. Questo concetto prende spunto dalle concezioni della Scuola di Francoforte che protesta indiscriminatamente contro lo storicismo e il capitalismo «concentrando la carica eversiva e disgregatrice non sui contenuti ideologici, che si equivalgono, bensì sugli aspetti formali, sulla comunicazione»64. In base a questi principi, i neoavanguardisti, disgregano le strutture e la lingua tradizionali, utilizzano il ‘plurilinguismo’ – Sanguineti mescola latino medievale e greco – neologismi scientifici, cifre numeriche, ecc. Pagliarani mette in atto accostamenti di linguaggi pubblicitari, dattilografici, spezzoni di lingua parlata. Giuliani e Porta danno vita ad esperimenti di “poesia visiva”. Tuttavia, questi sperimentalismi si rivelano inadeguati. Infatti, in pochi anni, il movimento entra in crisi fino a morire verso la metà degli anni Settanta. Siffatto nuovo metodo di scrittura, altamente simbolico, si rivela incomprensibile al pubblico. La maggior parte della popolazione non dimostra interesse per la lettura complessa e così poco immediata. Da questo momento in avanti prende avvio la crisi della poesia, la quale porta i suoi residui fino ad oggi.
A suddetto dibattito partecipa anche Roversi, dando una sua visione della cosa. La prima critica mossa dal poeta riguarda il binomio inscindibile tra linguaggio e società: se l’obiettivo risulta essere un linguaggio nuovo, appare indispensabile una collaborazione a progettare la società nella quale l’artista vive e si esprime. Un modo di esprimersi incomprensibile e inadatto al pubblico non potrà riscuotere successo perché, di fatto, è inutile. (Come scrive il filosofo Gunther Anders: “Il nostro compito è di parlare ai Corinzi e di scrivere ai romani. Farlo in ebraico o in aramaico, non avrebbe senso. Bisogna tener conto di questo fatto”). La seconda critica di Roversi concerne i contenuti delle opere neoavanguardiste. In un’intervista del 2003, presieduta da Fabio Moliterni, il poeta sottolinea il “disimpegno” dei neoavanguardisti. Egli li accusa di essersi distaccati troppo dalla guerra, in fondo, appena conclusa. Le loro poesie, argomenta, e i loro manifesti non parlano della guerra. Certamente Roversi non butta nel fuoco qualsiasi lavoro della tendenza opposta, ma non accetta assolutamente «il loro smanazzare, quell’agitarsi violento sul tavolo della letteratura, con l’intento di buttar tutto per terra. In una frana ci sono le pietre che cadono, ma anche il polverone che può offuscare la visione della realtà»65. Infatti, mettere da parte un evento così tragico per la storia dell’umanità è una responsabilità troppo grande. La generazione degli anni ’20 è ben consapevole di quanto sia snervante vivere sotto un regime totalitario. L’immaginazione è l’unica libertà che ci si concede per rimanere vivi, poiché la libertà di pensiero non è contemplata. Chi non è nato in quel periodo e non ha subìto le restrizioni che l’educazione fascista ha impartito nei giovani fin dalla giovanissima età, non può capire quanto sia stata devastante la privazione del diritto alla libertà.
Termino il discorso servendomi delle parole di Gianni Scalia:
[…] Le nuove sperimentazioni sono legittime, se calcolate in una correlazione significativa di scelte di contenuto e scelte di linguaggio, non più soltanto secondo i presupposti di una realtà «oggettiva», o di una tensione «soggettiva», ma secondo i criteri di potere e responsabilità semantici nuovi della letteratura, che non si limita a riflettere, o esprimere, ma a significare la realtà trasformata dalla scienza e dalla tecnica. Dalla nuova praxis sociale, dai nuovi bisogni antropologici, dalle modificazioni prodotte dal «mondo nuovo», cioè, nelle istituzioni e nelle coscienze.66
2.3 Il ciclostile: la reazione pratica di Roversi al sistema capitalistico
Meglio ammutolirsi che partecipare anche con un solo bla alla quotidiana cerimonia delle investiture.
Roberto Roversi
La scelta di Roversi di ciclostilare le proprie opere risale al 1969 con la distribuzione libera de Le descrizioni in atto. Il motivo di tale decisione è da ricercare nella gestione della comunicazione (questione ampiamente trattata dall’autore e che, in questa sede, verrà ripresa più volte). Riporto di seguito le parole usate da Roversi in un’intervista del ’78:
Col mio ciclostilato mi proponevo, senza voler stralunare il mondo o meravigliare l’inclita famiglia, di inserirmi in un problema seguente, più nuovo e anche più urgente, più di fondo: quello della gestione della comunicazione. […] Volevo arrivare con le mie lettere a mano il più lontano possibile, più in dettaglio; e arrivarci da solo… In questo senso mi è parso di non aver perduto il treno. Ma è un dettaglio.67
In un’altra intervista – del 2003 – puntualizza che la sua posizione non deve essere vista come “solitaria” ma, come afferma Roversi, essa «partiva dalla convinzione che non c’era modo di fare opposizione in tale situazione se non stando da parte»68. Roversi ribadisce più volte il significato politico che il progetto del ciclostile deve assumere. Come ho affermato in precedenza, gli anni Sessanta sono anni di grande cambiamento; la contestazione del ’68 aveva sollevato tanti problemi e uno di questi era il controllo della distribuzione della comunicazione. In questo momento storico, sia da parte dello schieramento marxista istituzionale che da quello dissidente, si partecipa ad una scarsa analisi critica, all’assenza di un approfondito dibattito collettivo sul rapporto con l’industria culturale sempre più fondata sulle regole del mercato e del profitto. A tal proposito la contestazione giovanile offre buone indicazioni, come la critica radicale ai vecchi istituti, la progettazione e la messa in atto di media alternativi, la ricerca di canali di comunicazione nuovi e non corrotti. Tuttavia, si ritiene necessario, che siano gli intellettuali a diffondere nuove idee; il circuito della mercificazione e del profitto è chiuso e le proposte sono difficilmente realizzabili «se non si darà vita a nuove forme organizzative di cui lo stesso intellettuale e lo stesso lettore siano protagonisti»69. È da questo fermento che si avviano “gli esperimenti anti o eso-editoriali” di Roversi, di Zanzotto e il “ciclostilato di poesia”; non solo, anche le poesie “clandestine” di Fortini. Nascono anche giornali autogestiti dalla sinistra extra-parlamentare, ricordo «Il Manifesto», «Lotta Continua», «Il Quotidiano dei Lavoratori» che tentano, a loro modo, di creare una risposta alternativa al problema. Tuttavia, il nodo centrale della questione, come individua Roversi, concerne la “distribuzione” della comunicazione. Il ciclostile non va inteso come rifiuto dell’industria culturale, ma in qualità di ricerca relativa ad un nuovo canale di diffusione «meno viziato dal consumo»70. D’ora in avanti, ogni opera roversiana, viene da lui stampata e distribuita (ad eccezione dei Diecimila cavalli); il prodotto nasce, cresce e viene diffuso dallo stesso soggetto, procedimento perdutosi nel momento in cui si è verificato il distacco tra libraio ed editore. Roversi non crede più che la poesia possa fare il suo dovere passando dal “di dentro” del sistema. Infatti, afferma:
La poesia può continuare ad avere una sua ragione solo se si carica di una tal politicità da richiedere la clandestinità per non essere essa stessa oppressa dalle istituzioni. Per istituzioni non intendo però i canali tradizionali della diffusione culturale, l’editoria, le riviste, il mercato, o meglio non solo questi, ma proprio i detentori del potere. Il mio vorrebbe proporsi come un libro clandestino, che si nasconde o cerca di nascondersi, non per riservarsi a pochi, ma per sottrarsi alle eventuali premure o oppressioni del sistema.71
Pare, tuttavia, che la clandestinità della sua scelta tenda invece a “riservarsi a pochi” prendendo una piega un po’ esclusiva, che non ammette una buona fetta della società. Se l’intento è quello di farsi leggere, di arrivare ad un pubblico che non sia, per forza, d’élite, la scelta di privarsi dei rapporti con i grandi editori è contraddittoria poiché essa limita la veloce e ampia diffusione. Ma questo non implica l’inefficacia della scelta di Roversi. La forza di Roversi sta nell’aver creato un suo metodo e nell’aver difeso le sue idee consapevole che, tale decisione, non avrebbe giocato a suo favore. Dentro la sua posizione nei confronti del mercato editoriale, vi sta un criterio ragionato che vuol essere un’alternativa più efficace e soddisfacente. L’idea di distribuire, di scrivere poesie e pensieri su “fogli volanti” da lui, in seguito, stampati e inviati ad amici, parenti, colleghi, riviste e giornali – rigorosamente alternativi e autogestiti – è la strategia, e probabilmente l’unica possibile, che l’autore utilizza per contrastare una logica contraria alla sua.
Negli anni Sessanta e Settanta chi voleva opporsi al sistema viveva cercando una soluzione al problema: le radio libere rappresentavano una forma di antagonismo nel nome della libertà di pensiero anche se, con il tempo, sono passate dalla parte opposta diventando radio private (ovvero “imprese private”) meno interessate alla libertà e sempre più legate alla dialettica capitalistica. Mi chiedo, a questo punto, se la scelta del ciclostile sia stata veramente una soluzione, se abbia portato cambiamenti o miglioramenti nella realtà bolognese e cito, a riguardo, il commento di Gian Franco Ferretti a Roversi:
Il suo atteggiamento, in generale, non appare certo immune da contraddizioni e da equivoci com’è chiuso nell’ambito di una presa di coscienza in definitiva privata e condannato altresì – sul terreno pratico – a quella stessa impotenza che Roversi stesso aveva denunciato.72
L’annotazione di Ferretti nei confronti del ciclostile di Roversi è citata e condivisa da quest’ultimo nel suo saggio I cavalli attendono, del ’72,dove non si difende ma ci si rispecchia. Roversi non sembra offeso dalla critica mossa da Ferretti anzi concorda a pieno con lui, come traspare dalla questa riflessione:
Un costante rapporto di prassi-teoria-prassi dovrà sovraintendere ad ogni funzione operativa che sia esercitata finalmente nella direzione di un rinnovamento dalle radici della cultura; e nella quale l’intellettuale dovrà finalmente assumersi tutta intera la propria responsabilità. Ogni altro proposito o progetto di lavoro è destinato a esaurirsi nel limite e nel cerchio di fuoco di esperienze individuali facilmente controllabili, catalogabili e subito e nella sostanza inefficaci.73
Ha ragione Ferretti, la presa di coscienza di Roversi è effettivamente privata e rimane circoscritta nel suo scarso entourage. Sostengo, però, che questo limite abbia consentito allo scrittore più notorietà e diffusione di quanta ne avrebbe guadagnata optando per la via della mercificazione delle idee. Mi spiego: Roversi, fatta eccezione della pubblicazione per Editori Riuniti del suo ultimo romanzo (trattasi di uno scambio, atto pratico politico e senza la sottoscrizione di alcun contratto e discorso di cui tratterò più avanti), non ha ceduto alle avance del mercato: ha mantenuto una posizione, diventata, nel tempo, la sua caratteristica. Roversi è lontano dalla fretta di procurarsi un tornaconto personale. La dimostrazione di quest’ultima asserzione è provata dal fatto che, oltre al rifiuto sistematico delle case editrici, non abbia mai mostrato interesse per apparire in televisione o per mostrarsi in pubblico. Addirittura, Roversi si distacca anche dalla casa discografica insieme alla quale collabora con Lucio Dalla (progetto che avrebbe potuto fruttargli grande guadagno). Roversi è quello che si potrebbe definire “un uomo puro”. È Dalla a descriverlo così, aggiungendo, però, di diffidare dei puri. Io, invece, credo si possa diffidare dei puri solo per paura o per invidia. Non voglio, con questo, affermare che Dalla sia un pauroso, men che meno un invidioso; quel che tengo a sottolineare è la forza d’animo di quel poeta dai mille interessi che ha inseguito, per tutta la vita, un metodo più adatto, più efficace, che fosse attuale e non perdesse il ritmo del mutamento. Al passo incalzante della modernità, Roversi, oppone l’esercizio del pazientare. L’attesa, in Roversi, si alterna con la pesantezza del presente: attesa e disperazione coesistono. Infatti, in alcuni passaggi delle sue opere (anche in quelle più recenti), quando appare più schiacciante l’indegnità del presente, egli sembra quasi imporsi di credere nel futuro, sembra trovare il lato positivo della storia, così da morire tranquilli e con una piccola aspettativa nel cuore.
Come un padre che durante la guerra, aprendo un passaggio segreto, mette in salvo la famiglia dal tiranno, Roversi protegge i suoi valori, le sue speranze e le sue idee, facendoli viaggiare attraverso canali di distribuzione alternativi, con lo scopo di non cadere tra le grinfie di un sistema sbagliato.
L’energia che divampa in Roversi, probabilmente già connaturata nell’autore ma sicuramente raffinata e gonfiata dal suo vissuto, non si arresta mai. La sua vita è una ricerca pratica in cui non si è sicuri di non fallire ma non per questo è ammesso arrendersi. In questa maniera, comincia la serie di tirature de Le descrizioni in atto la prima opera ciclostilata e distribuita gratis da Roversi. Da qui in avanti la produzione autogestita è sempre più frequente e raggiunge il massimo sviluppo tra il 1975 e il 1977. In questo periodo si intensificano altresì le analisi e gli interventi di Roversi che esaminano e criticano la “razionalizzazione” neocapitalistica delle strutture editoriali e delle istituzioni letterarie. Le Descrizioni sono il documento contenente tutta la passione, la carica di impegno e di confronto problematico del poeta verso gli anni del conflitto compreso tra ’67-’69; si intensifica (rispetto a prima) l’attività pubblicistica, prettamente politica, in collaborazione con le riviste della nuova sinistra precedentemente citate. Allo stesso tempo, Roversi volge una critica al movimento riguardante la questione della violenza, alla quale contrappone “la pazienza” «quella cauta e astuta, che procede adagio e attende all’erta, con tutti i nervi tesi, a speculare il buio»74. Il ciclostile e la tiratura delle Descrizioni continuano e, nel ’77, colpito da grande risentimento in seguito alla tragica morte del giovane Lorusso, l’autore sviluppa un grande senso d’impotenza e di solitudine («questa è la solitudine. È la paura/ indefinita, dura,/ di restare per sempre conficcati al suolo;/ d’essere solo, ignorato ignorante ignoto/ […]» (II)75). Prendono il sopravvento anche il desiderio di morte e di annullamento: «La morte dentro al mare è più economica, tranquilla/ la più lontana,/ l’uomo scompare non si deve piangere seppellire/ custodire vigilare, una morte pulita,/ il suo povero mito dimenticato./ […]» (XI)76. Questa negatività che dilaga comincia a mettere in dubbio anche il senso del suo operare, la precarietà dell’intellettuale, l’impotenza della letteratura tout-court fino a tentare lo smascheramento degli stereotipi dell’intellettualità italiana di cui lui stesso fa parte:
[…] Si devono per esattezza ricordare i professori/ quelli bravissimi che/ dipanando una lunga tela di segni/ scrivono su ogni risvolto del mondo e sono le voci ufficiali./ Scrivono sul cuore, sugli occhi della gente. Essi solo/ accecati. (LIX Descrizione)77
I professori a cui si riferisce sono gli uomini della cultura dai quali ha sempre preso le distanze: quelli che non cercano alcuna verità che non si curano del mantenimento di una morale, ma che badano solo a se stessi sottraendosi al dovere del vero intellettuale. Roversi contrappone a questi gli «oppositori ideologici, cassati dai registri» ai quali «non resterà per il momento che la via dell’esilio, il contrasto all’angolo delle strade, la lotta armata, oppure isolarsi in una deprimente semiclandestinità, vivendo come un naufrago speranzoso in una bottiglia»78.
In questo periodo rinviene il senso di fallimento e di rinuncia nel recupero di un’immagine positiva del mondo che, già in passato, hanno minato la poesia di Roversi. Le Descrizioni sono un continuo alternarsi di disperazione attiva e passiva. La maggior parte delle poesie mostrano immagini avverse, cupe, ma la negatività riguarda esclusivamente l’oggettiva descrizione del reale. Le riflessioni del poeta, invece, riservano una via d’uscita al problema riguardante lo squallore della vita. Tra le righe sembra esserci scritto: “qualcosa può essere ancora fatto”; poi, di nuovo, ci si abbatte e quasi si sprofonda, ma mai del tutto. Una luce esiste e rimane accesa anche se debole, come negli ultimi versi della XLIV Descrizione: «[...] eppure a conclusione (magari di una giornata) si deduce/ senza gessetto con i riflettori spenti/ che è giusto vivere così/ perché il tempo cambia le piaghe in oro, in sorprendenti/ malinconie che si traducono in fervore sconosciuto/ e ognuno dal suo cantuccio dove/ la noia può alle volte consumare/ intere settimane s’alza come un lazzaro guarito.»79
L’attività del ciclostile rimane una costante nel lavoro di Roversi. Negli anni Novanta egli cura, insieme a Salvatore Jemma, Il giuoco d’assalto una sorta di samizdat autoprodotto e auto-distribuito. Tale esperienza dura fino al 2002 e riprende nel 2003 con il nome Fischia il vento. Dopo un lungo intervallo segue, nel 2010, il Foglio degli eremiti: progetti messi in atto con particolare attenzione alla lingua e alle vicende da comunicare che riprendono interventi di riflessioni sulle vicende politiche bolognesi (e non solo). L’unica eccezione alla regola viene fatta per I diecimila cavalli, (come ho già accennato). Emblematica è la risposta di Roversi alla domanda di Ferretti, durante la “Conversazione introduttiva” a I diecimila cavalli, riguardo la scelta di pubblicare il romanzo per un’affermata casa editrice, nonostante avesse già intrapreso a ciclostilare. Roversi replica sostenendo che, la scelta del ciclostilato, si propone come ricerca di un nuovo canale di distribuzione attraverso il tentativo di trovare un modo più puntuale nel distribuire il prodotto scritto. Tuttavia, l’autore, non tralascia di asserire che l’operazione sia «superata da altri problemi, da richieste oramai diverse nella sostanza e più complicate»80 ma, ad ogni modo, rimane una buona esperienza ed utile al dialogo con gli altri.
