Tre poesie e alcune prose
La poesia fa il libro
Marco Giovenale
È solo apparente il paradosso che vorrebbe Roberto Roversi scrittore defilato e appartato e insieme tra i più autorevoli, ascoltati, attivi e dunque presenti – dal dopoguerra a oggi.
Si può semmai osservare che precisamente la sua determinazione nell’evitare lo spettacolo della letteratura, nel rifiutare ruoli anche latamente istituzionali, nel negarsi a premi e rassegne, e alle letture pubbliche, come alle lusinghe dell’editoria delle matte tirature, ha avuto anzi ha da decenni lo statuto di un esempio: prassi, etica ben consapevole, da accogliere, seguire, studiare o discutere. Esposta, non sovraesposta, con chiarezza.
La scelta da lui abbracciata alla fine degli anni Sessanta è stata quella di non affidarsi più a editori di (sedicenti) grandi numeri, lavorando semmai in piena indipendenza con lo strumento del ciclostile, che era già o stava diventando nel mondo, nella politica come in infinite iniziative culturali autogestite, un veicolo fenomenale di cambiamento, comunicazione. Le sue Descrizioni in atto hanno raggiunto migliaia di lettori, così. Si dice il giusto e non si concede troppo alla sociologia della letteratura se gli si attribuisce il merito di esser stato fra i primissimi ad anticipare e fronteggiare quella crisi del libro, o del carattere gutenberghiano della diffusione del sapere e del senso, su cui si ragiona oggi parlando non di ciclostile ma di ebook e reti.
Non bastassero questi pregi, gli va riconosciuta poi la molteplicità delle strade percorse – non solo in poesia. Se questo libro dà alle stampe una parte cruciale della produzione poetica degli anni 1965-1980, integrata da utili (ferrosi ma non rugginosi) materiali in prosa, allo stesso tempo sottintende e non ignora il lavoro svolto per decenni con le riviste fondate (in primis “Officina” e “Rendiconti”), il dialogo anche informale con centinaia di autori e giovani che lo interpellavano nei locali della sua libreria Palmaverde, la scrittura per alcuni cantautori, il costante studio e impegno saggistico, la collazione di materiali per documentari, la collaborazione a piccole e piccolissime iniziative o collane editoriali, i testi per il teatro, la militanza in quotidiani e periodici.
Il cammino culturale di Roversi è un esempio di non-mappabilità come pochi. Ramificato, complesso. Né ci si può addentrare in una (diversamente vana) disamina solo critico-letteraria della sua opera. Qui non si farà che tratteggiare – quasi conversando, cronologia alla mano – stili e climi, testi e voci; perché poi meglio di tutto parla la poesia, in versi e in prosa. E forma il libro, nella sostanza.
Nascere nel 1923 in Italia significa avere una parte del proprio percorso segnata o minacciata, se non rigidamente preorientata, da una dittatura che – come tutti i regimi e come si percepisce adesso – educa con il fine di (fintamente adulare e semmai) azzerare l’identità individuale, a favore dello Stato. Educa così alla morte, in qualche modo; in più di un modo. A più forme di morte.
Lo Stato, con puntualità hegeliana, passa all’incasso – una volta fra tante – a metà secolo XX, chiamando sangue, determinando uno dei peggiori incendi della storia. Il giovane Roversi, come altri, nel 1943 non può che gettarsi in quella guerra. Mentre appena un anno prima aveva contribuito a fondare – con gli amici Leonetti, Serra e Pasolini – una rivista che si chiamava “Eredi”. Nelle parole di Pasolini:
a Bologna, ci eravamo riuniti in un gruppo di ragazzi, tra il liceo e l’Università (Leonetti del ’24, Roversi del ’23, L[uciano] Serra del ’20, io del ’22) e, ambiziosamente, avevamo finito col proporci di fondare una rivista. Ben lontani dall’essercene procurati i fondi necessari, ne avevamo già trovato il titolo, programmatico, di “Eredi”. Dire cosa significasse in quegli anni per dei giovani, fare una rivista, potrebbe costituire un intero paragrafo di storia letteraria e psicologica: ma si noti, per quanto qui interessa, come la troppo immatura età comportasse, nel fatto, un irrazionalismo (inutilmente coperto dalla furia raziocinante e sistemante) che solo oggi […] può essere spiegato. In realtà, non solo per l’inesperienza sentimentale, ma proprio per le circostanze esterne […] noi non avevamo altro da dire che la nostra passione letteraria. […] per noi allora non esistevano alternative […] coatti insieme dalla ferrea politica del regime fascista e dalla istituzione stilistica del gusto ermetico. La libertà, nel senso politico, andava per noi – inconsciamente – ricercata in varianti più originarie e impegnanti di quella moralità obbligata e ormai ufficiale: non sapevamo ancora che cosa fosse l’antifascismo […] e l’avversione al fascismo che era in noi implicita si manifestava così in assurde e ideali esigenze moralistiche. […] Quanto alla letteratura, la posizione era analoga: adesione a un novecentismo che ci determinava […] sì che anche qui il latente anti-novecentismo consisteva, analogamente, in una ricerca di “varianti più originarie e impegnanti” di quella convenzione stilistica (ermetica), con immissioni, ancora, di istanze moralistiche e vagamente religiose, e di nostalgie per le presumibilmente più pure fasi originarie (specie, naturalmente, vociane).1
L’analisi e la memoria di Pasolini offrono pure i margini dei primi testi e saggi di Roversi (è il ’42 l’anno del suo esordio in versi), e i segni degli stili e persuasioni sotto cui si conduceva: riassumibili in sostanza come un intelligente ricorso e omaggio ai moduli vociani. Contro i moralismi, sarà probabilmente proprio un fondo di schietto eroismo (nemico però di fanfare dannunziane), unito a un elemento quasi religioso, a cospirare nell’attenuare le difese di chi – appunto assai giovane – viene frontalmente chiamato al conflitto. Il ’43 vede dunque Roversi partire per la Germania, come lui stesso narra – nel racconto riportato da Vittorini nel “Menabò” n. 2, 1960:
La guerra mi portò, rovinosamente, lontano. Ero senza idee e senza forza; solo, senza “maestri” e ignorante; ignorante con disperazione, e consapevole. Seguendo con rassegnazione i bandi dell’otto settembre fui in Germania con la Monterosa; poi, in Italia, finalmente, coi partigiani piemontesi. Non feci nulla; partii soltanto con tutte le forze, ma non più con rassegnazione. Ero a Savigliano, appostato col mitra, nella notte d’aprile, ed ascoltavo il passo dei tedeschi in ritirata, e il canto da cruco, duro, triste, che l’accompagnava; poi a Cuneo a sfilare davanti a Parri, con tutta la gente felice, in quei giorni che sono il più bel ricordo della mia vita.2
Notiamo come, al di là della necessità di compendiare esperienze enormi e lunghe fasi di vita in un tratto fulmineo di parole, Roversi chiuda entro un gesto quasi rabbioso, proprio in uno scatto di lame, il travaglio del passaggio dal fascismo “senza idee e senza forze, … senza ‘maestri’” all’antifascismo “con tutte le forze, ma non più con rassegnazione”. Tra i due momenti, cioè tra “fui in Germania con la Monterosa” e “in Italia, finalmente, coi partigiani”, resiste nel racconto appena uno snodo temporale: “poi”.
In quel “poi” dobbiamo collocare tutta la rabbia conflittuale delle generazioni educate nei miti e nel bellicismo assurdi del fascismo. Va immaginato, in quel punto, il verificarsi di quella presa di coscienza della realtà come ritorno a sé, che sarà poi l’obiettivo delle opere – già mature – del Roversi degli anni Cinquanta.
A guerra finita, rientra a Bologna, si laurea in filosofia. Insofferente verso l’insegnamento, nemico delle convenienze e regole dell’accademia (che lo avrebbe pur accolto, o catturato), e tuttavia nemico dei materiali lavori a padrone che gli càpitano, avvia in indipendenza e non senza azzardo l’attività di libraio antiquario, che proseguirà per tutta la vita.
Francesco Leonetti: “per reazione all’immagine del poeta inetto ai negozi, fece con se stesso la scommessa di combinare affari. Aprì una bottega di libri, e così volle guadagnarsi il pane; con l’intento anche (assurdo e bello in un mondo di giovani arrivisti del dopoguerra) di scrivere senza chiedere a nessuno, anzi stampandosi da sé”3.
E dagli anni Cinquanta inizia un impegno – con sé e nei testi scritti – nuovo, che ha basi solide e inquiete (solide perché inquiete). Come osserva Antonio Motta, “Roversi si affacciava sulla soglia degli anni ’50 insoddisfatto e tormentato, poco incline ad abbandonarsi al passato e, al tempo stesso, malato di storicità”4. Nel racconto di Stelio Maria Martini e Luciano Caruso:
la sua attività di libraio fu ben presto al centro di interessi intellettuali e culturali, che fecero della sua “bottega di libri” un luogo di incontri e di lucida ricerca ideologica, che lo spinsero a trasformarsi in editore. Per le edizioni della libreria Palmaverde, infatti, oltre alle due riviste alle quali più è legato il nome di Roversi, sono apparsi alcuni fascicoli di una collana di “opere nuove e diverse”, “Il Circolo”, che comprendeva testi di Pasolini, Leonetti, Roversi stesso; e, insieme, le collezioni specialistiche di Opere inedite e rare a cura della Commissione per i testi di lingua; Mediaevalia, studi e testi latini e greci medievali e i volumi della Biblioteca Musicale della Rinascenza.5
La storia è il punto di partenza. Nel 1952, utilizzando come materiale le proprie abbondanti e rigorose ricerche sul tempo dei Borbone e sull’epopea del brigantaggio in Calabria, compone il libro di racconti Ai tempi di Re Gioacchino, che esce nella serie di “Opere nuove e diverse – pubblicate dalla libreria PALMAVERDE in Bologna”, seconda prova edita nella collana “Il circolo” (la prima: Antiporta, di Leonetti). Nel 1959, grazie a Vittorini esce presso Mondadori quella che Roversi definisce “seconda stesura” di quegli stessi racconti:6 Caccia all’uomo. L’autore li giudica (anche nella loro prima versione) costitutivi di un vero e proprio romanzo. La scrittura è limpida, assertiva: solida. Con un taglio realista “crudele” (nel rispetto dell’umanità dei personaggi, dell’amarezza degli eventi). La tensione delle parti, dei singoli racconti, al romanzo, anticipa la non diversa tensione – che sarà degli anni successivi – a far confluire le poesie in poemetti, da questi formando infine poemi ulteriori, inclusivi.
Tra ’52 e ’59 troviamo due eventi essenziali nella vicenda di Roversi: uno forse ancora “rivolto al passato”, a sigillo di una stagione poetica, l’altro invece destinato a rappresentare il primissimo episodio di un lungo percorso intellettuale – di scrittura e iniziative. Il 1954 è l’anno della raccolta Poesie per l’amatore di stampe. Nel 1955 nasce la rivista “Officina”.
Le Poesie per l’amatore di stampe escono per le Edizioni Salvatore Sciascia, di Caltanissetta, in quella collana dei “Quaderni di ‘Galleria’” (diretta da Leonardo Sciascia) “che accoglie alcuni dei ‘giovani eretici’ (ma solo alcuni) della poesia del dopoguerra”7. Perché questo libro può dirsi ancora incline a rivolgersi al passato (sia pure prossimo)? Innanzitutto perché, nell’ultima sezione – Libretto d’appunti – rielabora e ripresenta alcune liriche esplicitamente datate 1947. E poi per un diffuso tono ancora velatamente idilliaco, per quanto cosciente e strutturato, che subirà un non piccolo ridimensionamento nelle successive opere in versi.
L’altro evento è il varo del Fascicolo bimestrale di poesia “Officina”: stampata in tirature di poche centinaia di copie a Bologna dal maggio 1955 all’aprile 1958 (prima serie), è “finanziata” dalla libreria Palmaverde, che è anche il luogo dove si svolgono le riunioni di redazione; ed è poi edita da Bompiani dal marzo al giugno 1959 (seconda e ultima serie) per interrompersi tuttavia bruscamente – per vari motivi (non ultimo né primo l’epigramma pasoliniano A un papa, indirizzato a Pio XII).
Sulla vicenda della rivista il saggio di Gian Carlo Ferretti, “Officina”– Cultura, letteratura e politica negli anni cinquanta (Einaudi, Torino 1975) rimane tutt’ora indispensabile per ripercorrere l’avventura dei giovani Roversi, Leonetti, Pasolini, Romanò, Scalia, Fortini. (Va poi detto che dopo un’iniziale tiratura limitata uscita nel 1993, l’editrice bolognese Pendragon ha approntato nel 2004 un’ulteriore ristampa anastatica che raccoglie in volume tutti i numeri della rivista).
“Officina”, anche e precisamente per le voci che materialmente la formarono e per gli ospiti che ebbe (da Pagliarani a Calvino, da Volponi a Luzi, da Gadda a Bertolucci), fu uno dei momenti di confronto più ricco nell’Italia del dopoguerra, dove per altro si possono intravedere in nuce le linee critico-letterarie essenziali del successivo “Menabò” di Calvino e Vittorini. Luperini, lucidamente, sintetizza:
All’inizio del periodo che prendiamo in considerazione il conflitto […] [divideva] quanti ancora continuavano a muoversi all’interno del vecchio ruolo ideologico dell’intellettuale umanistico da quanti, invece, avvertivano la necessità di rompere con esso e di ridefinire la propria collocazione nel campo delle attività umane. Il terreno di scontro […] comportava una battaglia culturale che vedeva attestati da un lato gli storicisti, ancora crociogramsciani, di “Officina” e dall’altro i seguaci della fenomenologia riuniti intorno a “Il Verri”. E va da sé che i secondi prendevano di mira il marxismo e s’inserivano, per affossarlo, in una crisi politica e culturale del movimento operaio; ma anche che i primi non avevano affatto le carte in regola per reggere l’urto, cosicché, restando al di qua dei termini stessi della questione, erano destinati a finir perdenti.8
Ovvero, nelle parole di Alberto Asor Rosa: “‘Officina’ è il fortilizio di confine, l’ultima linea di resistenza, prima che sia varcato il fiume della rivolta e della disintegrazione del letterario”9 avviate dal “Verri” nel 1956.
Si coglie qui una strettoia essenziale, paradossalmente irrisolta perfino oggi (in poesia, in posizioni o schemi di gruppi attivi): il muro che divide lo sperimentalismo officinesco dalle molte vie e vite della neoavanguardia. Questa la vulgata di un persistente dualismo che a un certo punto ha più (sovra)determinato che registrato i fatti letterari, classificando ossia freddando i testi spesso senza leggerli.
A distanza da simili contrasti, e sottolineando invece una tensione militante e critica che non ha etichette, va segnalato qui, prima di ogni altro, il prelievo saggistico da “Officina” che di Roversi si offre: un saggio che è già pamphlet e affondo politico senza mediazioni: Il linguaggio della destra. È un’analisi e rassegna linguistica del nodo clericalismo-fascismo come poche se ne registrano in quegli anni. E perfettamente (purtroppo) replicabile per questi anni: per oggi.
Aggiungiamo: se, nonostante pagine simili, il limite di “Officina” – come molti critici hanno scritto – fu una mancata esplosione del fatto letterario e linguistico verso l’esterno, ossia verso un approfondimento del rapporto tra testo e impegno, tale mancanza è ben intesa e affrontata da Roversi nel fondare “Rendiconti”, a pochi anni dalla chiusura della prima rivista. Già alla fine del 1959, su “Nuova Corrente”, rispondendo insieme ad altri autori a un intervento di Giovanni Sechi dal titolo Realtà e tradizione formale nella poesia del dopoguerra, Roversi chiaramente inizia a delineare un diverso impegno culturale (oltre “Officina”, eppure a quella ispirato più o meno direttamente)10: un’attività contro
il consolidarsi delle vecchie strutture, la saldatura […] di questa cappa di restaurazione clericale-ottocentesca […] [e il riaffermarsi di] poetiche che parevano spente per sempre […] [e contro una] realtà, nella sua crudezza difficile, che condiziona il discorso politico […] noi abbiamo così pochi strumenti; non possiamo seguirla e subirla, disarmati. Ma occorre, per non lasciarsi annichilire, affrontarla agguerriti, per quanto possibile, da una consapevole e verificata disponibilità di atteggiamenti e di curiosità intellettuali che rendano almeno possibile intendere, nella sua “complessità generica”, il grado elevato di saturazione tecnica che la realtà ha raggiunto. Puntigliosi e aggiornati; senza ibride mescolanze, con una partecipazione intellettuale continua; attenti ciascuno alle proprie opere e al proprio lavoro, ma non più indifferenti o genericamente sorpresi e curiosi; partecipi e protagonisti; scartati per sempre gli exploits d’umanitarismo politico e di ideologismo troppe volte approssimativo e contraddittorio. Un’intelligenza delle cose complicata e attenta, pronta a voler intendere (e sia pure a rifiutare) le metodiche promesse e premesse suggerite dal neoumanesimo scientifico in atto.11
In tal modo Roversi con impazienza e lucidità stilava, insieme a un’analisi del momento storico-politico, quella che si potrebbe addirittura definire – come Giuseppe Zagarrio puntualmente fece12 – una sorta di vera bozza di programma per “Rendiconti” (la cui prima serie andrà dal 1961 al ’77). L’“intelligenza delle cose”, cioè la penetrazione critica degli eventi nell’Italia del boom economico ormai in atto, veniva (doveva essere) definita “complicata e attenta”, e a un tempo scettica proprio nei confronti di quell’abbandono ottimistico a scienza e tecnologia che non era altro che l’inizio di una resa – troppo povera di coscienza – alle meraviglie seriali del mercato.
Le 46 poesie roversiane de La raccolta del fieno, che in questo preciso momento (1960) escono sul “Menabò” – dopo una significativa comparsa parziale già in “Officina” – sembrano andare però in direzione di una lettura del presente come decadenza; del resto assolutamente legata all’attraversamento della guerra. Due sono soprattutto le linee tematiche (vere isoipse) in questi testi: l’ossessiva figura del viaggio di ritorno dal conflitto (non estranea, si sa, alla poesia di Fortini), e già l’immagine dello sfacelo, specie nella devastazione delle campagne, nella fine del mondo rurale italiano, che sarà poi argomento nodale per Pasolini.
Non libera dall’eco delle bombe su Bologna, dall’esperienza resistenziale, né da una pena infinita per un paese che dalla civiltà contadina si affaccia su un buio imprecisabile, questa scrittura affronta ancora con l’arma del poemetto eventi che – in una realtà frantumata – frantumeranno poi il linguaggio nelle successive Descrizioni in atto (dalla metà degli anni Sessanta).
La raccolta del fieno costituisce – pur entro i suoi limiti lirici – il nucleo significativo di Dopo Campoformio in edizione Feltrinelli: 1962. Nucleo non invariabile, tuttavia, se molti di quei testi non verranno ospitati dalla raccolta feltrinelliana, rimanendo così confinati alla rivista, dove (p. 99) Roversi annota: “Delle poesie qui pubblicate – molte inedite, altre apparse in riviste, sparsamente – alcune risalgono al ’49, poi ce ne sono del ’51, infine degli anni ’54-55. Poche sono recenti; tutte entreranno in un volume che sarà pubblicato dall’editore Feltrinelli”. La caduta di vari testi, nel passaggio da rivista a libro, sarà allora da imputare forse all’“età” di alcune pagine. I debiti con gli anni Quaranta e Cinquanta – anche in termini di lirica perfino “novecentista” nonché “realista” – si avvertono13. E non a caso una seconda edizione, presso Einaudi, appena tre anni dopo, registrerà cospicue varianti. Tematiche e formali.
Del titolo l’autore parla in varie occasioni: per esempio in un’intervista (rilasciata a Ferdinando Camon) in cui dice come “dopo Campoformio” renda chiaramente il senso di una mancata rivoluzione. Di fatto “Campoformio segna una restaurazione succeduta a nessuna rivoluzione”14. Il riferimento logico – circa il presente – è allo spartiacque della seconda guerra mondiale, massacro a cui non seguì alcun rinnovamento radicale.
La raccolta che presentiamo in apertura di questa antologia roversiana è l’edizione 1965 di Dopo Campoformio. Ma non è scorretto ripetere per questa le stesse parole che Roversi inseriva nel risguardo del ’62:
L’autore di questa raccolta presume soltanto d’avere composto un libro utile per qualche lettore non frettoloso; certo non un libro sfolgorante, con su impresso il volto dell’eroe, ma un libro monotono, con pagine di pietra; un libro lento, magari mal scritto, buttato in una oggettività esasperata e dolente, di tristissimo umore, di molto fiele, d’altrettanto forte ribadito amore; con molti squarci epici (nel senso di un racconto totale); con molti ritratti, soprattutto di uomini vecchi che muoiono, di donne, e di una terra nebbiosa: il ritratto dell’Italia rotta e adirata che ancora insiste e resiste (perfino nei suoi monumenti viventi), e non è splendente ma grigia, non celeste ma nera, struggente come una brace. È dunque perseguito il proposito di narrare una vicenda di forme e di idee che trapassano, si scontrano, declinano, si spengono – dentro a questo paesaggio di cose, nel corso dei quindici ultimi anni.
Fra Il tedesco imperatore e Prima dell’autunno, sul fiume Leuter, in Germania, con cui si apre il libro e si conchiude (questa storia di un solo lungo errore), sono compresi i momenti di un’esperienza di guerra al limite dei vent’anni, e un ritorno sui luoghi, con occhi diversi e più acuti, a contemplare, come riflessi nel Lete, il nuovo oblio, la smemorata indifferenza, l’inconscia rinnovata volontà di male, le prestidigitazioni dei satiri inferociti. Dopo Campoformio non è dunque, e non vuol essere di proposito, un libro tenero, ben fatto […] ma, prescindendo dal risultato che è al giudizio del lettore acuto, un libro d’opposizione, un libro di contrasto politico. Scontrandosi con la realtà patita, l’autore crede d’aver radunato veramente “cento colonne di piombo versificato” – secondo quello che voleva essere un insulto venuto da parte maldestra e che egli assume come il più lieto, il più forte, il più difficile e austero, e nelle proprie intenzioni il più giusto, dei giudizi benevoli mai goduti. Vuol poi aggiungere in fine (per chi vide già su altre pagine alcuni di questi testi in stesura diversa) che indicando come strumento della propria poesia “la povera, buona, vecchia lingua italiana”15, […] le sottintendeva un tono terribilmente ironico e dolente; fino in fondo consapevole che non si darà nuovo linguaggio e nuova invenzione se non salteranno per forza di idee i cardini delle strutture che si oppongono; e che occorre intanto partecipare del dolore monotono ed estenuante già conosciuto, tanto più crudo quanto l’attesa è avara. Non saranno il neo futurismo che s’affaccia con un plurilinguismo da crociera turistica; la disponibilità o l’indifferenza morale; questo clima da gran ballo sotto il ciliegio, a fargli mutare proposito o bandiera; a dar meno vigore, se qualche merito c’è, a questi versi – a questo solo poema.
L’auto-inquadramento critico di Roversi è una presentazione/ descrizione completa, esplicitante e (sì) impegnante; e non priva di polemica (per esempio nel riferimento ad Alfredo Giuliani, che aveva appunto condannato sul “Verri” La raccolta del fieno definendola “cento colonne di piombo versificato”; o nelle ultime righe – dove la neoavanguardia viene troppo velocemente liquidata ridicolizzandone il “plurilinguismo da crociera turistica”)16.
Dopo Campoformio è insomma atteso, pensato, poi rivisto e pubblicato da Roversi come “solo poema”: poesia unitaria. Non diverso è l’impianto delle Descrizioni in atto, come del Libro Paradiso. Dopo Campoformio tende non alla mera composizione di un’architettura di poemi (o poemetti) bensì di “un” libropoema17. Va aggiunto che rispetto al 1962, l’edizione 1965 di Dopo Campoformio accoglie, specie nel suo testo conclusivo, ossia in Iconografia ufficiale (sul disastro della diga del Vajont), una delle tecniche principali dell’avanguardia: il montaggio di frammenti, l’assemblaggio di prelievi testuali senza intervento di scrittura diretta dell’autore. L’integrità-interezza del poema è quindi intenzionalmente incrinata dall’interno; e per certi aspetti riconfigura il libro come opera (quasi) aperta, dal riquadro o pannello finale, politicamente connotato e tagliente come pochi. Riquadro di “trascrizione”18 “senza interpolazioni” che “rappresenta il progresso (nel senso di reportage naturalistico-decadente) dell’informazione dei giornali; il lubrico e un po’ sconnesso linguaggio delle occasioni; e il referto della pronta indifferenza burocratica”19 di fronte al collasso della diga. Il testo di Roversi senza freddezza aggredisce con mezzi freddissimi l’“iconografia” che politicanti e giornalisti danno del crollo, della morte degli innocenti. (Allegoria di disastri più ampi, che il neocapitalismo non solo italiano sta incubando o manifesta: per cui si vedano, qui, le risposte che Roversi diede al questionario 1964 di “Nuovi Argomenti”: 10 domande su neocapitalismo e letteratura).
Non si può non concordare con Luperini quando afferma che “negli ultimi componimenti (basti pensare a Iconografia ufficiale) Roversi s’avvia […] a bruciare ogni residuo ideologico e a conquistare un punto di vista del tutto negativo, a scrivere direttamente dall’inferno sull’inferno, senza lasciarsi spiragli idillici, consolatori o utopistici”20. Iniziamo a trovarci di fronte, proprio grazie al lavoro per l’edizione einaudiana, al “clima” testuale che Le descrizioni in atto innescheranno o stanno già elaborando (le prime compaiono in rivista già nel 1963).
Prima di queste, è però opportuno considerare il romanzo che Roversi pubblica presso Rizzoli nel maggio 1964: Registrazione di eventi. Sia perché già nel titolo “Registrazione” e “Descrizioni” si richiamano l’una con l’altra, sia per accennare alle sue linee tematiche. Scrive Antonio Motta:
Ettore, il protagonista del romanzo, è sopraffatto, schiacciato, da un rifiuto economico, da una logica calcolatrice che antepone il denaro, “tutto è oro”, ripete Ettore con Marx, ai sentimenti più puri […] Nessuno si salva: la madre, il funzionario di banca, l’amico del padre, l’intellettuale Geo, tutti affogano in un benessere sordido e servile che li rende ipocriti e egoisti […] Contro “questo” tempo, senza ideali, Ettore/Roversi rinnova il suo grido di amore alla vita […] Si ribella fino a volere il suicidio21. La sua morte vera (e non finta) brucia per sempre le appendici di una cultura stantia, sentimentale, retorica, incapace per questo di contrastare il nuovo corso della storia del neocapitalismo, che si era rinnovato e si era fatto più aggressivo, puntando sul ritardo della cultura di sinistra, a cui ha attinto la formazione di Ettore.22
Il titolo Registrazione di eventi potremmo sentirlo quasi affine all’école du regard. È tuttavia impressione smentita e smontata dall’effettivo doppio registro (per nulla raggelato in oggettività da cinepresa) del romanzo, definito immediatamente “lirico ed etico” già da Guido Guglielmi nella breve nota critica sul segnalibro editoriale accluso al volume23. Proprio il versante “lirico” fu quello che spiacque a molti, che non vi seppero cogliere un’ironia roversiana: poi sempre più esplosiva ed evidente nei versi delle Descrizioni.
La prima tiratura al ciclostile delle Descrizioni in atto è della fine del 1969. Segna l’inizio della radicale separazione dell’autore dal sistema ufficiale della distribuzione del testo, o perlomeno da chi sul lavoro intellettuale impianta questioni di profitto. E tuttavia: quello posto in essere dalle Descrizioni non fu tanto un atto negativo, un “rifiuto dell’industria editoriale”, bensì un affermativo e non piccolo gesto di inserimento nel più complesso insieme di lotte per una differente comunicazione (e gestione della comunicazione), entro quel prisma aperto di forze che a sinistra, in quegli anni, sperimentavano più vie di lotta e di parola (e di lotta alle parole ereditate). Su questo in tante occasioni Roversi è stato esplicito: si leggano qui le pagine della Conversazione introduttiva a I diecimila cavalli, o l’intervista (Conversazione in atto) rilasciata a Gianni D’Elia.
Tutto il tessuto delle Descrizioni si rivela fittamente intrecciato con le modalità di trasmissione della comunicazione: che fu (tanto nel ’69 quanto in tutte le ristampe) propriamente politica: affidata a una totale gratuità, e a iniziative a diffusione popolare24. Pensiamo alla tiratura del 1990 uscita ne “I quaderni de ‘Lo spartivento’”: in copertina campeggia la scritta “Questa nuova tiratura di Le descrizioni in atto è stata stampata e distribuita come una delle occasioni per le manifestazioni unitarie CGIL, CISL, UIL di Bologna per il Centenario del Primo Maggio. Non è in vendita, ma chi vuole può dare o mandare un contributo per il foglio di poesia militante ‘Lo spartivento’”.
Anche al gesto di comunicazione-opposizione delle Descrizioni potremmo applicare le parole di Alberto Asor Rosa (che qui fa riferimento agli stili della… neoavanguardia):
Nessuno potrebbe contestare oggi il valore non solo di rottura ma costruttivo di un’operazione che ha contribuito a liquidare il mito salvifico della funzione dell’ideologia in letteratura: anche se, contribuendo a liquidare quel mito, essi [gli scrittori della neoavanguardia] probabilmente hanno anche contribuito a liquidare la letteratura. Oppure – ciò che è più o meno la stessa cosa – a estenderne talmente i limiti da renderne sempre più difficile l’identificazione: il volantino politico sessantottesco è probabilmente il frutto più significativo di questa pratica letteraria avanguardistica ormai diffusa, in cui il medium retorico e formale sopravvive soltanto per dare maggior efficacia all’assoluto dei contenuti.25
Il paragone è istituibile. Fatta salva la diversità tra gli stili della neoavanguardia e l’eticità e furia denotativa delle pagine di Roversi. Il legame tocca la denuncia, l’intervento, la volontà di azione-nella-parola che tanto Roversi (pur dal suo appartarsi) quanto i movimenti gettavano in una lotta che appariva – ed era – per la vita o la morte.
