Il solo modo di parlarne è leggerlo e discuterlo
In questa occasione preferisco ridare il testo pubblicato il 4 novembre 1975 sulla pagina regionale de l’Unità. Non commemoravo Pasolini, non lo rimpiangevo; testimoniavo per lui, dandogli atto. È ciò che faccio ora, con la convinzione della ragione.
Così la vita di Pasolini si è conclusa, con una esecuzione; e la fotografia di quel corpo massacrato e straziato, lì per terra, adesso gira il mondo. Un odio teleologico ha mosso, per colpirlo, non una mano ma tutte le mani e ha fatto tacere una bocca che parlava alto, nella giustezza dei segni e dei tempi. L’avevo appena scritto e adesso, lo ripeto: più avanti di tutti e diverso da tutti, in questo ultimo anno Pasolini aveva riacquistato quella formidabile tenera aspra lucidità onnicomprensiva che gli era un tempo caratteristica; una tensione culturale così stimolante nella direzione dell’invenzione ideologica e dell’aggressione con strumenti diversi dalla realtà (da lui recuperata con ricognizioni sempre nuove, a cerchi sempre più concentrici e stretti, stimolanti soprattutto nel senso dei reperti e delle indicazioni) da appaiare questo suo momento all’altro, ormai definito e sembrava ineguagliabile, che l’aveva condotto a comporre e concludere “Le ceneri di Gramsci”.
Ripeto inoltre che non si sarebbe in alcun modo capito per il verso giusto Pasolini corsaro se non si ritrovava la chiave riaprendo le pagine di allora. Così, a confermare un destino straordinario, i suoi ultimi pensieri, scavati nel vivo di questa realtà, si riannodano (svolgendosi) agli inizi di un lavoro culturale di straordinario vigore.
Io non voglio commemorare un amico; cento baroni nostrani stanno già intonando il compianto con la voce grossa. Per me il solo modo di parlare, oggi come ieri, credo che sia quello di leggerlo e discuterlo, e di continuare a farlo come fosse vivo. Perché Pasolini è vivo.
“La ricostruzione di questo libro è affidata al lettore. È lui che deve rimettere insieme i frammenti di un’opera dispersa e incompleta. È lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale unitarietà”; cavate dalla nota introduttiva degli “scritti corsari”, queste indicazioni suggeriscono il modo corretto, da quasi nessuno accettato perché ciascuno accecato da una sorta di ottusa faziosità, per “usare” i molti e vari interventi raccolti nel volume; per tradurli in stimoli concreti, per ricercare i nessi di un discorso che solo alla superficie pare disarticolato, smosso, interativo.
A pagina 157 si legge infatti, ripetuta con evidenza, una conclusione alla quale di continuo ogni intervento stimolava: “per inerzia, per pigrizia, per inconsapevolezza – per il fatale dovere di adempiersi coerentemente – molti intellettuali come me e Calvino rischiano di essere superati da una sorta di reale che li ingiallisce di colpo, trasformandoli nelle statue di cera di se stessi… il potere non è più difatti clerico-fascista, non è più repressivo. Non possiamo più usare contro di esso gli argomenti a cui ci eravamo tanto abituati e quasi affezionati – che tanto abbiamo adoperato contro il potere clerico-fascista, contro il potere repressivo… Il nuovo potere… si è valso delle nostre sconsacrazioni per liberarsi di un passato che, con tutte le sue atroci e idiote sconsacrazioni, non gli serviva più”. Questa citazione esemplifica la densità degli interventi di Pasolini corsivista, cioè di Pasolini “politico”, confermando il suo trapasso di campo, il salto di qualità “interpretativa” da lui compiuto, e di cui era, con l’angoscia dell’isolamento, consapevole.
Il discorso sul potere diverso, che è il potere nuovo; il discorso non più sul ruolo “nuovo” ma sul “nessun” ruolo affidato all’intellettuale che si ponga fuori della politica e che, quindi, mantenga innaffiata la vecchia diaspora (che tanto serve e tanto rincuora) di politica e letteratura, di politica e cultura, ecc., insomma tutto riducibile agli orizzonti stremati di una cultura in disuso. L’urgenza ribadita, come stimolo non rimandabile, per dar respiro e vigore (nonché rigore) al dibattito, per renderlo più utile e più giusto nel senso della correzione di errori e distorsioni, di chiamare in causa gli altri, tutti gli altri, di invitarli a parlare, a discutere: “infine, quanto alla mia opinione non aspetto altro che mi si convinca che è sbagliata” (p. 142).
Ma al suo pensare “fondo”, al suo procedere e cercare, al suo rivolgersi e chiamare nella direzione di problemi affrontati e discussi con una novità e aggressività argomentativa sconosciuta da noi, come si rispondeva? Da ogni parte? Su «Paese Sera» di giovedì 23 ottobre: “con i suoi patetici rimpianti, i suoi crudeli paradossi, Pasolini finisce per fare soltanto della cattiva letteratura”. Dunque non politica, ma letteratura: non sondaggi a viso aperto e a mano nuda nel reale ma ancora e sempre espressività, fantasia, umori, estri. Cioè un qualche puro divertimento; una qualche pura mistificazione. E proprio mentre fra le sollecitazioni stimolanti dell’ultimo Pasolini c’era quella di ricominciare a pensare (e a pensare sulla realtà, cioè politicamente) prima di scrivere.
Ma tutti l’abbiamo lasciato morire solo, in quel modo che è politico. E adesso lo rimpiangono in quel modo, che è letterario. Solo letterario. O privato.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: altri materiali
- Testata: Testo per il convegno bolognese “Senza Pasolini”
- Anno di pubblicazione: 17-18 maggio 1980