Non ci sono dubbi riguardo al fatto che, questa reazione al consumismo e al mercato delle lettere, fosse da combattere, da mettere in discussione. Roversi agisce mettendosi sempre in dubbio, procedendo per tentativi che possono fallire in quanto deboli e limitati rispetto al potere che sovraintende la comunicazione. Nonostante ciò, qualcosa è stato fatto.
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CAPITOLO 3
L’ultimo romanzo di Roversi: I diecimila cavalli
22 dicembre 2009
– Dice: "I tempi sono bui"
– "No invece, sono lieti e giocondi!"
– "Sei matto?"
– "No, ragiono con la speranza del cuore, essa non tradisce mai i buoni bravi convinti combattenti, che sanno mescolare la rabbia con la pietà. E la pietà della storia, sorridendo, sarà presto nostra compagna e tornerà il sole."
da R, augurio e affetto81
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3.1 Il lungo percorso de I diecimila cavalli: dall’alba al tramonto di una tendenza letteraria
Ora, entro nel cuore della fase sperimentale di Roversi. Per tracciare il percorso del suo ultimo romanzo, I diecimila cavalli, parto dall’anno 1966, data in cui esce su «Nuovi Argomenti» uno scritto anticipatorio dell’opera, fino al 1976 anno della pubblicazione del libro. Durante il percorso, prendo in esame le esperienze (dell’autore) che più hanno inciso sulla scrittura del romanzo.
È giusto precisare che il primo lavoro neosperimentale di Roversi è antecedente il 1966. Mi riferisco al suo secondo romanzo, Registrazione di eventi. Il testo è, probabilmente, dei suoi, il più noto in campo letterario. Gianni Scalia lo definisce un «campione» del romanzo neosperimentale. La sperimentazione in nuovi campi artistici e la rivoluzione del linguaggio contrassegnano l’evoluzione del percorso di Roversi diventando la «condizione strutturale e indispensabile per affrontare (registrare) il nuovo presente»82. Tentando un confronto tra i due romanzi si nota che mentre in Registrazione di eventi si tenta di giudicare una situazione, ne I diecimila cavalli viene messa in atto una ricerca, l’intenzione è quella di capire di scovare una soluzione. Se ne deduce che in quest’ultimo l’azione è progressiva e non regressiva, come accade nell’altro romanzo. Inoltre, I diecimila cavalli è un’opera di carattere epico-sperimentale, opposto a quello soggettivo-sperimentale di Registrazione di eventi. Nel primo romanzo è ancora insistente l’ossessione per il passato: la rievocazione della guerra che affiora di continuo «nel monologare del protagonista sui temi dell’oblio, del rimpianto, del rifiuto delle consolazioni nostalgiche»83, come l’insistenza sulla rappresentazione del presente e la volontà di fare da testimone di una tragedia perché si impari «a non ripetere più, a non ripetersi»84. Roversi deflagra il discorso, frammenta lo spazio e il tempo della storia, allontanandosi dalla scrittura tradizionale e, talvolta, rendendo la lettura molto difficoltosa (ne I diecimila cavalli la scrittura è ancora più complessa). Un’altra caratteristica tipica del linguaggio neosperimentale è l’alternanza tra versi e prosa, che rimanda al poemetto narrativo di fine Ottocento e che provoca la disconnessione del discorso. Talvolta, la critica riconosce in Roversi una leggera vena avanguardista ma, come ci tiene a precisare lui stesso: «le mie pagine erano lontane da qualsiasi canone precostituito di “indecifrabilità”, avevano sempre un senso di uscita, di comunicazione, si servivano della parola e ritrovavano la parola, per poterla porgere ad altri, […] per rinvenire in essa la possibilità di un senso nuovo»85. Infatti, sono presenti elementi stilistici affini alle sperimentazioni dei neoavanguardisti, tra cui: il monologo interiore, la tecnica del collage, le grafie varie utilizzate nei dialoghi, la mescolanza di lingue straniere con il gergo dialettale, la contaminatio generum (dalla canzonetta all’elencazione tecnico-burocratica di argomenti), la discontinuità dei tempi verbali, l’alternanza di seconda e terza persona, l’abolizione, talvolta, della punteggiatura tradizionale e la presenza imponente del cambio di registro da narrativo a lirico, (quasi tutti questi elementi linguistici sono riscontrabili anche ne I diecimila cavalli). Inoltre, esiste una differenza sostanziale tra i due romanzi anzi, tra i due protagonisti: Marcho Marcho, protagonista de I diecimila cavalli, non ritorna mai al passato, lo accenna ma non ne è interessato. Egli tende verso il futuro, è spinto a procedere. Al contrario, Ettore, rievoca il passato, e lo sente addosso disunito e incalzante. Ettore è l’alter ego di Roversi. Marcho Marcho, invece, non è un personaggio autobiografico sebbene l’arrovellamento psicologico e morale del protagonista corrisponda a quello dell’autore. Marcho Marcho è interessato alle cose che divengono, «sente il futuro non come uno zero ma come un processo che si apre e che si può seguire»86. Il sangue, un elemento che ricorre spesso in tutta l’opera di Roversi, nei Diecimila simboleggia la fatica con cui il nostro tempo si sta rinnovando. I personaggi del romanzo viaggiano sempre, vanno e vengono, non vogliono invecchiare ma seguono la novità delle cose in atto nel mondo, trovano un rifugio nel futuro e non più nella rievocazione del passato, perfido dispensatore di delusione e sconforto come lo vede Ettore, o Roversi, nel 1964:
Mi par d’intendere alle volte, come una estrema ragione, come la verità di un patimento storico (e non arrivato) che è la situazione del mondo che costringe al fallimento. E' un alibi grossolano? L’esperienza non ci ha migliorati, viviamo tra l’orgasmo, una sorta di orgasmo dei sentimenti e delle opinioni e una naturale bontà che porta, o spinge, a sperare a vuoto.87
Sembra, dalle parole di Ettore, non vi sia alcuna speranza in un futuro miglioramento che coinvolga tutti. Un destino comune, che in quegli anni la massa percepisce appena ma che personaggi come Roversi ne subodorano la cattiva riuscita. Oggi leggiamo questi testi con più consapevolezza. Oggi abbiamo ancora più bisogno di scrittori di questo calibro, abbiamo bisogno di riportarli alla luce, di rileggerli tutti per non dimenticare le origini di ciò che viviamo oggi. Il sistema capitalistico e tutta la tecnologia sviluppatasi in quei tempi, ci schiacciano e noi li assecondiamo. Il bisogno, patologico, di essere continuamente al passo con i tempi, la fretta spasmodica che non concede tregua, ci privano della capacità riflessiva. Ad esempio, siamo completamente soggiogati dagli oggetti tecnologici. La nostra esistenza è condizionata da apparecchi elettronici dannosi per la nostra salute fisica, mentale ed economica (non ci si stupisce più che in un mese un telefonino nasca, cresca e invecchi). Quella di cui parla Ettore è una società che predilige il profitto. Essa è dispensatrice di «solitudine economica» che, a detta di Roversi, è molto più «scavata e dolente, più generalizzante nella nostra società, di quanto sia la solitudine esistenziale»88 e questa è, effettivamente, un’immagine che non si distanzia troppo dalla realtà attuale.
È dopo la pubblicazione di Registrazione di eventi, a partire dall’esperienza di «Rendiconti» che si impegna nella ricerca di nuove metodologie proponendo nuove direzioni problematiche, sempre in chiave sperimentale, che Roversi comincia a scrivere Le descrizioni in atto. Un’opera, quest’ultima, tra le più significative di Roversi scritta e distribuita in un arco temporale molto lungo: dal ’63, con le prime cinque uscite per una cartella di acqueforti di Guerreschi e, successivamente due sul n. 8 di «Rendiconti», fino alla fine degli anni Settanta. Contemporaneamente esordisce nella scrittura teatrale. L’intenzione di approfondire la funzione politica della pratica teatrale ha inizio in questi anni. Una delle proposte di Roversi è quella di destinare i suoi lavori alle scuole, a gruppi universitari, a quartieri nel tentativo di portare alla ribalta il tema della comunicazione autogestita tendendosi lontano dai rapporti con le istanze istituzionali ufficiali di richiamo nazionale e collaborando con la pubblica amministrazione di ambito locale. Nel ’74, a questo proposito, dedica un intero numero di «Rendiconti» al “teatro come comunicazione”. Roversi crede pienamente nelle potenzialità del teatro sperimentale come forma di comunicazione, con l’intenzione di fare partecipare direttamente il pubblico attraverso l’allargamento dello spazio sociale e la gestione di un linguaggio letterario “dal basso”89. Gli anni Sessanta e Settanta sono per eccellenza l’apice dell’attività roversiana, gli anni in cui si inspessiscono l’attività saggistica e la pubblicazione di articoli. Sono anche gli anni in cui Roversi è impegnato non solo in veste di sceneggiatore, ma anche di paroliere. Non a caso nel ’73, come ho già detto, viene sancito l’inizio del sodalizio tra Roversi e Lucio Dalla. Il segno di uno sperimentalismo incorporato dalla sua penna è presente anche nei testi delle canzoni per Dalla, dove Roversi si cimenta con originalità nella messa in versi delle quotazioni in borsa (La borsa valori, musica di Lucio Dalla e testo di Roversi). L’idea che avvicina Dalla e Roversi è quella di cambiare registro. Dalla vuole uscire dallo stereotipo del cantante di Sanremo e Roversi è in pieno di idee. Entrambi sono intenzionati a dare alla canzone un’impronta civile che si allontanasse dagli schemi soliti della canzone italiana di quel periodo. Roversi, nel 2005, nel dettagliare il valore culturale e politico del suo impegno, a proposito del disco Anidride solforosa, uscito nel 1975,(con il titolo provvisorio L’anno del fuoco) scrive così:
[…] il linguaggio della canzone diventava importantissimo. […] “Con la canzone si può rifare il mondo”. Tutti i cantanti importanti, anche della cultura ufficiale, sghignazzavano come dei matti. In effetti ero convinto che si potesse intervenire a concorrere, nell’ambito di una canzone ovviamente, a cambiare il mondo. Perché la classe operaia quando cantava nelle sue manifestazioni cantava mettendo delle parole molto approssimate sulla musica di Sanremo. Mentre i contadini, […], avevano le loro favole, avevano le proprie canzoni, avevano un’autonomia culturale, quindi erano autonomi rispetto al potere. Cantavano dentro le stalle, però cantavano. […] dicevano con le loro
parole. Gli operai invece no. Mettevano delle parole inventate, un po’ approssimate. [...] Allora mi sembrava fosse necessario recuperare anche la canzone nella direzione di una lotta di classe.90
L’album precedente a questo è stato quasi un insuccesso. La causa è sicuramente riscontrabile nel carattere sperimentale del disco. Per la prima volta si cantano l’inquinamento, lo smog, gli ingorghi nelle autostrade; tutti temi che non attirano il consenso del pubblico che ancora non ne percepisce l’ideologia di fondo. È musica impegnata e la gente è abituata alle canzoni sole-cuore-amore. Dalla e Roversi sono consapevoli dell’insuccesso che avrebbe avuto l’album. Ma non si fermano qui. Gli altri due dischi vengono apprezzati di più. Forse, contribuisce l’associazione del nome di Dalla a quello di De Gregori con il quale il cantante bolognese comincia a collaborare e per il quale scrive Pablo, nel 1975. In Anidride solforosa, i due osano molto. I temi affrontati traggono, prevalentemente, spunto dall’attualità come nel caso della canzone “Anidride solforosa” che parla dell’inquinamento, ma sono ripresi anche temi storici (“Le parole incrociate”, canzone dedicata al periodo postunitario) e, talvolta, fatti di cronaca nera (“Carmen Colon”). L’ultimo disco esce nel 1975, del tutto dedicato all’automobile come simbolo della modernità che si inoltra nella società modificandone il paesaggio e la gente (con la morte della civiltà contadina). Roversi scrive di Automobili:
Con una canzone (purché sia cantata in un certo modo) oggi si può infilare un coltello nella schiena del mondo. [...] Con una canzone oggi si può intanto discutere sbagliare ridere avvertire comunicare, lottare.
E conclude:
noi vediamo qua coi piedi per terra, con una nuova esperienza, con una rabbia diversa, con i suoi problemi che sono terribili ma anche con la sua volontà di capire e di vivere il futuro.91
“Con una rabbia diversa” e con la “volontà di capire e di vivere il futuro”, sono due concetti che si ritrovano anche ne I diecimila cavalli, romanzo al quale sta lavorando da un po’ di anni. È abbastanza emblematico l’intervento del 1976 dove Roversi afferma:
L’automobile non rappresenta che un pretesto per affrontare ben altre situazioni emblematiche [...]. C’è alla base un problema che mi sta molto a cuore: credo sia urgente ridisegnare la mappa dell’uomo, dei suoi sentimenti, al fine di connotarlo proprio nel momento attuale in cui la crisi del modello capitalistico, di cui l’auto è simbolo e matrice di sviluppo, ci pone nella necessità di recuperare i nostri più profondi valori, violentati ed a forza spinti nel dimenticatoio.92
E termina con queste parole:
La riscoperta dei sentimenti umani, di una tenerezza che non è il “tenerume” contrabbandato spesso dai mass-media, è impellente quanto il trattare con accenti più “di presa” i problemi evidenti che ci investono oggi. [...] Crediamo che il pubblico saprà cogliere il senso politico ed umano di questa nostra proposta.93
Automobili è il disco capolavoro del sodalizio. L’argomento di cui tratta è del tutto politico a partire da Gli scioperi del ’21 alla Fiat, Intervista con l’avvocato, fino ai grandi capolavori de la Mille miglia e, poi, Il motore del Duemila. Anche se il disco è il più venduto tra i tre, i problemi cominciano a farsi sentire; Roversi rimane deluso dalla casa discografica (infatti, per non farsi riconoscere, si serve dello pseudonimo Norisso). Per la casa discografica le canzoni non sono commerciali quindi non funzionano, tempo sprecato.Nel 1976 il sodalizio tra Dalla e Roversi, si rompe. Quest’ultimo, costante e intransigente, rimane fedele alla sua etica e alla sua visione del lavoro sempre legato alla “politica”; il cantante bolognese, attaccato alla logica del mercato discografico, preferisce tornare ad essere autonomo. Entrambi condividono la stessa idea di fondo: la canzone è, in quei tempi, la principale forma di comunicazione con cui si possono trasmettere messaggi nuovi, svegliare la gente dalla banalità delle canzonette. Tuttavia, Roversi percepisce un calo dell’attenzione, di partecipazione alle cose. In maniera sferzante muove una critica nei confronti dei giovani che riempiono gli stadi per assistere ai concerti senza però trovare un senso a questo luogo di ritrovo. Riporto una parte dell’articolo che Roversi scrive nel ’79 osservando i partecipanti ad un concerto:
Uno stadio colmo è la metafora del silenzio. […] Ecco a mio parere il punto che conta: di questi sessantamila forse neanche la metà, o a malapena la metà è lì per un ascolto. Gli altri cercano altro. Sono lì per venirci, lì per restarci, lì per sentirsi, vedersi, sperarsi, ridersi, dormirsi, lì per andarsene, ma non per ascoltare. […] Ma anche in questo momento lo stadio dove parecchi bravi personaggi cantano è un luogo pieno di silenzio, dove si cerca, – dentro al suono – proprio il silenzio. […] Proponendosi come puro ascolto, come divertimento, come privato, essa non fa esplodere più alcun giuoco e si assesta nella pienezza della sua indifferenza.94
A mio parere le ultime righe dell’articolo sono una prova inconfutabile della tragicità della realtà che in quegli anni si stava diffondendo come una malattia infettiva e che oggi fa strage di ragazzi poiché trova terreno fertile del quale approfittare:
In un tale contatto capisco come cantare possa essere da una parte molto divertente per chi canta (che non ha più alcuna responsabilità); e d’altra parte la metafora del silenzio per tanti ragazzi che sono lì come a un convegno delle streghe. Infatti questa aggregazione spasmodica non comunica più. Mercificata anche ideologicamente.95
Chi canta “non ha più alcuna responsabilità”. Questa, purtroppo, è una consapevolezza tanto vera quanto deleteria perché quello che viene cantato non trova alcun appiglio. Oggi può essere cantato di tutto così come può esserci propinato di tutto. Questo è il problema della società odierna e che Roversi individua e giustamente contesta. La società che Roversi descrive nelle sue poesie, nei suoi romanzi e ancor di più nei testi teatrali, è l’anticipazione di quello che oggi viviamo inconsapevolmente, come un cumulo di corpi manovrabili. La logica del potere capitalistico, dove uno comanda e altri eseguono abbassando la testa nonostante le alienanti condizioni in cui si è costretti a lavorare, ha contribuito a generare negli uomini l’indifferenza, la superficialità, la mercificazione dell’ideologia. Burattini in mano a burattinai.