Né si può dire che le Descrizioni mancassero di quella concitazione didascalica che in fondo si trovava già nei testi aggiunti a Dopo Campoformio. Come dice Luperini, nelle Descrizioni:
il piano didascalico-ragionativo e quello figurativo o evocativo s’intrecciano ininterrottamente, in un’alternanza di discorso diretto di tipo sentenzioso e di deformazione espressionistica. Ne deriva una miscela di orrore (il mondo intero sembra ridotto a un enorme Vietnam) e di furore, che conferisce al libro “un’autorità d’ossessione”26: quella che nasce dalla moltiplicazione, tenacemente monotematica, di una medesima visione dell’inferno neocapitalistico.27
Alla fine degli anni Settanta Roversi va verso uno stabilizzarsi-radicalizzarsi di due fronti paralleli: la scrittura di poesia e la prassi di separazione dal mercato, ossia l’intensificarsi della vis oppositiva al sistema (pur sempre attraverso iniziative culturali). I materiali della stagione confluiscono da un lato in pagine teatrali, dall’altro nel romanzo I diecimila cavalli, che esce nel ’76; nonché in collaborazioni musicali. I poemetti che in Dopo Campoformio avevano avuto intenzione di stabilire un flusso incanalato in libro o raccolta, e che negli anni Sessanta si erano invece venuti frantumando (a livello microstrutturale) in quegli esempi di antipoemi che sono le Descrizioni, troveranno voci diffratte e multiformi nei mille rivoli che più avanti Il Libro Paradiso riunirà (e che in altra direzione nutrono quel poema pressoché sconfinato che sarà ed è L’Italia sepolta sotto la neve). Su un’analoga complessità e frantumazione stilistica, nei Diecimila cavalli, è esaustiva questa nota di Luperini:
Roversi è tornato al romanzo con I diecimila cavalli (1976) che presenta una struttura più costruita, complessa e ambiziosa di Registrazione di eventi. Con I diecimila cavalli, Roversi vuole fare i conti, sul piano letterario, coi risultati della neoavanguardia (parzialmente presenti anche nelle Descrizioni in atto) e, sul piano politico, col ’68, collocandone la tensione ribellistica, qui espressa dal protagonista Marcho Marcho, in un quadro sociale dominato dalla lotta operaia. Ma se il nuovo romanzo è dimostrazione di una riconquistata capacità di costruzione e di organizzazione narrativa, recuperata all’interno di un processo di destrutturazione e frantumazione, non sempre raggiunge la freschezza e l’impeto del precedente, nuocendogli un volontarismo ideologico e politico, una irrisolta volontà di futuro. Pecca per eccesso di generosità. Il che – alla fin fine – neppure ci dispiace, in una società letteraria di scrittori cinicamente perfetti.28
La stessa generosità è disseminazione. Siamo nel pieno di anni amari, effettivamente sepolti sotto la neve. Una molteplicità di interventi roversiani è la cifra del tempo – in apparente consonanza con le scelte delle generazioni di giovani poeti che allora esordiscono; come osserva Stefano Giovanardi: “gli esponenti della generazione post-Sessantotto si videro […] costretti a […] una sorta di empirismo assoluto, forzati a misurarsi con la poesia prima che con le poetiche, in una disseminazione di tendenze e di orizzonti”29. (Si può parlare di consonanza apparente, essendo la disseminazione roversiana ancora e sempre orientata politicamente, intenzionale in pieno, e mossa a raggiera su tutte le scritture immaginabili, anche saggistiche e polemiche e pubblicistiche; limitandosi invece le nuove generazioni – spesso – a scelte chiuse nello specifico della produzione di versi).
Caruso e Martini:
Nell’aprile 1973 era apparso un lavoro di Roversi che potrà sembrare strano solo a chi continua a credere nella “sacralità” del poeta laureato: […] [le] canzoni del disco di Lucio Dalla Il giorno aveva cinque teste, un esperimento condotto per saggiare le possibilità di questo insolito, per lui, mezzo di comunicazione, ed anche come momento di preparazione per portare in scena un vero e proprio spettacolo musicale di contestazione.30
L’esperienza sarà ripetuta con altri due dischi, e altre collaborazioni con cantautori. Numerose sono poi le partecipazioni del poeta – e non certo a partire solo da questa fase – a quotidiani come “L’Unità” e “il manifesto”, ma altresì a piccole e grandi riviste di letteratura e politica: “Quasi” (di Favati e Zagarrio), “Bologna incontri”. Motta annota che il “segmento della biografia intellettuale di Roversi, dai fatti di Bologna all’affaire Moro […] è affidato [alla rivista bolognese] ‘Il Cerchio di Gesso’, ai fogli di poesia ‘La Tartana degli Influssi’ e alle ‘Porte’ (quest’ultima portata avanti con Scalia)”31. Gli anni Ottanta sono anche quelli della collaborazione a “Numero Zero” (rivista curata da Salvatore Jemma, Maurizio Maldini e Gabriele Milli), dei “Dispacci”, de “I Prati di Caprara” e del foglio di poesia militante “Lo Spartivento”, nato nel 1986, curato da Milli. Proprio in forma di “quaderno de Lo Spartivento” esce nel 1990 l’ultima edizione che fino a oggi era disponibile de Le descrizioni in atto.
Nel 1992 viene ripresa – presso l’editore Pendragon – la pubblicazione di “Rendiconti” (interrottasi nel ’77), di cui qui si propone un brano particolarmente agguerrito: Forse non è ancora tempo di ritirarsi in campagna. Roversi vi avvia un’apertura di discorso sulle ragioni della debolezza della sinistra, e su quanto ancora – dell’utopia e dello sguardo critico – in quel torno di tempo si incarnava in linguaggi e storie concrete. L’anno è cruciale: 1993. Praticamente l’ultima soglia prima del disastro politico del Paese.
“Rendiconti”, nella prima serie 1961-1977 e nella seconda 1992-1997, ha avuto non molti compagni di strada (tolti i “Quaderni Piacentini”) nel panorama delle riviste italiane: innanzitutto per l’attenzione inaggirabile al nodo realtà-cultura. Nodo che del primo elemento non fa “pretesto” per il secondo. Anzi, talvolta è incisiva la presenza di articoli di integrale analisi politica. In secondo luogo per la cura verso le voci poetiche “minori” o dimenticate: citiamo – tra moltissimi – gli esempi significativi di Silvo D’Arzo, Emilio Villa, Giuseppe Guglielmi. In terzo luogo l’attività di scandaglio di nuovi scrittori e saggisti, anche assai giovani.
Una breve annotazione sulle infinite collaborazioni o “apparizioni” di Roversi come ospite in altre riviste dovrebbe a questo punto segnalare sedi di cui qui non è possibile stendere neppure un rapido elenco, essendo il panorama – come più volte detto – interessante e sterminato.
Così com’è fitto l’elenco di libri che Roversi pubblica, diciamo nei vent’anni tra 1981 e 2001. La bibliografia ne dà traccia.
Come segno dei testi degli anni Settanta e Ottanta ripresi e connessi nei Novanta, qui si offre Il Libro Paradiso, fatto di Undici poesie degli anni ’70-’80. Uscito per Lacaita nel ’9332. È una sorta di ponte fra Descrizioni e poemi successivi. Basti pensare che il brano Trenta poesie (1980), sottoposto a varianti molto cospicue, viene pubblicato proprio come Cinquantacinquesima descrizione in atto, già nel 199032. Alcune delle Trenta poesie le ritroviamo inoltre – rielaborate – come segmenti pieni dell’Italia sepolta…
(Come sempre accade in Roversi, le opere si intersecano, talvolta si sovrascrivono a vicenda).
È l’autore stesso a spiegarci cos’è esattamente un “libro paradiso”.
La scena XXXII della Parte Seconda del testo teatrale Enzo Re34 segnala l’entrata di Rolandino de’ Passeggeri, che legge davanti al popolo la lettera, documento del 7 giugno 1249, con cui l’imperatore Federico chiede ai bolognesi di rilasciare il figlio Enzo. Non è accertato storicamente, tuttavia varie tradizioni successive (e la pièce di Roversi) danno per certo che la risposta all’imperatore, a fermo rifiuto di cedere l’ostaggio, sia stata scritta – traducendo la volontà dei bolognesi – proprio da Rolandino. L’altro atto importante di questo colto bolognese consiste nel contributo dato alla risoluzione comunale che decreta la liberazione degli schiavi; testo confluito nella stesura del Liber Paradisus con le riformagioni e gli statuti connessi, contenente appunto l’articolazione giuridica della liberazione. È superfluo suggerire quanto e come Roversi senta se stesso vicino alla figura di Rolandino. Questo il dialogo nella scena XL di Enzo Re35:
Rolandino:
[…]
Fa freddo
l’autunno calerà in fretta.
Pascipovero:
Così potrai mettere a punto nei mesi della neve
la tua summa e i termini della legge per i servi.
Tutti ne parlano nelle campagne e in città.
Bologna per merito del suo diritto
prima fra tutte avrà il suo libro Paradiso.
Salatiele:
Bisognerà accompagnare con un alto commento
questa legge: ogni chiosa
dovrà essere degna di Tullio.
Pascipovero:
Meglio dire: del diritto.
Salatiele:
Non è questo il senso
se Rolandino ci mette la mano?
Organizzare il pensiero, dare
ordine all’interno di una argomentazione,
questo è scrivere.
In altre parole: bisogna sapere ciò che si vuol dire,
quale risultato conseguire,
se atterrire commuovere persuadere.
Nel testo c’è tutto. È chiara l’articolazione delle scelte non solo in ordine ai versi del Libro Paradiso pubblicato nel ’93, ma anche in riferimento al lavoro svolto poi con L’Italia sepolta sotto la neve. Rolandino, infatti, nel passo riportato, annuncia la venuta dell’autunno, di quella “neve” che non è solo gelo ma anche pausa e luogo di silenzio entro i cui confini indefiniti mettere a punto (come dice Pascipovero) “la summa”.
La “summa” di testi disseminati in riviste negli anni Settanta e Ottanta Roversi la allestisce lungo il corso degli anni Ottanta, per poi darla alle stampe nel Libro. Termini del valore testuale e intenzioni autoriali sono ben tradotti da Salatiele: “Organizzare il pensiero, dare / ordine all’interno di una argomentazione, / questo è scrivere. / In altre parole: bisogna sapere ciò che si vuol dire, / quale risultato conseguire, / se atterrire commuovere persuadere”.
Come appare chiaro, si è già, o ci si avvicina, a una modalità di scrittura che ha attraversato in buona parte l’esperienza esplosiva – o scientemente dissipativa – delle Descrizioni. L’autore sta costruendo, costruirà, con materiali talvolta nuovi, sui quali non resta che interrogarsi, oltre lo stesso Libro Paradiso.
Dunque il Libro, con le prose ferrose che seguono, chiude-apre l’antologia Tre poesie e alcune prose: raccolta parziale, certo. Vista e da vedere come gabbia tipografica ricca quanto incompiuta, incompibile, che cioè rispetta (e non vincola) quelle che variando un titolo di Leonetti si potrebbero dire le scritture sconfinate di Roversi.
Note
1 P.P. Pasolini, La posizione, in “Officina”, n. 6, aprile 1956, pp. 245-246.
2 E.V. [Elio Vittorini], Notizia su Roberto Roversi, in “Il Menabò”, n. 2, 1960, p. 101.
3 F. Leonetti, in E.V., Notizia cit., ivi.
4 A. Motta, Roberto Roversi, in “Italianistica – Rivista di letteratura italiana”, a. XXIV, n. 1, gen-apr 1995, pp. 209-210.
5 L. Caruso e S.M. Martini, Roberto Roversi, La Nuova Italia, Firenze 1978, p. 35.
6 G. D’Elia (a cura di), Conversazione in atto, intervista a R. Roversi, in “Lengua”, n. 10, luglio 1990, p. 41. Qui riprodotta in parte.
7 Caruso e Martini, Roberto Roversi cit., pp. 36-37.
8 R. Luperini, Il Novecento – apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, Loescher, Torino 1981, t. II, p. 727.
9 A. Asor Rosa, Lo Stato democratico e i partiti politici in Letteratura italiana (a cura di), vol. I, Il letterato e le istituzioni, Einaudi, Torino 1982, p. 620.
10 Pensiamo p. es. all’“attiva intransigenza” e alla “nuova responsabilità” dell’“uomo di cultura”, a cui Roversi già faceva riferimento in Lo scrittore in questa società (“Officina”, n.s., n. 1, marzo-aprile 1959, pp. 16-19).
11 In “Nuova Corrente”, n. 16, ott-dic. 1959, pp. 106-107.
12 Giuseppe Zagarrio, Roberto Roversi, in G. Grana (a cura di), Letteratura italiana, vol. VI, I contemporanei, Marzorati, Milano 1974, pp. 1543-1544.
13 Cfr. p. es. G. Barberi Squarotti, Poesia e narrativa del secondo Novecento, Mursia, Milano 1961, p. 30.
14 In F. Camon, Il mestiere di scrittore, Garzanti, Milano 1973, p. 175. La Pace di Campoformio (17 ottobre 1797) segnò un momento di tregua nello scontro fra Napoleone e l’Austria, in cui questa cedette la riva sinistra del Reno, e Napoleone barattò con astuzia l’ottenuto possesso di Belgio e Milano con Venezia, lasciata appunto agli austriaci (sollevando, come è noto, le ire di Foscolo).
15 Il riferimento è alla citata Notizia vittoriniana (cfr. nota 2) dove a p. 102 viene riportata questa espressione di Roversi: “Uso la povera, buona, vecchia lingua italiana con la quale ‘credo’ si possa ancora dire tutto, semplicemente”.
16 “Liquidazione” ingenerosa, va detto, almeno se pensiamo a quei nomi della letteratura mondiale che – anche attraverso un feroce plurilinguismo – hanno ricodificato la complessità del XX secolo, e ai quali gli scrittori della nuova avanguardia guardavano: a partire da Joyce, Eliot e Pound.
17 Cfr. Caruso e Martini, Roberto Roversi cit., p. 73.
18 Tecnica nota almeno dai tempi di “Officina”: cfr. il n. 9-10 (del giugno 1957), con le due celebri “trascrizioni” di Pagliarani alle pp. 351-353.
19 R.R., Dopo Campoformio, Einaudi, Torino 1965, p. 112.
20 R. Luperini, Il Novecento cit., p. 807.
21 È in fondo una imprecisione. Il protagonista forse “vuole” il suicidio inconsciamente, ma certo nulla nel romanzo segnala che l’incidente automobilistico in cui Ettore e la sua amante trovano la morte sia stato pensato da Roversi come vero atto di suicidio. Questa interpretazione della morte di Ettore è tuttavia presente già in uno scritto di W. Pedullà del 1964, Il linguaggio di Roversi allena alla disperazione, poi incluso in La letteratura del benessere, Bulzoni, Roma 19732 (cfr. spec. p. 483); nonché in un passo, ancora di Pedullà, de La rivoluzione della letteratura, Bulzoni Editore, Roma 19722, pp. 33-34. Col tempo il suicidio di Ettore è divenuto addirittura un “luogo comune” della critica: vedi l’“autodistruzione” [sic!] di cui parla M. Marchi alla voce Roberto Roversi, in G. Luti (a cura di), Poeti italiani del Novecento, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1985, p. 206.
22 A. Motta, art. cit., pp. 213-214.
23 Cfr. anche in questo caso Pedullà, Il linguaggio di Roversi cit., pp. 481-485 (ma in particolare l’incipit). Ricordiamo inoltre l’ostilità di Roversi alla école du regard: cfr. le sue risposte alle 10 domande su neocapitalismo e letteratura, qui riprodotte.
24 Non manca di notarlo G.C. Ferretti, ne Il mercato delle lettere, Einaudi, Torino 1979, p. 103.
25 A. Asor Rosa, Lo Stato democratico e i partiti politici cit., p. 632.
26 La formula è ripresa da Giovanni Raboni in Poesia degli anni sessanta, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 191.
27 R. Luperini, Il Novecento cit., p. 808.
28 R. Luperini, Ibid., pp. 808-809.
29 Introduzione a S. Giovanardi e M. Cucchi (a cura di), Poeti italiani del secondo Novecento, Mondadori, Milano 1996, p. XLVII.
30 L. Caruso e S.M. Martini, Roberto Roversi cit., p. 44.
31 A. Motta, Roberto Roversi cit., pp. 217.
32 Stesso anno della pubblicazione per Pendragon della Seconda Parte de L’Italia sepolta sotto la neve.
33 Le descrizioni in atto (1963-1973), “I quaderni de Lo Spartivento” 1, Coop Modem, Bologna 1990, pp. 114-116.
34 La scena inizia a p. 89 di Enzo Re – Tempo viene chi sale e chi discende,I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta 1997.
35 Alle pp. 110-111 dell’ed. cit.
*****
Tre poesie
A Th.
Dopo Campoformio
1965
La nota in calce all’edizione Einaudi 1965 di Dopo Campoformio così precisava (a pochi anni dal risguardo per Feltrinelli: cfr. p. 16):
Scritte fra il 1955 e il 1960 (tranne l’ultima che è un montaggio), le composizioni che qui si ripresentano, dopo una diversa edizione, hanno una collocazione dentro a un tempo ben preciso in cui vogliono e devono confondersi e riconoscersi (dai fatti d’Ungheria all’esplosione di Krusciov); e in cui trovano i rimandi e i riscontri necessari per l’intelligenza delle cose dette o solamente accennate con arguzia (spesso con un autentico dolore intellettuale). In quel tempo imprevedibile e caotico nel senso del nuovo che cominciava, si collocano; e con questo tempo affatto remoto (e i suoi atti e i suoi fatti) amano misurarsi e scontrarsi. In seguito sarà occasione di diversissimo timbro e di altre ragioni – tuttavia urgenti. Ma in questo unico poema in più canti o lasse, come l’intende l’autore, si è saggiata una certa forza d’urto (non soltanto privata) e la capacità di uscire da soli da una situazione di estrema tensione e di disagio delle idee – cercando e provando dall’interno. Perché su una morte apparente (cioè, a parte subiecti, su una rassegnazione all’inevitabile della storia e alla fluidità dei sentimenti dell’uomo) non si potesse ancora una volta esercitare la giocosa e perfida ironia del critico westfalico ricordato da Marx: il quale sul cadavere del signor Julius Faucher grida: “Questa è la fine della letteratura sulla terra”. In tale senso semplicemente si offrono.
Il tedesco imperatore
I. In Lombardia II. Novara, Ivrea, Aosta III. Lungo i muri IV. Il riso dei tedeschi V. Giorno d’aprile VI. Haabiorg VII. Tutto bruciato VIII. Corbari IX. L’azzurro delle Langhe X. La piazza è in festa
Quando venni in Lombardia
ero giovane, allora.
Per strade ròse dai fischi dei vapori
il pianto di un ragazzo
migrò libero verso la frontiera;
l’ombra dei montanari saliva verso il cielo
e in tiepidi restaurants i camerieri
scoprivano agli ufficiali
distratti da un occhio adolescente
fragili zuppiere.
Nel rifugio della stazione,
mentre i treni bruciavano
bianchi neri contro le vetrate,
la donna appoggiò i chiari
capelli sul mio zaino.
Terra per eserciti
in fuga verso i monti.
Tremano al lume di luna le giovani foglie.
Austria, Svizzera, Francia alla frontiera.
In due giorni di cammino
sui laghi volarono,
col balzo delle trote, le speranze.
A Novara, a Novara;
oh a Novara, in un’osteria
avvinghiata da caserme bruciate;
un uomo grida sul prato della periferia,
al mattino era morto. Ivrea, Aosta…
su quelle strade marciavo e per i monti
frustato da tristezza, dai ricordi.
Ai quadrivi immobili magri tedeschi in tuta,
donne esultanti per gioia sventura.
“La guerra è finita. Incomincia la guerra.
Mio figlio è in Russia. A Cipro è mio figlio.
Mio figlio è in Africa. In Sicilia è mio figlio.
L’America a Genova tempesta.
I cinghiali fuggono, i tedeschi
lasciano Roma…”
Uccelli caduti nella polvere
le gelide mitragliatrici.
“Scheise Mensch!” ci odiano, guardando
le vie battute da uomini disfatti,
le donne sull’uscio delle case;
ogni fosso custodisce un sonno,
i casolari offrono l’acqua, il pane.
Fuggono simili a formiche
lungo i muri, picchiati dalla fame;
s’accascia l’Italia muggendo di dolore.
Quel tempo, rosso
sangue di bue appena macellato.
Fuoco sui paesi
della collina o persi dentro al mare,
su chiese, monasteri,
là dove Appennino torce il corso,
fra le canne delle paludi,
dovunque Italia spinge
la sua chioma azzurra.
Gettavano lo zaino contro l’uscio.
Il riso dei tedeschi era furioso, biondo.
Senza più sonno, agnelli al sacrificio,
i cittadini alle finestre a spiare
il passo della ronda per il mondo.
Buttato riverso
ascolto la terra sospirare.
La guerra sembra lontana,
così l’immagine dell’impiccato,
la sua ombra profonda nella polvere.
In un giorno d’aprile.
Sul lungomare fiori acerbi, duri,
muri da lunghe schegge sbriciolati,
il filo spinato arrugginito.
Una madre tiene sui ginocchi
il ritratto del figlio.
Poi nell’aria l’odore
di fuoco fra gli ulivi.
L’uomo salito sul palo
per tendere i fili della luce,
con il ferro e il cuoio alla cintura,
è un partigiano
dal viso magro di antico italiano.
Nel castello a Camogli il sergente Leone
pecorella di dio
beve sciampagna sdraiato
nudo sul letto di una contessa fuggita.
Entra dalla finestra
il volo fresco del mare.
Il sergente Leone
sfonda porta, lucchetto
e arriva alla cantina.
Mi innamorai di Haabiorg.
Guardandola bruciavo.
Lei correva al mattino
col biondo Cornino, l’arcangelo.
Correva nel bosco al tramonto.
“Fra poco avrà gonfia la pancia”,
ghignano i maledetti soldati.
Al lume di candela la serata finiva.
Partimmo: “Addio, addio,
addio mia bella, addio”,
cantarono i soldati.
Tutti nel fango sono dimenticati.
Ma lei non è scordata,
la sua persona splendida beata
è là nell’erba (lucciole delirare
all’ultimo addio). Lei sola, nel leggero
sciogliersi di riccioli, nel rischiarare
delle caute parole, perdona –
dopo tanti anni.
La sua giovinezza è ancora su quel mare.
Marco appare: “Il paese bruciato.
Guarda le case, tronchi senza vita,
macerie, polvere.
La forte gioventù morta, fuggita”.
Il sole indora la campagna,
cade dai nevai;
odore di un fuoco calmo dentro al vento.
La gente ferma sulla piazza.
M’azzanna il cuore una vespa infuriata.
“I mongoli affamati
dànno alla nostra carne questi morsi.
I tedeschi li armano, li avventano
ubriacandoli; bruciati dalla grappa
cadono urlando sulla strada,
prendono le donne come cani.
Pecore siamo nell’Italia morta”.
M’avvio nella valle solcata
da un fiume, con cime fuggenti,
stormire d’alberi,
ruscelli stenti migrano, fra onde
di foglie i castelli persi nelle ombre.
Case incendiate specchiano le nubi;
dentro ai paesi occhi e ossa d’uomini
tendono la mano, pellegrini
vinti da una sciagura.
Pendono le travi delle case.
“Le donne uccise”, dicono, “o scampate
al massacro, spente di paura
giacciono nel buio delle stalle.
Da uscio a uscio per fienili e case
i mongoli cercarono, fra le balle
di paglia, carrette rovesciate;
bruciò il paese, fuggono le donne
rauche disfatte pazze di terrore”.
I vigorosi uomini lontani.
Pagarono le donne con la vita
la breve età felice
e i neri capelli.
Tornano adesso i giovani strisciando
lungo le siepi della valle.
Nelle luride stalle di Romagna
il nome è bisbigliato1, una candela
brucia intanto le foglie del dolore.
Trasformato in vecchietto questuò
sul sagrato, ridendo
al nemico in agguato
e lo infuriò, poi,
terribilmente vivo.
Era un ragazzo dall’ala lucente.
Solo, o con pochi, rapidi disfarono
il nemico sul ponte,
prima con scherno poi con rabbia e fuoco:
liberi nell’arena
lo colpirono alla fronte.
Per lui era viva la Romagna.
Questo giuoco di morte e vino
iniziò sui tavoli della sua terra,
calpestata da chiodi e da giovani fosse;
era lui il pellegrino
che guarda la divisa del nemico
nera contro la torre del Comune
e lento vuota un bicchiere di vino.
Per prati e campi verso Modigliana
intorno è tutto un cimitero.
Gli uomini sono sepolti nella spagna.
Passano i tedeschi nelle Langhe,
strisciano i piedi sull’asfalto.
Stridono ruote, battono i fucili
contro gli elmetti vuoti, per la strada
di campagna, dinanzi all’osteria
sporca di mosche, ancora insanguinata
per la morte di una donna fulminata
con bicicletta e pane
accartocciato, l’insalata, il sale,
da un colpo di pistola.
Un cavallo al galoppo, ombre, voci
correnti lungo l’argine, per le sponde
mescolate di fango e erba nuova.
Poi al mattino le Langhe sono azzurre
nell’abbraccio delle Alpi deserte.
Carri armati posano
sotto gli alberi, i negri
ridono, stendono le mani,
la gente nelle vie,
tutte le finestre al sole.
Giorno sacro d’aprile. Alti vocianti
feroci uomini nuovi.
“È finita la guerra”, questo
il popolo grida; gli anni si frantumano,
un mondo nuovo affiora ribollendo
dalla schiuma aspra del dolore.
La piazza di calce, bianca nell’aria d’aprile,
tacque; un uomo apparve2 sul palco,
parlò poche parole aprendo
la nuova storia.
Una terra
I. Antonio padre II. Il superbo lamento III. Pesce di mare IV. A Senarica, amica di Venezia V. Il dolore d’essere dimenticati VI. Crescono giovani aspri VII. Corropoli VIII. Ferragosto IX. Il fumo dei vulcani
Un bioccolo di lana
frusta nel tramonto alberi, fiori,
muove il trotto dell’onda.
Sulla sponda i ragazzi con la schiena
inarcata puntano i piedi nella rena;
“dài pa’ssì, oh… ooh!” lo scafo stride
sulle palanche nere, Antonio padre
sfiora l’acqua, è nel mare,
apre cigno le ali, le lampare,
anatrelle, l’avvincono con corde
e la flottiglia corre in alto mare.
Nella notte, chini sul fondo, gli uomini
pescano se la luna è piena
o la corrente non spinge in Dalmazia
il cefalo che volge guizzi in oro.
Un lume è acceso
laggiù oltre il mio dito:
Antonio padre al palpito
del primo fiore in cielo tornerà.
L’inverno è lungo stretto dentro al mare
pauroso; quando giugno
brucia il dorso ai delfini
i marinai avventano nei solchi
sonno, fatica, reti rammendate.
È morto il capitano. Cade
in mare ogni luce di festa
dai giovani cuori; a riva
le donne attendono ammucchiate.
Un marinaio è al timone, bianco agnello;
così gli uomini antichi veleggiavano
approdavano a isole felici.
La barca vira, si torce, si china
mentre s’alza il lamento. Una voce:
“Tu, tesoro di mamma, meschina
perla bruciata da un vulcano,
sei trascinato a terra con la mano
in croce, sulla sabbia, dal vento, uccello
spento di rabbia, scuro, ecco il riposo”.
Vanno in tumulto con le ali aperte.
Al colpo della frusta di questo uomo
i fortunali cadevano sulle onde deserte.
Steso sul sacco è un tronco incenerito,
è tuono esploso, dileguato, offeso;
il calzone al ginocchio accartocciato.
Vita, mia vita come
sei terribile e amata: uno sconforto
senza consolazione è ancora vivo
negli occhi di questo morto che ieri
con tutti i suoi pensieri era nel mare.
Il venditore di pesce per strade e sentieri
fu in America un tempo.
“Sempre un fumo nel cielo;
pane, carbone, nel vino la polvere;
tristi le donne, negli occhi la polvere;
i ricordi chiamavano lontano.
Ora mio figlio lavora a Milano
e quella è la mia casa. Addio America”.
Cresciuta in fretta ride la sua casa.
Spinge la bicicletta, grida il pesce
giallo sul ghiaccio e viole:
“chi prende il pesce, pesce fresco di mare?”
va scalzo a chiamare
sul viale nell’ombra dei tronchi,
sfiorato da siepi a filo del mare.
Un vagabondo canta, ruvidi
marinai ascoltano a un fanale.
Sulla strada appassiscono i gerani
bucati dai fari delle macchine,
autotreni scuotono l’asfalto,
fra lo stridio dei freni i pioppi coprono
l’agonia di un gatto sfracellato.
“A Senarica, amica di Venezia…”
fuochi verdi aprono la gola
ai cani sulle aie del monte
screziato da barbagli all’orizzonte.
Il vecchio intona con pena un canto triste,
fiori tremano, cadono,
muoiono nella polvere.
L’erba è gialla di pietre; il cimitero
con gli ulivi e cipressi sbiaditi.
Anche nella pace i morti
non hanno tregua, risaliti
dal profondo si stringono le mani
rotte dalla fatica.
Madri stroncate dalle gravidanze,
invecchiate con pazienza sulle reti,
uomini stanchi più dell’aria d’autunno:
con il viso inchiodato fra due date
sanno che non c’è pianto non gridato
né un giorno senza male: che la vita
nel dolore fu tutta patita.
Rimpiangono solo l’oblio degli amici,
d’essere dimenticati.
I ricchi almeno
hanno il nome dipinto nelle prore
delle barche: rosse sul lido
con gli alberi e vele ammainate
attendono la piena primavera
per gettarsi sui branchi
nelle calme correnti verso l’Africa.
La rocca incombe ancora a precipizio.
Un tempo sulle alture
i noci strisciavano a terra
foglie di quattrocento anni, eppure
adesso il silenzio è una favola
per i vecchi che muoiono nel sole.
Le case all’ombra delle tamerici,
fra le siepi, case di girovaghi
e pescatori, pittate di bianco
(formaggio fresco su una foglia
di fico) sono cadute;
scompare adagio la gente
che non trema alle nevi dell’inverno.
Crescono giovani aspri, amare mandorle
in un tempo d’inferno, di lampi
e sorprese telluriche nell’aria
grigia che illividisce ogni città;
il sangue arde dentro i cuori straziati
dall’unghia del mostro che si torce.
Ma quale mondo apparirà
dopo la pena necessaria!
Là il monte, laggiù è il mare:
il mare con le speranze strappate
a una barca che adagio s’avvicina.
Sui chioschi di benzina
cantano i tordi e volano nelle vallate
alle ragazze dal petto tremante
oh così dolcemente.
Quelle del mare, ardite fiere
contrastano, sono restie agli sguardi
maliziosi e azzannano
come i lupi di selva.
(Pace con voi, ragazze dell’Abruzzo,
una è sangue al mio cuore).
A Corropoli fumano i camini,
gli alberi difendono le case
dove i topi imperversano e la razza
degli uomini passati consumò
nel rancore una vita vile.
Case per amori di monache,
per grida soffocate, per pugnali
cavati al frusciare di un uscio
o all’ombra di un cortile.
Ma strappa la tenda dal cielo
una donna accosciata nel vento,
canta un riso gentile;
palpita l’aria fatta azzurra
al lume dei suoi occhi
mentre con le mani in cui traluce l’osso
sceglie e vaglia il frumento.
Buon popolo, fra luci semispente
ti attardi, stupendamente docile.
Le ragazze adornate di coralli
rosseggiano come il tramonto
o impallidiscono allo scherzo
di un giovanotto ardito:
“Vedeste comare Splendore?”
Aspettano i fuochi d’artificio
rovesciate sull’erba,
i premi favolosi della tombola,
l’amore colomba del diluvio.
Cade la felicità da scrigni aperti,
le luci della festa aprono piume;
scese dal monte con le scarpe in mano
bagnano la speranza nel lume
della notte, nell’uragano dei giuochi,
nelle giostre che strappano lontano.
Fasciati in maglie rosse i marinai
toccano il gomito alle ragazze;
trillano le argentine passere
e si offrono, quasi
da un albero protese.
Terra addormentata per secoli
dai frati astuti, dalle processioni
fra gli uliveti e i campi;
buttate le barche sulla riva
oggi trema all’ansia del petrolio
nero come un nembo dalla Marca.
I vigneti abbattuti, la pena
di un paese deserto sui dirupi
da cui gli uomini sono fuggiti;
solcato il mare dalle petroliere,
nell’acqua grassa i pesci
galleggiano con il ventre scoppiato,
e rombi di scavatrici, fuochi, grida,
martelli, tonfi fondi nella terra;
il fumo dei vulcani
copre la pietra del gran sasso.
Basse, di notte fischiano dal mare
navi cisterne, lunghe, stese, nere
come un morto sull’acqua;
uno sgomento a sentirle chiamare.
Su gli oleodotti splende luna nuova.
La raccolta del fieno
I. Tempo di prendere II. Il vecchio III. Primo fieno IV. Un gran ricordo spento V. All’ombra del gelso VI. Affonda la guancia nella terra VII. Il campo è potato VIII. I fuochi della sera
Un rosa di carne illumina il verde,
la prima luce desta le manzuole
grondanti sulla paglia,
poi la casa, un abbaino sfiancato,
la finestra ingiallita al temporale,
l’aglio impolverato al davanzale.