Quindi, il ’76 è l’anno che segna la fine della collaborazione tra Dalla e Roversi. Una collaborazione proficua, densa, originale, sperimentale, decisamente innovativa in quegli anni che con fatica è capita, apprezzata, ma che oggi va riletta, ridiscussa, aggiungendo la consapevolezza della realizzazione, a malincuore, di quei testi. Il ’76 è anche l’anno dell’ultimo lavoro teatrale di Roversi con La macchia d’inchiostro, pubblicato solo trent’anni dopo, e del lungo percorso letterario che trova ne I diecimila cavalli l’approdo risolutivo dello sperimentalismo narrativo dell’autore. Anche il ’66 è un anno importante; infatti, esce su «Nuovi Argomenti» l’anticipazione dell’inizio del romanzo con il brano intitolato La lucida organizzazione del presente, testo che con minime variazioni e qualche modifica costituirà la parte iniziale dell’opera. L’uscita del romanzo inaugura la collana narrativa della casa editrice “I David”. Curatore della collana è Gian Carlo Ferretti nonché autore della “Conversazione introduttiva” in apertura del libro. La prima domanda posta da Ferretti a Roversi riguarda il motivo dell’abbandono del ciclostilato per la pubblicazione del libro. La risposta di Roversi è chiara e concisa: il ciclostilato corrisponde, nella pratica, alla ricerca di un nuovo canale di distribuzione, meno viziato dal consumo e più diretto. La sua realizzazione avviene creando una rete di comunicazione autogestita: dove si stampano, si confezionano, si impacchettano e si spediscono le opere a chi le richiede e a chi si crede fosse opportuno spedirle. Editori Riuniti gli propongono di pubblicare I diecimila cavalli ed egli accetta come “un atto di pratica politica”, senza contratto di convalida; un vero e proprio scambio libero: «Do quello che posso dare perché mi viene chiesto, da una parte giusta, quello che ho»96.
Nel 1972 (il sito robertoroversi.it indica il 1972, la monografia di Moliterni il 1975) appare un intervento, sulla rivista «Giovane Critica», intitolato I cavalli attendono che pare alludere al titolo del romanzo in questione. L’articolo tratta, sostanzialmente, ancora una volta, di un argomento ampiamente discusso da Roversi: la soluzione al problema della gestione della comunicazione risolvibile nella gestione di canali autonomi, autogestiti e rigorosamente alternativi, «fuori dalle grinfie dei signorotti del saper-tutto domenicale e delle melliflue amebe del trionfalismo reclamistico-televisivo»97. Nel proseguire la lettura, il saggio introduce il discorso sul ruolo che dovrebbe assumere l’intellettuale nei confronti dell’informazione delle masse, con lo scopo di creare una saldatura tra gli uomini della cultura e le masse. Saldatura che consiste nella ricerca e realizzazione di nuovi canali d’informazione (Roversi cita ad esempio il quotidiano «Il Manifesto»). Pur ritrovandomi molto nelle parole e nei concetti espressi da Roversi nell’articolo, noto una contraddizione di fondo. Roversi parla di essere chiari, efficaci; egli sostiene che il ruolo dell’intellettuale, sostanzialmente, deve essere quello di farsi comprendere dalle masse e non solo da “quelli come lui” ma, tuttavia, anch’egli utilizza un linguaggio particolarmente colto e, spesso, incomprensibile. Il titolo dell’articolo è una citazione di Goethe, ricordata da Fortini nella raccolta Una volta per sempre del ’63 (testo nel quale la solitudine e l’attesa sono le uniche due condizioni a cui l’uomo è costretto a vivere nell’attuale società neocapitalistica). Il libro di Fortini è un grido di denuncia alla società e trova tante analogie con il pensiero roversiano. Non a caso, appunto, l’articolo di Roversi termina ricordando al lettore, e a se stesso, di evitare di farsi schiavo della voracità delle scadenze, (oggi più soffocanti che mai), e che innanzi alla verità è necessario pazientare. Roversi conclude con una frase essenziale ma d’effetto: «ricordiamo (rassegnandoci) che non abbiamo neppure il tempo di scaricare i bagagli»98. Dunque, siamo noi quei cavalli di cui parla e siamo noi che dobbiamo saper aspettare; eppure dobbiamo muoverci. Nella “Conversazione introduttiva” dei Diecimila, Roversi spiega che il titolo del suo libro è tratto dai versi di un poeta cinese, che scrive: «Ahi/ i diecimila cavalli/ sono tutti ammutoliti». Il significato non è da intendersi nel senso che i diecimila cavalli siano simbolicamente gli uomini divenuti muti «dentro a una critica grigia o al rancore o al dolore che graffia» che si sono messi dentro «la solita situazione di disarmo [...] susseguente a lotte non definite, a contraddizioni sempre contrapposte e agli impatti imprevedibili che si propongono con una furia delle occasioni talvolta opprimente o frastornante»; ma i cavalli di cui parla Roversi sono «tutti quelli che si muovono e corrono, che operano – e scelgono di conseguenza – perché le cose possano cambiare dietro spinte continue; sono quelli che tengono duro, che durano di più, opponendosi sul piano delle idee»99 (come fanno notare Caruso e Martini, la definizione sembra sottintendere: “non più solo delle parole”100). Non sarebbe immediato trovare un’analogia tra i due discorsi se non fosse per l’allusione al titolo e per la presenza, sia nel saggio che nel romanzo, di un passo tratto dal libro Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, di Eric Dodds. Il passo è costruito sulla comparazione di due sogni: quello di Sophie Scholl, antifascista tedesca, attivista del gruppo antinazista di ispirazione cristiana della “Rosa Bianca”, e Santa Perpetua. Riporto, di seguito, la citazione di Roversi presente nel saggio:
Anche Sophie Scholl ebbe un sogno (come Perpetua, aggiungo) mentre era chiusa in prigione l’ultima notte della sua vita: le sembrava di arrampicarsi per una montagna scoscesa, portando in braccio un bambino che doveva essere battezzato; alla fine ella cadde in un crepaccio ma il bambino si salvò. La montagna con i suoi crepacci corrisponde alla scala pericolosa di Perpetua; il bambino non battezzato richiama Dinocrate, che morì non battezzato all’età di sette anni. Nei sogni di entrambe il bambino si salva, e i loro cuori materni ne traggono conforto; ma mentre Perpetua sogna un dio pastore e una vittoria simbolica nell’arena, Sophie Scholl è felice di vedersi cadere nell’abisso: la fede in un futuro miracoloso è più difficile nel ventesimo secolo di quanto non lo fosse nel terzo.
Sophie Scholl, emblema della ribellione non violenta al Reich, la notte prima della sua esecuzione annota sul suo diario questo sogno, di cui lei stessa dà un’interpretazione: «il bambino simboleggia le nostre idee… trionferanno dopo la nostra morte»101. Il sogno di Perpetua, martire cristiana del III secolo d.C., (anche lei annota i suoi pensieri su un diario), è direttamente collegato ad allusioni di tipo religioso, alla forza che la fede cristiana, in quel preciso momento storico, fatto di persecuzioni e repressioni, dava agli uomini. Entrambe le donne sono perseguitate e giustiziate ingiustamente per una colpa moralmente illogica: essere libere di professare il loro credo. Il fatto che Roversi scelga di posizionare il passo nel momento cruciale della storia, dove due dei personaggi principali dialogano su questioni filosofiche («l’uomo non è solo?»; «con chi leghiamo?»; «Il dolore è qualcosa di soggettivo?»), trova una spiegazione nel saggio. Dall’episodio emerge che la fede in un Dio, oggi è, in assoluto, la cosa più difficile e improbabile che avvenga; il contrario, per quanto riguarda il periodo delle persecuzioni cristiane. È avvenuta una rottura tra l’uomo e Dio, tra l’uomo e la religione cristiana che trova la sua origine nell’evoluzione storica e culturale. I personaggi de I diecimila cavalli sono l’emblema della rottura con il passato; essi sono senza un dio da pregare, la loro vita come la loro morte non dipende da alcun essere immortale ed Onnipotente, ma ripongono la speranza nei loro sacrifici, nelle loro azioni e nelle loro idee, con la fiducia che un giorno trionfino. Si potrebbe affermare che per l’uomo d’oggi valga la formula homo faber, come afferma Roversi:
A noi è assegnato di disfare il tempo e il futuro con le nostre mani, ricomponendolo dai suoi minuti frammenti; magari sempre cominciando da capo e magari poco per volta; ma sempre, come ci hanno insegnato e non dobbiamo mai dimenticare di essere pazienti davanti alla verità. Dobbiamo evitare di lasciarci prendere dall’orgasmo di scadenze che sono dette sempre prossime mentre nella realtà vengono di continuo rimandate, in uno scambio di ambiguità perplessa, di improntitudine magari storicizzata. Ricordiamo (rassegnandoci) che non abbiamo neppure il tempo di scaricare i bagagli.
***
3.2 I diecimila cavalli
Ho superato i monti, guadato i fiumi, come la guerra li aveva superati e guadati in un urlo insano. Ho visto l'erba bruciata, i campi riarsi... perché tanta distruzione caduta sul mondo? E la luce mi illuminò i pensieri. Nessun pensiero umano può dare una risposta a un interrogativo inumano. Io non potevo che portare un poco di pietà laddove non era esistita che crudeltà. Quanti dovrebbero avere questa pietà! Allora non importerebbero la guerra, la sofferenza, la distruzione, la paura, se solo potessero da queste nascere alcune lacrime di carità umana. Vorrei continuare in questa mia missione, continuare nel tempo fino alla fine.102
Premetto che il materiale utile per la riuscita di una buona analisi contenutistica, linguistica e stilistica del romanzo è, purtroppo, molto scarso. La densa quantità di fatti e richiami alla cronaca quotidiana degli anni Sessanta e Settanta rende lunga e difficile la ricerca che, a causa delle (maledette) scadenze, non mi ha permesso di farne un’analisi dettagliata. Sebbene pochi o nessun manuale di letteratura italiana contemporanea citi nemmeno il titolo di quest’opera, sono riuscita, grazie alla ricca monografia di Moliterni, al testo Roversi di Luciano Caruso e Stelio M. Martini, ad Antonio Bagnoli e all’utilissimo sito robertoroversi.it, a ricostruire un’analisi abbastanza esaustiva del testo narrativo.
Fare una tesi su un romanzo di questo genere presenta diverse difficoltà. La prima riguarda la reperibilità del testo. Anche se il libro è stato pubblicato da una rinomata casa editrice trovarlo non è una passeggiata. Il libro consiste in duecentosessantotto pagine, riciclate e talmente impolverate da farti bruciare gli occhi. La parte introduttiva serve al lettore per avere qualche punto di riferimento prima di leggere il testo ed essa comprende dodici domande che Gian Carlo Ferretti rivolge a Roversi. La seconda domanda è quella che potrebbe interessare maggiormente chi si accinge ad affrontare l’analisi del testo: C’è per il lettore non specialista, una certa difficoltà di approccio al romanzo, fin dall’inizio? Risposta: “Sì, c’è purtroppo. Ma più che difficile (non è certamente difficile) credo che il libro sia denso, però di una pesantezza che a me non dispiace. È possibile che si fatichi ad entrarci, ma se qualcuno arriva alla fine vorrei che ricavasse quel tanto di sollecitazione per proporsi una rilettura più filata”. Non nascondo di essermi spaventata nel leggere l’accostamento tra “libro” e “denso”, ma sebbene sia partita con poca fiducia in quello che sarei riuscita a fare, mi sono proposta di rivolgere a me quelle parole come una sorta di sfida, trasformando quella “fatica ad entrarci” in desiderio di riuscirci, seguendo, naturalmente, i consigli dell’autore. Alla base della sollecitazione di cui parla Roversi sta una questione più mirata: il lettore che legge il romanzo deve avanzare intellettualmente e razionalmente. Non si tratta di una lettura a tempo perso, dove basta immagazzinare tante parole a caso. Il significato dell’opera non è immediato; pertanto, talvolta, è necessario rileggere più volte una pagina, o addirittura una sola parola per comprenderne il senso. Il punto è che, se si desidera entrare nella storia e coglierne i meccanismi interni, bisogna avere tempo a disposizione per riflettere, confrontare e interpretare. Roversi si fa incomprensibile, quasi a voler allontanare quella parte lavativa e impulsiva che sta dentro ad ogni lettore, auspicando di fare emergere la parte più razionale. Non c’è linearità; le immagini e le metafore sono spesso destinate a rimanere «irrimediabilmente cifrate ed enigmatiche sotto il valore simbolico che spesso si estende a particolari minimi»103.
Quando ho acquistato il libro, mi sembrava di avere tra le mani un lavoro alieno al mio mondo. A partire dalla copertina e dal titolo, tutto il libro è, di primo impatto, disorientante. Il titolo è ricavato, come già accennato nel paragrafo precedente, dai versi di un vecchio poeta, citato da Mao Tse Tung e pare che Roversi l’abbia inventato osservando un quadro di un antico corteo di cavalli serpeggianti, visto a Venezia. Osservando la copertina e leggendo il titolo si ci accorge di essere di fronte ad un’opera di valenza simbolica. Il testo, infatti, abbonda di simboli; gli stessi personaggi assumono un valore simbolico. L’autore della copertina è Pino Tovaglia, designer e grafico italiano, attivo nel settore pubblicitario; nasce nel ’23 come Roversi e muore nel luglio del ’77, poco più di un anno dopo la pubblicazione del romanzo. L’immagine di Tovaglia, se la vista non mi inganna, rappresenta il simbolo del denaro ($) con la differenza che le due linee centrali terminano con due frecce; il colore del simbolo è doppio: arancione nella parte superiore e rosso in quella inferiore. Anche lo sfondo è diviso in due parti: quella superiore è tutta nera; quella inferiore, a quadrettini neri e bianchi. La doppiezza del colore e la scelta di aver posizionato il simbolo in obliquo verso sinistra – come se alludesse ad un movimento antiorario – potrebbero essere la resa grafica del cambiamento e del rovesciamento degli schemi (appunto la rotazione antioraria) che riconducono all’intenzione, interna al romanzo, di rivoluzionare il presente, di cambiarne le sorti (ricordo che «tentare la sorte» è il significato che, in Italia, assume il termine «sperimentalismo»). Le frecce delle linee centrali, come ho detto prima, sono rivolte in basso e qui azzardo un’interpretazione: il disegnatore (in base al senso del romanzo) potrebbe aver scelto questa grafica per rappresentare la caduta (frecce rivolte in basso) della logica del mercato (il simbolo del soldo), praticabile, solo, rovesciandone la sorte (l’obliquità antioraria del simbolo) e rivoluzionando il pensiero degli uomini. Questa interpretazione ha il suo perché in una delle frasi chiave del romanzo che Roversi cita durante la conversazione con Ferretti: «non è la rivoluzione che deve recuperare l’uomo ma è l’uomo che deve recuperare la rivoluzione – cioè quel bisogno di cambiare rovesciando gli schemi»104. Roversi, come ricorda il nipote, era una di quelle poche persone che la mattina si svegliava con “la volontà di poter cambiare il mondo” e, in questo caso, ha creato dei personaggi con quella stessa forza. I protagonisti del testo sono persone che, finalmente, agiscono per l’avvenire e non per ciò che è già stato (Ettore, il protagonista di Registrazione di eventi, muore mentre insegue l’ufficiale tedesco, chiaro richiamo al passato). Roversi crede che ciò che ci rende vivi e liberi sia il desiderio di fare qualcosa, di svegliarsi la mattina con la prospettiva di contribuire a cambiare le cose. Per lui noi siamo indispensabili, siamo gli unici capaci a rovesciare i vecchi schemi:
Rivoluzioni nuove avviate da uomini vecchi, con vecchie idee, vecchi mali, vecchi miti e vecchie sconfitte […] se vogliamo il progresso deciso e preciso, [...], dobbiamo volere e potere, con tutta la fantasia possibile, scalciare le vecchie utopie, correggerle, rinnovare, inventare, pensare, produrre e sperimentare tutte le cose ancora; cercando il vantaggio più rapido, più sicuro, più conveniente e meno costoso.105
Il libro può essere definito, sommariamente, in due modi: «politico» ed «epico». Lo sperimentalismo che in Registrazione di eventi è fondato sulla soggettività del protagonista, qui diviene epicità. Il romanzo è un ritrovo di eroi moderni sconfitti che, allo stesso tempo, decidono di fare qualcosa e risorgono, cambiati. La forte politicità parte proprio dai personaggi politicamente impegnati e umanamente pieni di dubbi, di ferite passate e di errori alle spalle. Non è una novità in Roversi: l’uomo, l’impegno politico e la guerra, sono la costante dei suoi scritti. Ci sono varie affinità tra il romanzo in questione e Caccia all’uomo, romanzo del 1959: in entrambi ci sono uomini che agiscono in difesa del loro territorio e della loro incolumità; chi soccombe è sempre il più debole. Non è lo stesso per Registrazione di eventi significativamente diverso dai Diecimila. Come già accennato, esso non è un romanzo epico ma altamente soggettivo poiché si concentra sulla vita di un uomo che è la raffigurazione di chi non sa dimenticare (un po’ come l’autore) e incapace di abbandonare il tragico passato, da questo talmente ossessionato, che finisce per morirci insieme. L’elemento politico e l’attaccamento ai fatti storici, passati e presenti, sono, nelle opere di Roversi, onnipresenti e svolgono sempre una funzione educativa, ma l’azione può avere due riscontri: il primo è la chiusura dentro al passato, di continuo ricordato ma che blocca l’uomo in uno stato di non risoluzione; il secondo è la spinta a cercare o creare spiegazioni a partire dal passato verso il futuro, che è lo spirito con cui tutti i personaggi de I diecimila cavalli affrontano il presente («Quello disse alla moglie: noi stasera faremo qualcosa di buono, qualcosa di diverso, qualcosa che non facciamo da tempo; noi due faremo qualcosa»106). Dopotutto, gli anni in cui Roversi scrive il suo romanzo «sono anni nodali, anni terribili e aperti, nei quali siamo richiesti di vivere con coraggio, senza riposo, ciascuno disposto a collaborare per trovare strade nuove, nuove idee, metodi nuovi, nuove risposte».107
La struttura del libro è suddivisa in tre parti: la Prima di sei capitoli, la Seconda e la Terza di otto capitoli ciascuna. La parte introduttiva è composta dalla Conversazione introduttiva, un’intervista-dialogo tra Ferretti e Roversi e da un piccolo paragrafo L’autore e la critica, in cui sono inseriti la biografia dell’autore e tre commenti critici rispettivamente di: Giorgio Barberi Squarotti, tratto da Poesia e narrativa del secondo Novecento, del 1961, di Gian Carlo Ferretti, tratto da La letteratura del rifiuto, 1968 e di Walter Pedullà, da La letteratura del benessere, 1968.
La dedica del romanzo va, ancora una volta, “a Th.” (in latino), Tommaso Campanella, il buon monaco che aveva scongiurato contro la dominazione spagnola e per questo venne rinchiuso e torturato nel carcere dei Castelli di Napoli per ventisette anni. La condizione di Roversi ricorda molto quella del frate e spesso, infatti, la ricollega alla propria, immedesimandovisi. Anche Pasolini nota questa analogia tanto da definire l’amico Roversi “un monaco di clausura” come scrive in un petalo della sua raccolta poetica Nuova poesia in forma di rosa:
Un monaco di clausura/ diventato pazzo, che cerca una clausura nella/ clausura, per rifare di nuovo il cammino già fatto,/ senza notizie biografiche, cicala nel sole della tomba,/ a trasformare livore in malinconia– comunque/ quella è la sua vita, e della sua vita/ i suoi versi sono testimoni/ che hanno senso in contesti/ di dolore/ nero.
Anche Registrazione di eventi è dedicato a Campanella ma tra i due romanzi c’è una differenza sostanziale: uno tenta di giudicare una situazione, quindi di stabilire, nell’altro si tenta di capire. I diecimila cavalli è un romanzo pieno di dolore (che è una fatica buona)108 ma dove rinasce sempre una “serenità più dura” più “vitale”. Registrazione è l’emblema della gloria della memoria, si partecipa alle cose e alla situazione del protagonista con sentimentalismo; nei Diecimila, invece, c’è il sentimento ma non c’è, assolutamente, il passato come trionfo del ricordo, o l’avvenire come una tabula rasa da riempire con quella che Roversi chiama “l’angoscia del caso”: «tutto è dentro ai fatti concreti nei quali, o con i quali, l’uomo vive»109. Come tutti gli altri romanzi di Roversi, anche questo è un libro di pellegrinaggio, di movimento, inteso alla Goethe, cioè un desiderio continuo di conquiste oltre che di ricerca («Il nostro viaggio era l’occasione per grandi speranze. Voglio dire, per una grande speranza» p. 237). Infatti il testo non è mai cupo, al massimo è “offuscato” dal fumo delle sigarette e delle fabbriche ma si illumina a tratti grazie a questo desiderio di ricerca che fa luce sul cammino dei personaggi. L’uomo non è più un’“ombra” ma un “animale all’erta che parte, gira, arriva e riparte, trascinandosi dietro pensieri e ragione”.
Passando, ora, nello specifico, al testo narrativo, l’esordio appare, di primo approccio, un condensato disordinato di fatti minuti riguardanti la contemporaneità dell’autore. Un vero e proprio potpourri di frasi, citazioni, riferimenti ad avvenimenti passati impiantati all’inizio – come una legenda – con lo scopo di creare nel lettore “piccole esplosioni di memoria”. Per capire meglio cosa siano queste ‘esplosioni di memoria’ riporto, di seguito, l’incipit del romanzo:
1) Peripeteia = rovescio di fortuna.
1 bis) E tu cosa fai per la classe operaia?
2) Violenza, repressione ed esclusione (termini psichiatrici).
3) Route, chaussee, bdl., il filo rosso e poi? [Diog. Laer. X 135]: Non esiste alcun modo di preveggenza del futuro, e se pure alcuno vi fosse, non si deve dare nessun valore agli avvenimenti [ in confronto di ciò che] dipende dal nostro volere. [V. anche Epicuro, Laterza, p. 90].
4) Forse non ci rivedremo mai più.
Puoi piangere? Credevamo d’avviarci per il meglio.
5) Mettiamocela tutta! Cerchiamo con ogni sforzo di giungere a risultati maggiori, più rapidi, migliori [e più economici] e nella costruzione del socialismo.
6) Mieux-que Dame.
Plus-que-Reine.
7) Shampo amami per essere amata.
8) «Nulla è più degno di disprezzo della stupidità delle critiche se non quella degli elogi» [D’Alambert, p. XXXI].
9) The White Horse in the Ring (1923); Picasso.
10) «Non è la rivoluzione» (a proposito delle rivolte nei campus americani)… «ma tutta una generazione, che altrimenti sarebbe passata silenziosamente attraverso questi anni di formazione, viene vaccinate contro l’autoritarismo» [9 giugno 1969, Astr. N. 19].
11) Es ist zum vergasen (mettere nella camera a gas)
bis zur Vergasung (fino alla fine, all’estremo): ha un significato innocuo.
[…]
L’uomo è tutt’al più la carcassa del tempo [Marx, La miseria della filosofia].
Mosca che brucia e l’arpa birmana.
Il filo rosso = la pietà (è la pietà).110
L’incipit del romanzo, apparentemente caotico ma con un ordine ben preciso, «dovrebbe essere un primo condensato ideologico del libro»111, dove nulla è lasciato al caso. Per esempio, la “peripeteia” (il punto “1)”) – collegata al discorso sulla copertina del libro – nel linguaggio narrativo indica il rovesciamento (positivo o negativo) della sorte del protagonista; la frase “1 bis)” è riassumibile nell’espressione “impegno politico” e “violenza, repressione ed esclusione” (il secondo punto) è un’espressione che torna più volte nel testo e cala il lettore nell’atmosfera della storia. La citazione di Epicuro, al punto “3)”, rispecchia un po’ la visione dell’autore: l’uomo è caricato di responsabilità in quanto gli avvenimenti non contano ma dipende tutto da noi, da quello che facciamo; “amami” è uno shampoo e la frase riportata al punto “7)” è estrapolata dalla pubblicità del prodotto. Al punto “9)” è citato un dipinto di Picasso, tradotto in italiano. “Il cavallo bianco nel recinto”, potrebbe essere un’allusione al titolo del romanzo: la corsa dei cavalli dentro al recinto = i personaggi che agiscono nella fabbrica o nel mondo; sotto forma di “corse” contestatarie, possono essere interpretate le rivolte dei giovani nei campus americani durante la contestazione del Sessantotto (punto “10)”), ribellione come cura contro l’autoritarismo. In pratica, un insieme di rimandi, allusioni, citazioni, riferimenti ad accaduti; e, dal punto di vista stilistico, Roversi cambia i registri linguistici, la lingua e i caratteri (corsivo, grassetto). L’incipit del romanzo è una sorta di agenda dove sono annotati una serie di avvenimenti ma anche di riflessioni, una sorta di manifesto del libro. Mi soffermo sulle ultime due frasi dell’incipit. Roversi spiega a Ferretti che il libro prende moto nel segno di due riferimenti: la violenza dell’incendio di Mosca, del 1812, che distrusse tre quarti della città e “L’arpa birmana”, un film di Ichikawa nel quale si sviluppa una storia attorno al tema della pietà. Il film è una fonte importante per capire meglio il discorso di Roversi; essa è un’opera pacifista che denuncia gli orrori della guerra e allude, sia pure in maniera velata, alla durezza dell’occupazione giapponese. La pietà, intesa come pietas latina – quel sentimento che induce l’uomo ad amare e ad avere misericordia verso il prossimo – del protagonista (Mizushima), il quale sceglie di dare degna sepoltura ai suoi compatrioti dopo che l’hanno trattato da vigliacco e traditore e per i quali ha rischiato la vita per metterli in salvo, è lo stesso tipo di pietà che Roversi adotta per i legami che nascono tra i suoi personaggi: «non una tenerezza per le cose, non una tenerezza solo generica per noi ma la vera dura grande e faticosa, direi faticata, pietà che dovrebbe segnare il rapporto civile e virile tra tutti»112. Questo concetto ci riconduce all’umanità del pensiero roversiano, (Umano, ricordo, è il titolo del suo primo romanzo che allude al testo Umano, troppo umano di Nietzsche). Roversi è umano e crea personaggi umani il cui compito consiste nel risolvere i problemi presenti facendo riferimento ai valori umani: giustizia, verità, amore.
Roversi sottolinea:
credo che la pietà, e l’esercizio della pietà, rappresenti un sentimento vittorioso, capace di caricare la nostra azione, anche e soprattutto politica, di elementi nuovi, di una tensione che ci permetta di incontrare e affrontare i problemi senza pregiudizi o falsa coscienza.113
Infatti questa pietà non è solo comprensione, è anche non avere fretta a giudicare, non concludere tutto “con la rabbia dell’insoddisfazione” ma solo se si è veramente consapevoli e convinti di ciò che si vuole fare. Il simbolo relativo a questo tipo di pietà è il «filo rosso» – citato nell’incipit – ovvero la solidarietà che unisce gli uomini. Lo scrittore esistenzialista Albert Camus parla di solidarietà nelle vesti di unica soluzione all’assurdità della vita. Senza accennare all’“assurdità”, anche Roversi, come Camus, propone questo atteggiamento come soluzione vittoriosa. Ciò che fa scattare i sentimenti di solidarietà e di pietà è, ancora una volta, l’umanità e a questa è contrapposta la disumanità che si manifesta attraverso l’egoismo, generando un’indifferenza istruita a spezzare il “filo”. Nel libro di Roversi i sentimenti abbondano, ma non c’è abbandono sentimentale (presente, invece, in Registrazione):
Discutendo parlando scrivendo adesso abbiamo bisogno, direi un bisogno urgente, di ricuperare al nostro discorso una serie di temi, di elementi antropologici che erano stati accantonati frettolosamente e con un certo snobismo squallido come deteriori, reazionari, invecchiati. […] Il discorso sull’amore, sul sesso, sulla paura della morte, inesistenti nel realismo spiritato di tanti anni, vanno recuperati uno per uno.114
I “sentimenti” e la “politica” sono, dunque, gli elementi portanti del romanzo e svolgono un compito esistenziale per ogni personaggio della storia. Ad essi si aggiungono altri temi rilevanti: la violenza del sistema, ad esempio, il quale «è (e sa essere sempre) più violento dei contestatori», si insinua tra i personaggi e vi rimane e per quanto si cerchi di combatterla, essa viene esercitata sia a livello psicologico (il lavoro come schiavitù) che a livello fisico (la violenza nelle contestazioni operaie represse dalla polizia). La «“metafisica” del potere», già insistente nelle opere teatrali («Non c’è un potere buono o un potere cattivo; il potere è corrotto»), quella giudiziaria («L’ingiusta giustizia è sorella dei potenti e brucia. In quanto una giusta giustizia non c’è» p. 101). La solitudine dell’uomo («Chi agisce, chi fa qualcosa o si propone di farlo, alle volte si ritrova solo» p. 93-94) e infine la manipolazione dell’informazione («[…] basta un taglio di forbici e la cosa detta è cambiata. Un taglio, zac. Non si capisce più nulla. Anche una pausa, che non c’era, zac e la canzone è cambiata» p. 132) che trova la sua soluzione pratica in una informazione diversa («In questi nostri anni la vera rivoluzione è solo una informazione, una informazione diversa» p. 255).
Nel romanzo non c’è una vera trama. Si può però parlare di un uomo (Marcho Marcho) e di una donna (Fraulissa) che decidono insieme di partire. Una mattina, presto, partono «andando andando, procedendo a cercare. Cominciando a farlo». I due personaggi intraprendono questo viaggio durante il quale si imbattono in una serie di incontri che cambiano la loro vita. Questo pellegrinaggio simboleggia un bisogno che si percepisce ma indefinito; la necessità di maturare, mentalmente, una posizione, poiché si è fermi in un punto morto dove non si va avanti né indietro. La scelta di Roversi, di far intraprendere questo percorso ad un maschio e ad una femmina valga in veste di rappresentazione del genere umano, in quanto tutti, sia uomini che donne, indispensabili gli uni alle altre, hanno bisogno di ricrearsi, di rimettersi in gioco. La “storia” si svolge in una megalopoli, chiamata Mariko, ritratto della tipica e temuta grande città, abitata da una società incrostata di miseria e cinismo, «soffocata dal marciume e dalla rapina» dove «individuo e Potere entrano in contatto solo per alimentare lo scontro tra un (incerto) progetto di riscatto e una forsennata repressione»115.
Marcho Marcho è il personaggio protagonista insieme alla moglie (Fraulissa); la ripetizione del nome non è casuale, sta a significare la sua necessità, continua, di essere ridefinito, ribadito. Marcho Marcho è un uomo sempre alla ricerca, non dorme la notte perché è inquieto nei confronti della vita («egli tentenna, dubita, si vergogna. Incerto (per un momento) cerca cerca ricorda chiede chiama domanda», pag. 16); la moglie è l’opposto: «Fraulissa invece dormiva con molta libertà un sonno disteso». Marcho Marcho, come ho accennato poc’anzi, è contrapponibile anche ad Ettore: non è un personaggio autobiografico, anche se più vecchio di dieci anni rispetto all’altro e, come precisa Roversi, è un uomo cresciuto e che cresce durante il suo pellegrinaggio, aggiungo; il passato l’ha masticato e il suo interesse è per le cose a venire. Tutte le volte che Marcho entra in scena compie un processo di verifica della sua consistenza di uomo e della sua costanza, «si scioglie dalle trame esistenziali e dalle immediate inquietudini cha a ogni angolo si propongono ed è o torna disponibile per la sua funzione»116.
Marcho Marcho è sposato con Fraulissa, più in disparte rispetto al marito ma, comunque, rimane un personaggio chiave, il cui nome coincide, non a caso, con quello della madre di Giordano Bruno (eretico finito al rogo). Fraulissa è una donna dura, piena e definita, pronta anche lei a mettersi in gioco. È molto curiosa e la sua curiosità porta i due personaggi a fare incontri interessanti; rappresenta il genere femminile al quale l’autore associa la determinatezza e la forza:
Miracolose per l’aria che si trascinavano dietro e come al solito sorprendenti erano le donne; arrivavano a gruppi, in ore stabilite, sapendo quello che volevano e che bisognava fare, almeno in quel momento. (p. 76)
Fraulissa, al contrario degli altri personaggi, non partecipa al tentativo di cambiare il mondo ma, come precisa Roversi, anche se non cambia il mondo, il suo destino è quello di generare figli che saranno bruciati, perché lei per prima è partecipe consapevole di una situazione aperta al contrasto e alla lotta che affronta in maniera intima e intellettuale del tutto decisiva. La loro storia d’amore è fatta di molte inquietudini, ripensamenti, stranezze. Infatti, ad un certo punto della storia, nella situazione meno opportuna ma allo stesso tempo simbolica, nel trambusto della lotta tra operai e polizia, Fraulissa lascia il marito senza un’ombra di spavento, senza nessun rimpianto per poi tornare, più avanti, sui suoi passi. Il loro rapporto è ellittico, tempestato di ambiguità, si lasciano e si ricongiungono di continuo, segno dell’instabilità dei rapporti contemporanei: «basta niente, al giorno d’oggi, per interrompere i legami, le buone amicizie, solidi amori. È diventato difficile vivere insieme, cioè continuare a vivere insieme» (il pensiero è di Marcho, p. 94). Eppure, il nostro protagonista è l’uomo con le valige in mano, moralmente troppo inquieto e troppo razionale per darsi alla disperazione quando finisce un amore. Infatti, alle parole «ti lascio» di Fraulissa, a parte la “sorpresa” iniziale, non ha reazioni eclatanti, razionalizza presto l’accaduto:
era inutile chiedere o chiedersi “che cosa ho fatto”, un addio non è la morte, una separazione non dipende necessariamente da una colpa. […] Semplicemente è accaduto. (p. 94)
In ogni caso, alla base del loro legame c’è amore (prevalente in Marcho Marcho) e questo sentimento rimane l’unica speranza in ogni circostanza:
Pare solo possibile ascoltare il respiro della moglie. Che soddisfazione umana, personale, privata. Una corda che lega, una creatura viva, un raggio di luna. Dolce tenera perfetta. Tutto il resto è cancellato dal sonno.
A fare irruzione nella storia è Nice, un altro personaggio portante nella storia. Nice è «l’altro o un altro»117 ma comunque necessario; potrebbe essere «l’uomo che viene dal freddo», uno straniero qualunque portatore di guai. Roversi lo indica come «controspalla del discorso generale nel libro»; colui che dà scansione al discorso e che entra ed esce in momenti precisi. Nice è anche la presenza della Germania che, ancora una volta, persiste in Roversi. Il “tedesco” è il ritorno più ossessivo al quale Roversi vuole dare spazio, vuole ricordare: a volte in maniera rabbiosa come per Schumann di Registrazione di eventi, o in maniera dolorosa come ne “Il tedesco imperatore” in Dopo Campoformio, altre volte per mettere in allerta, per ricordare che la tirannia può tornare anche sotto nuove vesti come nel caso del terribile imprenditore Adolfo di Unterdenlinden. La sua prima comparsa introduce il tema del tempo, in questo caso del futuro:
[…] arriva Nice, si siede, si può stendere le gambe e avviare un discorso, tirare una boccata d’aria; ricomporsi; cominciare a parlare; si può pensare al futuro. (p. 10)
Nice è il personaggio delle citazioni dotte, dei discorsi intellettualistici, dei riferimenti storici, è il tipico stereotipo del tedesco: preciso e conciso. Ci sono due concetti molto importanti che Nice esprime e che danno l’idea della serietà della sua funzione:
«il crocianesimo di Gramsci – dice Nice – è una metafisica autentica, profonda, dolorosa»
e una delle frasi chiave del romanzo:
non è che il marxismo sia in crisi; sono in crisi le interpretazioni del marxismo; gli abiti delle quattro stagioni, stracciati dall’uso; ma il torso di legno rimane; soprattutto resiste (p. 11).