“Raccoglie chi semina”, l’uomo
guarda il cielo fra albero e albero,
gode il tempo di prendere,
fuma il tabacco indurito sul sasso
che dà una cenere bianca, leggera.
La campagna esplode in un riso tremendo,
file di uccelli vanno al fiume,
i pioppi sibilanti cercano
la schiena delle donne.
Maligno, infangato,
segnato dal tempo che brucia.
Inchiodò nella cassa tre mogli.
Ora seduto su un masso affila la falce,
i piedi aperti, distesi sulla polvere fresca:
stretti in un piccolo nido i forti pensieri.
Pagò il trattore in ottobre
coi fari accesi sul campo;
a neve ha insaccato il maiale
stendendolo morto, lavato
sul tavolaccio coperto di sale,
con l’acqua bollente
al grande fuoco d’inverno
(sui vetri annebbiati il sole non cresce
e la campagna è morente).
Era un sultano d’oriente
con venti figli, oggi corrono il mondo.
Due figlie salvate,
le altre odorano spigo in case straniere
(chi più le conosce?).
Ancora tre figli
stretti alla buona pianta,
Lino ha un velo di pelle
sopra i teneri muscoli.
Il giorno s’alza rosso come un cuore,
il lavoro comincia.
Il primo fieno si taglia
quando il vento canta dalla foce
del Salinello e sale fra le canne
al dorso delle ruvide colline.
L’erba odora d’api e di strada,
di talpe odora, odora di strame,
di piedi scalzi, di foglie marcite,
di fiori che si sfogliano in mano
– e mormora come la maretta.
I figli gettano allegramente
all’ombra di un fossato la giacchetta.
Tagliano adagio, strisciano, la lama
affonda nei capelli della terra
e la chioma si sfalda.
Al limite del campo ancora prati,
sulla polvere l’orma tempestosa
di una lepre fuggita.
Quanta terra al di là della siepe,
con poche case, gorghi di acque:
terra arata, ferita dai geli,
esultante e giovane ancora
a un fischio d’aprile.
Quante vive radici, quanti tronchi,
quante polle nascoste e grano,
quanti paesi, valichi, pianure
– lontano il mare con l’occhio maestoso.
Su altri solchi uomini chinati,
giacche uguali buttate nell’ombra
insieme alle bottiglie di mezzo vino,
rossi sudati a gola aperta viva
bevono con l’occhio dentro al cielo.
Hanno le dita tozze, corte, scure,
l’unghia è mangiata dal gelo.
Crepita il sole alto arido fuoco,
la terra è nel velo dell’estate.
Avanzano lenti come frati
cercatori, curvi, penitenti;
i cappellacci di paglia, canta il gallo
da un albero lontano.
“Godi le galline paonazze,
oh tu che puoi”, grida Silvestro
ritto nel campo. “Forza, su, lavora”,
cresce dall’erba la voce del padre.
“Donne, ragazze, amori: a questo caldo
nudi nel fiume, e andare”.
“Bada al lavoro, donne son dolori.
Crescerai stasera all’osteria,
la fisarmonica ti dà forza di re!”
“E tu balla se puoi!”
“Oh pa’ è sicuro,
a luce accesa sotto il pergolato
tacchetti arditi faccio scivolare
coi miei valzer che bruciano.
Con un gemito lieve
le ragazze perdono l’onore.
Queste sere di ballo
non lascerei per un torello nuovo”.
“C’è chi veglia su voi, bischeri”, il vecchio
butta lontano il cappellaccio sporco,
“ancora caldo nel buco della morte
la mia cascina al fuoco sarà data,
alla rovina, e al valzer baderete.
Baderete alle donne, disgraziata
mia sorte, mia sventura, morte,
non ai calli che la vanga incide
come una croce sulla mano al povero”.
“Ma tu pa’, da giovane…”
Si calma il vecchio e ride
al gran ricordo spento
che gli ritorna.
Corre maggio a bruciare sulla schiena.
“Lo so che mi vuoi bene…!”
tuona una voce nella valle.
Mezzogiorno è l’ora dei signori:
sulle bianche tovaglie tendono
leggermente le mani.
All’ombra del gelso, nel volo
di tafani, zanzare, calabroni,
gettato di traverso con la faccia
sul braccio, riposa il contadino.
Ansima come il cagnaccio da guardia
col filo teso dal collo all’anello.
Un aeroplano muove ali in cielo,
apre un gorgo che lento si sfascia.
Dorme il padre, dormono Silvestro
e Arturo, dormono Mondina
e Maria.
Lino a occhi aperti, stanco,
felice, stanco e senza pena,
caldo in gola, con il petto pieno
pensa alla sera ormai tanto vicina
da toccarsi col dito. Alle mazurche
grideranno i cani abbandonati
nei casolari, uomini ubriachi
dormiranno sul cuore alle ragazze.
Con la pezzuola in testa e la collana
di corallo, Maria balla con Marco
Mondina con Albino carrettiere;
come un dannato libero dal fuoco
dell’inferno, Arturo suonerà
un canto da ballarsi leggeri,
oppure un trillo di felicità,
fra siepe e siepe, al lume della luna,
fino alla notte fonda, finché il cuore
non sarà stanco. Per la strada, allora,
ruote di carri, voci di saluto.
Il silenzio quieterà il furore.
Accende la pipa: “Quando il sole
è sul noce riprendiamo la falce…
Un tempo, bischeri, ci svegliava
una campana di frati al mattino,
così vicino alla misera casa;
bassa la nebbia sul campo meschino,
si faticava fino all’ora tarda.
Senza riposo, uomini; la paga
se oggi è poca allora era uno sputo
da schizzare nel fango.
Chi conosceva osteria, paese,
balli leggeri, guance di ragazze?
Questi son tempi meglio, c’è speranza
di morire da uomini.
Ma la gioventù s’incanaglisce.
Oggi, dico, scendono le colline
verso il mare, verso le città,
come i bastardi figli che creai
con queste mani: subito volati.
I vecchi si spezzavano d’un colpo,
gravi d’anni ma dritti come il fumo
quando il vento non c’è;
lasciavano sull’uscio delle case
i figli in mucchio, dalla pelle dura.
Cosa mangiavano bisogna sentire”.
“Il mondo mal fatto si sta rifacendo”
come un ramo piegato e poi lasciato
balza in piedi Silvestro
“i ricordi sono bocconi amari,
si strappano, non servono:
è sapienza sputare il passato
acida cicca verde tra le pietre”.
Cala sugli occhi il cappello di paglia:
“L’albero è al sole, pigliamo la falce”.
Il campo in un soffio è potato.
Il fieno affonda la guancia nella terra
mentre le rondini inseguono gli insetti;
dovrà distendersi beato
come una ragazzina sulla spiaggia
con l’ombelico nudo;
dovrà sciacquare il freddo dell’inverno,
piangere di tristezza, farsi
caldo sapiente, grigio di capelli,
dovrà seccarsi come l’osso bianco
perduto da un cane vagabondo.
Gli uomini abbeverano i vitelli;
nuovo strame alle manze;
posano gli arnesi nella stalla,
in angoli antichi fra tele di ragno.
Non c’è la pace rustica: un camion
porta concime in sacchi,
motociclette trascinano
follemente il riso dei garzoni.
Gemono di dolcezza gli uccelli
perduti nelle nuvole,
fra le gaggie, le felci e i sambuchi
il fiume scalpita e ingrossa.
Nidi di stelle scoppiano nel cielo,
per una cavedagna striscia il suono
di martinicca, crepitano i sarmenti
spezzati sul ginocchio.
“Lino è al fiume?”
“Oh pa’, buttato
nudo nell’acqua salta fra la schiuma”.
S’appoggia il vecchio al muro della casa.
Dalle arnie imbrunite
contro gli steccati della stalla
nelle secchie di legno goccia il miele.
Cantano con voce grossa
uomini ringalluzziti
aprendo le braccia felici.
Nella sera oramai ardono i fuochi.
Pianura padana
I. Dal silenzio e nell’oro II. Schiere opposte III. Splendido d’amore IV. Alla foce V. I fumi delle altane VI. Così passano gli anni VII. La volontà di restare VIII. L’alluvione IX. Fermi sulla strada X. Un legno alla deriva XI. A Polesine dei Sospiri
Nel fremito delle sue dieci penne
il Po nasce da una costola
del Monviso incoronato dai venti.
Il bigio monte sassoso
scarse vene possiede, ha un arido cuore,
ma sotto un’ombra sperduta
cresce la polla che fugge
col viso teso, ridente, alla valle.
Acqua e luce intrecciano
una leggenda e il giovane scontroso
morde la spalla all’orizzonte;
navigatore dei campi, audace nell’avventura
con quanta impreveduta alterezza
ara con la sua fronte la pianura:
risveglia gli occhi ai ragazzi
seduti annoiati sulla riva,
smuove con una tenera corda
il sogno degli uomini, la viva
freschezza del tramonto,
segue i ponti di cemento, barche
incorate, incerte, per traghetti
da meandri oscuri a canali
di misero contrabbando.
Dal silenzio e nell’oro
con un gemito a tutti sconosciuto
balza ogni giorno con testa di toro
e tocca le gazzelle ciminiere,
le baracche, le grotte,
i valloni delle tristi periferie
impalliditi all’ombra di alte
eriche quiete.
E incontra gli altri fiumi, acque
aggrovigliate, piume di falchi
rovinanti fra i sassi
nelle caverne; cagne intisichite
dal freddo, a contendere
sotto i pilastri, in mezzo alle lamiere,
fra scorie di carbone e tra i rottami.
Altre con passi lieti, pallide di sole
rubato, nel tonfo di castagne
che incrinano un silenzio da convento,
salutano il gelo delle fonti,
le nebbie, gli schianti
dei rami calpestati, lo sgomento
della brughiera nella galaverna
(così in un limbo di foglie
respira il Mincio:
sulla sua polvere antica
scendono i fagiani
con la nebbia d’autunno).
Fra queste schiere, opposte
acque furenti, il grande fiume va:
nate dai laghi, sciabordanti tese
o sporche di melma, coi relitti
precipiti dai colli d’appennino,
nel silenzio di terre desolate
dove la gente italiana stenta.
Mela spaccata, la pianura
da monte a mare è preda del fiume
che ronfa nella spenta
bellezza della notte,
o simile alla vipera s’acquieta.
Mormora, racconta
stupefacenti nomi… poi livido d’orrore,
con la bava alla bocca,
strappa, avventa
verso il delta inquieto il suo furore;
si carica di forza e vendemmia
pianto da un altro cuore;
sempre più immenso, sempre più terribile
o splendido d’amore.
Strisciano le chiatte appesantite,
frugano con le eliche il fondale.
Il sambuco riposa
sull’ala dei pavoni,
a lume dei pioppi per il viale
un cane abbaia da una capanna
verso il fumo di pece;
dalle prode si diparte
una distesa, poche forme
di vita: l’asino
stanco di mietere indulgenza
appisolato, i rapidi ristori
dei mignattini sui rami;
barche marce di brina
da riva a riva stentano, vuote
o domestiche, con qualche verdura
o un pescatore addormentato.
Sorpresi da un inverno straziante
fra i casolari, abituri
bui di canne e piante,
gridano i ragazzi agitati
dalla fame e da tanta libertà;
le donne cariche di estati
imprecano ai vecchi tremolanti
nel sole, a vivere ostinati.
Scema la terra, l’acqua arriccia il pelo
in un brivido pieno di sterpaglia
mentre nubi s’ammassano al riparo
di cancellate e di torri;
i carrelli sospesi ai fili lucidi
gocciano miele.
L’ora dei fumi dritti dalle altane.
Le case basse, simili alla stiva
di un barcone in riposo,
con gli steccati gialli di meloni,
si disfanno in dolcezza.
I campi raccolgono il respiro
della sera, i suoni
di festa, bambini saltare.
La pianura è dimessa, esuberante,
con i capelli immersi
nella foschia fluviale;
s’infiamma la polvere sulla coda
degli insetti, le ali aperte
al volo della notte:
accompagnano una voce d’uomo
rotte calde parole d’amore
“farò tutto el poder mio
per cavarti fuor di stento”
come un tuono che si perda nel vento.
La brezza copre incerta pioppi e pioppi,
cade dentro i salici frustati,
i groppi della terra, i beati
avvallamenti, tiepidi meandri
di oscurità celestiale;
sul fiume scosso dalla risacca
serba un ultimo guizzo Venere
prima di morire.
È indice dei tempi
che le ragazze alzino un poco
la sottana e ridano negli occhi
con tanto candore d’angelo;
cadono sul prato
ansimando dopo corsa e fuga
per le ripe alberate,
la bicicletta a pezzi
buttata nella polvere;
e che l’innamorato dentro al fieno
bagni la febbre d’amore
stringendo una ladra che dibatte
le ali rondinelle.
Così passano gli anni.
Dura un giorno il furore.
Poi le care ragazze
sbiadiscono nelle case,
appassiscono il cuore,
accanto alla fontana delle piazze
coprono il bucato con la cenere.
Adagio alzano il collo a guardare
nelle sere tranquille
il ritorno degli uomini
per gli argini, le scintille
delle sigarette accese.
Steso nell’abbraccio del campo
il contadino, a piedi nudi,
i gomiti puntati a spaventare
i voli dell’averla,
segue i suoi sogni e sognando sospira.
Abbandonata, l’acqua piove
sugli argini, tormenta, li ferisce,
gridano trascinate dal libeccio
le quaglie che fuggivano sul mare.
Per le radure una dolcezza squallida;
il vibrare monotono s’accorda
alle ore arrossate in mezzo all’aria:
galli sui rami del noce stormire,
vitelli pezzati intenti a bere,
il cane abbaia ai teneri zoccoli ancora…
Sugli argini accosciati posano,
guardando acqua e terra contendere,
uomini, il fiume che fa paura
dire il suo vecchio pianto.
Si confortano in questa vecchia sventura,
insieme uniscono la voce al patire.
Li morde una volontà di restare
non di fuggire,
mortificata la violenza
nella pazienza adunano la speranza
per i giorni a venire.
Sparpagliati sul greto
come in un deserto di neve
i camion raccolgono la sabbia
battuti dal barbaglio che li fiocina
e un passeggero sul treno
volge gli occhi a guardare
quelle teste di vecchi in acque amare.
I campi sfiorire dentro il mare,
le onde strappare i rami dei cedui,
case crollare, i visi intorno ai tronchi
infuriati di schiuma,
le grida perdersi sulla duna,
cadere il fondo cielo come una piuma.
Gli uomini con la giacchetta scura
e il bavero rialzato,
la cicca sul labbro paonazzo
seduti sulla ghiaia;
e donne ad amare le case
perse nei gorghi,
poca roba raccolta ad asciugare,
rubato l’ordine misero alla giornata,
perduta la pace guadagnata,
anche il pianto ora è vecchio, inutile;
tutto da incominciare.
Gridano gli altoparlanti3
nomi sull’erbe affogate.
La sera è ingorda, bagnata, bastarda;
scoppiano scintille, i fuochi stentano,
affidati ai bastoni
pastori dalla secca faccia
fischiano in delirio alla pianura.
Tutto intorno è mare.
Se parlo, guardando l’acqua decrescere
sotto un cielo di ferro,
compatite il mio povero italiano,
la voce che sa di pane e sale
e dice male parole troppo vere.
Finito il diluvio per il piano
restano soli nelle piazze
e le pompe travolgono
dal lago di melma foglie morte,
sterpi, rami, biade marce, piume.
Mentre si sciolgono le dune
fra gli alberi che sono un pugno d’ossa,
viene il tempo delle vacche magre:
accade allora che la gioventù
grida dai campi ai poliziotti4 in nero.
L’umore della terra si diffonde
per le rive al calmo orizzonte
ma la bigoncia rossa della vita
è aceto d’odio, pianto in gola, ira
infinita, meschino abbandono.
I giorni si susseguono
in ore precipitose.
Piogge d’autunno con fumate nebbiose
sulla strada, fra i ciottoli bruciati
e cespi d’erba secca;
notti d’oscurità irose,
col gelo della sponda
sull’ultima propaggine di terra
prima del mare, dell’onda.
Argini sbilenchi, desolati,
vuoti di vita, macerati, spinti
dalla forza dell’acqua a contrastare
in gemiti continui, spaventosamente
umani la corrente.
Mena sempre una vita da cane
il bracciante sfortunato,
il pescatore di frodo,
il contrabbandiere braccato
– sopra un’asse scivola per i canali.
Ma dentro la pianura
la terra è più ricca, esuberante,
se affondi la mano si dichiara
il suo mistero nella perla rara
che sfiora le tue dita;
nessun inverno o fiume fa paura.
Non c’è il silenzio triste, si discute
di leghe socialiste, di Miglioli5 che dice
con parole di miele le sue favole,
il fiele delle antiche lotte e Grieco6.
I giovani che filano sulle Gilera
nel vespero accecato,
e la camicia è una vela alle ragazze,
brillarono sulle piazze
per lo sciopero del quarantanove:
allora i bergamini sotto i noci
piangevano all’urlo delle manze,
gli occhi erano scuri
più dell’acqua per le impolverate lande.
La speranza trascinava ridendoli in cielo
i sogni patiti nel corso degli anni,
una nuova tenerezza per la vita,
dolce furore e le prime parole7.
Questo tempo è già naufragato,
rotto come un barattolo lasciato
in un prato della periferia,
scalciato, frantumato,
come un legno
va alla deriva buttato alla corrente,
rotola via.
Il grande fiume si rivolge al mare,
con un guizzo va dentro al cuore del mare.
Si disperde, affonda,
nessuno lacrima un saluto.
L’erbe gialle aspettano altro furore,
aspettano un pugno d’amore
i casolari africani8 col fumo sospeso.
Sulla pianura
splende una luce che chiama la notte.
Spengo la voce
e: addio a Polesine dei Sospiri
dove nei mattini ventosi,
fra gli acquitrini spenti,
riposano uccelli teneramente vivi
nell’incertezza e nel terrore,
perché pace non c’è né sicurezza
per loro se non nella fuga.
Là sarò cenere un giorno.
Mi aspetta l’anfora greca funeraria
dove confitti gli iracondi relitti
della mia gente dormono
come prue conficcate nella melma,
tutti, uomini e donne, insieme.
Morirono vecchi, litigiosi e alteri.
Il mare a volte li copre
quando è un brivido desolato la pianura
nereggiando per tutto il suo confine
e cresce l’onda e brucia la terra.
Là dunque anch’io
avrò il mio fuoco e la mia fine.
Le lupe dorate
I. Le campane esplodono II. Paga di soldato III. Un sodoma geniale IV. Ragazzine in rosso V. Tuona oscure sibille VI. Le belle VII. Camera d’albergo VIII. Inventario IX. Foglia di calendario X. Week-end a Vignola XI. Tè alle cinque XII. Il predicatore in salotto
Le campane del nostro mezzogiorno
così rosse nel cielo bolognese,
fresche, caute, lievi, renitenti,
esplodono nella piazza
dov’è l’ombra di calde penitenti.
I maestri dell’arte,
dalle vetrate, accecano in fulgore
i piccioni decrepiti.
Oltre, c’è tutto un verde
verso il bosco sacro e la chiesa:
quando declina il sole,
e in mar sprofonda e muore,
sull’erba di quella distesa
è stupendo fare all’amore;
mentre la città respira
le luci del cielo hanno le ali socchiuse,
odora la terra d’antica pace e di scorza
sui capelli della ragazza che baci.
Taci, ascoltando i giovani anni tornare
e Orfeo con la lira
abbandoni l’inferno per sempre.
Pellegrino che vieni da Roma
questa città di provincia
non si consuma di noia
ma invecchia ogni giorno
insieme alla bionda donna di vita
dalla cera gioconda e dalle crepe
(con la sottana a scacchi, sfiorita)
sul viso, in attesa dei serali contadini:
al sabato, anche se c’è tramontana,
approdano dai pelaghi deserti
a mille luci, con ingiurie feroci,
e ridono piangendo,
baciano stringendo, a volte uccidono.
Sono ricchi e disperati come
le rane di un pantano.
Dicono che bellissime signore9
giovani e donzelle quindicenni,
dal fiore ancora in boccio e dal sorriso
leggero, in luride pensioni
si vendono ai mercanti della fiera
e ai tristi pellegrini della festa.
Gemono di furore non d’amore
le belle donne nude sotto il peso
di questa terra fradicia
e la lingua affonda
come una lama fredda che le svena.
Il sodoma geniale, a mezzogiorno,
trascina un’ombra di festa con sé
e indugia con la voce, sulla spalla
degli amici, quasi
una croce di rose lo stancasse.
Ha l’occhio appassito di una viola
ma le dita magrissime arrossate
dalla gazzella fulva, la Ferrari,
che, criniera di cavallo, stola
di visone, volo
di rapida beccaccia in brughiera,
fugge, rompe, sguilla con un tuono
oltre le arcate,
dove nei tramonti clandestini
bruciano le altane di cotto
sulle beate strade della città
e gli sposi impotenti
aspettano agili fianchi adolescenti.
Costa sei milioni una Ferrari…
Steso sul canapè, coi piedi
sulla spalliera, a casa, il padre,
il vecchio padre aspetta che la cameriera
passi e felicemente
dimentichi di gridare.
Tre ragazzine tutte vestite di rosso,
gambe lunghe, enormi piedi magri,
il corpo verde presto fiorirà.
Perfida, astuta, bella gioventù
gioca col tempo
sparpagliando la sabbia della vita
fra le dita sottili,
le ilari, vane, tristissime voglie
sciupano in parole,
smuovono i capelli dalla fronte
guardandosi nei vetri dei negozi
e dentro una scaglia di sole
s’aggiustano le maglie
mentre il tempo si spezza
negli ambulacri dei vicoli.
(In anni a venire
si perderanno rauche e taceranno
queste vergini voci fatte adulte
dalla rabbia, dal fuoco, dai pericoli
che il tempo accresce;
allora, insieme, potranno anche affondare
le nostre barche:
relegati in una lama di sole
contro un intonaco bianco, screpolato,
vecchi, pietosi, inutili solchi di lava,
ci sovrasta un tramonto spietato).
Adesso, se le sfioro camminando,
odoro la novità dei capelli,
foglia d’orto, fragole di vita,
mentre coi denti mordono la luce
e una felicità infinita
di andare, di restare.
Poi un sussurro amico conduce,
fra le agili ombre, il loro cuore.
Il monaco sapiente
predica nella chiesa fragorosa
e sembra il nume indigeno
d’una religione arcaica, sacra.
Tuona oscure sibille,
le scintille dell’ira
si disperdono fra le luci
delle candele mentre la chiesa delira
in un brusio di penombre e suoni
dell’organo straziante.
Giovani stupendamente stolti
si stringono le mani.
Alto nella persona
fu maestro di venti e al suo bel tempo
navigò con le vele verso il Congo
sui liguri vascelli.
All’improvviso declinò la sorte,
fu invaso dalla bufera della morte,
buttò la pipa ai venti,
perso alla vita, nero frate al mondo.
Rovescia i peccati sui capelli
degli adolescenti milionari
freddi pozzi intaccati dall’arsura;
dura la voce fiumana di fuoco,
infine tutto si quieta
e le farfalle sciamano dorate
per la piazza, inebriate
dal sole di primavera,
profumate, con una fresca cera
che la brina piovuta dall’occhio di dio
ha sfiorato appena,
e hanno del vento sulle spalle.
Una pace tragica, da urlare,
quando con le nuvole arrampanti
si rovescia il tramonto su Bologna.
Bruciano le altane
mentre sui fianchi delle vecchie case
scende la lava;
soavemente oscure, per le piazze,
le adultere felici
(nell’età delle foglie appese ai rami)
s’allontanano lente, appena incerte
se riguardare il cielo e offrirgli un collo
senza rughe, pieno, da braciere
o fingere indifferenza ai richiami
dei satiri che frugano e deridono.
Poiché fra qualche anno ancora
sarà solo un’ombra la bellezza
che oggi le sfiora,
voglio lodarle
calme, mature, tenere, fragranti,
fremito vivo che riscalda il sangue.
Fasciate in tweed che palpita soavemente,
piove per la nuca
il balenio dei riccioli castani;
festa di cuori, e voglie,
caldi furori esprimono
le forme di queste dee
deliziosamente perfide
mentre la notte ormai le copre e bagna.
Sopra i palazzi c’è una luna grande
e calma, respira intorno la campagna.
Per Bologna, gobba maliziosa città,
è una fola la lucida omertà –
solo ha un civile governo, oneste pietre
e tombe dure che coprono il sonno
dei glossatori,
ma al tempo degli amori
uscir fuori bisogna, volare
sopra i dossi magri d’Appennino,
sulla riva dei fiumi,
fuggire a Ravenna, a Ferrara,
a Parma coperta di tigli, celarsi
furtivi nel lume di una stanza
giovani e paurosi come poveri sposi
(tra il fieno, nelle sere emiliane,
col sereno che divaga sui monti,
dalla finestra aperta ascolti cicale cantare
e il legno del piancito scricchiolare
al passo scalzo della donna).
Trova un’ora di pesca fortunata
anche lo straziato carrettiere,
il deluso usignolo, al fine della giornata.
L’albergo gelato, disadorno,
perfido di tristezza, ha le insegne
che battono sui vetri in una nebbia
d’acqua marcia; rotola nei muri
la strada di collina
fra il verde che dirada.
Poi giunge beata ilare nel vento,
non turbata da alcun trasalimento,
lei tutta bagnata di umori;
ha le scaglie iridate, un dirompente
riso giovane, perverso,
getta la veste, sottoveste,
e ogni pena si scioglie sul cuscino
di dura canapa, fino al mattino
quando si sveglia (è appena l’alba)
bruciata da un raggio che la sfiora
e ancora sorride
con parole che l’acqua discioglie.
Riscattata da una dolce moneta
raduna le sue foglie e lieta
s’invola, ancor più giovane nell’età
che ha poche ansie, smemorata, lieve,
con il corso del fiume avanti a sé,
tutto nuovo il cammino
non un breve momento
non un frammento spento,
roso dai topi come il mio.
Azure gloom of an Italian night
è povero il suo inglese:
pomeriggi vissuti ad ascoltare
i dischi, le voci alterne
dell’uomo e della donna BBC,
il fruscio che debilita,
la punta sottile nel grammofono,
un progredire monotono
d’anima spenta in acque salse e nere,
immaginare cosa sarà la vita
(la propria vita) nei prossimi trent’anni.
Pensa: oramai sono alle corde,
resta poco al mio osso (palpitare
d’animale ferito), tra noi l’amore
sarà presto finito, come è
finito presto ogni altro mio amore.
Una saponetta nel lavabo
tagliata grossa col coltello,
le porte dell’albergo sono bianche,
sporche, sottili; contro i muri
duri segni di mani forestiere,
conficcate nel legno le specchiere,
l’impronta di labili presenze
sui tappeti con rose di Venezia,
la desolazione dei cassetti,
dentro i letti un freddo da frontiera;
una luce fioca, prigioniera
gocciola insieme a un russare lento.
Arida catena di giorni
la vita si consuma, scura
e deserta, sul selciato
che svolta per il vicolo e s’inerpica
alla radura. Torri, avanzi
di gloria, bandiere,
tutto s’aggruma e mescola, brutalmente
ingiusto, falso, inutile,
in sere interminabili.
Patisce il pomeriggio di domenica
la donna protesa alla finestra
mentre le ore cadono dal cuore
e gli anni in arco sopra oscuri abissi
travolgono la festa…
Notte di san Silvestro nel ’40,
diciassettenne, i parenti (un fiore)
seduti alla tavola scolpita
da Toniutti, il soffitto profondo
rosso e oro pioveva luce antica
appena tocca da un’ala di fulgore.
Morti tutti, falciati come il fieno,
ormai perduti al mondo…
Un viaggio in Toscana con il treno,
nel ’50, San Gemignano lurida, spazzata
dal vento fra gli ulivi smorti
e in un tanfo straziante, indescrivibile,
la luce del giorno appena incisa
da un diamante di pena…
Un’ora di grande calma e dolcezza
si ferma sulla strada vuota,
a fatica qualche uomo nero
s’affaccia e subito scompare,
non c’è ebbrezza di voci
né ruota di bicicletta né pensiero
che la vicenda muti
per l’ardente immobile reclusa.
Solo uno sprofondare nella notte
e la sorte conclusa.
Negli alberghi di Vignola
dalle ciliege rosse e polpe accese
calano a far l’amore
– sulle sprint di corallo –
le belle milanesi
dall’accento francese.
Esultanti nel cuore,
per l’autostrada, adesso, in lunga fila
di migratori nella bufera,
s’avventano le donne
ch’hanno il bistro negli occhi e unghie d’oro
a spegnere i furori
dentro stanzucce quiete, fino a sera.
S’abbandonano a un giovane toro
dimenticando la melma che affatica
la loro carne, l’inutile ricchezza,
la noia cattiva, dolorosa
più d’una ferita,
una impazienza disperata.
Nuotatrici sfinite,
fatte bianche dall’onda,
si stringono fradice, impaurite
a questi ragazzi di paese
che vivono e aspettano sulla sponda
del fiume Panaro, vicino ai canneti
dentro i casolari di legno e argilla
in un silenzio ancora sconsolato
e in cruda miseria
da triste animale sconsacrato.
Altrove, fra le mura della città
su cui piove la tenerezza d’aprile,
nei palazzi bruciati, fiera
delle più dolorose vanità,
fra torri storte, merli, aride pietre
e muffe, per i viali scossi
da un acuto frastuono disperato
– nei salotti, sedute, con occhi inquieti
le sedicenni mostrano i ginocchi
e un’ombra deliziosa che sale ancora.
Bianche magre morte cameriere
– nell’ora in cui il sole, alto, contrasta
la sua trama a un cielo congelato –
divagano per le stanze
e i vassoi ardono nel vetro
con un suono gentile di campana.
Nascosto in un angolo, un braciere,
infuocato papavero, dibatte
nell’intimità scontrosa
arcobaleni d’ombre su una sposa
che gioca con un compagno
e s’abbandona alle mani che la cercano
come un fiore.
L’ossessione d’amore si fa torpida,
cala sugli sguardi e nelle gole;
mentre gli uomini s’avvicinano
la luce s’attenua in un rumore
cauto entro cui la fiamma reclina,
e si spegne inutile e meschina,
in un soffio, ogni vampata di pudore.
“Tre parole: occorre avere fede…”
nella sala settecentesca s’accende
il volo di rosati cherubini
e le patrizie impeccabili
guardano fisso negli occhi
il francescano possente
che conversando anela.
Sedute, le più giovani madame
offrono alle labbra del monaco,
così perverse, una fredda umiltà.
Piegano i morbidi ginocchi,
assorte promettono castità,
si turbano come colombe, poi dileguano
come colombe, in branco,
col peccato prossimo che splende.
Lo Stato della Chiesa
I. Prologo II. Fuochi spenti III. La tomba di Kesselring IV. La fuga dai monti V. Contro un muro VI. Il ritorno dei monaci VII. Cara terra natale VIII. Secoli di usura IX. La notte X. Nuovi atleti XI. Clessidra capovolta XII. I prati di Caprara
Mai anni peggiori
di questi che noi viviamo,
né stagione più vile
coprì di rossore la fronte asciutta italiana;
cadavere fulminato
giace essa riversa sull’erba di una trazzera.
Così la sera del nostro vivere umano
quando la morte sprofonda nel fuoco della gola
e resta poca gente, sola,
a vegliare con gli occhi asciutti e a ricordare.
Cercare requie a un grande dolore.
Puntuale, atroce come una pestilenza
nella città medievale,
mentre s’abbattono sulle povere spalle
incubi, oscurità, strazianti segni,
sul rosso corallo dei pensieri
ciò che ieri era luce oggi si sfascia
in nembo nero, e una paura di morte,
la fatica di vivere, la sorte
che contrasta in grembo alla vecchissima terra:
tutto si aggruma come la tempesta.