Questi due concetti sono espressi da Nice (è una stranezza che li pronunci un tedesco) durante un mini dialogo con Marcho Marcho che lo incalza e ne condivide le scelte. Nice è in procinto di abbandonare l’Italia perché ne è rimasto deluso. Emigra da Berlino per venire in questo bel paese, speranzoso di trovare gente viva e invece trova solo gente morta: «un pallone gonfiato-sgonfiato e poi la sinistra italiana. All’estero è mitica se ne parlava. Piena di idee. Adatta alle circostanze» e invece è «pronta per il sacrificio ad autoalienarsi» (p. 13-14). La struttura del dialogo è insolita, come la maggior parte dei dialoghi del romanzo, è completamente slegato dalle norme tradizionali a cui è abituato il lettore. La punteggiatura è usata in maniera personale, talvolta non viene segnalato “chi parla” e “chi risponde”. Il lettore, infatti, rischia facilmente di perdere il senso del discorso. Roversi, uscendo dagli schemi tradizionali e sperimentando questo nuovo modo di comunicare, vuole esprimere la frantumazione del mondo. Il mondo frantumato in cui vivono questi personaggi (che siamo noi) è la causa delle loro insicurezze. Prosegue, così, Nice: «ho bisogno di appoggiarmi, non sentirmi finito. Addio Italia». La provvisorietà dell’Italia è ribadita da Marcho Marcho: «tutto da noi è poco tecnico, provvisorio. Poco sicuro. Non c’è niente di concreto» (p. 14), (Roversi è sempre molto attuale, o forse è l’Italia a non cambiare mai?).
Nonostante la frantumazione del discorso, della struttura narrativa, del linguaggio, ad ogni azione distruttiva Roversi fa corrispondere un’azione costruttiva, come dice Moliterni, per ogni momento critico esiste uno spunto progettuale:
Questa frammentarietà, questa situazione incerta tra la frantumazione e la costruzione, nel libro è indicata di proposito […]: si sta abbattendo qualcosa; qualcosa è demolito o frana e altro si fa crescere o cresce o si preannuncia in mezzo a mille fatiche.118
L’esigenza di fondo che accomuna tutti i personaggi è l’insoddisfazione nei confronti della vita e della miseria del mondo. Il fine è quello di informare il lettore sulla tragica situazione attuale servendosi di personaggi stereotipati che usano un registro linguistico talvolta basso (anche il dialetto), altre volte alto e colto, in modo tale da rendere realistica l’immagine del mondo. Ognuno dei personaggi sente il bisogno impellente di riaffermare il «dovere di vivere» liberandosi dal malessere che il sistema infligge all’uomo alienato, preso in giro e derubato della sua dignità.
A proposito di dignità rubata, ci si imbatte nella figura del calabrese, il padre di famiglia, grande lavoratore (operaio), voce del popolo, offeso dall’oppressione esercitata dal padrone;uomo dal carattere antagonista e dai sentimenti puri che fa «discorsi che toccano il cuore», (ritorna la Calabria e il meridione, che qui assume addirittura valore simbolico). Il calabrese parla senza mezzi termini e protesta tutte le volte che occorre («è difficile difendersi dal prepotente, più difficile ancora difendersi dal potente, il quale è prepotente due volte e ha il cortello dal manico» p. 72). È il personaggio più spontaneo della storia, forse anche il più scurrile, ma di certo non cattivo. Colui che non si nasconde sotto false apparenze, combatte per i suoi diritti e per quelli dei suoi compagni lavoratori. L’entrata in scena del calabrese introduce la questione della lotta operaia contro il padrone imprenditore (nella storia si chiama Poldi) e lo scontro irreversibile con la polizia. La protesta operaia introduce il tema della speculazione mafiosa:
Il problema – diceva a voce alta un giovane appena uscito dalla tenda – è per una volta molto semplice e molto chiaro; così chiaro e semplice che la mobilitazione popolare è stata spontanea; segno che ai problemi reali ci sono risposte concrete, cioè politiche. Questo è il terreno di Poldi, laggiù è una delle fabbriche di Poldi che di fabbriche ne ha tante qua e là anche per il mondo; […] una casa tira l’altra, la speculazione produce speculazione, tutte insieme a catena esplodono e si rinnovano sicché il quartiere è diventato quello che vediamo; quello che è; […]
quello che non vogliamo
[…]
Ebbene il quartiere fra un male e l’altro, è cresciuto fino a diciottomila anime e abbiamo:
una scuola per bimbi duecento
nessun doposcuola
un medico condotto a mezzo servizio
nessun centro che ricrea né un luogo per il cervello
ventidue negozi di barbiere
quindi se il buon Poldi vuol speculare e specularci su questo terreno di Poldi si sbaglia; qua vogliamo e facciamo una scuola.
Roversi esprime la sua riflessione teorica e politica attraverso la voce frammentaria e discontinua di ogni singolo personaggio che comunica l’incertezza e la precarietà di tutto il sistema di riferimento marxista:
[…] c’è la forza nuova del movimento operaio, naturalmente; ma io la sento in movimento, tutta inquieta e giustamente inquieta perché si sta organizzando e riorganizzando, scoprendo vuoti o riempiendo vuoti e adattandosi alle grandi novità, alle necessità del momento.119
Attorno alla vicenda si sviluppano molte riflessioni e ciascun personaggio esprime a modo suo l’impegno per trovare una soluzione al problema. Nice, che ha sempre una risposta razionale a tutto, dà una buona spiegazione della situazione e offre una soluzione:
«[…] non c’è più specializzazione (che si può sempre definire e circoscrivere e che lascia in minoranza: di fare quello e sol quello) ma un eclettismo di panzer e gelati, più spregiudicato e in ascesa; […]»
«il fatto è che i biscotti sono duri quanto i cannoni, magari pericolosi quel tanto. Non si sa come dire. Eppure anche tu li mastichi con i dentini da bimbo»
«questo è il punto. Gli altri si aspettano questa rinuncia a pensare. Lo scoraggiamento è una loro forza crescente […]»
«allora?»
«bisogna mettere gli altri di fronte a fatti compiuti; a qualcosa che non possono immaginare, che non hanno saputo prevedere. Anche fatti astrusi, autentiche amenità. Sorprese.»
«andare al lavoro in mutande»
«pisciare negli angoli»
[…]
Bisogna fregarsene del calcio gioco da signori […]. Bisogna fregarsene della caccia con tutto ciò che consegue. Non comprare tuta e scarpone né il fucile Beretta liberato dalla forza dell’esempio.120
Lo scontento generale, i discorsi che fanno riflettere, i giovani che muoiono ammazzati come mosche contribuiscono a fomentare gli animi, ormai, disillusi degli operai. La storia assume carattere contestatorio e violento come violenti sono gli anni in cui scrive Roversi. È chiara l’allusione al movimento del ‘68. A proposito del Sessantotto, in un’intervista del 1990, Roversi afferma:
Dissentivo dalla precipitazione che sottostava al tutto e subito, una formula, una autentica arroganza che non era rivoluzionaria… in realtà era stata formulata da borghesi… ma soltanto scriteriata […] il popolo che fa le rivoluzioni che contano e servono, conosce solo la pazienza feroce, la calma inesorabile, i denti contro il tempo… ma riprendo e dico che quella formula da cartellone pubblicitario, oggi, allora sconvolse per un po’ di tempo i termini della possibile riflessione inquinandola di un avventurismo micidiale. Io intanto mi arrovellavo in deduzioni più allargate […] e queste deduzioni cercavo di collegarle alla metodologia generale di lotta che vedevo impostata in quegli anni sdipanando la stampa qualche mia personale argomentazione, nei vari fogli. Scrivendo.
Quello che Roversi critica al movimento sta nel modo in cui è stato combattuto, infatti continua:
quella violenza che si andava proponendo e che la lotta armata divenne, poteva soltanto autorizzare la violenza contrapposta dello Stato, con i risultati di una inevitabile sconfitta sul campo e il conseguente affossamento di ogni straordinaria utopia121.
Una violenza ignobile perché feroce ma infruttuosa, uno spargimento di sangue inutile. Per questo, nel testo, Roversi affida il compito di spronare la classe operaia, al più competente, Nice, affinchè essa si informi, si faccia una cultura («bisogna convincersi che un tipo di cultura generale è necessaria ad una comprensione del mondo in cui si vive. Noi cari compagni dobbiamo essere in grado di dare risposte adeguate; ho detto risposte adeguate» p. 74).
Riporto, di seguito, l’efficace descrizione della ferocia del movimento contestatorio:
Partono i primi colpi, tesi; sibilano tirandosi dietro una scia di fumo. Si sentono voci pianti invocazioni che non mancano mai e che mettono i brividi. […] Ognuno dei partecipanti seguiva il proprio destino anche in quell’occasione. Chi correndo cadeva era sopraggiunto scalciato bastonato strascinato arrestato. Sputavano in faccia, dicevano troia alle donne, palpavano le tette alle ragazze prima di scaraventarle sui cassoni. I più giovani correvano, i vecchi si lasciavano afferrare (si lasciavano morire afflosciandosi a un tratto). (p. 84-85)
La storia procede in un’atmosfera caotica tra proteste violente e morti casuali. La fabbrica di Poldi chiude e gli operai rimangono senza lavoro; Poldi muore suicida (o così pare) ma la morte sembra coinvolgere personaggi ancora più potenti di lui. Si tratta dei “cinque fiumi infernali”, figure simboliche che rappresentano i cinque poteri economici (ne parlerò tra poco). Fraulissa e Marcho Marcho sono ripetutamente chiamati dalla giustizia, (simbolicamente rappresentata da dei “fagiani dorati”), a testimoniare sulla morte di un giovane. I due protagonisti sono coinvolti in veste di testimoni dell’accaduto e un altro giovane viene incolpato dell’omicidio. Dietro il presunto delitto (in realtà accidentale), si nasconde la forza della polizia, i “persiani”, gli oppressori, i veri omicidi del giovane, difesi dalla “giustizia ingiusta” per interesse di potere.
Entra in scena un volto nuovo, Nello Savore. Roversi lo descrive così:
Nasce e lotta e muore e poi torna a vivere e a lottare; sempre vivo dentro la stessa lotta; ha sette pelli e un fuoco che è fuoco, cioè quel fuoco. È veramente l’eroe popolare che arriva ed appare subito per quello che è; rappresenta, la voglia di vivere di tutti, e la loro voglia di lottare, la loro impazienza, il loro amore alle cose – che è generoso.
Nello Savore investe il ruolo del carismatico; è sicuro di sé, fa da mediatore tra gli uomini, diffonde solidarietà. L’emblema del suo compito sta in questa frase: «Dice Nello Savore: “Fuoco o non fuoco faremo il necessario. Lo faremo subito insieme. Siamo qua per questo. Cose fatte, altre da fare. Perché sono lì che chiamano e fischiano» (p. 268). È l’uomo che arriva nelle situazioni d’emergenza e che rappresenta gli altri, ne dirige umori, voglie, necessità. Egli parla per gli altri, dà supporto psicologico, ideologico e pragmatico. Infatti è il personaggio che, nella storia, va viene ritorna muore ed è ancora vivo; è una presenza essenziale. Nello Savore muore ma ricompare in corrispondenza alla morte del figlio del calabrese, ucciso da proiettili volanti della polizia; il suo ritorno coincide con il bisogno di sostegno morale che richiede la situazione. Il personaggio non abbandona mai i suoi amici, un po’ come un pastore le sue pecore...
Tra i protagonisti del romanzo ci sono alcune figure altamente simboliche che hanno il ruolo di rendere ancora più esplicita la problematicità dell’opera. Di sopra, ho riportato la descrizione che Roversi dà dei “diecimila cavalli”, ovvero coloro che non si abbattono di fronte alle delusioni e che continuano ad operare perché le cose possano cambiare sul serio; sono le colonne di marmo della nostra vita che ci fanno da scudo quando siamo più deboli o quando agiamo da ignavi. I diecimila cavalli sono esattamente l’opposto, come afferma Roversi quasi alludendo a qualcuno in particolare (forse l’amico/nemico Fortini?), di quegli uomini che
si sono ammutoliti dentro a una critica grigia o al rancore o al dolore che graffia, o si sono messi dentro la solita situazione di disarmo non soltanto apparente; disarmo susseguente a lotte non definite, a contraddizioni sempre contrapposte e agli impatti imprevedibili che si propongono con una furia delle occasioni talvolta opprimente o frastornante.122
Si potrebbe azzardare una comparazione tra i diecimila cavalli di Roversi e i “Diecimila”, il gruppo di soldati mercenari assoldati da Ciro il Giovane per usurpare il trono di Persia dal fratello Artaserse II, di cui parla lo storiografo Senofonte in Anabasi. Infatti, Roversi, nella conversazione introduttiva, quando si accinge a spiegare a Ferretti chi rappresentino, nella storia, i «persiani», cita Senofonte. I persiani di Senofonte, come quelli di cui parla l’autore, sono gli oppressori; sono tutti coloro che opprimono, sotto un esercizio criminale e lubrico del potere, i poveri e i deboli, in pratica, chi non è come loro. Gli altri personaggi simbolici sono i «fagiani dorati», ovvero la “giustizia ingiusta” (nel caso del romanzo sono il giudice e gli avvocati) e infine i «fiumi infernali», i cinque simboli del potere economico nel mondo capitalistico. Ognuno ha la sua maschera ben definita, ma tutti sono uniti da uno squallido interesse. Queste figure appaiono per la prima volta durante una cena, organizzata da uno di loro, Stiebeling, momentaneo datore di lavoro di Marcho Marcho, invitato anche lui. È proprio Marcho Marcho a descriverli. Non vengono segnalati i loro nomi veri ma sono descritti per somiglianze: Stiebeling è il finanziere siculo arricchito, «uno degli ometti che fregano (con dolcezza, uguale a una tela di ragno controluce) e finiscono per uccidere o per distruggere in questo modo succhiando sangue giorno per giorno; e lasciando gli altri spompati, con la medaglia vermeille da veterano sul petto - e con un sorriso da fesso»; un altro è un petroliere e assomiglia a Charlot da giovane, con i baffetti, minuto e lindo, per questo soprannominato “Charlot del petrolio” («è un uomo che ha il cesso in piastrelle azzurre e lo sciacquone in oro» p. 265); “Il boxeur” è un industriale, abita a Milano ed è terrorizzato dal freddo e dallo spionaggio industriale; poi “il finanziere”: «alto e magro, ballava dentro alla giacca e alle braghe, alla camicia e alla cravatta; parlava in fretta poiché, da persona esperta, voleva lasciare l’impressione di dimenticarsi ciò che volva dire»; e infine “il pescatore”, il nemico pubblico numero uno, «pacifico, accorto, col faccione depilato e lo sguardo di uno che è tenuto a dieta, alto e di conseguenza enorme […] che evita di parlare quando è al chiuso, perché al chiuso egli dice le parole fanno fumo e appestano mentre le parole appena dette devono volare via via lontano. Bisogna dimenticarle» (p. 110-111). Ognuno di loro rappresenta, a sua volta, uno dei fiumi della mitologia greca e romana: Acheronte (simboleggia il dolore), Cocito (il lamento), Flegetonte (il fuoco), Lete (l’oblio), Stige (l’odio). L’umanizzazione dei fiumi infernali è voluta dall’autore per dare l’idea della meschinità delle azioni dei cinque personaggi. Ognuno di loro non dà tregua all’altro, si spingono alle spalle, cercano una solitudine ben custodita che li difenda e un comune accordo che possa arricchirli sempre di più. Sono personaggi che confabulano sotto sembianza umana, ma che non sono uomini, sono fiumi sempre in piena che allagano i paesi, distruggono le case, speculano sul denaro degl’altri; essi sono il Potere corrotto. Anche i loro difetti fisici sono stereotipati: “grandi piedi”, “piccole mani”, “occhietti”, “nasi adunchi” tutte caratteristiche che si associano ai ricchi, ai ladri, ai furbi, a coloro che si arricchiscono in maniera disonesta.
Dal punto di vista morfologico, è rilevante la presenza ricorrente di parole-chiave. Il fuoco è una di queste e ha funzioni molteplici: gli operai accendono il fuoco per scaldarsi nel gelido inverno, di conseguenza unisce gli uomini (attorno al fuoco si formulano concetti e si prendono decisioni fondamentali). Tuttavia, il fuoco, può essere utilizzato per scopi ben meno nobili: per incendiare il bosco, per costruirvi nuove industrie, palazzoni; il fuoco, anche come “arma” da fuoco, ad esempio: le armi dei persiani usate per le repressioni operaie. La neve, sempre silenziosa, copre lo sporco e seppellisce il marciume umano ma quando si scioglie è segno che il duro inverno è ormai passato, ovvero le difficoltà sono sorpassate ed è tempo di una nuova primavera. I rumori della megalopoli, delle industrie, delle macchine, del presente. Il fumo, simbolo dell’industrializzazione che incombe e che ammala l’uomo, che intossica ogni specie vivente; il fumo delle fabbriche, ma anche il fumo delle sigarette; il fumo confonde le cose, annichilisce in maniera confusa. La pietà è il sentimento che dà significato alla vita umana, l’anello di congiunzione tra uomini diversi ma destinati ad un unico futuro da salvare, prima che l’indifferenza trasformi tutti in “zombie” (come direbbe Carmelo Bene). Il sangue rappresenta la fatica con cui ci procuriamo le nostre vittorie. La morchia, che nel linguaggio specifico corrisponde al residuo grasso di certi alimenti o sostanze, è qui usato per descrivere la sporcizia della megalopoli:
La città si è trasformata, [...] ricettacolo di speculazioni compiute da gentiluomini che hanno galvanizzato l’ambiente; pertanto da una parte e dall’altra s’alzano palazzi e palazzoni grondanti morchia i quali davanti hanno uno spiazzo come un campo di marte, asfaltato, senza un albero, senza aiuola, senza un sasso, senza una panchina; un luogo di incontro per il vento quando c’è vento il vento. (p. 55)
Questo aggettivo rimanda anche al suo senso figurato di rifiuto, di marciume della società. Le parole-chiave colpiscono a riprova dell’unitarietà, della circolarità, dell’“interminabilità” della scrittura di Roversi. Non solo ricorrono sistematicamente in questo testo, ma anche in altre opere dell’autore, ad esempio, nelle poesie (ne “L’Italia sepolta sotto la neve”, dove appaiono diverse delle parole-chiave citate), nei testi teatrali, negli interventi saggistici («perciò mi dico che uno scalcagnato ulisse italiano che era andato seduto buttando fuori morchia come un cargo in avaria, può e deve guardare agli anni degli anni e dunque a quegli anni con un poco di onesta pietà – e anche con un po’ di tenerezza (che non è mai volgare)»123) e nelle canzoni (“Nevica sulla mia mano”124 verso de La canzone di Orlando, il famoso verso che colpì Lucio Dalla e la canzone “L’inverno è neve l’estate è sole”, entrambe nel disco Il giorno aveva cinque teste; “Neve non c’è, il sole c’è, nebbia non c’è, il cielo c’è”, un verso di “Ulisse coperto di sale” nel disco Anidride Solforosa, e in altre ancora). È interessante riportare qualche periodo del dattiloscritto che Roversi compone per presentazione di Anidride Solforosa, che inizialmente doveva chiamarsi L’anno è un fuoco. Il dattiloscritto dettaglia il valore culturale e politico dell’impegno di Roversi. Ecco un altro modo con cui l’autore utilizza il termine fuoco:
L’anno è un fuoco sta a significare l’ossessione di questo tempo, i vari inganni, magari una residua tenerezza che va scovata; ma soprattutto la sua inarrestabile violenza. Così, proprio il modo e il suono della violenza – la violenza che si vede e si conta però non si tocca, e la violenza nascosta che taglia- è il tema che unisce lega trattiene insieme queste canzoni. […] La violenza del mondo non è soltanto la guerra, l’urlo delle città, il coltello pronto nella mano, la sagoma dell’ombra; ma è la nostra violenza, la nostra giovinezza, la nostra solitudine, l’incertezza, l’abitudine al sospetto, il nostro cuore di mercanti o di piccoli e frastornati (disperati) giocatori.