Stridule sibille alzano voti,
vipere d’erba strisciano e inveiscono,
balenano le lame calabresi
e gli arbasini danzano perduti
nell’aria, gialle leggere futili farfalle,
a nulla intenti che allo splendido lume
nella sala addobbata.
I fuochi sono spenti.
Tutto sembra giusto ormai o sembra falso
e distrutto, in questo deserto,
alla fine di una lunga giornata.
Ma tutto ancora si può rovesciare.
Non può essere perso.
Oltre le mura del cielo Firenze è lontana,
file di cipressi in quest’ora
calda di impalpabili ardori
scuotono l’erba e severi impietriscono
sulla terra toscana.
Ma nel versante del nostro appennino
nel grigio diradarsi del mattino
in fradicie foschie e lenti soli,
mentre s’avventa l’eco dei trattori
e vapori e svagate quaglie si vedono,
l’acqua del Reno è ancora imbrigliata di fuoco.
Le case distrutte sui dirupi
sono nere ali di memoria
e per un poco sembrano gridare;
poi tutto cade in un silenzio di mare.
Le siepi deserte di ginestre e di fiori,
squarciate le vigne, le radici fuori,
i borghi sono un pane sbriciolato.
Cuori di uomini caddero per terra
bagnando la montagna al tempo della guerra
con gemiti e con sangue;
voci straniere bruciarono la grazia
affaticata di questi paesi innocenti.
Tutti andarono sotto l’erba più dura
con i denti arrotati.
Oggi le nuove mura hanno la biacca spettrale.
In questi fossi è steso10 con occhi sbarrati un generale.
Vita selvatica, girandola da fiera,
stormire di uno straziato pianto lungo
dei cipressi spaccati sulle rive,
ah contrastato male, quali stive
ci conducono a una terra straniera,
quali nuovi pericoli sovrastano,
oscure mani, solitudine del faticoso
tramonto, e il volgere della galaverna
sulla campagna, fra boschi magri,
quando ottobre è nudo sul lamento
dell’uomo di legno dentro il campo
con il basco bucato, un rosso colore spento,
e la paglia che simula i capelli
si disperde fracida e leggera.
La morte avanti lettera, lo sfacelo,
la servitù eterna di chi non ha più cuore
per reggere all’uragano e si fa trascinare nel gelo,
pelle di una misera lepre di brughiera.
Pioggia cade sui fianchi dei calanchi,
le tegole volano coi rami
dentro i recinti dove agnelli bianchi
tendono il collo al fulmine.
Poi la vallata, spento il gran furore,
sembra un mare, l’erba gialla annega,
solo le spighe affiorano col cuore.
Le donne appaiono disfatte, sulla rupe,
migrano sopra povere chiatte.
La terra ossuta è identica alla schiena
di una maligna centenaria:
sul prato, sola, con le api d’oro
ha tutta la morte sulle spalle
e un brivido di paura copre l’aria.
“A campare al mondo si diventa vecchi.
Pare un sogno.
Passa un giorno, passa l’altro
e si è vecchi e si deve morire.
Pare proprio un sogno”.
Il fascino profondo della morte,
la sua forza, superbia, l’astio
contro la vanità, il suo fremito giovane,
la semplice linea del suo volto ambrato.
Nel cimitero del nostro appennino
fra la pietra e l’erba disfatta,
in tragico silenzio sconsacrato,
le mogli gemono, immobili
vicino alle croci storte,
mentre la tempesta
scende dai monti con la sera.
Spenti tutti i casolari della valle.
Là, dove l’animata ombra della città
in una solitudine d’incenso
scioglie un canto poi si sfa in lamento
contro i giardini, accanto
ai rossi filari della vite –
nei malinconici recessi
bruciati dall’autunno, con le foglie
incenerite a terra e i cipressi
impolverati, c’è l’orto olivetano e c’è la pura
forma dei castagni che sovrastano.
Nel chiostro dei monaci, nascosta
fra le arcate decrepite e sinopie
affioranti, nella gran rovina
(fino a ieri) l’edera cresceva
e il campanile senza corda e verbo
era solo un melmoso teschio antico.
Dispersa l’osannante progenie
dei piediscalzi, il silenzio ammoniva
e coppie di giovani amanti
cadevano sull’erba.
Ma tutto rifiorisce quasi un sogno
malefico che ci turba
e la foresta del canto gregoriano
in grandine travolge le spoglie
del chiostro olivetano.
Dopo la pace, con le barbe, i frati
ritornano, impolverati, da lontano,
con efebi salaci dal corpo
di lottatori; intonacati i muri,
beati, nuove voci esplodono, querele, duri
propositi, notturni lamenti fiaccolanti.
Accorre la povera gente dalla campagna
e scava nella terra un suono duro
da gregge impaurito che s’abbatte in un muro.
In treno, le mani alla nuca,
l’orecchio al respiro fondo
della terra (una frenesia di fiori
e di giorni a venire,
tanta bellezza da esplodere ancora sul mondo)
lo sguardo va alle terre sfiorate
dall’aquilone del sole,
tocca il morbido piano
che ha la freccia del Reno nel fianco,
settembre celeste e quieto
formicolante di foglie.
Cara terra natale.
Un filo di rame abbandonato
contro lo steccato
della cascina, un verde grigio, ròso
dalla nebbia padana.
Il cielo viola dei lillà
piove fulgore contro le vetrate
e il muggito dei buoi
rincorre le macchine straniere
sull’autostrada, lampi gialli, accese
foglie di grano, sfolgorio di rossi
gerani dentro i fossi.
(Così fugge la vita
con crepe sopra gli occhi
e le mani disfatte:
la tua mano è bianca, fina, come la brina
che gela e affonda improvvisamente
sull’erba e l’uccide).
I tubi della Shell sfiorano l’erba
del prato, staccionate, i fiori
risuonano affondando nella terra
e ne divorano il cuore.
Le donne in nero sul greto del fiume
sono un lume spento sulla spalla del giorno,
fra grandi archi, fra pietre
antiche segnate di gesso che volano via.
“Condannami a morire d’amore”
il ritorno è già fra i limpidi
ceri della periferia.
Colmo di primavera, di betulle
il tramonto s’insinua fra le cosce
delle fanciulle
che per la strada che la notte allaga
camminano disfatte
dalla bellezza e dall’ozio (dolce miele)
alteramente, ma con le stridule
voci di colombe bolognesi.
Più avanti il sole è un fascio di rose
abbandonate sul fiume;
la tenera luce esalta allegra
la gioventù beata: le sue mani
avide magre cercano i capelli.
Altrove, con un fiore sulla giacca,
copre un banchiere difficile e segreto:
fra inchini riveriti, curvi rami,
esce dai marmi avvampanti
e s’avvia per la strada di cristallo
come in un ballo, cauto, a incontrare
nell’attico segreto
la femmina, felice, ardita e sciocca.
Scocca allora un tempo d’avventura;
agnelli nel cielo della stanza,
un amuleto di giada vibra
al sole che muore sulla pianura bianca
fino a Verona.
Ci lima il destino,
le allegre ore, lunghe,
che conducono in un lampo al mattino
sono braci oramai della memoria.
La nostra storia si riempie
come il letto di un torrente
di scrosci di pioggia,
è freddo, buio, per tutto l’inverno
dentro all’inferno
ci contiamo con le carni nere;
patiamo il freddo che morde per potere
ancora risalire.
Della città non resta
che un mucchio disperso di mattoni,
s’è spenta la marcia dei guerrieri
– appena ieri una folla
riempiva in onda le strade; e bandiere,
nuove parole esplodevano.
Dall’Adriatico al magro appennino
la terra è in declino, i cuori
gelano o divorano i pensieri;
i vecchi aspettano contro il muro imbiancato
che la morte li tocchi.
Nebbia, notte, il fumo arido striscia,
appassiscono le dondolanti figure
dietro i vetri schermati che gettano sul prato
uno strano alone
nel grande deserto addormentato.
Sporche di fango le corriere
sembrano grandi navi alla deriva
dopo mesi di mare.
Una tempesta le spezzi, oh vita mia
che trascini un torbido dolore
e hai sulle spalle il panno impolverato
delle bandiere afflosciate.
La notte è cupa, lunga, fiammeggiante.
Lasciate in una solitudine straniera
dentro enormi palazzi si spengono
le braci degli uomini che non persero
il cuore al tempo della bufera,
non furono bianchi stracci di paura.
Per la via che il lento febbraio rischiara
i giovani sapienti deprimenti
(tutti candidati a una cattedra austera)
riempiono furiosamente le giornate
ridendo a noi con una malizia nera:
“nuovi atleti vi sopraffanno oramai,
perché conservate sotto le maglie sbiadite
vecchie speranze? La vostra forza è alla sera,
oh le mani incallite!…”
Il buio (la notte ancora non consuma
tutto lo sporco umore, il disperato
amore, il disprezzo) ci consegna
al sonno carichi di strada con la rauca
voglia di morire.
Questa terra ha il cuore frantumato.
Ma per la fatica che ci umilia
il nostro cuore non avrà tremato.
Il bue squartato (nuvola o agnello?)
in mezzo alla bottega, fra le luci
al neon; il muso di un vitello
con le ciglia socchiuse,
così perverso e avido, riposa
in un tenero sonno dentro un piatto
di porcellana. Chinato, un vecchio,
per il prato di Sant’Antonio
dove antichi monaci imponenti
massacravano a sferza, a lama, a schioppo
i prigionieri di guerra (Anno Domini…)
e i renitenti alle pie preghiere
– chinato su una latta, su una gomma,
cerca il rifiuto della campagna,
dove cade il magma amaro e denso
di un fumo bianco d’incenso.
Altrove avviano lucide processioni.
Nell’ora per vicoli osannanti
dilagano gli stendardi, le bandiere,
baccanti di preghiere s’infervorano
e bevono scintillante ira dai bronzi
scatenati; fuggono al riso dei ragazzi
i palloni, sprofondano nel cielo.
La città è tramutata in un giardino.
Tuoni di bande accendono i fiori,
una confusa massa s’accalca, grida
fra le strida delle campane
più famose del mondo.
Sfiorirà poi tutto con l’ultimo vento
della campagna: il cadere lento
delle ombre per portici decrepiti.
Fra il rumore che il cielo travolge,
nell’acceso fulgore delle pietre,
l’uomo trascina un quarto di vitello
grondante sulla spalla
e intanto ritorna a galla la macchia sporca oleosa,
affiora fra le sconnesse pietre e il radicchio
la scontrosa natura della gente italiana.
Questo vento spazzerà via le nubi della giornata,
il salnitro dei vecchi palazzi ribolle,
una schiuma di mare impetuoso
copre la città, tutte le foglie cadono.
Il tramonto cammina sul tappeto di ombre,
si scioglie il giallo ocra dei giardini,
giovani signore alla finestra
hanno occhiaie di fuoco profonde.
Il giuoco delle onde che la nebbia
avvolge nei capelli delle donne
è una vivace bandiera in questo lento
disfarsi delle cose.
Nel bar si tappano le bocche
per non gridare,
chinano le labbra sulle carte
i vanitosi vagabondi dalle maglie iridate.
“Se fossi ricco, dicono, se fossi
come Sivori, s’avessi un po’ di forza
per rimedio dla malincunj…”
e guardano sui vetri in un baleno
smorzarsi il giorno, uomini tornare,
travalicare i camion per i ponti
che portano a Milano, oltre i prati
di Caprara, alla pianura accesa
fino ai dirupi della Croara,
mentre cala sulla tavola scura
l’ombra della notte, colma, che fa paura.
Zum Arbeitslager Treblinka11
I. Pensieri incombono II. È oggi che dobbiamo contrastare III. Il rumore dei passi IV. Il male è dappertutto uguale. È male V. Riflessione notturna e cronaca dei giornali VI. Non c’è porta che basti
Come e perché, in queste notti
di prima estate, così brevi sfuggenti,
alle luci dell’alba gonfia di un mare,
a questa luce d’alba fresca suadente fragile e come
rosata, terribilmente radiosa –
un rumore di treno su lunghe rotaie
stride fra i neri boschi,
si posa sulla spalla,
per me a galla questi foschi pensieri
e immagini di morte (la fredda zaffata
che esce dalle peschiere)
e sudando nelle immagini
questi pensieri incombono,
e piango sul cuore di un ebreo
che ha il suo banco
nell’antico cuore di una strada
ed è vecchio stanco come mio padre ariano.
Scomparvero nelle piramidi di fuoco.
Quel tempo sporcò di melma le mani
dei sopravvissuti, dai gelidi cancelli
precipitarono ancora ancora
le mandrie nei macelli –
belare straziava la lama dei coltelli
in mano ai giovani carnefici.
Non è questo che voglio: ricordare.
No ritornare a quei lontani
anni, a quei tempi lontani.
I cani erano più felici degli uomini.
I miei versi sono fogli gettati
sopra la terra dei morti.
È oggi che dobbiamo contrastare.
Allora le greggi si sparpagliavano
picchiate dalle verghe nemiche
(e i libri superstiti
le lacrime esauste
i codici che restavano
“oggi 13 aprile sono morti 800
oggi 30 giugno via Polkiava è sbarrata
oggi 5 luglio il ghetto è solo un muro”)
un uomo era nel profondo interrato
vano della terra, nel suo immondo
silenzio, fra corpi nudi di morti.
Chi tradiva, chi smagriva, chi pativa,
chi sapeva aspettare, chi impazziva
all’improvviso e dava il lacero grido di sirena
(era la fine di un mondo).
Le ombre dei morti di Norimberga
scheletri feroci
azzannavano i diavoli sconfitti
uscenti a gorghi da fiamme.
Oggi sono rimasti in pochi a contrastare.
I reduci invecchiati
lacrimano in silenzio all’angolo
della tavola, asciugano le palpebre anche le madri
col figlio giovane alla parete.
I ragazzi hanno vent’anni d’età.
Il loro riso è tremendo, furibondo
più della iena tedesca, più duro
a sopportare di un supplizio politico.
Non dànno nulla, non vogliono
nulla sapere né altro intendere; sta
la loro splendida forza disarmata
e dolente come il sasso in un prato.
Non riconoscono debiti, non vogliono
neppure conoscere la tristezza dei vecchi
– né la voce, sola voce, voce di notte
che dice di passate miserie, che affonda
fra le pietre di tombe
“oh voi prefiche rauche” (gli ridono)
incombe la loro voce insulsa stridula,
è una cagna urlante nel vicolo,
e con le mani di viola devastano il silenzio
già distrutto nel cuore anche per noi.
Restiamo imprigionati contro il muro.
Nessun altro corpo è stato più colpito
del petto di un ebreo.
Oggi che tocchiamo con le dita
nelle sbarrate ilari vie della vanità
altre gemme (parvenze minerali, fosche,
che diciamo verità)
oh non voglio che (facciate che non…) sulle devastate rovine
dove sono buttate in confuso riposo le ossa,
altri dalle macerie alzino ancora case
da distruggere; che il ritratto dei figli
sul letto di anziani coniugi si spezzi
nel piancito al tonfo di uno stivale;
siamo vivi solo per questo, per dire
parole, adagio, misere, non altro
è rimasto fra le mani ammuffite bruciate
dal sole di lacrime ormai spente.
Non una tiepida canna per cantare
a giuoco col vento. È il rumore
di passi pesanti – alzare la testa
(c’è amarezza e fiele in questo oscuro petto,
ancora c’è il rombo nell’orecchio
dei muri che s’aprivano, le risate dei vivi
uguali, uguali, uguali allo spiegato
riso del vincitore).
L’uomo s’adegua al fango della terra.
Solo a un popolo vecchio sconfortato
sorpreso nell’astuzia dolce da un’astuzia
più feroce e improvvisa…
“Che cosa dice il vento?
che cosa dice il mare?”
sono i ricordi di uno scoramento
che trascina indietro, a naufragare
(frasi di un tempo giovane da amare:
certo non era il male che poteva farci sanguinare,
o forse proprio questo è il rumore del vento
che taglia con la lama i girasoli?
il mare è uguale dappertutto?
giallo coperto dai girasoli sbattuti?)
Anche la morte è uguale a un’altra morte
e a questa vita,
anche la morte è uguale a questa vita
– se è certa e resa viscida imponente
dal nostro sangue umano.
Battono dodici colpi, sui tetti
striscia un riverbero nero,
rumore di macchine lanciate,
piangono le gomme per le strade
poi verso le chiese sprangate
fra le ombre di statue pietrificate
a braccia spalancate,
ali di luce si spengono sull’erba.
A questo penso lungo la notte quando
– dans le bruillard s’en vont un paysan cagneux –
potrebbe un passo, un altro, raggiungere la mia porta.
Nella notte, io chino nell’alone del tavolo,
la luce bassa, i fogli, le pagine sacramentali,
un colpo, il tonfo – (tutto può rimanere
così, fermo per sempre, immobile
per sempre può restare la vicenda sognata)
la casa devastata, aperta, smascherata,
cassetti spalancati, gettati dalle pareti
i quadri, pochi quadri, rotto il vetro di tutti
(Manzù dal cristo morto,
l’ombra di un impiccato)
sgualciti i fogli, per terra calpestati,
l’urlo della donna seccato nella gola,
ad uno ad uno cadono dagli scaffali
i libri, bruciano sulle mani
– volume quinto di Lenin
“Altra cosa erano gli arresti e le deportazioni
durante il regno dell’odiato Nicola”,
Herzen agli amici di Russia:
“In ogni riga delle mie lettere avete visto il dolore”,
le fatiche, le pagine nel fuoco di questo dolore.
Bisogna forse morire per colpire più a fondo.
La vita sola non basta.
Siamo troppo sporchi di dentro
per capirci, e troppo poveri per l’amore.
Non c’è porta che basti e nel pensiero,
nell’immagine che la notte dilata
sopra immemori tetti
– tu scrivi W Stalin sul ponte di Roncrio
poi la pioggia di un autunno nevoso
distrugge il ponte e Stalin,
o ti lasci perdere all’acqua del canale
verso il volo degli angeli scolpiti
su gli uomini ancora vivi alla Certosa,
luce ruotante in grido nel profondo
circolo del pozzo.
Questo è tutto, nell’anno sei e due
mese di luglio, venti, a luce d’alba
– nella gelida alba, alba rosata (con dita…)
– certo non si può consumare un aggettivo per l’alba,
alba non è ma è il fuoco degli alti forni,
la sirena che chiama, lo sciamare in fretta
grigio compatto degli uomini in bicicletta.
Se leggo le voci degli amici:
la mano non può sfiorare
la mano dell’amico,
una corrente divide i nostri cuori
siamo sempre più antichi e soli.
Tutto d’altra parte è previsto e disposto,
la lucida intelligenza accede e provvede,
gli attuali problemi sono già circoscritti,
dilagano le parole in Shadow corpo dodici.
Mi inchino all’arte, alle parole sapienti
(ho assistito una volta al ditirambo
reciproco di due retori che s’invischiano
in lodi per lo scritto stupendo);
poi una vecchia millecento nera,
targata Roma, entra nel ghetto, brucia
devasta infanga insulta si accanisce
e il tempo si frantuma, nulla conta nel giorno:
e la vita, le vicende di quindici anni passati,
io che ancora vivo per ascoltare ancora
indifeso illeso il pianto di quella gente
(così altri, in silenzio);
nulla conta più del labbro dell’ebreo
spaccato da un pugno poliziesco,
del numero sulle braccia, delle donne ammassate
come un tempo nel freddo di una colonna.
All’ombra dei portoni uomini furenti.
Le vostre parole allora? la nostra ipocrisia,
la nostra pietà che stride, la nostra vereconda
indifferenza? la parola che pesa?
i sottili riverberi, i giuochi, trame, aneliti
ammiccanti? a che servono i lieti ragionari?
Sotto il cielo romano (siamo i figli di Roma)
l’ebreo è un uomo con il labbro spaccato,
con un’ira divina, col braccio tatuato
– alberi enormi si tendono al ponente
hanno brividi leggeri, profumati
da un’erba strana e da ali,
mentre ai tavoli dei caffè
i poeti discutono dei principi immortali…
Il sogno di Costantino
I. L’autostrada del sole II. I frati al Carmine III. Ancora desiderio di battaglia IV. Acrobati in una piazza di Toscana V. Alle origini del mondo VI. Il sogno di Costantino VII. Gli uomini di Piero VIII. Incontro davanti a San Francesco (Arezzo) IX. Se Roma impera… X. Conclusione e fine del giorno
Se vai per l’autostrada del sole
sotto la galleria della Citerna
al rio del bue morto (dove vuole
una leggenda popolare)
lungo la galleria della Citerna
le vene gonfie di radici
esplodono in amare gocce, se vai per ritornare
accade che… se vanno
altri ancora accade, per partire,
che la strada percorsa, asfalto aiuole,
sia breve per una gioia, che il rimorso
della felicità che per morire
anche solo in un attimo è vicina
incomba, e si svena il gran verde alla collina,
ai mirifici fiori, ai venti che traboccano
in un’ora da una terra contadina
a Firenze, per salite un poco arse prima
poi forre erbose, scatenati silenzi,
fra alberi e soli immensi
decrepite case piangono.
Se vai per l’autostrada nel mattino
del tredici giugno metropolitano
e un lontano suono rimane sospeso
alle campane aperte di San Miniato,
ecco d’antichi lumi deliziosa superba
in lacrime furibonda
sorprende la terra toscana a una curva
come un’onda più alta quieta di mare
o erba che cresce sulla mano e ristora il cuore.
Intanto divagare su quanto fragile vuota
terribilmente errata sia la giornata
passata e tante possibili avventure
dopo gli alterni ultimi mesi
s’aprano al viaggiatore.
Non alberi per strada, la campagna
dilapidata, polverio di gerani per i fossi,
borghi umide pietre, folgoranti
torri e addio veloci per i fossi
suoni d’ombra, la Shell gialla, marmi
incandescenti; una solitaria impalcatura
dondola, circonda il campanile
– così l’aria diafana gentile
sugli oggetti che vivono senza paura
immobili, dentro a questa grande luce.
La cappella è nel buio profondo: la mattina
conduce, insieme agli stendardi conquistati
al cielo dell’estate, accanto ai frati
dal cuore inverecondo, immondo
animo di vite spaventate;
per le navate beate in azzurrissimo velo
allo schiocco di un vento che sale da cantine
enormi lucide squarciate dal gelo,
inginocchiano le anime turbate.
Sui gradini rosi dal verme di anni magri
in una luce diafana scomposta
piove l’ombra delle grandi figure pittate.
Certamente incontrarvi costa fatica
nobili cavalieri, oltremontani saggi,
pozzi di cauta sapienza, e sapienza
v’indora le mani ruinando miracolosamente
da caverne celesti
mentre un fiume bagna il fuoco della bocca.
Conoscendo la morte, sorridete;
compatite la vita rimasta, sciocca
vita tormentata, su cui scoccano
ispidi dardi di tormenti pensieri
che si perpetuano sempre; dalle pietre
traballanti muri circoncidono
la nostra scorza, duri.
Incede il vostro cuore con folgorante forza.
I sorrisi verdi fra l’erba, furori
venano esili grandi mani;
il silenzio è di me un poco grigie, mute,
sapienti, di città, case
dentro cui nudi mendicanti
muoiono nella luce orgogliosa dei santi.
Il frate apre gli occhi a un riso giallo,
scuote turbato ilare nel viso
le chiavi di cristallo e sospinge
perfido zoccolante, faccia di sfinge, a una porta
mentre la luce si smorza in un suono
che odora di pane, è mezzogiorno sul mondo
stupefacente tuono.
Così noi tutti via fra i morsi arrabbiati
di questi presuntuosi tonsurati
nemici della ragione.
Per quindici anni in fuga condannati
ad arginare la pietà degli altri,
stravolta angoscia, cupa distruzione,
con una giovinezza sconsacrata
che oggi è in bianche ossa divorata;
ad amare con lo strazio o un furore
l’altrui amore, a ridere
per la gioia degli altri e a farsi pietra
per la morte di un uomo sconosciuto
– adesso nel rovesciarsi delle notti
la fuga della vita è un tradimento
e: chi piange con noi? chi ci sorride
più? chi si strazia come il pellicano
offrendo il sangue al freddo della mano?
Le trombe ululare,
bianche nere bandiere sventolare,
nomi strani, emblemi, insulti, noia
sulla bocca; personaggi ufficiali
versano il miele di una falsa umiltà
e gli amici di un tempo
hanno addosso la porpora già.
Avide facce alzano nel marmo
cimiteri di banche,
tagliano con gesto forbito i nastri inaugurali
le adultere madame,
uno sciame di servi inchina alzando le mani,
intanto nuove ciminiere rompono
con tetra indifferenza il cielo vinto.
Nell’occhio della notte folgorata
per la strada battuta dalla pioggia
una per una le finestre le case
stridono, si chiudono, laggiù
un globo freddo tra nubi fonde va.
Ancora un desiderio di battaglia?
l’uomo è nella solitudine, il rancore
arrugginisce un cuore dilaniato
dalle frecce che non splendono più.
Quanto amore è andato sprecato.
Volano fiumi in terra di Toscana.
Steso è il cavo di ferro. Un giocoliere
lieve umana armonica parvenza
brucia in uno splendido braciere,
ombra sull’asfalto della città.
L’ossessione spezza l’omertà,
il filo vibra vibra alla pazienza.
Sopra la piazza d’erbe, con fontane
morse da rossi venti di colombe
piovute dalle torri scrostate
sfiorando in ali foglie e balconate,
corre lungo una corda rugginosa
arcaica stride la motocicletta,
pericolosa, sospesa, invecchiata
nell’incenso fra schianti di campagne.
Scorrendo è una terribile civetta
stretta sugli alberi appannati
dall’estate, da un’ombra che l’aspetta.
A testa in su gli uomini sfuocati
guardano impotenti esacerbati,
gridano con tre voci nella gola
alla forma che si divincola, sola,
dal campanile all’antico palazzo oramai nero;
gli infuocati riflessi del mistero
si compongono adesso nella gioia.
Poi la noia della giornata,
insieme alla possibile morte che divaga
incerta fra paura e delizioso rancore
a chi è conficcato nella strada,
si consuma ed esplode nel furore
feroce e inconsolabile;
è paura dell’opera vittoriosa
che ferisce con vergogna il nostro destino?
impotenza, invidia di un cammino
che non si sa scegliere, frustare?
di una morte derisa? acrimoniosa?
è già sicura la sorte in quest’aria di notte
appena consumata, fra le rotte
voci che chiamano pèrdono inveiscono?
L’uccello della notte
fa lutto sulle colonne.
Il suono di un vento fra gli alberi.
Non regge all’arsura del tempo l’amore.
Respira l’estate sopra i rami nudi.
A una spietata neve si scioglie il cuore,
l’amicizia, il regno del mondo, i crudi
desideri di condannarsi e amare,
di stringersi la mano,
voltare le spalle, contare ricontare il grano
sulla pianura che il sole distende profondo.
Siamo alle origini del mondo,
a noi non è dato aspettare volo di colombe,
l’arca di dio ha issate le vele, è partita,
il fiore delle generazioni passate è chiuso nelle tombe,
la vita a volte pare anche deserta, come
un fiume coprisse la terra
e solo un uomo guardasse la terra morire.
Fiati di lucido pianto sopra le tombe sfiorire.
Gli atteggiamenti frivoli, le delicatezze,
l’avidità, polvere sulle ali di cera,
barlumi di riso per le debolezze
che la sera con tutti i suoi fuochi
ci fa vivere ancora; dunque viviamo
giudichiamo, opprimendo, condanniamo;
non sono spente le ombre a cui
come povere navi ancoravamo i pensieri,
gli osannanti cristalli delle sibille?
Preso dall’annientamento
di questa solitudine straordinaria,
paesaggio vile, decaduto, ho seminato
il mio ammonimento;
non era un alibi, la vita ho gettato.
Sopporto l’angoscia che fa vivere.
A poco a poco adesso il sole immondo
tanto è bello di calda innocenza e di verde,
in un mare d’erba si perde
contro mura di fuoco
poi volge le ombre al respiro della montagna
dove si stampano le fatiche dell’uomo.
Viviamo alle origini del mondo
umidi di brina di caverna.
Il grido di un’averla colpisce il viso a scudisciate.
I tetri specchi delle nostre paure angosciate!
Pochi segni indicano noi all’ombra che segue.
Siamo forse a una fine
senza possedere altra sapienza
che la nostra impotenza
o calpestiamo le origini di un mondo
e noi consuma una scarsa esperienza?
(Di notte Terni brucia, gli altiforni
scagliano lapilli nelle nubi di neve,
bianca neve scendere senza venti,
spilli infuocati ruotano nelle grotte
dei monti reatini;
la strada periferica, annientando la vita, odora.
Guardo ora la terra intorno a me, erta
e difficile, sciabolata da lame
di un raffinato sole, fra quiete valli
gli ulivi hanno germi teneri e castelli
tondi scudi di rame
volano sopra i rami nudi).
Non appare in sogno la colomba superba.
Bianca, ali fuggenti, timida, composta, eccelsa,
fuoco dello spirito e brivido dei pensieri
piomba sopra al sonno disarmato dei guerrieri
a bagnarli con le zagare del cielo.
Ha leggerissimo in bocca uno stelo.
(Il sogno di Costantino:
affidare con tragica insolenza il destino
delle armate al bianco di una piuma).
Il nostro cuore è schiuma della terra,
bruciato da una raffica è fango della guerra,
la vita soltanto a noi è affidata,
a noi con le radici è abbarbicata.
Mai fu così prossima la fine.
Non ha più senso toccare le pietre,
l’attesa, il turbine, la tempesta
spezzano non foglie morte ma le cime
degli alberi, la terra;
è troppo tardi.
La parola è un pugnale, penetra profondo.
Davanti ai grandi affreschi di Piero
impalcature irte di ferro nero coprono
il secolare schianto delle figure, l’umano
brusio di mosche e i vetri delle navate,
le alte canne di un organo spezzate.
Le pure verità si leggono sul muro
appena intravviste, in penombra, scolorate
da indifferenza e dal tempo.
Cavalli travalicano ruggendo
fiumi in riposo, fiori d’erba, spinti
dalle spade, coi cavalieri in sella
o agonizzanti a terra
fra le lance perdute.
Sfolgorio di bilance
che fortuna e legge reggono.
Un gelo di morte è nell’aria
che cala dalla sera,
eroi immobili nella mischia aspettano
che l’ala nera si spezzi e lo stendardo parli.
Ma da un sogno non attendere verità,
non possiamo tacere,
calpestare la polvere, inalzarci
ombre di marmo ferme dentro i secoli.
Presto sparire, certo, scialba densa
moltitudine, polvere sporca, immensa
forza sprecata:
naufragare dopo aver rimpiattata
in nere caverne a strapiombo sul mare
la nostra parola sopra le scogliere.
Ci faremo intendere poi, forse amare, temere.
Inutile che tu stia a rodere
te stesso, a consumare le notti
lunghe come notti interminabili,
via vai di tram e fari dentro visi
di uomini (o di donna).
La parola che usi è scarna, povera,
risuona suona è un colpo di martello
solo per un chilometro di strada.
Qualche orecchio l’ascolta. È tutto, bada.
(A un cancello due mani adolescenti
si smuovono i capelli).
Sono vinto da una tenera angoscia
che mi fa caro a me stesso
dopo lunghi errori e anni d’indifferenza.
Solo, come sempre, in solitudine e quieto
all’apparenza che sfuma (le mani lacerate)
nella luce di rosa; cupo mi abbatto
sulla piazza meschina
in cui con occhi lacrimosi china
la faccia stanca un santo.
Orribile fischio del treno a notte fonda.
“Il giovane già grigio” ride improvvisa
l’agile signora che ricordo aveva i capelli di fuoco,
ritorna dal passato con i suoi occhi azzurri
così profondi azzurri che tutti faceva lacrimare.
La vita la travolge, l’ora è un grande
specchio che si appanna, misteriosa.
Il suo compagno ha un viso stanco, dice
che a Ispra lo sciopero è compatto;
i motivi? le carte, il materiale
attrezzatura nuova,
vogliono anche denaro non le pare?
se a Ispra non si prova
non si fabbricano bombe per le tombe.
Dunque anche l’Italia avrà nel cielo
il fungo turbolento grande quanto
un giorno di primavera sul Cervino?
la Sardegna è il suo Sahara, un deserto
di sterpi, di silenzio, antico pianto,
ma occorre, s’affanna, più denaro,
tecnici nuovi, materiale, voglia
d’organizzare. Più fiducia dell’uomo consenziente,
più pazienza dell’uomo verso l’uomo,
più legittima attesa…
Come sei cambiata, tu, con gli occhi un poco
spenti grandi, nella piazza invasa
da torme di stranieri,
voci di toscani indifferenti.
È lontana la nostra giovinezza.
Già sera, Piero col suo gregge
sprofonda nelle tombe, in uno schianto
il cielo trabocca sul prato
dimenticato, tutti partiamo, a Ispra
addio, addio, a Ispra, dice, addio,
a Ispra se ci date il tempo, è un luogo…
e l’amore scompare e i grandi anni
ritornati ruggendo con le fauci
pronti per azzannare.
Non c’è pietà, se non dimenticare.
La partita non è perduta, la nostra vita
non è bruciata ancora, annichilita,
disfatta, ramo secco, noce avara
che allappa nella polvere di sasso.
Tutto sembra caduto? Roma impera,
muore Venezia, il carnevale impazza?
e noi sangue italiano
pazienti a conficcare con la mano
i chiodi dentro al legno dei cuori,
volontà non corrotta da furori
in questi anni coperti di silenzio.
Essere stati vivi sarà inutile?
Non offrire la scure al nostro boia,
non cadere bruciati dalla noia,
il sangue versato servirà.
Mentre scrivo la terra è minacciata,
forze aprono voragini nel fondo
mare, dall’abisso cadono sul mondo.
Veleno, colori sfolgoranti improvvisamente
invadono la pianura,
l’uomo bruciato dalla paura
impazzisce. Questa è l’età
che ci vede vivere, sulla spiaggia
di onde paurose; ma poiché viviamo,
ancora nei pensieri abbiamo la forza
di un ultimo rigore, ancora amore
nella scatola segreta d’una stanza.
(Questa è risposta, ultima, mandata
a un biglietto d’invito, offerta astuta:
verrei da voi ma al seguito di guerrieri
i quali annunciassero che Roma è caduta).
Così si attorciglia la corda e sopravvanza
sopra l’inquietudine una speranza.
Che cosa ci riporta a casa, la voglia di tornare
per sempre, navi morte, al porto
dell’ultimo uragano
o la paura di partire
ancora, di non sapere più tornare?
Firenze, Pratolino, le gole
di monti, case buie, i ruderi
dei castelli bruciati, le accecanti
luci, l’orrore dei pensieri,
viaggiamo e la terra può finire,
pensiamo questo pensiero di morte
e può veramente la tromba suonare alle porte.
Lunga fila di macchine, la coda
del serpe si snoda
fra il sasso arrostito dall’estate;
è notte, poveri lumi, sprofonda
di qua di là dai monti all’improvviso
la galleria, il fondo della terra
è oscura angoscia, timore di non più apparire,
poi luci sparse, infinite,
vive luci, frastuono, una voce
dice in dialetto un augurio dentro all’ombra,
una donna si scosta, un faro sulla collina,
è vicina la riva del viaggio,
ferito a morte, scaltro, lungimirante
con coraggio mi attesto alla mia terra.
Finisce il resoconto del viaggio estenuante
dentro a una guerra.
La bomba di Hiroshima
I. Le ossa calcinate II. La notte non finisce a Hiroshima
La bomba di Hiroshima
bruciò troncando le ultime parole.
L’ossa calcinate
riverberano il cielo senza fiato.
L’erba per sempre ha il verde rovesciato,
l’albero ha il suo tronco congelato
per sempre, la natura scompare
per sempre, nell’orrore dell’uomo
dentro a un fuoco di morte.
File di carri cercano le frontiere,
appena cadute le barriere
di filo spinato
la gente beve nelle mani screpolate
e corre forte sperando lontano
per la pianura, macerie a frugare
macchie nere di lava paura;
nel sole la guerra è seppellita
con gli ultimi soldati in pietra dura.
Nel Giappone una città nuova
cresce adesso funebre violenta
sopra uomini esanimi che al sole
si scuoiano nei fossi.
E qua è l’Italia, non intende, tace,
si compiace di marmi, di pace
avventurosa, di orazioni ufficiali,
di preghiere che esorcizzano i mali.
Ma nel mondo le occasioni perdute
sono i sassi buttati dentro il mare;
nei luoghi devastati dalla lebbra
o accucciati nell’ombra a imprecare
non un granello di polvere nel fondo
dell’occhio incantato che li domina.
Tutti i morti oramai dimenticati.
Il ventre della speranza è schiacciato
nella polvere da una spada antica;
anni interminabili, senza amore,
inchiodano col fuoco alla fatica.
Regala la sua vita un aviatore12:
fatto legno, con sdegno
ammonisce con la bocca ferita
che quanto è accaduto può ancora accadere13,
che la vita di tutti si consuma
in un bieco silenzio e in cenere.
Gli altri usurpano e straziano,
non affondano i denti nel bicchiere
acre della verità che fa morire.
Macerati dagli anni, legati
con la canapa al giorno travolgente,
ascoltano crescere l’erba
stenta, con la mente il passare del tempo,
odiano la voce che dà gelo all’inverno,
che conduce al fondo dell’inferno,
che monotona assale
i seduti nelle sale addobbate,
poi percuote e subito affonda
nella pietra tombale…
sempre contando i caduti d’Europa,
i trafitti dal cielo a Nagasaki.
Esule nella patria la voce conduce
a un amore dimenticato, a un dolore
irto, indifeso, spina da patire;
al mondo che lo ignora
offre l’orrore
della sua morte e di una gloria vile.
Dietro il muro del pianto si è difeso;
ma ritorneranno l’ora derelitta
le giornate con l’anima confitta
nel fango, se un orgoglio conteso
da questo acerbo cuore
che non s’arresta di fronte a pena alcuna
girerà nel dolore la fortuna.
L’hanno preso, legato, è prigione
in cima a una collina di carbone.
I naufraghi che vanno alla deriva
troveranno da lui che è sulla croce
nuove parole, il ricordo, ragione?
La notte non finisce a Hiroshima.
Prima dell’autunno, sul fiume Leuter, in Germania
I. Il presagio II. Tranquilla inerzia III. Esplodono le nuove fabbriche IV. Ach, du!
Gettato un sasso dentro al fondo abisso
batte l’aria nel fervore
di rosee luci il tonfo apocalittico.
A volo dileguano le ombre
acquattate nel sonno fra la scura
erba matura; dentro all’orecchio dura
la vibrazione (incanto di una lama)
e dall’umido pozzo agile frana
una lucertola, sospiri crescono sul muro
che interrompe l’estate
e antiche voci rapido difende
con la muffa splendente.
Non c’è persona in moto, il pomeriggio
affila spade rosso di paura,
attende dall’orizzonte nemico
il tramonto con le ali della sera.
Sulla bandiera che schiocca indifferente,
per giuoco, da una torre,
la vita si ripete.
Leggo con scrupolosa ingenuità
il palmo della mano,
gli oroscopi non sono oscuri
la vita durerà lontano
malattie non si danno
non l’affanno di morti misteriose,
la linea del cuore il giuoco dell’amore
vibrano nel mio scandaloso cielo.
Panno disteso docile per terra
ascolto gli occhi subdoli di estranei
radunati nel domenicale eloquio
o al conviviale riso perdersi, cercare
quasi per giuoco, seri, a poco a poco
simboli, segni, croci, nomi, amori
affiorati dai giorni
per sempre (che parevano) scordati.
La vita consumata in un deserto
senza gloria o talento
si disperde adesso in stillicidio
per la radura che divaga al fiume;
stretto fra l’erba, perfido, si perde
il mistero delle voci.
Affiorano scheletri feroci
di giovani soldati con la mano,
bionde ragazze svengono lontano
da qui, sulla radura,
le Volkswagen col muso sprofondato
dentro la terra brucano nel verde,
un uomo si getta su una donna
che nemmeno grida, apre le braccia, ride;
e se prima il silenzio, una gran folla
fra gli alberi si cerca nei capelli
a scaldarsi nel sole, indifferenti,
belli, nudi, felici, disumani,
parlano adagio, si chiamano adagio, parole
su quelle povere ossa.
La felicità, o meglio: il meditato oblio
che si usa con prudenza non deve distrarsi;
è domenica sul fiume e va goduta piena
(credetemi) questa tranquilla inerzia.
Poi improvvisamente per la mente, schegge
di un affaticato sasso,
sono nel cielo anatre selvatiche,
lassù nel cielo perse nere in cielo,
gelano dentro i venti le ali cupe
e un rombo il rombo il rombo sopravvanza
la disperata attesa, Stuttgart bombardata,
morta la giovane infermiera, distesa
una fila lunga di morti,
di cera i campanili si disfanno, storti
i ferri, luci affannose nel cielo
staffilato da lame. E tutti morti.
Per un uomo venti donne, o cento,
adesso; la rovina è riparata,
splende una nuova architettura.
Dimenticata è quell’ansia di paura.
Stridono sul greto oltre il beato
corso di questo fiume
i carri armati (la luce di questi occhi),
allineati s’avventano in un prato;
e da München per strade di pianura
l’asfalto segue un alto muro bianco
da cimitero, le fabbriche nuove
necropoli di morte, fumo nero
esplodono; e insieme l’affanno del pensiero
che seduce la verità è uno strano
gelido timore di sbagliare.
Il piano di Stalingrado suonerà
in quest’ora fra il tonfo degli alambicchi
e le rare parole? ci sarà pace al sole
per l’ebreo che brucia e il povero italiano?
Scusatemi. Ma occorre proprio cadere
colpito da questo rigore che ferisce,
cadere in siffatti pensieri, perdere
(dice così l’amico tedesco, verloren)
le ultime giornate dell’autunno, splendide.
“Presto verrà la neve, presto è inverno”
c’è un brivido travolgente nella sera
che si disperde,
così salutano molti con la mano
un poco alzando il busto, alle ragazze
rompe in onda il fulgore del seno
(stenderle in un letto di piuma, affondare).
I carri armati fermi oltre la riva
sulla terra di tombe; incombe,
mentre le ultime famiglie s’aggiustano le gonne,
una cilestrina luce, ach du!
fra il verde cadono le stelle,
s’annidano negli occhi spenti di quei soldati.
Viandanti fra un nero vento
essi stanno buttati
per sempre dentro le tombe.
Iconografia ufficiale14
La diga del Vaiont è in Val Cellina
a dodici chilometri da Belluno
la diga del Vaiont è la più grande diga ad arco del mondo
alta 265 metri consente di invasare sino a un massimo
di 168 milioni di metri cubi d’acqua del fiume Piave
per alimentare la centrale idroelettrica di Soverzene.
190 metri di coronamento carrozzabile
spessore al coronamento di 3 metri e 40 centimetri
spessore alla base 22 metri e 11 centimetri,
per costruirla sono stati impiegati
350 000 metri cubi di calcestruzzo
e mezzo milione di quintali di boiaca.
Crolla la diga del Vaiont
travolgendo interi paesi immersi nel sonno.
Era la più alta d’Europa.
Si cercano le vittime nel fango
il fango ha sommerso cinque borgate
fra i superstiti rassegnazione e
fatalismo: i superstiti non piangono.
Il dolore del paese, messaggio del Papa.
Le prime telefoto dal mare di sangue sopra Belluno.
A Pirago il paese si è frantumato
su questa piana c’era Longarone
ora è un mare di fango pavimenti di case.
La morte è scesa dall’occhio azzurro del Vaiont.
Gli uomini vivevano sereni ai piedi della diga,
il fianco della montagna che si specchiava nel lago,
era da migliaia d’anni che si ergeva compatta e possente.
Quell’immenso ghiaieto dove una volta erano case
ha oggi un aspetto allucinante.
Il paesaggio è lo stesso di quella città giapponese
dove era scoppiata una bomba,
alla luce del cielo terso
il paesaggio è di un biancore insopportabile,
televisione programmi sospesi,
dolore e mistero, catastrofe biblica.
Prime polemiche. Si poteva evitare?
Il presidente della repubblica
ha erogato una cospicua somma
per i primi soccorsi.
Il testo del telegramma
– la notizia del gravissimo disastro
– le laboriose popolazioni della valle del Piave
– l’unanime sentimento di cordoglio del paese
– animo profondamente commosso
– reverente pensiero agli scomparsi
– le famiglie così tragicamente provate
– più affettuosi sentimenti di solidarietà.
Oggi Leone si recherà nel Cadore
– sentimenti vivo dolore
et profonda solidarietà
– pregola recare popolazioni colpite tanto flagello
sensi affettuosa solidarietà.
Un processo si deve fare
i responsabili si debbono trovare e debbono pagare.
Longarone Pirago Rivalta Villanova Faè
Codissago San Martino Spessa.
Calcolata perfettamente la diga
si è trascurata la parte geologica;
un sistema di centoquarantatre equazioni
con altrettante incognite
risolto per controllare
le caratteristiche costruttive; approssimative
le prove sulla struttura delle rocce.
Non è rimasto nulla.
Non nulla per dire poca roba: proprio nulla.
Quattro chilometri quadrati precipitati nel
fondo delle ere geologiche
in un tempo preumano
“l’Ava la stava qua?
magari la stesse qua. La stava a Rivalta
e a Rivalta non ghe più niente”.
Diga perfetta ma roccia pericolosa.
L’anima nostra si raccoglie in preghiera
invocando eterna pace agli scomparsi
– per far rifiorire in quelle terre così laboriose
la speranza di un avvenire
più sereno e sicuro.
Certo è che, per citare un caso,
il paese di Valesella
un certo giorno cominciò ad andare in briciole
molte case dovettero essere abbandonate.
Ecco la valle della sciagura
nel crepuscolo del mattino
fango silenzio solitudine
e capire subito che tutto ciò è definitivo
più niente da fare e da dire.
In tempi atomici si potrebbe affermare
che questa è una sciagura “pulita”
tutto è stato fatto dalla natura
che non è buona e non è cattiva ma indifferente.
Mi ricordo che mentre la facevano
l’ingegnere Gildo Sperti della Sade
mi portò alla vicina centrale di Soverzene
dove c’era un grande modello in ottone
dello sbarramento in costruzione
ed era una scultura stupenda
Arp e Brancusi ne sarebbero stati orgogliosi.
Più arrivano bare più arriva gente
in questo grande mercato della morte.
Il presidente Segni è a Longarone
circondato dalle autorità
le autorità impettite e vestite a puntino
facevano gruppo isolato
attorno premeva la gente della montagna
“vieni qui, da noi, ad ascoltarci”.
Il consiglio dei ministri ha rivolto un riverente pensiero
ha espresso la commossa solidarietà
ha rinnovato l’assicurazione
– i provvedimenti intesi a dare pronta assistenza.
Un giovane piange la sua casa distrutta.
Nei magazzini degli aiuti ufficiali
vi sono soltanto quintali
di latte in polvere.
I discorsi de’ miei concittadini15.
Note
1 Silvio Corbari, partigiano romagnolo, preso e impiccato in piazza nell’agosto del 1944. In Romagna, per definire un eroismo, si dice adesso: come ai tempi di Corbari.
2 Ferruccio Parri, nel mattino di maggio del 1945.
3 È allusione scritta alla rotta del Polesine, altra sciagura nazionale e altra kermesse burocratica.
4 Al tempo degli scioperi degli anni ’50, feroci e liberi. Un fuoco di paglia.
5-6 I due sindacalisti (di cui si veda, volendo: Un dibattito inedito sul contadino della Val Padana,Firenze 1957).
7 Le nuove parole per la vita diversa che si prometteva (proprio attraverso questa lotta, o lotta di tal genere).
8 Del delta padano.
9 Si consideri adesso l’ingenuità (senza malizia) del referto.
10 Non il suo corpo ma la sua memoria.
11 Al campo di lavoro di Treblinka;con questa indicazione sulla bassa di passaggio,secondo il gergo militare, i gruppi di ebrei polacchi erano avviati al campo di sterminio di Treblinka.
12 Il maggiore Claude Robert Eatherly dell’aviazione americana, che volò su Hiroshima. La sua vicenda è nota e ora conclusa; “liquidato” dal mondo e rinchiuso per sempre in manicomio.
13 Da una lettera di Eatherly ad Anders.
14 Nel 1963, di notte, un’ondata scolata da una diga gioiello d’architettura travolse i paesi e paesi e paesi – morte persone duemila. Un fatto di cronaca. Una fetta di cronaca. Questo testo, senza interpolazioni, rappresenta il progresso (nel senso di reportage naturalistico-decadente) dell’informazione dei giornali; l’accanita indifferenza; il lubrico e un po’ sconnesso linguaggio delle occasioni; e il referto della pronta indifferenza burocratica.
15 C.E. Gadda, Una poesia,in “Il Menabò 6”.
*****
Le descrizioni in atto
1963-1973
Le descrizioni in atto – dopo varie tirature fra 1969 e 1985 (di cui l’ultima rivista e accresciuta) – uscirono nel 1990, dedicate come sempre a Tommaso Campanella. L’edizione, della Coop Modem di Bologna, nasceva sotto il segno della rivista “Lo Spartivento”, a cura di Gabriele Milli, e in occasione delle celebrazioni sindacali a Bologna per il centenario del Primo Maggio. Dalla nota dell’autore che accompagnava il libretto:
[…] L’arco temporale dei testi copre per intero gli anni Sessanta – oggi da tanti pastori di pecore rifiutati, anzi macellati. Qua dentro sono partecipati con brividi fino all’osso i fatti, gli errori, i problemi, i marosi di parole, di cuore, di sangue di quel grande momento; e le speranze non ancora avverate. Alle quali non è proprio il caso di rinunciare adesso. Indifferente all’emarginazione in atto con ironia e con astio di tutte le problematiche in queste pagine condivise, chi scrive non ha difficoltà a ripetere con convinzione che dai fogli raccolti si cercava allora e si cerca ancora di alzare una voce che possa mescolarsi alle altre che si chiamano dai boschi. Da questa parte, ringrazio uno per uno gli eventuali lettori.
La dedica è ancora a Th., per tre volte.
R.
Bologna, marzo 1990
Prima descrizione in atto
Ritorneranno i tempi (duri)
piangeranno contro i muri le madri
aspettando il ritorno dei figli.
Questo tempo che ha uomini di così debole fiele.
La presunzione li fa ritenere superbi
grandi (leggere le gazzette)
ma api al miele
corrono ai peccati di sempre
non c’è nulla che li trattenga.
Parole di ammonimento
sono spazzate dal vento via.
Cederemo ancora una volta alla morte.
È fango la volontà di riscatto.
I ramarri escono dalle crepe.
Spezzate statue.
Lacrime nel buio.
Volgendosi intorno egli vede
crede di intendere e sapere
forse qualcosa più di un altro, ma sotto
la razionale immobilità della misura (dell’ordine apparente)
lo scaltro è in attesa,
il mugolio di quel canto ha il sapore di un tuono;
striscia il topo
sul cornicione di marmo
– poco fa tre ragazzi in fila
si indicavano una donna,
ibrida smorta era al riverbero della colonna.
Nelle case dei poeti questa è l’ora del tè.
Lo scirocco spezza i tegoli e
l’occhio del piccione è succhiato
dallo spiraglio del sole
mentre in pigiama una ragazza magra
si dondola nel vano della finestra
dentro le aiuole delle alpi al lontano
rumore della foresta
– traluce oltre misura il rosso dei capelli,
le efelidi leggere, pule di grano, i
giovani anni sul viso. Intanto in quest’ora
i doganieri indossano la tuta sul lago di Como
mentre un uomo ansima solo, suda
all’ombra del Monviso e
se non corre sarà presto morto
nella sua carne nuda.
Seconda descrizione in atto
I.
Il colore dei sassi fra i binari
di ruggine sfibrata, colorati di stanca
ruggine, il colore è denso di polvere, sporco
di polvere, sporco di pioggia, di lacrime,
il colore biondo dei sassi allineati,
sono sprofondati nella terra, levigati.
L’edera si morde irta le fibre.
Alla televisione Non è mai troppo tardi –
uno squillo la voce belluina, ridente:
questo mondo che tendeva dal profondo
a contemplare (le regole del giorno sono
la luce gialla, la Farben rosso sangue dipinta nel cielo)
in Grecia
dunque lavoravano gli schiavi, gli stranieri
lavoravano; non lavoravano i greci,
l’uomo libero mai.
La vecchia col cappello piumato
cerca il suo uomo dalle scarpe di corda, vecchio
“non sarà successo qualcosa?”,
le cassette alla porta dell’ingresso,
uno stabilimento di vetro luccica e vibra, vuoto.
“Sie schreiben gegen Deutschland”,
tre studenti partono con la valigia,
una donna anziana stringe le mani al figlio,
“rauchen verboten” e i sassi si rivoltano
tenui nel sussulto al sole
dilagante sopra le vecchie mura.
Questa è la solitudine. È la paura
indefinita, dura,
di restare per sempre conficcati al suolo;
d’essere solo, ignorato ignorante ignoto;
di sbiadire dentro a un’ombra
nel vuoto respiro del tempo, per sempre.
II.
Tenera, tenera, tenera è la notte adesso;
cedere ai neri presentimenti fra i neri
sassi, chiedere aiuto.
I vecchi maestri hanno insegnato a mentire;
a tradire; hanno offerto veleno alla fame.
Spezzavi il pane e morivi. Li vedi
oggi, dentro a questi giorni di pece,
in lizza spingere i giovani agnelli
così teneri e sciocchi, così belli
inutili, così perversi e torbidi,
al macello. Per dispersi sentieri.
Spingerli ai vecchi amori.
Alle spalle giacciono insepolti e
bianchi, ancora bianchi gli scheletri dei soldati.
Ma essi? barattano le noci,
battono le mani, aizzano le cagne.
III.
Cala l’afa della città, sbianca
nella livida sera alle finestre spalancate.
C’è la luce di un aprile precoce
con la voce di uomini che consumano
in una camera l’ultima allegria
prima di notte (forse è tutto un gioco).
Trema un poco egli aspettando ed è solo
come mai in questi ultimi anni.
Rapido il passaggio (come da una strada alla strada)
dal dolore che morde alla forza che cede
a se stessa e dà un lume ai pensieri.
C’è un’altra aria in quest’ora di sole
ormai concluso; aspetta un treno
e mentre anche il coraggio (sembra) viene meno
guarda i sassi della stazione gialli neri
e vetrate lontane –
aspettando dopo mesi di tornare
scuoia la volpe dei pensieri
con una amarezza che si rivolta
in dure staffilate.
Gli gettarono a volte contro tutti i sassi
senza ferirlo.
Passano gli anni, arriveremo noi pure
a dare una voce a questa dura tristezza.
Terza descrizione in atto
Non basta (o non serve ancora) aprire Lenin a pag. 225 e
leggere
l’ordine della rivoluzione
“questo stadio superiore delle esplosioni
popolari, caotiche, spontanee”.
Non basta mischiare Dobb e job,
farneticare a volte in una ridda di nominate persone
odi fatti dell’intelligenza.
Certo per alcuni c’è lì una lucida evidenza
(anche se sotto è il vuoto).
Struttura, prevalenza della letteratura
sulla cultura, ideologia ma non politica
– “che è sta’ dannata politica” dicono
e chiedono “siate seri vi prego,
se siete poeti scrivete poesie:
per carità, è forse poesia la vostra?
Un consiglio? tacete!
Non basta ripetere l’invettiva di Sartre
à l’origine de tout, il y a d’abord le refus
per farvi uomini. Siete senza respiro,
ottusi, oscuri, trivellati
dalle avverse vicende”.
Il cielo si accende sopra i coppi
tutta la città è un polverone di fiamma
la sera è solo un sentimento di volo notturno
un mantello aperto nel freddo
su doline lontane.
“In questo tramonto vedremo i colli veneti”
alle finestre comari silenziose.
La vicenda della vita, si diceva.
“Ma certo, amico mio, a voi manca
una qualifica: chi siete? intendo
un lavoro preciso, scrivete?
ah, no? scusate; ma scrivete
qualcosa, comunque? non scrivete?
e sempre quella penna in mano? Capisco.
Ad ogni modo, scusate, me ne infischio
e non m’impegno, per voi.
Siete in salute e giovane (vi invidio)”.
Non basta dire che la vita è cattiva
né caricarsi di odio per odiare,
non basta possedere per volere;
spesso il male che dura e ancora insiste
resiste perché non fu consumato,
e noi non fummo così tristi o saggi
o previdenti da soffrirlo ancora.
La nostra forza è vile.
Così le costumanze scipite, così le voci
che feriscono, così la scialba euforia
di questo monumento di sassi.
Basta una mano alle volte per chiudere
un’altra mano e correre correre lontano.
Si deve ricominciare da capo.
Quarta descrizione in atto
Quando i contadini toccano il fucile.
Sprizzando bagliori di fiamma
sulle nostre parifiche intese
il fumo dei toscani
si mescola, finalmente, alla polvere dei sassi che sbalzano.
Quando.
Non è che restituzione fatta con misericordia.
Una giovane donna.
Con lei può la vita godersi.
La coscienza è un pugno di terra è ombra;
i ricordi allineati nelle giuste caselle
non fanno rumore.
A volte se consideriamo
come tranquilla invece che feroce la vita
felice anche nelle giornate
appena un poco appassite, giorni d’ottobre
in un colore…
Tremano le foglie se cresce alla sera
il vento che ha un nome strano,
luci alla finestra presto si spengono e cala
la nebbia
ecco che il vecchio dolore ritorna
quando si ascolta che mani afferrano il fucile,
e uomini e donne si radunano di notte (voci)
e le strade si riempiono in quel deserto
che è la paura o l’agguato,
quando l’odio brucia
come i bidoni di benzina
e nessuno aiuta, anche oggi, che temono
la partecipazione come una debolezza
romantica e un poco infetta.
È un’altra la questione.
Noi con le mani macchiate
possiamo solo rivoltarci la pelle,
questo è possibile.
Gli altri ci additano a un modesto ludibrio,
con pace delle nostre famiglie.
Possiamo prendere valigie e partire;
o possiamo considerare la situazione;
in noi o tuttavia manifesta
la volontà di non lasciarci morire per riposare,
e il dito puntato…
Quando…
Queste impossibili ragnatele di rapporti,
le persuasive parvenze
che si esauriscono in un contatto in una parola
e accentuano il distacco
che ognuno di noi ha.
Essere vicini stretti al braccio
o rovesciati sul petto
di Fanon o Nizan –
non dimenticateli i morti.
Quando.
Quando scoppiano i fucili
i passeri volano.
Quinta descrizione in atto
Nel silenzio della notte
risuona ancora il colpo di rotte
scarpe, spezzate o interrotte voci
sui campanili; disarticolate, meste
queste voci si perdevano un tempo
nelle tempeste come dentro secoli oscuri,
era una morte avida, più morte
della morte –
era un mare di pianto, golfo di lacrime, un fiume.
Perché l’uomo (verme;
giovane teppista che colpisce;
abile accorto statista che mentisce
con garbo, sorridendo)
domandavo come un uomo
riesca a dimenticare (la domanda è retorica).
Il denaro forse, o l’amore;
i debiti di gioco; i delitti compiuti;
l’ambizione che è una spuma del cuore
– ma il dolore, il dolore silenzioso,
la perseveranza negli scrupoli
l’insonnia dei pensieri,
questo e altro l’uomo teme ancora come ieri, così
rifiuta senza amore,
il presente l’arrota,
la sua indifferenza è sterile, paziente.
Dimentica perché è misero, è perverso,
è debole; uccide perché
è più facile compiere azioni di guerra
imparate in anni non lontani
che sciogliersi le braccia bruciando per il dolore.
Sappiamo (dicono) che l’Europa è morta.
Esplodono in questa notte d’ottobre
le mille finestre della città,
la desolata grandezza di queste pietre
si può toccare con mano.
Nell’ora d’autunno, terribile, pensiamo
quanto è breve la vita, come occorre
affrettarsi con disperazione per
non trovarsi coinvolti in una sola morte
fra i vivi angustiati ai teleschermi
o delizianti agli stadi (senza gloria),
fra queste facce dagli zigomi rossi,
giacche beate, mucchi d’ossa, legni
e schiene dondolanti, capovolti,
ipocondriaci e affamati,
spazzatura della storia.
Nona descrizione in atto
I.
È nell’Albertina a Vienna quella
formidabile tête de vieillard chinata nel sonno
non sai più, non lo sai, tu non lo sai, se nel sonno della
morte
(nel suo sogno) o non piuttosto a cavare erba
ultima (erba) da un ricordo che scolora
ehi! via veloce.
Si china.
La data del ’508, anche questa conta
ieri è oggi, e oggi che ci sfiora
è subito domani, via veloce.
Quella testa di vecchio
gli occhi chiusi da palpebre immonde
che si sfilacciano
ha il rugoso rivoltarsi della vita, rugosa
si addensa, coagula, quasi si trasferisce
spianandosi nel sereno dentro a labbra che respirano.
C’è solo la vita in quel respiro.
Poi (lo sai tu, tu lo sai) un giorno non si darà più respiro
in quella vita (è la nostra) o un ultimo respiro
stenderà il suo lamento sopra la faccia che si spiana.
Non è più questa, la testa di vecchio, non questa
– il collo contratto, la propaggine
dell’orecchio che si smuove, la cuffia invereconda,
il grande naso incombe;
l’anno ’508, tutto un silenzio
di cose morte, di addentellati sapiente-
mente storicizzati, si può solo dubitare semmai
delle date non conservate nei documenti
(la tradizione orale);
– questo vecchio, è il vecchio, certo è lui
è il vecchio, il povero nudo ossessionato
irrispettoso vecchio, alcolizzato, ripugnante
spiaccicato da un camion sull’asfalto
verso San Gemignano.
II.
Forse (è una risposta) pare
quel vecchio, se non fosse dico
per il berretto; le ombre
delle torri strisciano con i vermi,
era un’ombra di vermi e di torri sulla campagna
intiepidita da un sole di luce, è dicembre,
quest’anno, quando, in esso,
tante cose sono mutate, rapporti decadono,
ombre illustri si sfasciano
sfilacciate ecco come tele di bandiere
nei musei (i muri sono putridi): in quest’anno
finalmente si perde un poco della vecchia storia
e pare che frasi diverse suonino diverse
ad orecchi diversi.
Basta una convinzione
per dare pazienza a vivere.
III.
E il vecchio spiaccicato sulla strada?
fu (ricordi, certo in dicembre, o prima)
nei giorni della morte tranquilla di Kennedy
colpito da due tranquille pallottole
nel mattino tranquillo
dentro a un tranquillissimo sole
e la gente restò tranquilla
dopo un tranquillo pianto.
Facce nere all’angolo di una strada
(turnpike) mormorano: hanno ucciso un uomo.
Il vecchio nell’Albertina, a Vienna,
sconfitto in quel foglio ingrigito
(ricordare il pomeriggio di febbraio,
morbido e imprevisto fianco di Th. mentre
sotto i vetri fiammeggiano occhi di secoli)
è il vecchio raccolto in un lenzuolo
che scompare nell’ambulanza o nella cassa del becchino
– ed è, non più, oh certo è lui,
è nel 508 a firma di Dürer, un papa Giovanni di oggi,
vecchio così sovranamente occiduo
e discinto, così semplice (nella sua
sapienza è semplice), così semplice e quieto
(nella sua forza è quieto)
così sorridente in una travalicante impetuosa
sapienza, così placido
nelle ire che non si conoscono.