Nel dattiloscritto del 1975 sono già espresse la maggior parte delle premesse per affrontare la lettura de I diecimila cavalli.
Ora, passando all’apparato linguistico dell’opera è evidente come sia, ancora una volta, la materia linguistica l’essenza dell’opera, il cui impasto è in essa portato ad una densità mai raggiunta prima. Si può affermare che l’opera sia il resoconto di un’intera esperienza letteraria e, in particolar modo, di quella che nelle Descrizioni in atto è espressa con grande maturità:
La cultura, la letteratura, il linguaggio in generale, sono definitivamente esplicitati, come nelle originarie intenzioni metodologiche dell’autore, nella loro funzione-base di “materiali”, componenti del reale, strumenti critico-conoscitivi125.
Roversi attinge da tutto l’apparato linguistico esistente e, in maniera “scientifica” e “sperimentale”: trasforma il procedimento tradizionale della citazione testuale («Sul muro hanno scritto: “sempre coraggio e tutto sarà niente”», citazione di Alcide Cervi); applica la tecnica del pastiche (‘la povera, buona, vecchia lingua italiana’, tratta dal risvolto di copertina di Dopo Campoformio, nell’edizione feltrinelliana) e monta insieme diversi piani linguistici dalla provenienza più disparata (utilizza il termine latino “ratio” al posto di “ragione”, l’espressione latina “exit de vita mea”, l’espressione spagnola “En este logar se acaba esta razon”, il termine inglese “police” ecc.) al fine di rovesciare nel testo elementi espressivi, pensieri, parole e suoni del presente. Colpisce, inoltre, la disinvoltura con cui l’autore stravolge la lingua dal punto di vista sintattico, attraverso l’uso dell’anfibologia. Per sottolineare il variegato tessuto linguistico riporto questo esempio:
Le prime botte col sfollagente calarono sulle schiene alle ore 15,17, all’inizio della piazza, di fronte al civico N. 19. Gli uomini addetti procedevano come un biscione dondolando in un muro di petti cosce caschi scudi; si imbattevano negli altri “indietro, avanti” “avanti” “sfollare” “non sfollare” “bastardi, indietro” “bastardi avanti” […]. Tutto c’è dentro gli occhietti gialli neri, rossi-neri con la pupilla del tutto spenta – suonare, suonano; colpi e colpi di tromba, colpi di bastone, tic tac toc spalle tic tac toc sulle schiene tic tac toc sulla testa sulle testa le chiappe – senza canceddu e vecchi senza sangu – man mano incattiviscono frastornati dall’odore del sangue delle gride dei gemiti.
Da notare sono: l’utilizzo della scrittura in cifre dei numeri; la violenza mischiata alla carnalità nell’espressione “procedevano come un biscione dondolando in un muro di petti cosce caschi scudi”, omettendo parte della punteggiatura. In questo passo è presente anche l’uso, frequente nel romanzo, della figura onomatopeica (tic tac toc) e del linguaggio dialettale. Un’altra caratteristica linguistica di Roversi è il passaggio dalla prosa alla poesia, come succede all’inizio del II capitolo della Prima parte. Marcho Marcho sta uscendo per andare in banca:
[…] Dunque andò in banca, in quella banca e
Tu credesti Marcho Marcho
Che la liga te temesse
né già mai ardire avesse
oltre dada far il varcho. Quello disse alla moglie: noi stasera faremo qualcosa di buono, qualcosa di diverso, qualcosa che non facciamo da tempo; noi due faremo qualcosa.
[…]126
Il discorso è rappresentato in maniera sconnessa, si passa da un concetto ad un altro, da un’azione ad un’altra. Talvolta le frasi sono lasciate in sospeso, ne viene omessa la punteggiatura, così il lettore deve immaginarsi che al posto del bianco ci sia un punto o un punto e virgola o una virgola, come in questo caso:
[…] e poiché lì il vecchio abitava
Fraulissa picchia col battente, entrano raccolti nella penombra che sa di cantina. È un altro mondo, la vita presente sembra scappi a gambe levate, si resta per un momento intontiti, con l’ansia di ripartire subito.(p. 21)
Un altro particolare interessante, a proposito della punteggiatura, è l’uso che Roversi fa della parentesi, un uso al servizio di un’intenzione e non rigorosamente sintattico. Eccone un esempio che ricorre sistematicamente nel romanzo:
«[…] Certe cose, soprattutto le cose importanti, a un certo momento finiscono per livellarsi, per elidersi a vicenda e non si possono sbandierare neppure a se stessi; cosa dico? A un certo momento nessuna cosa ha più interesse. Niente: uomini capre idee (Fraulissa aiutami); sono vecchio, posso morire; anzi devo morire. Quassù neanche l’ora dell’agonia servirà a scrostare la muffa dalle pietre. Tutti si lasciano sprofondare turandosi il naso (Fraulissa aiutami)». (p. 24)
“Fraulissa aiutami” è quasi sempre tra parentesi (a volte tra le lineette) e appare con insistenza (ben dodici volte). Questa richiesta d’aiuto è pronunciata, inizialmente, da un vecchio che Fraulissa e Marcho Marcho incontrano all’esordio del loro percorso. Il personaggio, secondario nella storia, giustifica la sua presenza nel rappresentare l’incontro con la morte: la paura della morte e della solitudine (l’incontro tra i tre è introdotto in questo modo: «Avignimento (de la morte) = venuta (di essa morte)». Questo piccolo episodio è, in sé, sostanzioso dal momento che introduce questioni di grande spessore. Il vecchio raffigura: la memoria, in quanto cerca di mantenere vivo il ricordo dei propri antenati («poveri morti, mal custoditi mal difesi dalla memoria dei sopravvissuti. Si prova soltanto pietà; puoi rivestirli di metafore o illustrarli col blasone ma i moti restano morti per sempre» p. 24), la vecchiaia (durante la conversazione tra i tre il vecchio racconta sempre la stessa storia dimenticandosi di averla già detta) e la solitudine («è lì che aspetta; nella sua solitudine aspetta di essere trovato; allunga le braccia, fa un cenno, schiocca le dita; in definitiva di offre; dentro al petto si rallegra» p. 20).
“Il vecchio della storia”, come viene chiamato, esprime con queste parole lo sdegno per il nuovo mondo:
Sono un uccellaccio appollaiato sul tetto; dalla finestra vedo le cose, ne vedo alcune, assisto a uno sfacelo, alla lotta del mondo – un polverone. […] Non capisci se stanno costruendo o demolendo. […] Di giorno non si riesce a riposare per la paura che il mondo da un momento all’altro finisca.
Non si può dormire perché tutto può capitare dentro a queste stradine, in un paese scancellato dalla carta geografica. […]
E conclude così:
Vedo che anche voi fuggite.
Non vi dico di restare ma la casa è la vostra casa, il tavolo il letto sono vostri.
Si scopre che il vecchio è un asceta «autoconfinatosi per scelta libera e dopo una vita molto piena conclusa con questa tappa» che, con questo programma di autoriduzione o autodistruzione, è riuscito a beffare tutti. In questo senso il personaggio ricorda Roversi. Come il vecchio anche lui, volontariamente, ha scelto di restare fuori dal mondo troppo marcio, corrotto e conformato alle regole del mercato. È Roversi, dopotutto, che aveva severamente consigliato al giovane leccese, desideroso di fondare una rivista a Bologna, di combattere la sua lotta nel suo paese, la stessa cosa che il vecchio “asceta” consiglia, tra le righe, ai due protagonisti. Ogni paese dovrebbe essere curato da chi lo abita anche se rimanere in mezzo a questo marciume non è piacevole («in mezzo a questo marciume si crede di progredire, con gli auguri degli uomini che ci comandano e che hanno solo quell’odore di cimitero. Guardateli in fotografia, gonfi come rane» p. 27). Il vecchio muore dopo aver spento la sigaretta (un gesto rituale):
così è arrivata l’ora in cui si può morire con un residuo di determinazione e chiudere l’occhio senz’altra incombenza e non avendo scrupoli poiché si unisce la stanchezza di anni a una conclusiva rassegnazione (p. 27).
A chi combatte, la pena da scontare, è la solitudine. Chi decide di non farsi trattare da schiavo e va contro il suo padrone, difende la propria dignità, ma chi non si ribella all’oppressore difende chi opprime. Dice lo scrittore Silvano Agosti: «il vero schiavo difende il padrone, mica lo combatte. Perché lo schiavo non è tanto quello che ha la catena al piede quanto quello che non è più capace di immaginarsi la libertà»127.
A metà del libro emerge il punto nodale della storia. La sequenza che prendo in considerazione sviscera una serie di riflessioni filosofiche, a partire dalla frase di Marcho Marcho: «Sento, diceva Marcho Marcho a Nice, di essere non so se a un punto d’arrivo o di partenza. Certo sono con una valigia in mano» (p. 133). La condizione in cui si trova Marcho Marcho è di incertezza, non è più inquieto e non si sente solo. È arrivato il momento di lasciare il passato (dice Marcho Marcho: «Mi scollo un po’ per volta dal passato»), di abbandonare la “nave”, ovvero la vita passata, e attendere il momento per i gesti definitivi dai quali non si può più tornare indietro. Come quando i cavalli attendono prima di una gara, anche i due personaggi aspettano il segnale di partenza. I due si ascoltano, si confrontano in un dialogo metaforico e camminano per il viale ricoperto di neve («i fili dell’alta tensione sono inclinati fin quasi a terra, come le code tirate degli acrobati motociclisti»). Ricompare il paesaggio degradato della città, Roversi carica il suo linguaggio di indignazione e cala il dialogo in un’atmosfera angosciante:
[…] Tutto era spettrale da una parte all’altra; una pianura chiusa nei suoi ghirigori di freddo e di filo spinato, di capannoni merci. Niente dava respiro.
Man mano che si entra nel cuore del dialogo, il linguaggio diventa filosofico e i personaggi esprimono una serie di domande tipiche del discorso filosofico esistenziale: «l’uomo non è solo? Dove sta la concordanza che lega questa sua solitudine, e questo suo silenzio, all’altra solitudine e all’altro silenzio? Alla solitudine dell’altro, al silenzio dell’altro? Dove sconfinano?». È bene sottolineare e ricordare la natura filosofica degli studi di Roversi e l’amore per tale disciplina. Il suo pensiero, infatti, segue il procedimento filosofico: di fronte ad un problema si risale alla sua origine, lo si analizza e se ne trae, infine, una soluzione. Questo spiega il forte legame con il tempo, altro tema portante dell’opera dello scrittore bolognese e della sua filosofia, collegata al materialismo dialettico di Marx. Infatti, nel pensiero roversiano c’è molta dottrina marxista che concepisce la storia in base allo scontro tra gli opposti: le contrapposizioni della realtà non trovano conciliazione in un principio superiore, Dio, ma nella storia e l’esito finale è immanente al riscontro dialettico tra le classi sociali. Roversi è costantemente alla ricerca della verità; il suo discorso parte sempre da una ragione passata, crea un legame con quello che ci appartiene, ha fiducia nel futuro del passato e utilizza la memoria per vivere nel presente. A questo punto, si giunge alla domanda centrale che percorre tutti gli eventi, i dialoghi, gli incontri tra i personaggi: «Con chi leghiamo? E soprattutto dove leghiamo? In conclusione: c’è qualcuno con cui legare?» (p. 135). La risposta, come afferma Moliterni, sta nella volontà di ciascun uomo di fare qualcosa («qualcosa merita d’esser fatto»), che occorre riaffermare il «dovere di vivere» e che è necessario, prima di tutto, conquistarne la coscienza: «… è la voglia di durare che ci salva…». Io credo che una buona risposta alla domanda dei personaggi, si trovi nell’episodio di Sophie Scholl e Perpetua che, Roversi, cita nel libro (lo stesso passo riportato nel paragrafo precedente) e precisamente nelle parole di Maurice Dobb (tra i principali studiosi dell’economia politica marxista): «la fede in un futuro miracoloso è più difficile nel ventesimo secolo di quanto non lo fosse nel terzo» (p. 136). L’uomo contemporaneo ha perso la presenza costante di un Dio salvatore; “Dio è morto”, come scrive Nietzsche, e da quella affermazione si comincia a pensare e ad agire a prescindere da Dio. Roversi, mette il destino nelle mani degli uomini e ne dà prova con i suoi personaggi. I sentimenti sono l’unica speranza rimasta agli umani, uniti dalla pietà e dalla volontà di “durare”. La pietà di Mizushima, ne L’arpa birmana, sta nella compassione per i suoi compagni, nel dovere umano di seppellire i compagni morti. Quello che emerge è il sentimento religioso presente anche senza l’esistenza di un Dio. Roversi non parla quasi mai di Dio, le poche volte che appare è scritto con la minuscola (solo in un passo de “L’Italia sepolta sotto la neve” appare Dio con la maiuscola). Il dio di cui parla l’autore “sembra un uomo Forse dimenticato nell’abisso del cielo” e, nell’abisso, cade anche Sophie Scholl confortata nel cuore per la salvezza del suo bambino ma lontana dalla salvezza dopo la morte, come invece crede Perpetua. La questione si regge su questa voragine che si è creata con la perdita della fede in Cristo. L’autore ci vuole dire che oggi, l’uomo, deve contare su se stesso e sugli altri; la speranza in Dio è “follia da compassionare” (secondo Porfirio, citato da Roversi) e non c’è altra soluzione se non quella della solidarietà tra esseri umani.
Nel finale del romanzo si assiste alla catarsi di ogni personaggio. La morte del figlio del calabrese, Vitale o Antonio, è l’occasione per unirsi. Il dolore per la morte di un giovane innocente suscita pietà, espressa nel «dovere di fare», nel dare degna sepoltura al figlio. Il calabrese, seguito da Fraulissa, Nice, Marcho Marcho e Savore, trasporta il corpo del figlio su un carretto, simbolo della vita che avanza. È il momento dell’autoconfessione di ciascun personaggio che allegoricamente muore (la morte non è reale ma simbolica, è la perdita di forze per affrontare la vita) per poi rinascere, cambiato, più forte di prima. Ognuno di loro trova un motivo per continuare a vivere e a sperare, ancora una volta entrano in ballo i sentimenti. Il calabrese, distrutto dal dolore per la morte del figlio e troppo stanco per continuare a combattere, si sente rassegnato a morire ma il ricordo del figlio lo ridesta. Il coraggio e la forza dell’amore paterno prevalgono sulla disperazione. Marcho Marcho è sdegnato dal marciume della realtà, apparentemente, tutta macerie: la corruzione, il male, il fumo delle fabbriche, la violenza della polizia e l’impotenza dei più deboli al cospetto dei più forti. Marcho sembra morto finché le dure parole di Fraulissa, l’unica risorsa incontaminata, lo ridestano («Sei la carogna di un cane. Non vivi non muori, se sei morto vivi ancora un poco; non salti, non balli. Sei tutta pietra ormai» p. 235). Anche Fraulissa sembra perdersi nello sconforto: «Ti sei accorto – dice Fraulissa – che in questa città non ci sono bambini?». L’assenza di bambini è l’assenza di un futuro, senza un avvenire non c’è più motivo di continuare. Questo è un altro riferimento alla precipitosa situazione contemporanea: la paura che non esista un futuro, la responsabilità dei padri nei confronti dei figli di aver creato un mondo che provveda alla possibilità di un avvenire per le generazioni a venire. Tuttavia Fraulissa è forte e in lei è già connaturata la speranza in un domani più chiaro. Nice non subisce alcun cedimento, ma decide finalmente di tornare nel suo paese.
Come Sophie Scholl anche i personaggi sono caduti nell’abisso ciononostante sono risorti con le loro forze, più uniti, maturati, consapevoli per affrontare una nuova partenza, nuovamente insieme: «Sul muro hanno scritto la frase: sempre coraggio e tutto sarà niente» (p. 268).
Giungendo al termine di questo paragrafo sintetizzo il senso del romanzo e di tutta l’opera letteraria di Roversi che coincide, dopotutto, con il suo pensiero personale. Il significato su cui si regge la riflessione dell’autore sta nell’alternanza continua tra forze distruttive e forze costruttive: «tra frantumazione e riorganizzazione, denuncia e rappresentazione della violenza nel reale e forza resistente della progettualità (dell’attesa) e dell’operare».128 L’esigenza e l’emergenza incombenti, che l’autore grida a gran voce, suscitano in lui grande “rabbia” politica e poetica accanto all’urgenza di razionalità, rigore di osservazione e rovello morale. Questo “furore” intellettuale è, però, coerente e consapevole dei propri limiti e della propria precarietà e cerca, instancabilmente, una «giustificazione e una funzione nella tenace ricerca dei motivi, delle vicende, dei processi strutturali della società e dell’uomo»129.
***
3.3 (S)fortuna del romanzo
Consegnare quello che sei non significa consegnarsi ai contemporanei, che possono non accoglierti, bensì a coloro che verranno. Anche se non sai l’accoglienza che ti faranno. Lo scrittore che fa questo, è etico. Lo scrittore che non fa questo, non è che non sia etico, è che non è uno scrittore.130
Ferdinando Camon
Roversi non è particolarmente conosciuto. Lui stesso afferma, durante una conversazione, di non avere più di cento lettori, tra i quali la metà sono “parenti curiosi”. La mancata fortuna dell’opera roversiana, oltre ad essere dovuta al carattere schivo dell’autore, è influenzata dall’ideologia politica e letteraria (sebbene entrambe appaiano indistinguibili) nelle quali agisce una costante attenzione ai mezzi di produzione e di distribuzione della letteratura. Roversi, infatti, afferma di continuo la complementarietà tra il lavoro letterario e la politicità del suo metodo, inscindibili. Tale necessità metodologica si è dimostrata efficace da un punto di vista prettamente ideologico, teorico, morale ma ha comportato scompenso per quanto concerne la notorietà del lavoro letterario di Roversi. Va comunque ricordato che l’autore non ha mai dimostrato particolare interesse a farsi conoscere dal grande pubblico anzi, la sua riservatezza, è strettamente collegata alla sua idea di fare letteratura. A compromettere ulteriormente la fortuna dell’autore, verso la metà degli anni Settanta, si assiste al lento tramonto del romanzo neosperimentale. Infatti, il Novecento, è il secolo dell’affermazione del romanzo e, allo stesso tempo, del suo scavalcamento. Accade che la nascita del cinema e dell’audiovisivo esonerano, poco per volta, il romanzo dalla gestione della diegesi. Per non soccombere di fronte a questa moda originale, nascono le nuove avanguardie. È chiaro però come, il cinema, grazie alla sua potenza espressiva, abbia affascinato il mondo (come la fotografia ha fatto mezzo secolo prima, mettendo in crisi la pittura) collocando la letteratura e ogni altra forma di comunicazione, sottomessa all’atto della lettura, in posizione marginale. Nonostante ciò, il romanzo rimane in vita. Negli anni Settanta, nel pieno di questa crisi e mai come allora, gli intellettuali tentano di salvare la letteratura sperimentando nuovi metodi. Roversi, e prima di lui Pasolini con il cinema, nonostante l’esigua popolarità, scova un recupero della letteratura tramite il teatro e lo spettacolo. Tuttavia, la lettura passa, inevitabilmente, in secondo piano poiché la novità della televisione e, in generale, dei mezzi visivi, prende il sopravvento. Ecco una delle ragioni del poco ma sperato successo del romanzo sperimentale. Inoltre, le sperimentazioni narrative sono difficilmente comprensibili al pubblico. Quest’ultimo, di fronte a testi linguisticamente complessi come prevede la letteratura sperimentale, si ritrova completamente spiazzato. A questo proposito, riporto le parole di Luigi Weber:
[…] Bisognerà forse ripensare alle opere d’arte d’avanguardia, e accorgersi che esse sono rigorosamente chiuse. […] Catafratte in una arcigna progettualità ideologica a senso unico, in una talvolta irritante negazione delle forme e del pensiero preesistenti. E inutilizzabili se non nel modo previsto dal loro organizzatore. La loro indeterminatezza, paradossalmente, è costellata di indicazioni di montaggio molto pressanti, che però vanno prima individuate e poi messe in opera, non si possono attuare in maniera irriflessa né istintiva come nel caso di testi «canonici».131
La difficoltà delle opere neosperimentali ma soprattutto di quelle neoavanguardiste sono, obiettivamente, fuori dalla portata dei comuni lettori, abituati ad una certa schematicità tradizionale dell’opera. I due movimenti hanno, per questo, riscosso un successo limitato alla cerchia dei letterati. Quando, negli anni Settanta, il romanzo sperimentale va incontro alla sua fine Roversi, agendo come sempre da partecipe solitario, scrive I diecimila cavalli. Emblematica è, come già affermato, la scelta della pubblicazione del libro per Editori Riuniti. Roversi fa una scelta nuova, tramite l’utilizzo di un canale di partito, augurandosi di avviare un rapporto con un maggior numero di lettori. Eppure il romanzo si legge a fatica, non è ascrivibile ad una lettura di massa, come sostiene Ferretti:
La struttura e la scrittura sperimentale, il suo movimento di costante frantumazione e riorganizzazione del discorso, la sua densità problematica e simbolica, la sua forte letterarietà, sembrano destinarlo alla lettura di quei pochi lettori a cui erano pervenute Le descrizioni in atto e comunque non molti di più.132
Tale osservazione coglie in pieno il motivo della scarsa quantità di materiale critico sul libro di Roversi. Certo, Roversi sottolinea che la pubblicazione per Editori Riuniti si sia trattato di un “atto di pratica politica”, niente più di uno “scambio libero e disinteressato”, per il solo motivo che la richiesta (senza la sottoscrizione di alcun contratto) è stata domandata dalla parte politica appoggiata. Roversi si trova a fare i conti con una situazione di mercato alla quale è condizionata anche una casa editrice di sinistra e il romanzo non può non rientrare nella logica imprenditoriale. Egli affronta questa situazione, come afferma Ferretti, nel tentativo di vivere il momento politico all’interno dello specifico letterario, cosciente della contraddizione dell’atto. Una incoerenza di poco conto ma l’ufficialità del mezzo di distribuzione del nuovo romanzo, ha comportato l’immediata curiosità di alcuni critici. Nell’anno d’uscita del romanzo, tre critici recensiscono il testo. Uno è Mario Spinella che pubblica l’articolo “Il fuoco e la neve” su «Rinascita», nel quale svela le numerose citazioni dell’autore. Spinella scrive: nel romanzo «incontriamo i nomi di Diogene Laerzio, di Epicuro, di D’Alembert, mentre ancora più numerosi per tutto il romanzo sono i riecheggiamenti indiretti, i “calchi” culturali, le allusioni a testi letterari del passato. La cultura e la letteratura sono così esplicitati nella loro funzione di materiali […]»133. Il critico trova un esplicito riferimento con il Vittorini di Conversazioni in Sicilia e ancor di più con Il Sempione strizza l’occhio al Fréjus, una consonanza di genere, il genere “epico-lirico”, simbolico, ricco di accentuazioni ritmiche e di una ricorrente versificazione.
Mario Lunetta, in un articolo del 24 marzo di quello stesso anno su «il Messaggero» di Roma, posa l’attenzione sul tessuto linguistico del romanzo notando come «l’energia di Roversi sia multidirezionale solo all’apparenza: in realtà la sua capacità di sintesi è perfino ossessiva e in tutti i casi indirizzata, con magnifica coerenza, all’uso visionario di un delirio antagonistico in cui la logica è sempre “altra”, la metafora “sguincia”, la rappresentazione “straniante” […]”»134. Infine, Felice Piemontese, recensisce il romanzo su «Paese Sera» con un articolo dal titolo “Mostri e simboli di Roversi” nel quale dà rilievo alla dimensione spasmodica e magmatica del romanzo, proprio come spasmodica e magmatica è l’Italia di quegli anni. I riferimenti culturali sono infatti, come scrive Piemontese «non passivamente raccolti ed esibiti ma costitutivi della struttura stessa dell’opera»135. Inoltre, continua quest’ultimo, il libro è un condensato di tutto il dibattito letterario e politico di questi anni, rivissuto criticamente dall’interno, anche se «non tutto è convincente […], non lo sono gli echi vittoriniani troppo espliciti ed esibiti, così come non sufficientemente giustificati sembrano alcuni riferimenti simbolici. C’è anzi un’attitudine metaforizzante che a volte risulta sovrabbondante (provoca un eccesso di letterarietà) anche se, in verità, Roversi stesso rivela un’impazienza stilistica verso i suoi stessi riferimenti»136.
«I critici hanno sempre ragione, quando i critici ci sono e leggono veramente. Io ne ho avuti quattro o cinque soltanto ma pazienti, intelligenti. Questi hanno mille ragioni, nelle loro conclusioni», dichiara Roversi in un’intervista del 1978137. È facile che Roversi si riferisse ad Elio Vittorini, dandone testimonianza lui stesso nell’intervista di D’Elia: «Vittorini è stato fra i pochissimi con cui ho potuto entrare in un rapporto di attenzione costante sulle mie cose, man mano riuscivo a completarle»138. Vittorini è stato tra i primi a leggere gli scritti di Roversi; per l’autore è stato «un lettore raro; partecipante, incalzante ma anche inesorabile», una rassicurazione. Vittorini è il primo a dare notizia di Roversi pubblicando sul numero 2 de «Il Menabò» alcuni dei suoi testi poetici (La raccolta del fieno) e la seconda stesura del romanzo Caccia all’uomo (i due intrattennero un intenso scambio epistolare recuperato pochi mesi fa dal nipote di Roversi). Degni d’essere chiamati critici attenti si possono citare anche Franco Fortini, Geno Pampaloni e Giuseppe Zagarrio, per quanto riguarda la poesia; più avanti, all’opera roversiana, si interessano anche Gian Franco Ferretti, Luciano Caruso, Stelio Martini, Gianni D’Elia, Salvatore Jemma, Fabio Moliterni, Nicola Muschitiello, Carlo Ruggiero e Arnaldo Picchi (quest’ultimo per la critica teatrale). Si può dunque affermare che l’opera roversiana non manchi di attenzioni qualificate, ma rimane comunque dentro ad una cerchia ristretta, prevalentemente entro l’entourage intellettuale e tra gli esperti conoscitori di poesia italiana del secondo Novecento. Per di più, i testi critici si concentrano prevalentemente sulle opere poetiche e teatrali; maggiormente carente risulta il materiale riguardante l’opera narrativa e saggistica. Per quanto riguarda il Roversi paroliere Antonio Bagnoli si è occupato di raccogliere e pubblicare per la sua casa editrice, la Pendragon, tutto il materiale edito e inedito (testi delle canzoni, lettere, articoli) sul sodalizio tra il cantante e il poeta e sta concentrandosi su due lavori, sempre tratti dal materiale inedito dello zio. Uno è l’epistolario tra Roversi e Sciascia e l’altro è una raccolta di disegni con poesie (inediti) dell’autore.
Si può concludere che il romanzo preso in analisi ha avuto pochi riscontri in ambito critico, tra i romanzi di Roversi I diecimila cavalli è quello tenuto più in disparte. Sebbene maggior successo l’abbiano ricevuto Dopo Campoformio, Le descrizioni in atto e Registrazione di eventi (citati anche in alcuni manuali di letteratura italiana contemporanea), nel complesso l’opera roversiana è rimasta chiusa nel silenzio. Solo oggi, dopo la sua scomparsa, avvenuta il quattordici settembre di due anni fa, si può sostenere che il lavoro roversiano stia cominciando ad essere giustamente ripreso, proposto al pubblico, pubblicato, grazie ad una vasta cerchia di persone amiche di Roversi. Cito, a riguardo, le parole di Alba Morino (una di queste persone amiche) che insieme a Salvatore Jemma, Alfredo Antonaros, Gian Carlo Ferretti, Antonio Bagnoli e altri hanno redatto, di recente, un libro in ricordo del poeta:
Questo non è solo un libro ma vuole essere un’operazione, vuole non solo presentare in maniera organica la vita e le opere di chi ha scritto poesie e romanzi, ha fatto il libraio antiquario ed ha operato nel reale con grande passione e rigore morale, ma vuole anche squarciare il silenzio su di un sommerso, “fuori dal mondo”, che quasi mai oggi ha l’attenzione che merita.139
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CONCLUSIONI
L’uomo lì dentro comunque si salva da un inizio di naufragio. Senza il miele delle sirene. Fra il fumo dei mondi. Avendo imparato ancora una volta, dopo tanta vita consumata, che si deve ascoltare tutto, non tacere niente, per vivere non come conviene ma come gli è assegnato.
In realtà i poveri scrittori di versi sono indispensabili solo quando si deve ricominciare dopo una sconfitta.
Ecco perché prima di nascere devono morire.
Roberto Roversi (“L’Italia sepolta sotto la neve”)
«Roversi è come un soldato che non è mai stato assoldato da nessuno – egli non lo ha permesso a nessuno –, sentinella vigilissima nella sua postazione in disparte, nella gola da cui però si deve passare. Dice: “Non mi defilo”. E fa quello che ogni altro vero poeta fa; parla per sé e parla per gli altri». È così che ne parla Nicola Muschitiello. Credo che da queste parole si possa partire per concludere questo lungo percorso.
Quando ho deciso l’argomento su cui svolgere la tesi non conoscevo Roversi e neanche oggi, dopo aver passato intere giornate a decifrare il suo immenso elaborato posso dire di conoscere veramente Roberto Roversi. Lui è uno di quegli autori che si conoscono per vie traverse. Nel mio caso l’ho scoperto facendo una ricerca sui testi di Lucio Dalla. Al massimo puoi sentire il suo nome capitando nell’ambiente giusto e parlando con le persone giuste. Di lui ho apprezzato subito l’approccio con la letteratura fedele compagna dell’impegno politico, consolidata da un giusto equilibrio. Ho ammirato l’idea di non conformarsi per forza a ciò che i tempi richiedevano e allo stesso tempo, la grande attualità dei suoi discorsi. Ho provato conforto per la purezza della sua anima, trasparente, che non lascia spazio alle scempiaggini, tanto di moda ultimamente. Sono rimasta positivamente colpita dalla complessità dei suoi testi poiché nulla è dato per scontato, tutto ha un senso ma nascosto. La sua lettura non permette superficialità, fretta, negligenza, pigrizia e ogni pagina apre alla riscoperta di nuovi concetti, nuove prospettive. Non è semplice capire davvero Roversi. Molti critici hanno confuso la sua delusione con il pessimismo. La guerra e l’esperienza partigiana hanno provocato due ferite indelebili nel cuore del poeta. Dopotutto, citando Alcide Cervi, “questi sono dolori grandi, che offendono la vita”. Scovare un pessimismo in Roversi è segno di un giudizio facile e un po’ affrettato. Certamente, nei primi scritti la forte presenza di dolore e delusione sembrano talvolta toccare il fondo e ancora più in basso, Roversi ci arriva nel momento più rabbioso della sua vita coincidente con la scrittura delle Descrizioni in atto e dei Diecimila cavalli. Eppure, se lo si legge attentamente, senza distrazioni, ad emergere è tutt’altro che disperazione. In ogni testo, in ciascuna singola poesia, avviene quasi sempre lo stesso procedimento. Ad ogni segno di distruzione (dell’anima, dell’Italia corrotta, del paesaggio industrializzato) Roversi risponde con spiazzante operosità. Ogni opera di Roversi ha una sua concezione di tempo ben precisa. Se le primissime opere, sono un rimando continuo al passato, ossessivo e invadente, il presente diviene protagonista man mano che ci si allontana dalle vecchie ferite (sebbene esse rimangano sempre nella memoria). Il passato è, dunque, il punto di partenza, l’origine di ogni sensibilità successiva e il futuro l’unica speranza. I diecimila cavalli, ad esempio, è un romanzo che si regge sul binomio distruzione-costruzione, denuncia-operosità. Ad ogni difficoltà entra in scena lo spirito di collaborazione tra gli uomini, entra in gioca la pietà. La pietà e l’attesa. Due parole-chiave dell’“ultimo” Roversi. La fretta a cui si è abituato l’uomo moderno è paragonabile ai pesticidi per gli insetti. La rovina della società è sempre stata sotto gli occhi di tutti, ma tutti non hanno mai saputo vedere. Come dice Roversi, sempre nel suo ultimo poema, “vedere è meglio che ascoltare” ma anche “non isolarsi ma ascoltare. Ascoltare”. E, come ha accennato Muschitiello, “disubbidire alla realtà storica”. Roversi disubbidisce alla logica contemporanea, lo fa quando scrive, lo fa astenendosi dalle riprese, rimanendo lontano dalla spirale della popolarità, del potere economico e comunicativo. Roversi compie tanti atti di disubbidienza contro «quel che non vogliamo» al fine di «ubbidire a quel che siamo, a quel che vogliamo»140. Anche dentro all’inverno più gelido del nostro scontento, rimane la speranza. Poiché: “quando tutto è già fatto già detto e / niente per me per te potrà cambiare/ cambierà”.
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APPENDICE
Conversazione con Antonio Bagnoli
Piccolo scorcio sulla vicenda editoriale di Roberto Roversi con la casa editrice Pendragon
In famiglia si sapeva di avere una persona importante, racconta Antonio Bagnoli, nipote di Roberto Roversi e direttore editoriale della casa editrice Pendragon. Mi ero legato molto a lui e vedendo il mio grande interesse nel tentare una imprenditoria nella casa editrice mi ha subito aiutato, concedendomi una cosa che ha sempre negato a tutti gli editori che gliela avevano chiesta: la ristampa anastatica di tutta la serie di «Officina». Uno dei primissimi titoli che abbiamo pubblicato con il marchio Pendragon è stato questo e ci ha dato una bella visibilità. Naturalmente, una visibilità non di grande pubblico perché Roversi non è mai stato di grande pubblico. Alla fine degli anni Novanta abbiamo creato insieme una collana di diciotto libri: L’Arca. Erano libri di immigrati in Italia che descrivevano agli italiani come si viveva nel loro paese; era un’ idea di integrazione al contrario, spiegare a noi come accogliere gli immigrati piuttosto di spiegare agli immigrati cosa dovevano fare venendo qua. Una sorta di diffusione culturale di quelle che erano le tradizioni di queste persone, sempre più numerosi in Italia. Una collana che ha avuto un successo mediatico, non di grande pubblico. Poi, negli anni 2000 abbiamo ripubblicato tutti i suoi testi teatrali, quelli editi, inediti e quelli pubblicati solo su riviste. Alla fine del primo decennio del 2000 abbiamo ripubblicato “Caccia all’uomo”(inizialmente pubblicato con La Medusa degli italiani di Vittorini) e, poco prima che morisse, la sua ultima raccolta “Libri e contro il tarlo inimico”.