IV.
Subito dopo, all’Albertina c’è (c’era
quando vedemmo; bisogna ritornarci)
la testa, tête de vieille femme – quanto
può una vecchia donna divergere contrastare
da una giovane donna, come può
la bellezza sfiorire così rumorosa e inetta;
come può la giovinezza essere (restare) un ricordo
di giovinezza perduta.
Si vedono donne vecchie soltanto morire.
Così (alla fine di un discorso
persuasivo, poco argomentato)
la magra consolazione è ovvia certamente;
meglio finire in ceppi costretti al
silenzio o condannati a consumarci
in questa solitudine che si scompone,
meglio ancora, ancora meglio finire sotto il voltone
di un ponte abbandonato,
nello scalino invernale
della casa di Galvani,
meglio divorato dai cani
che (piuttosto che) finire sul palco del signore (spellarsi le mani)
a sostenere le code,
meglio spiaccicato sull’asfalto,
nudo in un vento di vecchiaia, gelido, che osannato
sul palco del vincitore.
Una spalla sporca di probabili esperienze.
Così è (era) il vecchio disteso distorto,
asfalto o foglio, Vienna o Gemignano,
una sala o la strada, in terra morto.
Questa gloria di occhi o di silenzio.
Sulla faccia il destino è uguale.
Decima descrizione in atto
I.
Che età avevi quando irruppe il Medo?
II.
Il giuramento a lume di candela
nella cattedrale di Brunswick
davanti alla tomba
di Enrico l’Uccellatore (vedere a pagina ottanta)
con gli occhi azzurri e i capelli biondi, essi
e il pelo sul cuore…
III.
Una strada non c’è. C’è una strada (un fiume), c’è un fiume
– credo che ci sia, è così – un profondo
fosso, una siepe, un fiore d’albero
sotto il giardino spappolato, c’è il pianto
di una bambina nuda col tracoma c’è
il sangue di un uomo per terra decapitato
la milza di un animale sul bancone di legno;
c’è il filo bianco (un rosso filo) che stende
dal labbro di chi parla fino a una casa laggiù;
una carta su cui il dito striscia con raccapriccio;
l’orgasmo della donna fra l’erba affumicata
da un vecchio incendio, un bombardiere che non si vede.
Vilipendio di istituzioni (di gravi legittime colpe).
Non c’è più l’eco, il suono non c’è, il percuotere
dell’ultimo dissenso, le voci
placate (finalmente?), i refusi scomposti;
ribolle un altro piombo per più degne canzoni
– la caratteristica del tempo è una misurata indifferenza,
tutto interessa un poco per brevissimo tempo,
ogni cosa muore, deperisce, sé consuma e sfoltisce
nel forno della memoria.
IV.
Dice Kant la disciplina del genio
(ossia l’educazione) è il gusto: gli ritaglia
le ali e lo rende pulito e costumato.
Il grande Kant, savio nella sua stanzuccia
di legno, con l’onda delle idee
che si scioglie in un silenzio ordinato
e sulle vie (deserte) lo zoccolo di un cavallo.
Ma questo, che siede anch’egli, è un uomo, nella casa
con moderati calori, in un quarto piano
di paese italiano, che è, che sarà? così lontano
dai rumori. Ah, non è costumato e polito. Non costumato,
è tutto dentro sbrecciato, pendente,
insolente, tenero e terso, muscolo
macellato in una sordida ignominia,
ingorgo meschino, è gramigna spersa secca
raccolta da una vecchiaccia che insacca.
Questo non sarà polito, eh no, costumato non è (le
circostanze
non lo permettono), non è pulito – tutti sentono
sulla via lo zoccolo di una morte
passare alternando il suono con quello dello spazzino
(e la sua tromba). L’alba, all’alba, l’alba
– disegnare contro i vetri col fiato –
è, nello strizzarsi delle vene,
così distesa distante, la mano aperta, l’occhiaia
di questa giornata incerta nella scelta; stramazzerà
fra noi farneticando (presto, fra noi) di dolori antichi
e dei nuovi congegni. Ammonisce così riservata superba
a non perdere le occasioni (la vita è un fulmine nel tempo)
– intanto una ragazza sulla gamba perfetta
nell’ambito di una stanza indossa la vestaglia
spenna se stessa nello scirocco ferito da una calza
irride alla varietà degli umori
agitata da una innocua speranza.
V.
Accendere una sigaretta (fumata dopo sei anni)
il potere agli operai e ai contadini
– si elidono a vicenda sopraffatti
da queste contraddizioni che non distinguono
fra la necessità e il bisogno, fra chi
(si può dire) di una corda che si sfilaccia
trattiene il bandolo e colui che esautorato esausto
si lascia colpire dal canapo alla faccia.
L’affare è grave e merita considerazione.
Oggetto di ogni disputa, nel caldo della stanza
mentre fuori si apre al mondo
distrutto dall’acquazzone
e rigurgita una cloaca con la gola di vacca
e si fa notte fra i lampi
e una pietà di noi si distende sopra le forme immobili
(con noi) nell’attesa perfida dello spettacolo
– la consumata mente, l’usura, il sillogismo,
il calembour sul titolo di chi si compiace al caffè –
è
la fine del mondo, un’arca ribaltata,
sulle pianure le ossa della città
– allora tu dici che il momento del contrasto
si invera in una nuova necessità: (questo è il punto),
ognuno di noi che sediamo
sillogizza ma non opera, la disputa si fa arcaica
e tutti noi (il giro del dito è ampio)
degradiamo nella mistificazione.
Accendere una sigaretta.
Sono anni bui o sono anni nuovi?
Per la verità credo che il buio
sia il buio arcigno tetro gelido perfetto
che sia una luce nuova.
VI.
Ieri in via Andegari scura e stretta, raffinata via che
conduce a
una foresta di simboli scalcagnati, la moglie incontro
incontrai ho
incontrato di un compagno fucilato.
Stormiscono le foglie della memoria.
Con una testa di capelli rossi, in quelle case sporche di
fango o
dell’ottusa avidità borghese la spalla modulata dolcemente
suonava.
La sua giovinezza (incantava) ancora.
L’ora del giorno, incerta un poco colma
o piuttosto il luogo distaccato dai rimorsi, in una incerta
ombra, distaccata dalla buriana ossessiva,
la giuliva felice voce di addio ciao
o R. che (un attimo)… dimenticato, al mio cuore…
Si possono dimenticare i morti per sempre.
Leggeri andavamo a braccio
i suoi capelli di fiamma disse sono sposata ho due figli
neppure un ritratto più, mi puoi capire
una gran voglia di vivere
questa città fa impazzire.
La provincia fa morire.
A notte ancora nella sua casa, fra i figli e il marito
nella casa a mezz’aria
sui rami di un albero fortunato di cristallo, verde.
Baciò me sulla bocca
perfida, e dolcemente, vicino alla porta.
Tutto scomparso, assopito, scancellato, annegato,
visi di uomini trapassati sbiancavano in polvere
non era vero più niente.
Undicesima descrizione in atto
I.
E gli antichi poeti dove s’incontra sempre la stessa domanda a chi approda:
siete pirati?
Che cosa resterà fra mille anni
quando Cuba e Congo suoneranno
come Tessaglia e Tebe
e il viscido Oppenheimer, annegato nel vino nel miele
dentro allo
specchio di Archimede, sarà esautorato dai romani?
Nei libri di scuola…
II.
Rifiutare i simboli il prestigio
le vecchie uniformi le cattedre
la regina che siede in una villa veneta con il ragno di noia,
vivere (forse) come amava vivere Gramsci in carcere
quando
sulle case bianche ascolta il tramonto calare e ricorda la
Russia.
Gottfried Benn cantava le tristezze del cuore
sul sangue di Büchenwald
questa è letteratura
– ma per la gloria della patria non bisogna morire,
non bisogna morire per la patria,
un nome sul marmo si incrosta di nevischio di sporco
gli uomini dimenticano subito e tu sei morto.
La morte dentro al mare è più economica tranquilla,
la più lontana,
l’uomo scompare non si deve piangere seppellire
custodire vigilare, una morte pulita,
il suo povero mito dimenticato.
Dicono è mangiato dai pesci
– mi pare, più semplicemente e con ragione, dicono che
giunto nel fondo l’uomo si apra e attenda
di scomparire divorato dal tempo. Laggiù tutto è buio.
III.
Prima di entrare nell’inverno della vita, nella caverna del
niente
rovesciare questa parte della vita
lo schematismo dei giorni
nonostante le previsioni dei gaglioffi.
Egli credeva a ciò che diceva.
Non s’è spostato l’ago della bilancia (ma si sposterà):
attitudine ai ricatti, per una fotografia
sedere sulla poltrona di marca con la nuova cravatta,
il torpore, ahi magniloquenza, l’ambizione,
infine il burro rancido, la sciocca topografia
e sulla confusa esitazione stendere un panno di lana.
Ma ecco, basta un giorno e:
grammatica e futuro finiranno.
IV.
Anche la madre diceva “ognuno ha il carattere che ha;
il suo è difficile.
E si guarisce a volte lentamente”.
Mise una vita Filottete povero
sull’isola deserta a lacrimare
poi uccise Paride
ma a Lemno era buio sperare.
Per un suo lamento poi subito spento
gli dissero con un sorriso che era un vecchio scontento.
Non è l’astratto moralismo che si colora d’autunno
(sul Trasimeno i gabbiani calano crocchiando)
non si lanciano strali altro che innocui in
questa indifferenza ilare e in questa noia decorosa.
La lama di un coltello, il filo sulla ferita,
l’impassibilità del sicario all’ombra dell’albero
nel viale dove corrono motociclette, è più utile
dell’obolo speso, picchiando sul marmo, a patteggiare
la complicità.
Le lucide trasparenti verità si scompongono come cristalli
noi non chiniamoci all’ingiuria del tempo,
scivoliamo via dalla nostra sabbia,
lavoriamo per il mondo.
V.
“Ti dico guardati da illuderti di strafare
– le tue meravigliose linguistiche fratture
naturali sinuose caustiche e un poco artificiose
si confanno esattamente a questo clima evoluto
dove leggerezza e tristezza
hanno lo stesso peso nella pubblica opinione.
Le tue graziosi perifrasi…
Lasciami parlare. Tu stai con i beoti!
Bada, stai con i beoti!” ammonisce con il dito alzato
il furore improvviso del piccolo borghese
al giovane arrabbiato che perora.
Rispettiamo dunque le istanze, la necessità della
congiuntura
la misura della tassa, la terra in cui nascemmo
così azzurra di venti, la volontà dei potenti?
Perché cambiare il mondo?
Qualcuno di noi può ritenere esatto il proposito
che collaborare non è perdersi,
si può tentare di giungere al governo senza rivoluzione.
Perché smuovere il mondo da questo disordine onesto
che non reca dolore?
“Tra amici riuniti, dopo la cena, davanti a un bel fuoco di
legna
inevitabilmente il discorso cade
sulla guerra atomica”.
Alcuni si lasciano addormentare dalle sirene del cuor
(Freud dice la religione una gratificazione sostitutiva)
altri hanno un leggero filo a cui impiccarsi se vogliono
o possono sognare di stendersi una notte con la regina
altri si torcono ancora un poco per la storia degli uomini
con meticolosa semplicità.
Per questi l’ordine del lavoro si articola sui comma sei e
sette:
con vecchi sentimenti non si può rendere alcuna novità,
ti perderai se la fame del mondo ti accieca.
Ma non è tutto: chi entrerà con un balzo dentro all’orto di
pietra
rinchiude le ossa degli appestati?
Dodicesima descrizione in atto
I.
Corrispondenza su Marte
II.
Se Adolfo ritornasse che non poteva tornare
se Adolfo tornasse quando poteva ritornare
(effetto di straniamento)
se Hitler precipitasse fra noi, il poveromo, lo scheletro,
il suo stomaco d’indivia e il suo cervello di massacratore;
se Goering, Goebbels, Himmler, Fogelein fucilato…
Adolfo era bennato e a capo del grande reich,
morì bruciato.
Prima serie d’esempi. Ma adesso:
è meglio dare calce alle mura di Volterra che crollano così
pare
o alzare alla Fiat un padiglione di Nervi gioiello
d’architettura
dovendo scegliere è meglio una petrogliera dell’Eni
che s’avventura per i mari a gloria della nazione
o rabberciare la faccia con tutti gli azzurri ottusi e le gote
senza
carminio dell’affresco di Piero trattato con l’acrilato?
meglio l’antico, il non perituro, la certezza, il
passato duro e rustico
– la sicurezza della pietra ribattuta da una ruota, la faccia
di marmo della storia –
o l’equivoco progresso del tempo che sovrasta così rozzo
corrotto indecifrabile oscuro?
meglio essere o dover essere, conficcati e immobili o
ricominciare vibrando
C’è chi vive soltanto in funzione del week-end, della
casa con bagno, della torre d’avorio, del mistico golfo e
degli ozi di Capua. C’è questo e altro. Ma adesso:
resistono i vecchi, le donne disfarsi ottundersi, i ladri
insistere
bruciare case, uomini sfrigolare nel fuoco, il grido lungo
dei figli avvampano nei piccoli ceri dei loro deliri;
ciò che era giovane ieri rapidamente morire.
Sotto gli occhi sterminati i campi di grano.
Questo è il segno del tempo –
la sua necessità, perché così doveva essere, noi
permettendolo.
III.
Non volere il mondo migliore ma diverso.
Calafatare dal trono dell’homo la faccia del provocatore.
È compito (magari superstite) della poesia contestare
stravolgere calpestare
Fino a ieri e salvo sublimi eccezioni
la viola di cristallo, la tenera allodola appassita struggente
contese l’uomo al mondo col lampo di uno sbadiglio rosato
– oggi, strumento di scasso, oggetto di rapina,
disciplinata frusta, tavola bianca di schemi
e di severi decaloghi
(schivando tutti gli altri pericoli)
colloca in prima istanza ognuno al suo posto in attitudine
di…
poiché metafisiche nubi riadottano i simboli dei sogni e
dell’agnello incorrotto
o altrove sulla torre di babele estatici personaggi contano
le stelle
ancora investigando la notte.
Il vecchio Marx è un’irsuta cima
incanutita alla neve di una candela,
il comunista gentile parla adesso di grazia e di santi.
Fin dai tempi di Omero è ovvio
quando le mura di Troia splendevano
e l’uomo era pauroso di dei
muoviti, va. Sogno bugiardo alle celeri navi dei Greci…
Reclinano sempre le ire nel vento delle antiche paure.
IV.
Lo dice uno che è fine mordente tempestivo
la lingua italiana è unificata
dalle alpi al povero cafone
un utensile è un utensile, congiuntura è congiuntura, il
bastone è bastone.
Anche la fame d’ora innanzi uguale per tutti
si dirà piuttosto una scepsi alimentare,
decelerazione digestiva, nevrotica sazietà
(milioni d’analfabeti, recuperati col tempo,
si fideranno intanto della buona fede dei dotti).
Un ministro socialista chiama i licenziamenti
alleggerimento di mano d’opera
– altrove con gli elettrodi ai coglioni
si convince qualcuno perché rispetti la noia svedese,
l’ice-cream
americano, il miracolo tedesco o il sole italiano
e chi si perita con tristi occhi feroci
è un baco da ulivo irrorato dall’alto.
V.
Possiamo mangiare i nostri girasoli (i semi)
mentre i cani randagi
annusano nelle masserie annerite
le ossa impiastricciate
o tagliare i capelli ai nostri figli
perché crescano con misurato decoro
e illuderci d’avere qualche merito
nell’esercizio di una squallida virtù?
firmare le nostre proteste
poi correre al cinema, prendere il treno, fumare
o radunarci sul Baltico per tridui poetici così entusiasmanti
e declamare?
Venne un giorno che ebbe voglia d’andare…
di cambiare la pelle…
di contaminare…
Se non è ancora detto che sono gli altri ad avere ragione,
scoprirsi le squame alle mani, mescolarsi ai lebbrosi.
Quattordicesima descrizione in atto
I.
Quel giorno quando alle 20,25 ora italiana
la Gemini 6 s’affiancò avendo
mutata ellisse alla Gemini 7 in alto sulle
Azzorre, Cosimo Moscagiuri muratore disoccupato, 5 figli,
pensò
(per la prima volta?) di ammazzarsi a Milano. E
s’ammazzò, dipoi.
Basta la constatazione.
Non volendo sottilizzare ma anzi semplificando
dirò che c’era un discreto contrasto
fra quella tensione nello spazio
spettacolo Usa decisamente
allarmante e significativo
e la piccola vicenda di quaggiù (così squallida)
dove un homo faber era alle corde.
Potevano andarsene veloci quei signori
alti nell’aere libero o in profondo cielo
ma al sopradescritto chi gli scuoteva le tasche?
come poteva immedesimarsi
sentirsi orgoglioso per la navicella della razza umana
se così poco i suoi conti quadravano
(in quel momento, anzi…) da indurlo
in una situazione, irrazionale poi?
Si fa un bel dire, ma la conclusione
(non troppo ovvia) del giorno quindici dicembre
sessantacinquesimo, anno di scarsa importanza
di molte punture, di spilli non curati, un anno che
tramò ignobili tele fra l’altro –
è la conclusione della beghina milanese:
si cammina alla luna e noi moriamo
attraversando la strada, sissignori,
maledetti automobilisti uccidono sulle zebre e ridono.
Altra conclusione questa, un poco più
cerimoniosa (e con un briciolo d’ideologia)
l’uomo non lo caverai mai dai mali di sempre,
d’essere un animale innamorato di sé,
diciamo: di se stesso,
labile di memoria, così leggero di fiati,
certo: il signore dell’universo.
II.
Promettono statistiche e giornali
che il secondo quarantennio potrà essere migliore,
tutti dunque cederemo al tempo
con qualche grazia e una amabile sopportazione.
È possibile, è possibile, per tutti forse è possibile
anche se è legittimo qualche dubbio in privato.
(A proposito di tale obiezione i pochi interlocutori
affermano che tra il dire e il fare
c’è di mezzo il mare. Altri, autentici
senatori col volto segnato dai
duelli intercorsi nei giardini
immobili e separati, ribattono che
è il tempo di seminare le viole e che questa voce
di mandragola esautorata anziché sussultare
fa vomitare; ça va: Siete uomini di vizi antichi).
A ognuno capita la
debolezza, magari passeggera, di voltarsi per un momento
c’è una specie di deserto libero e soddisfatto
dove uno strazio tenero
s’inalbera con l’irrisione
ogni compromissione è plausibile
imbecille (e povero) è colui che non vuole capire.
Irrilevante la valutazione degli errori
deprime invece di persistere in un atteggiamento
così contrario alle regole, allo spirito del secolo,
alla buona creanza, alla grazia delle magnifiche rose
ai viaggiatori incalliti sul mulo medievale
agli abati di penna e calamaio
che si accaniscono nelle pratiche illecite.
Poi spenta la radio (non c’è televisione)
tutti a dormire. Il giorno seguente
e un magnifico giorno in tutto uguale ai giorni seguenti.
Chissà mai che,
chissà cosa potrà accadere in un giorno fortunato.
Se è ciò che vogliamo.
III.
Nello stesso tempo e in uno spazio contiguo
(il riferimento erudito lo raccolgano i dotti)
nello stesso tempo e in uno spazio contiguo
(ma perché mai i sapienti, gli eruditi biondi e
le vite di cristo?) ci sono due treni appaiati
nello stesso tempo e in uno spazio contiguo,
uno Hamburg Stoccarda München trascina gli emigrati
a votare a San Giovanni in Fiore e a Calasanzio
l’altro settebello tocca appena Roma
col suo carico di carne macellata, i quarti di bue
nel belvedere appollaiati bianchi di sangue nobile;
un treno si perde nella notte dei tempi
oltre la luce rossa della fine stazione
dentro c’è un silenzio di cose morte
ognuno reclina sul proprio corpo con una tenerezza
equivoca, una tristezza – fermo per lasciare il
passo alla freccia dei sapienti
dove ogni gesto è prenotato
anche il fiato automaticamente depurato
e non c’è il puzzo di cuoio
non il sonno di cuoio dei cafoni.
Nello stesso tempo e in uno spazio contiguo
suona una vita è la tua; paragonata
alla vita di un altro questa vita è una misera cosa
proprio una fatica fra Hamburg e Aspromonte
– un sonno di vecchie fatiche;
dalla baracca vicino alla ferrovia
intanto uno zingaro giovane quanto sono lunghi i capelli
ruba due oche e fila via
seguendo una linea del viottolo
e lo stagno bagnato dal colore rosso di ottobre
– in spazi disparati
i treni soffiano e il ladro si dilegua.
Nello stesso tempo e in uno spazio contiguo
un treno parte l’altro aspetta il fischio
(più su, nella sala del circolo, il sapiente è
giunto al momento degli applausi, mentre li accetta
sorseggia minerale) per il calabrese
che viaggia a spese dello stato
non c’è acqua per lavarsi le mani
e mentre aspettano dicono che
l’uomo altrimenti muore in mille modi:
il vecchio politico sul suo letto di raso
e gli prendono il calco della faccia,
la ragazzina smunta si appisola lentamente, tal
soldato muore devastato dai colpi
un contadino è ferito dalle api
l’ottantenne ossessionato dai ricordi e paura
il giovane in motocicletta dentro l’erba del fosso.
Ma perché preoccuparsi? – dicono, –
finché posso vivere, vivo.
Quindicesima descrizione in atto
I.
Privi di corrente 30 milioni di americani1
bloccati negli ascensori dei grattacieli
fermi tra un piano e l’altro
così decine di donne sono svenute (svennero)
950 mila persone prigioniere nel sottosuolo
i detenuti di un penitenziario nel Massachusetts
hanno tentato un’evasione in massa,
nell’ospedale della città di Boston…
L’avaria si è manifestata improvvisa
(e) proprio nel momento di punta,
milioni di uomini con gli occhi puntati
alle fonti di illuminazione chiedevano: è la fine del mondo?
i marziani hanno invaso la terra?
è scoppiata la prima guerra atomica?
per alcuni momenti è stato il panico2
La scienza e la tecnologia dunque
non bastano a pensare per noi,
ancora è l’uomo che deve impedire
alla macchina di rivolgersi contro di lui.
L’energia sarebbe servita per sventare
un evento catastrofico in un complesso atomico
del nord-est americano
del quale non si conosce l’esistenza.
Presto ci avremo qualche dramma, un film e pazienza
se resterà solo il ricordo, un ricordo lontano.
II.
Nel Vietnam non basta il terrore.
Seimila soldati Usa perduti finora.
È sintomatico che le perdite americane
tendono ad aumentare di settimana in settimana
per la terza decina di novembre ’65
ci si attende un nuovo record.
Nelle foto: civili sudvietnamiti
considerati partigiani dai soldati americani
e poi Roger Laporte il giovane
cattolico pacifista
che si è dato fuoco cosparso di benzina
morto all’ospedale Bellevue di New York
ieri sera – grande il vento della giovinezza –
dov’era ricoverato dopo il tragico gesto.
La luce è mancata alle 17,28.
La zona industriale degli Stati Uniti paralizzata.
La polizia cerca di controllare la situazione nei quartieri
malfamati
in centro la folla straripa
i ristoranti traboccano
i ragazzi corrono per i marciapiedi3
e gridano “arrivano i russi”
telefono telegrafo scale mobili citofoni posta pneumatica
tutto bloccato,
il buio è durato in alcuni posti dieci ore
al ritorno della luce la folla si è rimessa in moto di nuovo.
III.
Mamma inglese si uccide col bimbo che non mangia,
più scientifico il socialista degli anni ’60,
chi ruba nei supermercati francesi?
La Cina perde terreno nel terzo mondo,
una città per soli pedoni, sorrisi etruschi sui volti moderni,
“anche quando a quelle prime esperienze arcaicizzanti…”
Menner spegne il fuoco del rasoio,
tutti guardano lei la ragazza Camay.
(Neppure potendo
si può posporre di rifare l’uomo
prima della rivoluzione,
le istituzioni resistono,
il rivoluzionario ama i gatti ha il letto caldo
e osserva con puntualità le vacanze domenicali.
Tutto è così rimandato ma il compito non è impossibile.
Ne è passato del tempo
da quando i fatti sono accaduti,
tutto qui è ellissi sincope balzi falsa connivenza
nella retorica che si fa terrore).
IV.
Il napalm è un’arma del terrore; al Pentagono…;
imminente il bombardamento di Hanoi,
parlano i giornalisti americani
e raccontano “la sporca guerra”,
l’Urss prova nuovi razzi nel Pacifico.
Post scriptum nel luglio del sessantasei.
Novità grande! Ford Anglia Torino
ora a lire 895000 ige compresa.
E: oh patria mia vedo le mura, gli archi
e sotto gli archi generali in fuga
e ancora lapidi luccicanti sotto gli archi
gallonati prototipi sotto gli archi
eccellenze in furore sotto gli archi
avide corrotte sotto gli archi
accatastate otto milioni di baionette sotto gli archi
governanti fuggenti in tenere acque su bianco vascello
sotto gli archi, o cerimoniosi nel tinello di casa
preparare le nuove sortite –
insomma vedo una povera faccia imbalsamata da secoli
ridicola e rassegnata.
(Ne è passato del tempo
nella retorica che si fa terrore).
V.
Obiettivo Hanoi secondo giorno
le fiamme salivano a metri quattromila
a dodicimila era salito il fumo
mai visto niente di simile pareva un ciclone.
Notizie dal Nord-Vietnam parlano di Hanoi
come di una città in collera,
ondine di mobilitazione parziale,
appello al mondo del popolo.
Anche Varsavia (Polonia) quando Adolfo abbatté il muro
(frontiera)
chiese al mondo sapiente
di mantenere un impegno:
risero chinando la testa sperando nell’invasore
poiché si accendevano le luci
in quel pomeriggio per l’ora del thè nelle case d’europa.
Note
* Questo testo è un montaggio di frasi del sottoscritto e di altre (molte) estrapolate da giornali e settimanali. Ne ho aggiunte anche alcune ricordate dai notiziari della Rai-tv, veicolo condizionato e condizionante di omissioni e decise falsificazioni. E che dire dei silenzi ufficiali, ci sono dentro in qualche misura anche questi ovviamente interpretati).
1 Non piovono solo bombe dal cielo. Gli americani lanciano a più riprese giocattoli, radio, carta da scrivere, calze, stoffa che fanno la gioia della popolazione nordista. Il governo di Hanoi in imbarazzo.
(Il Resto del Carlino, quotidiano ecc. del 29 aprile 1966).
Nel 1676, per citare un altro esempio caratteristico, la Sarah Bonaventura, una nave della Reale Compagnia britannica per l’Africa, comprò esattamente cento tra uomini, donne e bambini – tutti debitamente marchiati con il suggello della società, D.H. (Duca di York) – in cambio di varie misure di tessuto di cotone, nittones Tapsells e così via, fatte in Inghilterra o in India, e cinque moschetti, ventun sbarre di ferro, settantadue coltelli, mezzo barile di polvere e varie scarabattole.
(Basil Davidson, pag. 110)
2 “La speciale allegria è stata l’imprevisto della serata. A Nuova York trentotto persone sono capaci di guardare per mezz’ora un pazzo che pugnala una donna senza che nessuno reagisca, ma, quando si viene ai problemi del traffico, la cittadinanza trova energie insospettate. Sarà l’ossido di carbonio che condiziona lo “homo neoeboracencis (il nuovayorchese), fatto sta che, come dal nulla, ieri si sono materializzati ad ogni incrocio (tutti i semafori erano kaput) vigili dilettanti, per lo più giovani, che malgrado il freddo, si erano tolti la giacca per essere più visibili in camicia bianca; e col loro aiuto gli incidenti sono stati pochissimi e trascurabili”.
3 “Che fareste voi se sapeste che la luce non tornerà per almeno tre o quattro o (ipotesi impensabile) cinque ore? Lo annunziereste? Per dar modo a comunisti, nazisti, musulmani neri, angeli dell’inferno, Cosa Nostra, Minutemen, Ku-Klux-Klan di organizzarsi e prendere vantaggio della situazione? Al buio tutte le organizzazioni antiamericane si stavano ingrossando, assieme ai dubbi che le autorità dicessero la verità. Che fareste voi se questa volta fossero sul serio i marziani? Lo direste? No, certo, per non provocare il panico. Direste che si è guastato qualcosa dalle parti di Niagara. Intanto le ore passavano”.
Sedicesima descrizione in atto
I.
Hélas fiorentini bastardi
fischiare il signor presidente!
mai come in questa occasione
occorrono da tutti (invece) sacrifici e abnegazione
generosità e, talvolta, perfino eroismo.
E lei, signor presidente,
questo è un addendo da aggiungere alla voce degli elaborati
discorsi:
i ricchi, oggi, agnus dei, saranno un poco
meno ricchi o resteranno ricchi soltanto
ma i poveri sono fottuti in eterno.
Un paradiso rassereni la morte del potente
ma le fiamme dell’inferno che dura
faranno uguale la morte alla vita
per tutti gli altri dopo la sepoltura.
Le gravi difficoltà di questo quadro d’azione
L’assistenza pubblica erogando
Chi non s’arrangia è un minchione
Vasto ed efficace il contributo del governo
La presente alluvione
Il signor prefetto, l’onorevole deputato, il generale,
il chiarissimo professore, l’eminente scienziato,
personalità della cultura, tutte le autorità, il porporato,
il mondo accademico, l’eccellenza del ministro, l’illustris-
simo capo del governo, il colendissimo, il magnifico e
infine il molto rispettabile cavaliere, segretario, furiere,
erogando esprimendo partecipando auspicando.
II.
Quando non capita a te
subito sei forte e bravo
intrepido nel suggerire
e così lesto nel consiglio saggio
(anche così pronto a ferire).
Quando non ti sfiora
s’agitano quelle tue mani (bianche) nel proporre.
Ma quando ti capita
hai la testa chinata
il labbro pende l’umore è nero la giornata
si trascina come una pena.
Quando ti capita stramaledici.
Allora fra il dare e l’avere
dunque fra il dire e il fare
– lo stravizio della penitenza, la ricorrente elemosina,
l’elargizione, il burocrate, la carta bollata, il caffè
ore 9 nei ministeri, il brindisi improvvisato –
allora fra il dare e l’avere
dunque fra il dire e il fare
– l’impolverato panno che sbatte sul campo isolato,
l’insanguinato panno, il panno di molte lacrimate
vicende è abbandonato, allora allora –
allora fra il dire e il fare, o altrimenti fra dire e non fare,
c’è di mezzo il mare.
III.
Do l’allarme alla moglie
che gli è l’acqua
icchè fo?
la moglie la s’impaura
e la sale sul tetto
e poi gli porgo il mio figliolo dentro al cesto
O babbino, quello piange, sali su che
noi si more almeno tutti e tre insieme annegati”.
IV.
Questi gatti in amore!
hanno bombardato Colonia
distrutta Stalingrado
polverizzato Cassino
Varsavia in macerie
annientata Berlino
ora piangono sul dolore fiorentino
mentre bombarderanno Stoccarda
ancora polverizzeranno Cassino
Varsavia sarà in macerie
dal cielo spianeranno ancora una volta il lungarno
fiorentino.
Hanoi non è Firenze?
non è Berlino?
non è Stalingrado?
non è Cassino?
Questi gatti in amore
che piangono sull’acqua dell’arno balsamo fino.
Note
Nel detto anno 1269 la notte di calen d’ottobre il fiume Arno uscì dai suoi termini, gran parte della città di Firenze allagò.
Nel detto anno 1388 a di’ 5 dicembre in Firenze e contado un gran diluvio di piova onde il fiume Arno…
Negli anni di Cristo 1333, il di calen di novembre l’Arno giunse sì grosso alla città di Firenze.
Ecc.Ecc.
Ecc.Ecc.
Ragguaglio della piena d’arno del 3 novembre 1844: “Il narrare la spaventosa inondazione del fiume Arno… non invano dunque io diceva poc’anzi che alla classe più bisognosa, la quale fu danneggiata dalla fatale inondazione molto rimaneva a sperare dalla carità di concittadini e degli stranieri che han tetto ospitale tra noi”.
Saragat (a quel tempo Capo dello Stato) ha aggiunto di ritenere “che il problema più importante per noi sia ora quello di imbrigliare i fiumi”.
Diciassettesima descrizione in atto
I.
Ventre di rana. Testicoli di cenere.
È inutile avventarsi per
accettare il complimento sopportare l’offesa
(anche se è insulso magari)
un altro giorno sarà meglio di oggi un poco
mentre ieri era così terribile ieri
– gli anni non si contano, si sovrappongono, escludono.
Può alcuno perdere la fiducia in un momento,
bisogna dunque conservarsi.
Nessuno potrà dire (compatendo):
i frilli, erano frilli
(nous suivrons toujours le président
Mao pour avancer contre vents et marées)
o micchi erano un poco – quei micchi –
ma non si lasciarono andare a causa dei soldi d’allora.
Per questo vivono lontani.
È possibile che sia una
semplice constatazione codesta per gli anni settanta?
A la matina quando lo sgiorno fo sgiarito…
passa tutto quel giorno, si consuma il mozzico della candela
(forse questa è la vita)
e venne la sira.
Ziascaduno andò a posare.
II.
Era una sera bella era anche
una sera nera.
Le vicissitudini del tempo portarono che
lui uccise lei ed inoltre egli si uccise
in quel l’orto su cui cantava (andando)
la voce del martino. Sfacelo di una famiglia.
Similmente sulla statale adriatica
all’altezza di Fano al chilometro 187
(era una notte bella, era una sera nera)
i giganti della strada si scontrarono ag-
grovigliandosi mentre il mare lambiva la sponda
e voci di innamorati un po’ ottusi, fra le canne
si alzarono con un grido. C’era il sangue sull’asfalto.
Ebbene le due vicende di una stessa morte
caddero come due vicende, un semplice dato, notazione e
una scancellazione dell’anagrafe. Obiit anno…
Il giorno dipoi
venne un giorno di sole che accieca
si gonfiò l’ossessione nel caldo
lui e lei erano sdraiati sul marmo tacevano
neppure le mani si toccavano
ronzavano mosche al di là di vetri incrinati.
Oltre, sulla statale adriatica o in una stazione vicina
anche loro aspettavano (morti) altri uomini.
Consueto termine del viaggio.
la cronaca nascose o se ne occupò appena in
margine alle canzoni.
Alcuni dissero “questi li conoscevo, passavano nella città
talvolta
come innamorati, e quelli erano padri di famiglia, i padri
di una famiglia, vecchi proprio come i padri”.
Con queste voci
entrarono anch’essi con molta tristezza e con un semplice
commiato nella polvere
che è del tempo, dicono.
Diciottesima descrizione in atto
I.
Capitolo quarantesimo di una storia
neppure giornalistica. La
vicenda si frantumò a questo punto
in
mille rivoli (come si dice)
ciascuno colse
l’aspetto secondario o il tale
aspetto che più gli compiaceva – lusingandolo s’intende –
(nessuno vuole disilludersi a
una certa età
sui principi generali)
così tutto resto nel buio e nel semibuio
– nella mezza luce – anche
se c’era un morto un povero morto
in questa leggenda (precisa sera d’estate)
Tacita notte senza luna
microrganismi fluttuavano nell’aria irrespirabile
tutti nel terrazzo sui vimini a parlare
sia pure lentamente, senza un grido,
da opposte posizioni, di
Napoleone? o di un altro caso che era in Corsica? Quello fu
un pretesto
il primo dei pretesti
per coinvolgere anche le signore
Ma che fare del morto?
e sapere la causa di così orribile…
Era a un lume di candela la stanza l’ombra del letto
i piedi sul letto
un profilo contro
il muro – la luce
scuoteva gialla e precisa veramente
così gialla veramente
così precisa
Ebbene di Pershing ha scritto Maurois
lo ascoltavano con rispetto
perché aveva molte truppe fresche
e questa, bisogna dire, è anche la verità dei tempi
poi l’altro con poca galanteria:
signurì, sei vecchia abbastanza
per ricordarti delle ciliege senza vermi.
II.
Altrove la miseria più nera
pur con eguale morte, il morto è seppellito,
non c’è tempo per sedere sul prato,
uno deve ripartire l’altro riposare subito dopo il turno
(è una cambiale la morte, il morto non ha sofferto
dato il male) i figli non sono più felici dei padri
o intanto i figli sono (potranno essere) più
felici dei padri –
finestre spalancate mosche un lontano
ahi molto lontano filo d’azzurro, un lontano
canto, una voce sulla tenerezza solitaria
della nostra vita che si perde.
Ricordare per non ricordare
inoltre dello stato presente delle cose.
Per la Rand Corporation di
San Francisco (e per i risultati ufficiali)
la tortura è ancora una scientifica necessità
asettica, sul serio, per far cantare i galli.
Lo intenda chi vuole.
Altri si chiederanno se c’è differenza (alcuna)
fra un tedesco e un americano
fra un greco e un turco, mettiamo pure italiano;
nessuno lo saprebbe descrivere.
Coperti da un vaiolo
si rifletta dentro al lazzaretto considerando
la situazione da un particolare punto di vista, così:
quando il leone ruggirà tutto un continente ruggirà
sarà più triste dell’usignolo
quel canto e meno fantasioso.
Adesso che gli aggrediti
diventano aggressori.
Diciannovesima descrizione in atto
Viaggio di Stangl dal Brasile
verso la Repubblica Federale Tedesca.
Il tabaccaio cava la Golden Gate
dal taschino e accende il mozzicone
preme il gas liquido dal Ronson che costa ventimila
comprato per regalo e
improvvisamente l’estate scorsa
in seguito venne ancora un inverno, l’inverno passò,
venne l’inverno, passò ma prima
improvvisamente l’estate scorsa
self-service a mezzodì, yogurt alla sera
le notizie sul canale televisivo la brillantina
sulla nuca
le scarpette a punta, improvvisamente
l’estate scorsa (nel seguente inverno poi
col carbone appena bagnato il fuoco non s’accendeva
o era difficile che s’accendesse nella caldaia)
durante la notte con le ossa a pezzi si sognava degli antenati
apparve anche possibile che scomparisse senza dignità un
presidente
e un altro lo surrogasse con la faccia del sicario
non era possibile che altrimenti il mondo (le cose del
mondo
procedessero diverse da come marciavano
– ma questo non importa, non importa, non importa;
poiché gli uni si stringevano agli altri
guardavano il fondo del caffè nella tazza dell’interlocutore
ambedue ironicamente assorti
per cavare se è possibile comuni illazioni.
Magari da un fondo di caffè.
II.
Produrre
produrre e consumare
produrre distruggere per produrre
produrre per produrre
consumare per servizio della comunità.
Nella comunità
la sacra tutela delle iscrizioni
la patria e gli eroi della patria
gli eroi che la patria produce e consuma
la patria con gli eroi
la solitudine degli eroi consumati
la grandezza dei magistrati che giudicano
il sacro rigore delle leggi
le leggi del rigore
l’indipendenza di queste giuste leggi nel contesto…
Improvvisamente l’estate scorsa
Viaggio di un certo Stangl dal Brasile verso
il grande reich, un ritorno alla patria
all’abbraccio delle buone costumanze
santificate dalla memoria.
Nell’estate così calda
con altre guerre ancora
era un semplice dato di fatto quel ritorno
peccato di gioventù o d’orgoglio
– perché infastidire?
Correvano bene sulle oliate strade d’Europa
le macchine delle vacanze;
il maschio italiano ebbe la sua avventura anche quell’estate
non ostante un calo dei turisti anglosassoni
sulle spiagge adriatiche.
Ventesima descrizione in atto
I.
Non avendo nulla da dare
è ovvio che non ci sia nulla da prendere.
Niente da offrire, allora non c’è nulla da ottenere
il conto è matematico.
Dopo può rivolgersi egli nel letto
battere le nocche sul tavolo
anche disperarsi con discrezione
offendere il cameriere;
alle volte si arriva al punto di maledire la sorte
d’essere nati ecc.
Se fosse felice altrimenti, o fortunato come dicono,
quieto nelle circostanze
balzerebbe dal letto zufolando al mattino
per sbarbarsi con Gibbs
la faccia nello specchio. Accadono strane cose.
Contare le persone.
Tre o quattro erano per la strada
poi improvvisamente s’accesero lampade al neon
nella notte le lampade segnavano
su e giù per la strada
il luogo dell’incontro, la gente salutava;
così tutti andavano per incontrarsi
e via per strade e sentieri:
non c’era nulla da dirsi, nessun commento in proposito
si raccontavano i commiati, come i figli
crescevano, e i mariti ahi!
poi la minoranza s’attestò al caffè aspettando.
Le ombre della sera.
II.
Analisi di una sconfitta
sopravvenuta tale e quale una sconfitta sulle spalle.
La sconfitta era del singolo e della collettività
così gli anni passavano (valutare questi impossibili anni
sessanta)
gli uffici della rivoluzione
chiudevano per ferie dal 1 al venti agosto
gli uomini di questa rivoluzione
lubrificati gli slogans per i geli invernali
andavano in vacanza nelle ville sul mare
dal primo al venti agosto
(ciascun italiano che si rispetti
che sia rispettoso
acquista la sua cuccia l’abbellisce la riempie
ha la sua casetta sul mare).
Anche i poveri riposano
i ricchi si rilassano dal primo al venti agosto
le città vuote, smarrimenti, ladri
sui balconi, qualche delitto ubiquo. Le chiese erano fresche.
Steso sulla chaise-long a filo di quel mare insonne
con tutti i suoi flutti
il sapiente giovane convince le signore
– pianga Achille di rabbia, urli la disperazione
per morte che sopravviene
ari le onde del mare
perda la giovinezza
lasci uccidere ma
quando una tragedia si conclude sia non fastidiosa
e appartata, non disturbi il relax, tantomeno
il sogno della mente sulla contemplazione degli alberi
che fuggono in lontananza. È così la natura.
Via via via un’estate dopo l’altra
ciascuno ha il suo momento di gloria
la sua avventura al mare
il suo nome sul giornale.
Eh là, e tu?
Ventunesima descrizione in atto
I.
LE ROVINE DELLA CITTÀ
AUTENTICHE ROVINE
NON ARCHEOLOGICHE ROVINE
LA CITTÀ ROVINATA E SU QUESTE ROVINE…
II.
Messaggero di sventura, torba, erba di torba, rondine,
invelenita rondine, sciacallo
Lontano è quel tempo (delle rose)
quando…
Si esce oggi (per un momento soltanto) dalle file degli
assassini
per osservare un fatto
e capire intendere investigare con il fuoco della ragione
(superstite) che consuma
quanto io tu lei siamo partecipi, i mandanti
senza alcuna riserva, con tutte le complicazioni del caso.
Altro che lirica o la soave natura
il mito di edipo la fila dei cipressetti di Bolgheri
la voce della madre
il fumo della prima focaccia sulla mano del bambino.
I ricordi dell’infanzia non esistono più.
Ora adesso sempre un continuum e contare sulle dita magari
quanto resta da fare effettivamente.
Spettacolo da poco.
Fine del requiem.
Rovesciando il discorso.
III.
Nessuno che voglia può permettersi di morire.
Si era seduti una sera così non sulla riva del mare
sul muro abbastanza diroccato
dove la città è pressapoco abbozzata. Dicono:
una volta erano i vecchi i ricchi che s’avviavano alla morte
solenni con quel loro passo solenne, un passo solenne,
erano una volta gli eroi che morivano in battaglia
amabilmente innocui.
Ma adesso… in questi incerti anni così terribilmente certi
nuovi in questa nuova certezza
così pieni nell’incertezza
ossessivi tiepidi calmi magistralmente
gonfi nell’otre delle ossessioni consumate,
avidi, squallidi; dicono:
in questi impossibili anni in questi anni lucenti
in questi anni gelidi, in questi nostri anni
che chiudono il millennio
e la vita chiudono contro un muro di persecuzione e di ferro
a nostra vita a doppia mandata in un giro di chiave
(dove il ruggito del leone si perde
nel grido delle pecore marcate
e il nero è bianco ormai o viceversa
ora che tutto si perde per ricomporsi
e noi ci componiamo perdendoci)
la conclusione è semplice dopotutto
in una deforme apparenza
non dissimile da quel riposare sopradescritto e
momentaneo sulla pietra laggiù nella città
(una costa senza fine
un arco senza alcuna bellezza
la sera calava frustando
fischia la notte spezzando)
era la volgarità del tempo a incombere, il disamore di
questo tempo,
la meschinità, inoltre
la sua imperiosa bellezza, la sua ripugnante bellezza,
una tranquilla smorfia, questa difficoltà che esalta.
Rovesciandosi le tasche
chi deve vivere vive
chi cammina avanza
avanza un poco, un poco procede s’inoltra mentre la
notte fischia spezzando spezzandosi. È tutto.
Ventiduesima descrizione in atto
Era il tempo in cui Lenin scriveva sul come
andavano affissi i giornali.
I giornali non bastavano. Bisognava
dunque affiggerli ai muri perché potessero essere letti.
Ma colla equivaleva a farina
e anche questa mancava.
Adesso si affiggono i giornali la farina non manca
non è più il tempo di contare le pecore
le cucchiaiate di riso il
pianto abbastanza duro dello storpio;
oggi contano i falchi corrono le lepri
tacciono le colombe, lungo le rive
lunghe di un Mekong, lungo queste rive
lungo il fiume laggiù fra riva e riva
sull’acqua, fra le rive
american way life
si svolgono i safari abbastanza cruenti.
C’è perfino l’arma che provoca la dissenteria
dinamic dypsentery device
oggi c’è tutto quello che serve all’orecchio dell’uomo
oltre il raid da stella a stella
perseguendo i lunghi dolorosi silenzi;
oggi c’è questo e quello e molto altro ancora da raccontare
la superbia dell’uno
la morte di un altro. La pistola che spara.
O semplicemente la notizia sul giornale.
Qualche rombo, un colpo di fucile
che si prepara
i topi girano sulle medaglie
le loro eccellenze in copula
piccoli sabati santi, le domeniche non finiscono mai
insopportabilità della vita familiare
un prossimo divorzio
l’omicidio, il temporale che viene
(con tutti i sintomi della catastrofe).
C’è questo brontolio accanto al fuoco
un progetto di tempesta
qualcosa che si muove
è una serpe che striscia
ritrovarsi, scalzare, precipitare, decidere, offrirsi, non
consumare.
Ventitreesima descrizione in atto
I.
Tracciate due linee di demarcazione
in primo luogo fra rivoluzione e controrivoluzione.
II.
Vedono gli alberi e non le foreste (Lenin, Opere, vol. 25,
pag. 240)
III.
È ancora possibile che uomini bendati vengano buttati sui
camion
col calcio del fucile
(quante cose vedemmo)
così è possibile che qualcuno tenga il dito alzato
per premere il grilletto
o per indicare un uomo (delazione).
Lo spray sterilizza la lucida noia degli americani
nella sede di Verona
(nessun contatto con gli indigeni).
Una volta a Verona c’erano i tedeschi
anche quelli erano amici.
IV.
Banditi assassini grida la folla (indignata).
L’isterismo collettivo è conseguenza di
un certo grado di benessere e di
fondamentale incultura
(ma può essere isterico anche l’uomo colto
lo scrittore tout-court che si tortura
nelle veglie notturne, anche egli può gridare assassini
così lo grida con la sua gardenia all’occhiello
il giornalista gentile
fra i chicchi di riso della sua prosa per gatti).
Novemila colpi sparati
tre sole pistole in mano ai malviventi
1) il quartier generale
2) milleottocento parà
3) le pantere
4) gazzelle
5) il generale comandante
6) qua lo studio centrale
7) otto milioni di baionette
8) la ritirata di Russia
9) la guerra d’Albania
10) il fronte greco
11) l’efficenza della polizia
12) due malviventi braccati
13) l’eroico comportamento
14) telegramma del signor ministro
15) la linea gotica
16) il fronte a Cassino
17) il ponte di Perati
18) un sospiro di sollievo e qualcuno che piange.
Le prime foglie d’autunno bellissime in quel loro liquor di
wisky
cadono sulle corna dei daini
arricchiscono la brughiera.
L’Inter è più forte quest’anno?
intervista al presidente.
Ventiquattresima descrizione in atto
I.
IN QUALUNQUE LUOGO CI SORPRENDA
la morte, che sia la benvenuta se.
Qualcuno è caduto (andato) così doveva finire.
È falso, come è falso, che questo uno è caduto.
Se invece un altro è morto, altri sono morti col loro nome
oscuro
il rapporto non cambia.
Là fra quei monti che non conosciamo
dove nessuno è mai stato (né mai andrà, presumo)
la storia è più vicina
del grido di un mediatore di vino per vicoli intorno alla
nostra casa
o il litigio di automobilisti che s’insultano sotto queste
finestre (ogive).
Tutto finisce qui.
Da qualche parte del mondo…
II.
L’angoscia genera i pidocchi.
La questione sarda è all’esame del consiglio dei ministri
la peste suina aumento del costo della vita La Paz annuncia
la morte di…
è nato in Francia il 50 milionesimo abitante
re Feisal vieta la mini
nella capitale boliviana una salma imbalsamata
maledetta Bolivia
affonda in pochi minuti cargo americano
il partigiano sarebbe stato ucciso combattendo
la pipa ideale
ritrovata una bimba rapita
la CIA, gli esperti americani, l’america, tutta l’america, il
modo di vita americano, il mondo
LIBERO
IL MONDO OCCIDENTALE
UN GENERALE BARRIENTOS
III.
Purché un’altra mano si tenda.
Questo per una volta almeno è un ricordo
seduti su un ponte sul
muro, certo il muro di un ponte
se a noi in un piccolo punto della carta geografica del
mondo
in quel silenzio
l’acqua fredda fa rabbrividire
un’acqua tranquilla
impietosa terribile imponente.
Si vedevano e forse queste cime bianche si specchiavano
(riverbero) in essa
Nell’acqua
Seduti nella notte fino al mattino che segue
l’uomo abbastanza giovane parlava per la prima volta di
Lenin
al sottoscritto guardandolo
in una rivoluzione quando è vera
o si vince o si muore.
Così dicendo. Anni lontani,
pietra di polvere già, calpestata polvere, anni lontani
parlava sul ponte
la mano sulla spalla
e come tutto passò:
in una rivoluzione ecc.
La salma nella lavanderia dell’ospedale di Villagrande in
Bolivia.
Tutto si conclude in un circolo.
La verità si unisce
senza forza (o con forza)
– a distanza di anni –
qua e là non sorprende (o sorprende).
La verità dichiara dichiara semplicemente dichiara.
Trentesima descrizione in atto
I.
Vista col canocchiale la battaglia appariva
lenta e pigri i combattenti che vi partecipavano.
L’azione continuerà – dice il generale – andiamo a
colazione.
I politici non hanno interesse a cambiare il mondo
e le nuove spinte si propagano soltanto in apparenza mentre
risucchiano adagio sopra una
riva sfasciandosi.
Gli artisti, come i politici, non hanno alcun interesse di
cambiare il mondo
il mondo essendo così pertinente alle loro spalle. I miseri,
genericamente
i poveri, gli oppressi
questi hanno interesse di cambiare il mondo
non hanno nulla da rimettere se non la povertà vecchia
quando il mondo con do-
lore si cambia. Eppure una è la verità in questi anni
sessanta, ogni qualvolta
i poveri furono chiamati a scannarsi
per la guerra di lorsignori
puntuali si presentarono giovani con la rosa infilzata sul
fucile
canzoni sulla bocca e
massacrarono
da una parte all’altra
fino
alla
conclusione.
Perché non considerarlo avanti di cavare squallide illazioni?
Dieci disertarono con onore al tempo della grande mattanza,
prima della fucilazione
un soldato pisciò contro il muro per un intero mattino
morì sorridendo maledicendo questa povera Italia.
Chi dice la verità sarà impiccato.
II.
Un paracadutista americano
della 101 brigata preme la canna
del suo mitra contro la testa d’una
anziana donna sud-vietnamita durante un interrogatorio
condotto da un poliziotto del regime di Saigon.
Ci sono i mercanti i galantuomini (per così dire) i ruffiani
i ribaldi ci sono i cambiavalute
altri che non si possono neppure nominare
– tutti in un mazzo –
ci sono quelli che si toccano e gli altri sconosciuti
anche povere donne ci sono qualche ragazzo piuttosto triste
(ingrugnato)
molti che muoiono di fame letteralmente.
Poi: teste tagliate su picche
picche con teste tagliate
e su tutte le picche povere teste sporche di sangue, legionari
in posa, inchieste
televisive un documentario un certo X… che ha incasinato
tutto, questo piccolo
mistagogo.
PARLIAMO DI RIVOLUZIONE
parliamo di rivoluzione davanti a un bel fuoco di legna
– della classe operaia integrata?
– della Russia che si è seduta?
– ascoltiamo cantare il dissenso a un milione per sera
– acquistiamo, poiché si vende, il ritratto del Che a cento
lire edito da Feltri-
nelli che è l’editore dell’america latina come sappiamo:
questa copia l’attaccheremo nel bovindo o in un salotto
sopra le poltrone.
Ormai le differenze fra uomo e uomo sono impercettibili
uno ha fame perché non mangia
l’altro perché vuole dimagrire.
Cappelli uguali e barba sguardi occhiali inflessioni
dialettali omologhe
solo qualche bomba in più
che cade con discrezione.
PRINCIPIA ETHICA
ricerca generale su ciò che è bene.
La rivoluzione deve rifare l’uomo dalle budella
solo allora in chissà quale lontano futuro
dopo aver attraversato a nuoto i sette fiumi delle fiabe
potremo avere un nuovo amore.
Nota
“La rivoluzione deve rifare l’uomo” ecc. in Sklovskij, Majakovskij. Milano, Il Saggiatore, pag. 87.
Trentunesima descrizione in atto
Lei dice che non si può andare avanti così
impazzisce a dover correre di nascosto
guardandosi nel portone prima di salire
perché le convenienze capisci contano ancora
qualcosa
una signora non può considerarsi una puttana, poi
se l’impara senza le dovute regole mio marito
così ligio al buon nome, inoltre
quando si va per strada nelle sere della Brianza che
fa i tetti di carbone acceso
in questa Lombardia matta
la quale non ha più sangue che corra
la quale è affumicata lercia di una ricchezza squallida
remota
è bello tenersi per mano senza paura.
Biciclette e colori.
(Ecco i gas e i liquidi tossici che gli aerei americani
spargono sulle popola-
zioni, sulle coltivazioni e sui boschi del Vietnam del Sud.
Molte di queste
sostanze vengono anche gettate sui territori della R.D.V.)
II.
Guarda che bel campanile barocco
e la luce su quelle montagne
guarda che luce
ti rendi conto di cos’è la Brianza?
I clacson chiedono strada
alcuni operai su una ottocentocinquanta tranquilli
“il commenda ha sgranato senza fiatare,
ormai con quelli basta una stretta di mano”.
Elp.
Le domeniche gorgogliano verso un autun-
no che è stagione pregiata, tutte di rosse biciclette e di dame
anche agli uomini è permesso
di ascoltare oltre gli anni qualcosa
che li chiama. Nel pugno chiuso. Per un momento.
1) 2/4 – D (acido diclorofenissidoacetico, formula C/8
H5 O3 CL2).
2) 2-4-5/T (acido triclorofenossidoacetico; formula C/8
H5 O3 CL3)
3) DNP (dinitrofenolo; formula (NO2) 2O6H3 OH) gas
di colore giallastro
cosparso sui villaggi per costringere le
popolazioni civili a
fuggire. È letale.
4) TRIOSSIDO ARSENICALE (formula As 2 O3);
prodotto letale, usato nei ra-
strellamenti anti-partigiani.
III.
Ma
tu non capisci la situazione, sei egoista, lontano,
dai un suono di botte, sordo, rimbombi, alle volte
mi fai paura. Perché non ti limiti a considerare
la situazione semplicemente e ascolti il tuo cuore?
IV.
Il mio cuore. Ehi ragazza con quegli occhi neri
sulla terra fresca con una donna straniera
rischiai (d’essere accoppato col coltello
che vibrò con un secondo d’anticipo nel lampo dell’acqua
dell’acqua quell’acqua nera sull’acqua del sole.
Con grazia un poco indecente
tentò di farmi fuori eppure con la luce di bianche colombe
in cielo aveva appena goduto e vedo (ancora)
i suoi occhi affannati da una gioia stanca.
Anni di guerra. Anni. Noi giovani.
Aerei andando nel cielo con le tortore dei cristiani.
Cataste di morti sui campi d’Europa felice fino al mare di
Ilio
imputridivano.
CS (gas irritante a base di ortoclorobenzolmalonitrite);
produce
asfissia, dilatazione delle pupille, è letale)
V.
Biciclette, altri colori, la fine di
un giorno, queste parole conducono
a una noia quieta
ammassi di paglia
romba l’oceano del malanno che
scroscia e ingarbuglia, divaricando, le radici;
questa che è la vita stride
nelle caverne del carso trillano in tal guisa i pipistrelli
una lunga flessibile bacchetta li colpisce ammazzandoli.
Altrove si uccidono in modo uguale uomini colorati
di bianco, i bufali impazziscono
suono di morte di zoccoli
chi alza la testa l’avrà tagliata
il sangue non basta più
frammenti di ossa
le vecchie alla finestra
i topi mordono il calcagno dei bambini.
(Il fosforo bianco è un tipo di fosforo ottenuto da una
lavorazione
speciale. Viene lanciato con proiettili d’artiglieria, quando
esplode
brucia e assorbe l’ossigeno dell’aria sviluppando fino a
1200 gradi di
calore).
VI.
Lei dice che non può andare avanti così
e bisogna decidersi. Se voglio lascia
un marito per sempre e segue il sottoscritto
in capo al mondo.
Dice che non sono più giovane dei miei anni dopotutto
e sente di rischiare con me. Andare
per la Brianza senza nascondersi ora che
sui tetti il cielo si lecca le ferite.
Applausi generali per la società in trasformazione.
Autunno del medioevo.
Qualche sventagliata di napalm.
Note
Guarda che bel campanile barocco… Intervista di Simonetta a Gianni Brera apparsa su Vie Nuove (ottobre o novembre, o forse dicembre 1967. Ma la citazione è esatta).
ecco i gas ecc… Desunto da “La scienza del crimine”, apparso in dicembre 1967 su L’Unità.
Trentatreesima descrizione in atto
I.
Dentro al fungo del futuro il
cuore dell’uomo alla città del capo
si ferma non si ferma (può anche non fermarsi)
i progressi della scienza l’avvenire dell’umanità
alta è l’ombra lì accanto del nero impiccato
i neri dagli alberi con uncini
tremano palpitano (intanto) i visi pallidi sul cuore che si
ferma o non si ferma
hanno il canelupo a destra, con il napalm innaffiano il
vietnamita
bruciano l’araba nel deserto col suo carretto di stracci
c’è Dayan dalla benda sull’occhio
questo re alto sul carro
nella tenuta di guerra, duca di ferro, barone di morte.
II.
L’operazione spray in giungle e campi coltivati.
Ciascuno ha la sua porzione di
odio di false notizie di pacchetti
da scartocciare ecc. la lettera della madre qualcosa da
possedere
fall in love again
un figlio partire per una guerra ancora
sotto questo aspetto tutto (ogni cosa che) è uguale alle
passate vicende (sono inezie)
nulla si arrischia a cambiare
per la prima
volta.
III.
Operazione defoliante.
Nel 1967 si calcola che circa
un milione e mezzo di acri di terra sono stati trattati
in luglio la Defense Supply Agency
ha firmato con le case chimiche
produttrici trattati (contratti) per 58 milioni di dollari.
Povera america povera america povera america
la violenza dell’america fa paura
la violenza dell’america contro l’america fa paura
non la violenza dell’america contro il mondo
nell’occhio del mondo è la violenza dell’america.
IV.
Dal dì che io era citulo
abbiamo vissuto (proprio strascicando)
dall’anno 1923 all’anno… e
questa italia fa schifo
intanto al lavoro (abbastanza inutile) delle rotative era
legata la nostra vita1
lo scrivere non risultava essere un’attività con
straordinarie ripercussioni.2
Le parole dei signori ministri dopo le alluvioni
straripamenti frane crolli terremoti concussioni
sono come le ultime canzoni.
Dobbiamo sbarbare il Vietnam
fino alla radice del riso.
Oh il gran vento della libertà
La Cina è un oceano armato?3
STAMPARE IN ROSSO (SEGNO DI COLLERA).
Note
1 Intanto al lavoro delle rotative ecc.:
Majakovskij, Opere scelte, ed. Feltrinelli, pag. 148.
2 Lo scrivere risultava essere ecc.:
Da un testo dello scrittore della Germania comunista Hermann Kant.
3 La Cina è un oceano armato:
una frase di Mao.
Trentacinquesima descrizione in atto
I.
Ciascuno con lo scialle, con la ventosa
attaccata alla spalla, magari col fiore all’occhiello,
ciascuno col suo passo
in questo alone di silenzio
e le ellissi, i parabolici schizzi
i colorati microcosmi che danno scintille, verdi asteroidi cascano la notte di sangiovanni
sulla riva di mare arrostiscono carne
giovani che non danno canzoni.
Nebbia dal
solco della pianura
fra casello e casello dell’autostrada
un
Sangue sulla mano
l’occhio è colorato di rosso
fuoriesce dalla schiena questo sangue
schiacciato è un topo sulla strada
è un uomo
dall’alto precipita
annega nel mare (che dicono insonne) l’uomo
una petroliera arenata sulla (contro) la spiaggia del nord
cascano sopra il ghiaccio la notte di sangiovanni
un fuoco brucia foreste
di napalm, scattano trabocchetti
alcuni s’immolano sulla pietra sgozzati
contro i tronchi la scorza dura c’è sangue
altri vivono nelle tombe
sfuggono le città
dicono che torrenti di fuoco corrono sull’acqua dei fiumi.
II.
La battaglia d’estate nelle vie di Belfast.
Petali mescolati a
nuvole cariche stri-
sciano contro quel cielo che si
protende… e
Mini-Morris Innocenti
ora il comando del cambio è a leva
corta centrale
il raggio di sterzata o ridotto a m. 4,25.
Il guanto ferrato collocato fra una rosa e uno specchio
si assiste al massacro davanti al televisore
che caldo nella stanza!
l’informazione è immediata
apriamo le finestre è vero caro? così
si celebra l’anniversario delle nozze
sull’uscio riconosciamo la ragazza del figlio
aria di fradicia erba di ghiaccio pesante un inverno alle
porte.
Dall’ora x all’ora y
ciascuno dandosi il caso che
possa (debba) scoppiare un ordigno
non osi ardisca uscire per strada ecc.
È sottoscritto.
Con questa ingiunzione l’autorità
che ci governa (provvedendo per noi)
bada alla nostra incolumità.
Si sa che i potenti
sono solleciti di tutto e
amando l’intera umanità agiscono di conseguenza.
III.
La battaglia di primavera sulle vie di Cholon
nubi andavano strisciando nubi contro
l’orizzonte che si tende (nuages de Provence)
un cadavere nella strada coperto
da un giornale –
il ragazzo in motocicletta si ferma
solleva il foglio riparte
telefoto d’agenzia.