Le ragioni della chiusura della Palmaverde
Roberto ha chiuso la libreria dopo sessant’anni di attività, all’età di ottantacinque anni. In quell’anno ha perso il figlio e ha chiuso la libreria. La chiusura è dovuta esclusivamente a motivi anagrafici. Aveva un’età nella quale non riusciva più a fare il lavoro di libraio antiquario perché, per come lo doveva svolgere lui, senza aiuti, era molto pesante. Non aveva una libreria d’antiquariato con dei grandi risultati economici. Curava edizioni di libri esauriti e rari del Novecento, senza fare mai grandi affari. Si è mantenuto. Quando si è trattato di venderla, nessuno avrebbe potuto raccogliere in testimone la Palmaverde come simbolo di un luogo di incontro perché era nata attorno alla sua personalità. Se adesso esistesse una libreria Palmaverde chiunque ci fosse dentro, non sarebbe Roberto Roversi. La cosa migliore potesse accadere alla libreria è accaduto: la Coop Adriatica ha acquistato tutto il fondo dei libri che erano rimasti dentro la libreria, stratificati, nel corso di sessant’anni di attività; li ha catalogati e donati a tutte le istituzioni bolognesi che ne avevano fatto richiesta tenendo, però, la dicitura Fondo Palmaverde. Adesso sul servizio delle biblioteche di Bologna quando un libro proviene dal Fondo Palmaverde è indicato, in modo da diffondere tutto il materiale libraio ma, allo stesso tempo, mantenendolo unito, poiché non avrebbe avuto senso tenerlo chiuso in un luogo dove non ci sarebbe più stato Roberto Roversi.
A proposito del primo romanzo di Roversi: “Umano”
“Umano” nasce prima della guerra, Roversi aveva diciotto anni. In quel periodo pubblica anche due librettini: “Rime” e “Poesie”. Stampa il romanzo con una tiratura bassissima (tipico di quel tempo), di sole 100 copie. Una metà delle copie verrà distrutta più avanti perché non lo riconoscerà più come suo lavoro. Di copie, infatti, ce ne sono pochissime. Una di queste si trova nella Biblioteca dell’Archiginnasio che venne donata da un cliente che comprò il libro da Landi (la libreria antiquaria). Roversi ha sempre visto lontana quest’opera, ne ha sempre preso le distanze. Non parlava volentieri né di questo romanzo né delle altre due raccolte poetiche, ovvero di tutti i testi composti prima della guerra. Poi la guerra l’ha cambiato, l’ha fatto maturare politicamente e generazionalmente, ma ha sempre mantenuto un’idea molto forte del potere della letteratura Tre libri del tutto distanti dalla sua poetica. Per esempio in “Poesie” c’è un afflato quasi religioso. Il salto vero che ha fatto maturare Roversi come poeta e scrittore è stata l’esperienza della guerra. Quello che viene prima sembra scritto da qualcun altro.
L’idea politica di Roversi
È difficile capire esattamente quello che è successo tra il ‘45 e il ‘55. Il comunismo, in quei tempi, per Roversi, si basava sull’idea di una bandiera di egualità e di correttezza sociale. Il suo comunismo è sempre stato un comunismo da intellettuale. Il salto dall’ideologia fascista a quella comunista, un salto che coinvolge un’intera generazione, avviene poiché la sua battaglia si fondava sull’uguaglianza dei diritti. Quindi, il comunismo era inteso come sistema sociale antagonista al fascismo. Da qui parte la grande delusione della generazione degli anni Venti che sperava in una liberazione totale dalla repressione del regime fascista ma che si è trasformata, a partire dagli anni ‘60, in malgoverno. Roversi era molto distante dall’ortodossia comunista e nel ‘56, a causa dei fatti di Ungheria, avviene l’allontanamento dal movimento sia da parte sua che dai sodali di Officina; segnale che anche il comunismo come sistema politico era un fallimento. Roversi era da intendersi come un comunista critico, come lo sono stati i critici italiani.
La comunicazione come metodo
“La rivoluzione non è ancora arrivata bisogna scrivere molto”, è una frase di Sklovskij, uno dei suoi pensatori preferiti. Roversi sentiva l’urgenza necessaria della comunicazione per dare a tutti la possibilità di non farsi schiacciare e la scelta del ciclostile la definirei metodo. Roversi ha cambiato idea molte volte rispetto a quello che pensa la gente. Assumeva dagli altri, sempre, nuovi punti di vista che gli facevano cambiare idea. E poi, era fondamentale comportarsi onestamente. Era un uomo che non avrebbe dormito la notte se avesse dovuto comportarsi in maniera diversa dal suo rigore. Lucio Dalla diceva che era un uomo che metteva, prima di tutto, la dignità, la “dignitas” nel senso in cui la intendevano i latini. L’ideologia dà sempre l’idea di un dogma a cui devi associarti contro di te, invece il metodo consente di modificarti. Non era una condizione aprioristica, ma un’adesione ad una umanità vera che cercava sempre. La diversità. Per lui l’umanità era diversità. Quando ero più giovane e andavo a trovare mio zio nella sua libreria, capitava di incontrare dei ragazzini di quindici anni che gli portavano delle loro poesie. Erano imbarazzanti. Allora un giorno gli dissi:– Ma non puoi dirgli qualcosa, che forse non fa per loro? e lui mi rispose:– Ma scherzi? Invece è proprio il caso di ascoltarli perché questo ragazzo scrive. legge, sa chi sono io, mi telefona. Sai quanto gli serve scrivere? Questo è il senso dell’importanza che il tuo lavoro deve avere per sé e per gli altri e Roversi assecondava quei ragazzi, li spronava. “Se tutti si comportassero in un certo modo la società sarebbe diversa”, questa era la sua idea, molto utopista.
Adesso la Pendragon sta pubblicando l’epistolario con Sciascia, di una bellezza commovente. Il sottotitolo è “lettere di utopisti”. Tra lui (Roversi) e Sciascia, non si sa chi fosse più utopista, credevano che il mondo si cambiasse con la correttezza, con la comunicazione: “scusa se non ti ho risposto ieri, ti rispondo oggi” ecc. Un altro modo di vedere il mondo. Il mondo è cambiato e anche se da giovane senti di poter spaccare il mondo. Più cresci più questo ardore viscerale tende a sfumare. Roversi, invece, anche in tarda età, lo sentiva dentro quell’ardore, quella voglia di cambiare. Per me è quasi un esercizio di stile. Lo posso dire, al limite pensare, ma non lo sento più. Alzarsi ogni mattina pensando che posso cambiare il mondo, con quello che faccio, con nuove idee…
A cosa serve la letteratura? A vivere. Questa è la cosa che aveva sempre ben in mente.
Non amava i romanzi…
L’interesse per la narrativa era carente, si limitava a leggere quelli che riceveva dagli amici ma non amava il romanzo d’invenzione. Apprezzava molto i romanzi alla Sciascia, quei romanzi che potevano insegnargli qualcosa, per lo più quelli storici. Amava i romanzi di Vittorini, ma dagli anni Ottanta in poi non ha più trovato scritture stimolanti.
Non amava i romanzi fantastici, di pura inventiva. I diecimila cavalli, infatti, è un romanzo-antiromanzo. C’è tanta politica, poca immaginazione e molta realtà. Inizialmente, non era del tutto convinto potesse funzionare, poi gli sperimentalisti hanno detto che aveva trovato uno stile.
Internet come alternativa al ciclostile
Il progetto di ciclostile è il sito in cui abbiamo raccolto tutto il materiale di Roberto (www.robetoroversi.it). Lui stesso era particolarmente attratto da questa idea. Quello che lui ha fatto con il ciclostile è stato sostituito con internet. Certo, il suo lavoro era di puro artigianato, dopotutto era un uomo antico, però apprezzava l’idea della distribuzione veloce che, per ora, solo internet e la nuova tecnologia possono darti. L’unica cosa che lo spaventava era l’eccesso dell’informazione che offre Internet al quale manca il filtro della selezione. Faceva lo stesso discorso per i libri: negli anni ‘60 e ‘70 uscivano duecento libri; adesso ne escono ventimila, quarantamila, cifre spropositate, non ci si sta più dietro. Il problema sta nel selezionare.
Non c’è dubbio fosse di mentalità molto aperta, era un uomo che stava al passo con i tempi. La sua opera e il suo pensiero sono di grande attualità, per questo mi impegno a comunicarlo agli altri. Aveva delle idee molto moderne che non cambieranno negli anni.
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Note
1 Ferdinando Camon, La moglie del tiranno, Lerici Editore, Roma, 1969, p. 173.
2 Ivi, p. 170.
3 Ibidem.
4 Ibidem.
5 A. Antonaros et al (a cura di), op. cit., p. 8.
6 F. Camon, op. cit., p. 167.
7 A. Antonaros et al (a cura di), op. cit., p. 9.
8 Salvatore Jemma, “La biro di R. R.”, Clueb, 2007, www.robertoroversi.it.
9 Ibidem.
10 A. Antonaros et al (a cura di), op. cit., p. 15.
11 Maria Teresa Serafini (a cura di), Come si scrive un romanzo, I edizione “Strumenti Bompiani”, Milano, 1996, pp. 161-162.
12 Ivi, p. 164.
13 Ivi, p. 165.
14 M.T. Serafini, op. cit., p. 166.
15 Giuseppe Zagarrio, “Roberto Roversi”, in Letteratura italiana, VI, I contemporanei, Milano, Marzorati, 1974, p. 1530.
16 Ibidem.
17 Ibidem.
18 Fabio Moliterni, Roberto Roversi. Un’idea di letteratura, Edizioni dal Sud, Bari, 2003, p. 63.
19 Ivi, p. 64.
20 Carlo Ruggiero, “Intervista a R. Roversi. La poesia è una risposta alla realtà”, 17/09/12, www.robertoroversi.it.
21 F. Moliterni, op. cit., p. 66.
22 F. Moliterni, op. cit., p. 67.
23 G. Zagarrio, cit., p. 1532.
24 A. Antonaros et al (a cura di), op. cit., pp. 28-29.
25 Ivi, p. 26.
26 F. Moliterni, op. cit., 26.
27 Marco Santagata et al (a cura di) Il filo rosso. Antologia e storia della letteratura italiana ed europea, vol. 3 Secondo Novecento, Editori Laterza, Bari, 2006.
28 A. Antonaros et al (a cura di), op. cit., pp. 35 e 37.
29 Ibidem.
30 Ibidem.
31 Federico Mascagni, “I giovani e quei pomeriggi alla Palmaverde”, ed. di Bologna, 16/09/2012, www.robertoroversi.it.
32 Ibidem.
33 “Roberto Roversi. Scrittore di fogli sparsi”, «Vento Largo», 16/09/2011.
34 Ibidem.
35 Stefano Benni, “Io e Roversi alla Palmaverde tra libri suicidi e topi letterati”, «la Repubblica», 2010.
36 Ibidem.
37 Ibidem.
38 Roberto Roversi, Libri e contro il tarlo inimico (n. 11), Ed. Pendragon, Bologna, 2012, p. 26.
39 A. Antonaros et al (a cura di), op. cit., p.41.
40 F. Moliterni, op. cit., p. 80.
41 A. Antonaros et al (a cura di), op. cit., p. 63.
42 Emilio Marrese, “Dalla inedito, ecco il carteggio con Roversi e le loro canzoni censurate”, 16/11/2013, «la Repubblica».
43 A. Antonaros, op.cit., p. 45.
44 F. Moliterni, op.cit., p. 200.
45 Roberto Roversi, I diecimila cavalli, G.F. Ferretti (a cura di), Editori Riuniti, Roma, 1976.
46 A. Antonaros, op. cit., p. 75.
47 Ivi, p.73.
48 Roberto Roversi, Il libro Paradiso, a cura di A. Motta, Lacaita ed., Manduria, 1993.
49 F. Moliterni, op. cit., p. 208.
50 Ivi, p. 209.
51 Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile, ed. Bompiani, Milano, 2013, pp. 37-38.
52 M. Santagata et al (a cura di), op. cit., p. 133.
53 Ivi, p. 134.
54 Luigi Weber, Con onesto amore di degradazione. Romanzi sperimentali e d’avanguardia nel secondo Novecento italiano, Società editrice Il Mulino, Bologna, 2007, p. 94.
55 Ivi, pp. 94-95.
56 Ivi, p. 96.
57 F. Moliterni, op. cit., p. 81.
58 Ibidem.
59 Roberto Roversi, Dopo Campoformio, Torino, Einaudi, 1965.
60 F. Moliterni, op. cit., p. 85.
61 Roberto Roversi, “7 domande sulla poesia”, «Nuovi Argomenti», n. 55-56, marzo-giugno 1962.
62 Romano Luperini, Il Novecento – apparati ideologici, ceto intellettuale. Sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, t. II, Torino, 1981, p. 755.
63 Antonio Catalfamo, “La poesia come rivoluzione delle forme e dei contenuti. Il racconto della realtà”, www.robertoroversi.it, 2012.
64 Ibidem.
65 Ibidem.
66 Gianni Scalia, Critica, letteratura, ideologia, Marsilio, Padova, 1968, p. 265.
67 A. Antonaros et al (a cura di), op. cit., p. 51.
68 Ibidem.
69 F. Moliterni, op. cit., p, 138.
70 Ibidem.
71 Ivi, p. 145.
72 Roberto Roversi, “I cavalli attendono”, «Giovane critica», n. 30, 1972.
73 Ibidem.
74 F. Moliterni, op. cit., p. 155.
75 Roberto Roversi, Le descrizioni in atto (1963-1973), Bologna, Coop. Modem, 1990.
76 Ivi, (XI Descrizione).
77 F. Moliterni, op. cit., pp. 156-157.
78 Ivi, p. 112.
79 Ivi, p. 162.
80 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, in I diecimila cavalli, Editori Riuniti, 1976.
81 A. Antonaros et al (a cura di), op. cit., p. 28 (da una cartolina di Roberto Roversi ad Alba Morino).
82 F. Moliterni, op. cit., p. 97.
83 F. Moliterni, op. cit., p. 98.
84 Ibidem.
85 Ivi, p. 101.
86 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, cit., p. XII.
87 Roberto Roversi, Registrazione di eventi, Rizzoli, Milano, 1964.
88 F. Moliterni, op. cit., p. 105.
89 F. Moliterni, op. cit., p. 172.
90 Antonio Bagnoli, Arturo Bertusi, Lucio Dalla Roberto Roversi- Nevica sulla mia mano. La trilogia, la storia, canzoni inedite e manoscritti, Edizioni Pendragon, Bologna, 2013.
91 Ivi, p. 192.
92 A. Bagnoli, op. cit., p. 130.
93 Ivi, p. 130.
94 Ivi, p. 161.
95 Ibidem.
96 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, cit., p. IX.
97 R. Roversi, “I cavalli attendono”, cit., www.robertoroversi.it.
98 Ibidem.
99 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, cit., p. XVIII.
100 L. Caruso, S.M. Martini, op. cit., p. 57.
101 Cristina Mustari, “Sophie Scholl”, Centro Nazionale Opere Salesiane, www.santiebeati.it.
102 Kon Ichikawa, “L’arpa birmana” (film), www.musubi.it, 1956.
103 Luciano Caruso e Stelio M. Martini, Roversi, «La Nuova Italia» (Il Castoro), Firenze, 1978.
104 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, cit., p. XIV.
105 Ivi, p. XV.
106 R. Roversi, I diecimila cavalli, Editori Riuniti, 1976, p. 8.
107 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, cit., p. XV.
108 Ivi, p. X, (corsivo dell’autore).
109 Ibidem.
110 Roberto Roversi, I diecimila cavalli, Editori Riuniti, Roma, 1976, pp. 5-6.
111 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, cit., p. XII.
112 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, cit., p. XIII.
113 Ibidem.
114 Ibidem.
115 F. Moliterni, op. cit., p. 198.
116 R. Roversi, Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, cit., p. XI.
117 Ivi, p. XVI.
118 Ibidem.
119 Ivi, p. XVIII.
120 R. Roversi, op. cit., p. 72-73-74-75.
121 Gianni D’Elia, “Conversazione in atto”, in «Lengua», 1990.
122 Ibidem.
123 G.C. Ferretti, Officina. Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta, Einaudi, 1975, p. 478.
124 Lucio Dalla, La canzone di Orlando, Il giorno aveva cinque teste, RCA, 1973 (corsivi miei).
125 F. Moliterni, op. cit., p. 199.
126 R. Roversi, op. cit., p. 9.
127 Silvano Agosti, Il tipico discorso dello schiavo, 10/02/2005, www.signoraggio.com.
128 Ivi, p. 200.
129 Ibidem.
130 Alberto Sinigaglia (a cura di), La saggezza del vivere, tracce di etica, di 28 autori, Diabasis ed., marzo 2003
131 Luigi Weber, op. cit., p. 170.
132 G.C. Ferretti, Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino 1979, pp. 237-238.
133 Mario Spinella, “Il fuoco e la neve”, in «Rinascita», n. 12, 19 marzo1976.
134 Mario Lunetta, “Teatrale e simbolico”, in «Il Messaggero», 24 marzo 1976, p. 13.
135 Felice Piemontese, “Mostri e simboli di Roversi”, in «Paese Sera», 11 giugno 1976.
136 Ibidem.
137 L. Caruso, S. Martini, op. cit., p. 1.
138 Gianni D’Elia, “Conversazione in atto”, in «Lengua», 1990.
139 A. Antonaros et al (a cura di), op. cit., p. 11.
140 N. Muschitiello, op. cit., p. 86.
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Informazioni aggiuntive
- Autore: Bianca Casoni
- Tipologia di testo: tesi di laurea
- Testata: Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Scuola di Lettere e Beni Culturali, Corso di laurea in Lettere Moderne
- Anno di pubblicazione: Anno accademico 2013/2014