Tramonto di Eisen und Blut
così efficace in rotocalco sulla prima
di copertina (oh direttore)
tutto il rosso che brucia
sullo sfondo figurine fuggenti sfuggenti
di uomini magri. Rifilare in cima.
Trentaseiesima descrizione in atto
Quando finiscono le ragioni cominciano le spade
d’altra parte il mondo è anche nostro questo che si consuma
passano i minuti
l’attesa con pazienza
le unghie morsicate
quel respiro il rumore del ventre
fra poco si volterà
così concludiamo la serata.
Spettatori da una finestra
additiamo ombre e i soli additiamo
questa vita è la mia la tua è nostra questa vita
se essa si consuma con noi, dentro di noi, per noi
altri si consumano con noi ecc.
e il vecchio che si aggira può
mettere ancora se stesso dentro alla strada di un mare.
Tutto accade (se questo atto si compie) a chi parte.
II.
È giusto considerare le cose fatti avvenimenti
le varie circostanze e discutere
se la violenza può ancora modificare (adattandolo) se essa
può cambiare il mondo se può cambiarlo o se
triregno e spada
nel rigoglio del suo viscido umore nel suo sperma, se essa
non è solo la nera matrice
dei fiori mostruosi di questo secolo d’oro in pugno ai
dannati.
Si parlerebbe per giorni sul fatto
di documentarsi, d’agire
e come bisogna… adesso che tutto ha un principio e che
ogni cosa corre alla fine.
La musica non è cambiata.
III.
Pilota di guerra i giorni delle celebrazioni
drappi alle finestre (strappati) le voci corrono
uomini immobili e la benzina che brucia.
La studentessa liceale sedicenne Amelie X è violentata nel
centro
di Parigi (rue Moliére, rue Villon, place de l’Opera) quattro
volte sul
camion dei poveri figli del popolo di Francia
tutelatori di un ordine, l’operaio Gaston X di anni
ventiquattro è steso con un colpo alla schiena dai
sopraindicati imbianchini, porte sfondate
quella faccia l’orlo degli occhi il giallo
nei capelli le voci (urlo) mani (le)
quello è il piede le labbra è così il colore
colore di questa violenza tale è odore di morte
porte spalle moschetti degli assassini.
Lo stesso silenzio
silenzio
questo è il silenzio
IV.
A Jena il crudo inverno o splendeva la rosa?
Hegel guarda passare l’armata di Napoleone.
Trentottesima descrizione in atto
I.
Dentro a determinate circostanze
– l’usura monetaria, la crisi del dollaro
l’alternativa periodica fra alcuni compensi
o un rifiuto decoroso (sistematico)
tu che hai il
fiore in bocca e gli occhi anche sbarrati così
ho ascoltato abbastanza
(il viso la faccia quel segno, ferita, lungo
il labbro) una specie di
ghigno che delude sempre, anche il sabato sera.
Nessuno può interferire nella volontà
del singolo se costui si dispone
a ottenere alcune oneste agevo-
lazioni durante il viaggio verso la morte
che, poi, non pare molto lontana. Quali
(altre cose non occorrono o funzioni speciali):
UN GIOVANE CON UNA FORMAZIONE
CULTURALE VIVA E PROFONDA.
FATTA NELL’UNIVERSITÀ, FORSE.
O FUORI.
COLLABORANDO A RIVISTE, SCRIVENDO
PER ESPRIMERE QUALCOSA.
COMPRENDENDO IL CINEMA,
LA TELEVISIONE, E GLI ALTRI MEZZI
DEL COMUNICARE.
UN GIOVANE COSÌ POTREBBE
DIVENTARE COPYWRITER, DA NOI.
SCRIVERE A: YOUNG & RUBICAM ITALIA
MILANO, PIAZZA DUSE 2.
II.
Tutta la questione fu delegata al magistrato
il quale è persona incorruttibile
l’indipendenza della magistratura dal potere politico
essa è vindice e sovrana
giudica colpisce
inflessibile
sempre
(e integra, dicono).
Il magistrato esaminò le questioni delegate.
Quando è notte puoi pensare che
la legge è uguale per tutti
è uguale per questo e per quello essendo
questo assolto e quello condannato
per lo stesso reato
(ma la notte è profonda).
Poi c’è il delitto d’onore…
il magistrato che esaminava le questioni delegate
firmò il decreto
poiché la legge è vindice e sovrana
giudica colpisce
inflessibile
sempre.
Spalancò indi la finestra il magistrato
guardò il cielo notturno
i sovrumani spazi di là da esso – Sirio in cielo e
nel (in) cielo navigavano anche le pleiadi
colombe strane con ali infuocate volavano in cielo
canti di donna s’alzavano
essendo che
la notte era fonda e inteneriva.
Egli disse che l’ora (quell’ora) gli sembrava struggente.
Andò a dormire.
III.
Non ci sono novità (ancora).
Guarda il selciato su cui i cingoli hanno inciso lavorato
spellato
o la miniera (quella miniera) chiusa, una semplice forma,
vena che non produce
infine le cose tutte uguali a cento esempi che ogni uomo
conosce.
Guardala (anche questa vita) col vizio del dolore paziente
quando il ricordo la scuote (è certo)
o i dubbi che tagliano col coltello da potatore e sfuggendo
alla mano feriscono.
Tutto questo è lontano ormai.
Anni quaranta, cinquanta, sessanta, settanta.
(C’è altro? Non molto di più. Qualcosa.
Alla salute.
Invece, alla salute).
Radicalizzare la lotta, bat-
tersi per battersi, portare tutto anche i cavilli i det-
tagli alle estreme conseguenze ecc.
Quando si racconteranno…
soldati morti ceneri buttate e
come nelle fosse comuni stavano uomini sconosciuti.
È finito il tempo dei maledetti profeti.
Crivellato di colpi il mondo…
I bei discorsi interessano
ma non incantano più.
La domanda è: ma poi?
In questi termini.
Trentanovesima descrizione in atto
L’UOMO, IL SUO SUCCESSO, VICTOR
LA SUA COLONIA CLASSICA
VIBRANTE SPORTIVA.
UNA NATURALE, GIOIOSA FRESCHEZZA
UNA SENSAZIONE ESALTANTE
IL SUO SUCCESSO… LA LINEA MASCHILE.
la base sperimentale di Dugway
lavora (si è lavorato nel 196..)
a un progetto inteso a trovare
un metodo per provocare epidemie
con il virus dell’encefalomielite
equina venezuelana –
fra i microbi immagazzinati
nel forte si trovano gli agenti
della peste polmonare, una
varietà più mortale della
peste nera che nel medioevo
uccise un quarto dell’umanità
e la tossina botulinica
di cui bastano 30 grammi opportuna-
mente diffusi per uccidere
60 milioni di individui
Charlie from Cardif
letterato
se la porta al week-end, si siede e scrive
con Valentine sul prato.
Ciascuno di noi può contare
su un (meritato) giorno di gloria
– un giorno almeno –
può in tal modo tacitare
l’inquieta coscienza, la voce della moglie
il pianto (agrodolce) della madre
– perché si viene al mondo? –
noi che viviamo
aspettiamo e vediamo.
La gloria della nazione
anni ’70
Ordinamento scolastico (medio e universitario)
ordinamento ospedaliere (psichiatrico e normale)
ordinamento carcerario
ordinamento urbanistico
Sì, tutto questo è scritto sull’acqua
Emigrare
spellano fucilano, niente rivoluzione
tasso bancario
esodo di ferragosto
autostrade autostrade autostrade la
magistratura indaga
CBW (guerra chimica e batteriologica).
Quarantesima descrizione in atto
“Perché, Giovanna, ora
voglio mostrarti quan-
to sono malvagi quelli
che compiangi. E quan-
to ti sbagli”.
Brecht
I.
(dunque dal contadiname ignorante
e retrogrado si staccò il proletariato
per cui si vennero a costituire tre
caste: la borghese, il proletariato e
il contadiname.
In quel giorno una tale epidemia ed un tale contagio…)
Nessuno ha scritto la storia dal basso
del proletariato contadino (moderno)
nessuno ha mai contato uno per uno
la lunga schiera con nome e cognome.
Lontano è il mondo da chi vive nel mondo.
La solitudine è anche battagliera.
Né si può credere alle disgrazie.
II.
Così, un intermezzo di rime.
Città lontana vista attraverso gli alberi
con tutte le mura intatte
essendo antica,
le fontane di muffa acida e verde sul mattone
delle porte sconnesse. Sopra le case un fumo.
Pellegrini mischiati a mercanti e ai ladri
i cavalli dall’occhio rosso e nero
il sole li cospargeva nel tramonto di polvere
– arrivano arrivano arrivano
questi meravigliosi ricettatori notturni.
Ora c’è chi scaglia l’attrezzo a cento metri
misurando con acume in franchi e lire
un credito e il debito; ha la strada alle spalle e
il livore (d’ottobre) della nebbia
un altro; oppure davanti al fuoco tv con la sedia di legno
nella balla di paglia il mobile
salvarani il frigo
ignis la marmorizzata
triplex
e intanto dalla paglia palazzi ammucchiati nell’ombra della
foresta
in una notte crescono
– incrinamenti refusi squarci i lunghi pianti
i giornali, il solco delle vene; le fughe che inducono quasi
quasi sempre a un ritorno.
Poi (lettera recente di un soldato forse alla madre)
“…mi hai visto anche
una volta diventare bianco morto
ricordi quella volta al sud e
sento addosso la tua mano che scalda quella che trema la
mano che bagna
la tua mano sulla fronte ed è viva. Ho cominciato a uccidere
un poco per volta e così
si vince, la paura di vivere vivendo in tal
modo, in tal modo uccidendo. Ma chi uccide, si uccide.
Doma-
ni dunque parto non posso dirti se ritornare è possibile”
(risposta della madre)
“se ti è possibile prega un poco o forse pensa soltanto
o abbi di te pietà un poco
perché tu possa, volendo, diventare migliore.
Qua tutti ti aspettiamo”.
III.
Orlando mette una pietra sotto la testa di Ferragut stanco
(Venezia, Bibl. Marciana, Cod. Fr. 21)
e tale atto molto silenzioso
conferma con oro e scuro cielo un’amicizia
almeno ciascuno potesse a suo tempo avere
quella mano per il sonno che è uguale.
Se questo avvenisse,
nelle ore che conosciamo.
Intanto declamiamo
IV.
La crisi della generazione sartriana
La visibilità è buona il cielo chiaro
ripeto
la visibilità è buona il cielo chiaro.
Evviva Garibaldi ma abbasso la leva.
La logica delle cose
è più forte della logica degli uomini.
Dicono se questa battaglia sarà perduta
noi (tuttavia) avremo imparato a combattere.
Quarantaduesima descrizione in atto
A Torino il fatto che
un letto è affittato
tre volte al giorno a tre immigrati meridionali
con turni diversi nella grande fabbrica orgoglio della
nazione
è naturale.
lo poi non ho motivo di lamentarmi
dormo nel mio letto
leggo le gazzette a letto quando è sera, disteso
fumo anche il mio sigaro dopo il caffè
intanto calcolo che un letto bene amministrato
a Torino sabauda rende fino a
centomila mensili e quattro letti
in tale stanza (o locale) ruotando sul sonno
naturalmente scomposto di questi cafoni i quattrocento
mensili.
Battiti pietra demente.
Le saette stridono
le saette non inceneriscono.
Si può leggere altro in un tale giornale
del giorno medesimo suicida a Moncalieri:
forse Concetta De Nitto è
stata travolta dalla dura spietata esistenza
che a soli diciassette anni
doveva condurre? da tre anni veniva
importata dal suo paese. È un caso
comune, di ragazze come lei
nei campi di Moncalieri e a Nichelino
se ne trovano a decine. Salgono al nord
verso la fine di marzo, state
in precedenza contrattate con i genitori
fissato il prezzo per i nove mesi
da trenta a sessanta
mila lire al mese
nei campi a curare gli ortaggi
lavorano dalle prime luci dell’alba
al tramonto. La sera si ritirano in
stanze che generalmente
sono un buco di pochi metri.
Colossale vendita fallimento
un macchinista cade dal treno
anche l’elettronica per combattere la delinquenza
massima
minima
La TV non funziona?
ALL’AMBIENTE IN CUI ERA STATA VIO-
LENTEMENTE TRAPIANTATA
Nebiolo per Pigmalione
FORSE CONCETTA DE NITTO
Quarantatreesima descrizione in atto
I.
Questo cielo di Tiepolo e anche questi semigelidi venti
erbe che scuotono fischiando
sembrano bruciate
ancora legni molto simili (così uguali)
alle tavole di barche abbandonate fra
dune sterpi nei silenzi dell’Adriatico (o erano)
oltre l’avvallamento
calanchi con i rilievi che tagliano
tutto naturalmente scomparve ma
prima in questo cimitero della montagna
cercando il nome di una donna (di una vecchia donna) in
rilievo
sul marmo – entrano anche le pecore a brucare rapidamente.
II.
Essere pazienti davanti alla verità.
Oggi i filosofi giudicheranno il servo pastore
mentre dorme il tale signore dopo l’avventura
per i calanchi con i rilievi che tagliano
su giù per una sola luna conclusasi la vicenda con
“addio, prendi le mille lire”
addio col mitra alla schiena, addio a te pastore, la polizia al-
le calcagna, il fiato grosso, finito come doveva.
Nella terra calano i morti
i vivi splendono se possono risplendere. Tutto è oro.
III.
Il mito della piena occupazione.
Si ha, tuttavia, motivo di ritenere
che la disoccupazione effettiva sia
alquanto più alta.
Può capitare, infatti, che certi soggetti
cessino di figurare fra le persone
in cerca di lavoro perché
avendo perso ogni speranza di trovarlo
hanno cessato di cercare
scomparendo così dalle stime ufficiali
(della disoccupazione).
Questo non significa però che, potendolo,
non preferirebbero lavorare.
IV.
Sei in una città
in una città, è sera e
questa città chiude le porte le case la casa all’
alba questa città apre le porte
le ciminiere fischiano sui bambini nei giardini
alcuni treni dal sud, il tanfo del freddo, l’incubo e quegli
occhi che sentono.
V.
Un ragazzo siciliano emigrato
al nord in cerca di lavoro è
stato trovato a Cantù dai ca-
rabinieri, svenuto per la fa-
me in mezzo alla strada. Dopo
aver vagato di città in città
e di azienda in azienda in cer-
ca di lavoro
il sedicenne era ridotto alla
disperazione e non mangiava da
quattro giorni. Ascoltata
la sua storia, i carabinieri
non hanno potuto fare altro
che rispedirlo a Reggio Cala-
bria, in un istituto di riedu-
cazione dal quale sem-
bra che fosse fuggito. A che cosa
poi dovranno rieducarlo
VI.
SI AFFITTA APPARTAMENTO NON A MERIDIONALI
Quarantaquattresima descrizione in atto
I.
Il fisico teorico è un giovane di trent’anni
davanti alla lavagna (per la televisione)
col suo gessetto tratteggia la parabola dei missili
a testata nucleare indica
il luogo (probabile) d’impatto fra il missile che attacca e
l’altro
esso pure che parte alla difensiva – in un luogo dello
spazio a circa venti chilometri dalla terra devono pure
scontrarsi dice e dunque
qui e qui e qui dove segno la croce. Grazie professore.
Ciascuno ha proprie deduzioni assomma cifre
in taluni momenti fatica intorno a conclusioni generali
rivolgendosi al passato (prossimo) al futuro
(che può essere oscuro) o guardando con qualche cautela le
piaghe del presente.
Altri più semplicemente, come si è visto, si dedicano alla
difensiva.
II.
S’accorge d’essere ancora una volta un povero
seduto sulla paglia egli conta i giorni
mentre vede oltre la finestra le grandi nuvole di giugno
correre verso il mare.
Quando è sera pensa anche alla morte.
Eppure ognuno cura le ferite, questo
lurido infetto bituminoso marchio
che segna le spalle
tutti gli sbagli (pagati) e con quanta rabbia
consumata inutile;
eppure a conclusione (magari di una giornata) si deduce
senza gessetto con i riflettori spenti
che è giusto vivere così
perché il tempo cambia le piaghe in oro, in sorprendenti
malinconie che si traducono in un fervore sconosciuto
e ognuno dal suo cantuccio dove
la noia può alle volte consumare
intere settimane s’alza come un lazzaro guarito.
Addio addio monti sorgenti dall’acqua
L’eurovisione mi porta a Dublino
domani siederò nella stanza di Joyce.
Chiuse le porte ai creditori.
Maledizione agli astri avversi per i nati
sotto il segno dell’acquario, oggi non è
dicono giornata di traffici, diffidare
dalle amicizie improvvisate, ne è giorno
per azioni violente.
III.
Eppure no. Contiamo sulle dita.
Nella stanza accanto un uomo dalla voce grossa
impreca con angoscia. Qualche lacrima cade.
Una donna lo supplica, più ferma nella voce
e più sicura in questo improvviso sgomento.
Al sesto piano c’è dunque la tragedia
tra Ofelia .savia e un Tindaro lacerato.
Passano le ore passano
sul silenzio nella notte pauroso
fischi di treni.
Quando si pensa ai figli e come sono migliori di noi
quanta libertà c’è in essi e come sono diversi.
Non arrendiamoci.
Poi viene un altro inverno.
Incominciano gli anni settanta.
Quarantacinquesima descrizione in atto
I.
Li seguiva un canto quando
scendono dal treno tutti insieme
– così truccata e
con quegli occhioni azzurri piccini –
s’aggiunge l’eccezionale prestazione
del suddetto funzionario (accompagnatore):
intelligenza, iniziative intense,
proficuo tempestivo,
coraggiosa franchezza,
livello dunque in senso assoluto e relativo…
Prima della luna e dopo la luna
andandosene in giro mezza nuda
o tutta nuda, nuda intera tanto
che quella cosa “mi ha disgustato”
ma lo fece per sfregio.
È orribile eppure meraviglioso.
II.
I bocciodromi sotto gli alberi, lontani lontani persi
congelati.
Per lo più sono vecchi chinati (inclinati)
con questo legno in mano, palla di legno
e schiocchi, fraudolente misure
si cava via il fiume con gli occhi grigi il vapore
e i silenzi di quelli che guardano contratti sperduti isolati
soli.
Altrove con la vocetta di capra
Joan canta poesie vittoriane
su quella grande america senza vestito
ed essa con altro vestito è andata a pren-
dersi l’oscar e per sfregio
mezza nuda tutta nuda, nuda intera tanto
che quella cosa mi ha disgustato.
III.
Pane della confusione è moderna:
“Quando dagli oscuri macelli del passato
terribile spettrale levò la prima volta
il capo la sfinge della metafisica”
dolce notte senza allegria
serata per una moglie allegra – e così notte dolce senza
allegria
poi lui è ormai in putrefazione con
la ciocca che pende.
Come un amore che sia finito per sempre.
Ma era finito, già questo
è il tempo per le ciliege sì questo
è davvero quel tempo quando canta il martino
nel suo cielo nel limbo di quel cielo
e tutti addormenta. Perdona il paragone.
Stringi, compagno, stringi.
Guerra di Spagna, basco, un suono
(anche) d’organo, mitra-
gliatrici, è Bach, i lamenti, applausi,
questo era il popolo,
si siede fra le canne di metallo diritte
prima tace ascoltando poi dice Compagni
l’unità nella diversità
Cos’è rimasto? è rimasto ben poco.
Quarantaseiesima descrizione in atto
I.
CALCOLO, SOMMA. CONCLUSIONI.
Aldilà del o di un cancello il cane da guardia
ATTENTI AL CANE
il giardiniere chino sulle piante
con forbici e anche i calabroni
mentre uno dice la sostanza dell’essere
non è quel rosso che si gonfia
odorando di mosto acido tumefatto di muffa
gli occhi azzurri per una certa densità indeterminata
chi mi aiuta? chi mi aiuta? chi mi aiuta?
inoltre l’acquisto dell’area non ancora lottizzata
è un investimento eccellente
l’agricoltura ha ridotto all’osso
il proprietario, metterci denaro
è da merli (considerate invece che dopo Jesolo la zona…
crescono ville sul terreno regalato dal comune
a dolcissime ragazze a giovani di fama
i quali… più giù gli altri hanno il nome nel gotha
finanziario) le ventate
del mare dalmata con schiuma in un filo che
non finisce, la bellezza nuova di queste sognate tragedie
intorno a signore pazze nei castelli-dirupi
stanche soltanto in una immobilità di polvere.
Sul mare.
Appoggiarsi all’ala secca di tali uccelli per potere
volando anche strisciarvi
odorare il riflusso acido, ripo-
sare così, l’acqua si muove e chiama chiama
dunque bagnarsi per sempre, scendere in un
fondo di mare senza sonno.
Com’è lunga un’estate.
C’è un alto cancello con le punte che feriscono, altra casa
un recinto sgretolato e ancora
una villa con piante di alto fusto
nessuno vuol disturbare.
Nessuno vuol disturbare.
QUA LA NATURA È ANCORA STUPENDA INTATTA
OGNI CONFORT MODERNO
aber jetz kehr’ich zurük an den Rhein
in die glückliche Heimat.
Ma adesso io ritorno sul Reno nella mia patria felice.
II.
Ritornare dove? da chi? dillo tu se
III.
Dobbiamo innanzitutto documentare con freddezza
(non con la disperazione che un tempo
nasceva dall’osservare
bensì con la frenetica temperanza
che viene dall’ottenere le cose lungamente sperate)
uno sfacelo.
IV.
Degradazione consumata e collettiva
Pianificazione urlata
Le case sventrate e quella casa così ritta nel deserto
La nostra società è marcia marcia marcia fino al midollo
Cinquantesima descrizione in atto
(Esecuzione di un piano)
I.
LETTURA DI UN GIORNALE, VEDUTA DAL
FINESTRINO,
QUALCHE PERSONALE PENSIERO, DU-
RANTE UN VIAGGIO NELL’APRILE DELL’
ANNO SETTANTUNO
quali sono allo stato attuale della scienza
le armi A B C ?
Quelle batteriologiche comprendono tutti
i virus passibili di provocare un’epidemia.
Nonostante il velo del segreto militare
si sa che le ultime ricerche mirano
soprattutto a inventare, accoppiando
acconciamente ceppi virali diversi,
malattie ancora sconosciute fra gli uomini
e quindi tali che non esista contro
di esse una terapia efficace.
Non meno vasta la gamma
dei prodotti che potrebbero agire chimicamente
II.
treni appaiati con le canne puntate nel freddo
membri di gesso arrugginiti fra
l’erba. Fra l’erba ci sono le foglie di questa primavera pa-
dana che si consuma /METALCA-
STELLI, TAVONI, ORTI/ orti dimezzati con
piccole case, ci sono i fiumi che
sembrano le scogliere del nord, quelle case
abbandonate DUCATI/MICROFARD e l’ultima
nebbia che fuma che sale risale che avvampa che brucia
con-
suma tutti gli oggetti del mondo
III.
il processo di Boston
considerazioni sul caso Spock
il movimento per la pace
un signore seduto legge un libro (ultimo uscito) di
con attenzione, segna a matita d’oro
i versi memorabili di questo poeta
da ricordare – un
pescatore solo nell’acqua legato al filo
le case nascono intorno
altre con tale furia decadono
trafitte, putride, semplicemente inutili. Un
un vecchio (è) seduto davanti alla porta
campo senza alberi
alberi
guardatelo e guardate
guardate davanti guardate alle spalle
guardate una fodera rovesciata
rovesciata la tasca, il bavero rovesciato, guardate
anche il paio di braghe.
Così dovrebbero essere le funzioni svolte con attenzione
con un docile amore
con parsimonia da contadino, invece
non è, poiché (sempre) il pazzo che giudica
può (deve) restare sull’alto sedile seduto
aquila di giustizia aquila di marmo aquila
abietta infetta contraffatta (e quello stridulo dettato).
Guardate le occhiaie del povero uomo distrutto
IV.
era
e nevica nevica nevica la domenica di quell’anno di poi
difficile evitare l’usura del tempo (questa neve)
sopravvivere a se stessi (è facile)
difficile con se stessi vivere in qualche modo
ciao caro amico e ciao a te come stai e tua madre?
era quel tempo, tu sai come, addio
ciao caro addio.
Si allontana e il suo passo
ombra è di prati bruciati
la faccia dell’antico compagno
ha un’ombra di quiete
– la città che attraversiamo è pacifica
V.
Tokyo, battaglia all’università
un esercito di novemila uomini
ha dato l’assalto all’università di Tokyo
nel tentativo di far desistere gli
studenti dall’occupazione dell’ateneo.
Ieri lui c’era (voglio dire esisteva)
poi allontanato sfuggito al
carico della famiglia alle
terribili piaghe della vita sociale
è finito per tempo
uscito in un affabile modo
pallido in viso al canto del gallo
perché nel ricordo era giovane sempre
e i coetanei pesantemen-
te dentro all’occhio del tempo invecchiavano.
Che anni erano e quante voci di voci
anche tu ragazzo e sopra noi pendeva
la stessa neve e sotto la neve bianchi nel giuoco
si restava in un crocicchio a parlare
resta in lotta con te stesso
l’uomo può tutto o può nulla
dunque che vita è questa
che pone dispone propone
ineluttabile (intercambiabile) fra
il consenso di determinate persone
essendo che ognuno può secondo l’ordine
essere un povero triste o un triste perverso?
VI.
Il terribile Babono era colui
defenestrava amici e nemici
piangenti le ragazze anch’esse uccise
terrorizzava tutta la città;
vennero per fortuna tempi migliori
fra uomo e uomo era anche un dare e un avere
si compativano gli errori
si apprezzavano soprattutto le qualità
(se sapessi disegnerei qua la donna, quella donna
in una stupenda gamma di colori rosso antico
ma poiché reagisce sempre in questo modo infame
occorrerà soprassedere.
Amata mia amata amata mia mia
amata
soprattutto ti amo;
non è freddo questo silenzio?)
VII.
inchiesta sulle leggi repressive in Europa
la soave natura laggiù con quel filare
di canne (alcune)
sciacquio d’acque così azzurre
e talvolta) tremule (tremolanti)
ma soprattutto c’è
nel cielo a perdifiato
un mormorare un respirare certo un respiro nel
filare di pioppi che si piegano
scivolano lame scompaginate si sfasciano
volando uguali i pioppi nella gloria vana di un sole
– signori con cappello di ferro
mormorano proprio in quel fuoco di battaglia
e talvolta uccidono
– è rossa anche la morte
– ci sono cose che gli uomini temono
più della continuazione del male
– e altre cose ci sono che i giovani
non possono sopportare
(il celecanto: grosso pesce superstite
da epoche antichissime: 70 milioni di anni)
VIII.
Vacanze magiche sulla “Leonardo”
a bordo della “Raffaello”
dopo le serate al night lo
spuntino di mezzanotte ricco di prelibatezze;
chiedeteci una crociera Siosa
chiedeteci la crociera Jolly
chiedeteci
qualsiasi porto di imbarco e scalo
località considerata tipo di sistemazione
dolcemente in Corsica
se avete un week-end o qualche
giorno di vacanza non divideteli
più con la folla
(crossopterigi: gruppi di pesci
arcaici da cui sarebbero discesi
tutti gli animali terrestri
compreso l’uomo)
non più con la folla, scegliete chi
più vi piace – poche ore da Genova un’isola speciale
da scoprire.
Sarete voi e il mare.
Cinquantunesima descrizione in atto
(I Longobardi erano uomini)
I.
Società Generale Immobiliare.
Facciamo case. Magari la vostra.
Si possono costruire intere città
senza tradire la natura.
Costruire per noi è amare la natura.
Non certo distruggere la natura.
Così come per voi amare la natura
è desiderare una vita nel verde
tra gli alberi e sui prati.
Nei prati dove il verde si perde.
Perciò per noi un albero abbattuto
è una casa che è riuscita male.
Per questo le nostre case sono nel verde sono nella vita,
per questo le nostre case sono nella natura,
quella vera. quella di un mondo felice.
Così, forti del passato (come si dice)
faremo sempre meglio nel futuro.
Tra il verde. Per un uomo felice.
Questi sono i nostri uffici in Italia.
Abbiamo molte case per voi e
molti recapiti sparsi.
II.
Una notte a Leningrado
la Neva era pelata ma io
camminavo con Puskin (da riprendere)
Paesaggio dopo un bombardamento
(descrizione a colori).
Sul filo spinato elicotteri bassi
forse al confine della Cambogia.
Un antico ponte è un ponte di legno bruciato.
L’acqua chiara fredda scotta.
Ramo di un morto che galleggia.
Per la strada accampamento buio.
Stasera ho letto:
ciò che so di una rosea pelle di mela.
Il secolo è sovrano;
in giardino mi ha morsicato un serpente
perché le cattive novità
sono dal regno di danimarca.
Così nel sonno per mano di un fratello…
Ma dove vuoi andare
se da Roma a Milano tanto per raccontare
sono tutte case
(esclusa la maremma però lottizzata
e in fase di sviluppo)?
Guardo una finestra spalancata.
Fra l’uscio e il muro
ascolto una profezia:
non c’è più sole
ma non è ancora tempesta.
III.
I Longobardi erano uomini.
Accade che Teodorico di Verona esce
a cavallo (è un uomo armato) da acque
di un Busento, esce da acque
fresco rosa liscio levigato
di sole. Esce. Col suo cavallo alato.
Via per le acque va.
Via per pianure e per strade.
Su per città, via per
questa terra che muore frana
irrimediabilmente condannata
da un’agonia. Basta guardare gli uomini.
Va Teodorico dal Busento via.
Va Teodorico re di Verona via
e nevica stasera. Nevica con folate di gelo,
nevica e un velo sbatte sul. mondo.
Teodorico sopra il cavallo va
dal fiume Busento alla città di Milano.
Poi si dirà quanta vita è perduta.
Poi si dirà quanto è secco il grano
il grano che si raccoglie sulla mano
il grano per il pane.
Questa è l’età non dei lumi ma di una lunga fame,
sole e nebbia dentro al fiume degli anni.
Altre battaglie accadono.
I Longobardi erano uomini.
Tutti hanno messo su pancia.
La ruota e ferma. Immobile è la carrozza.
Il treno blindato è all’esposizione
sopra pannelli di cemento
in vetrate di ferro; fuori ci sono panche
donne con fiori
ci sono anche chitarre e l’avviso sulla guida
della città.
Mi informo sulle Pagine Gialle
se c’è un angolo della terra
un contadino che zappa sotto un albero e
se c’è un angolo della terra
una partenza di treno.
Se c’è in un angolo (non troppo lontano) della terra
un inverno senza neve, un fiume senza rete.
Un cane che guarda da una porta la pianura che imbianca.
Mi indicano la riviera
dove tutto è esaurito
dove i prezzi sono alle stelle.
Là è meglio non andare
È più economico restare e lottare.
Cinquantaduesima descrizione in atto
(Quattro rapporti)
I.
Lo scontro somigliava al fuoco.
Rapporto uno: del sentimento.
Per modificare le norme
procedere sull’Aspromonte non tacere.
Procedere secondo coscienza.
Altrimenti tutti mendicavano
l’alibi dentro una regola
e con un filo d’erba fra i denti guardare
i furori del cielo così fondo.
Tu hai la mano calda hai un cuore che
ascolta ad ogni ora
una rabbia spaccarsi a vista d’occhio sul mondo
mentre il paesaggio è modificato
per via di ruspe per via di misteriosi respiri.
Potenza della memoria.
Nati ieri siamo già pronti a morire?
Ascoltiamo con forza anche i nuovi passi salire.
II.
Lo scontro somigliava al fuoco.
Rapporto secondo: della città.
La città è un albero di case con dodici frutti
sono larghe lunghe profonde trecento chilometri
da costa a costa si contano sulle dita
hanno sangue e colli decapitati,
schiocchi di vento di ferro impigliato fra i rami
urlano
mentre l’ombra del camion finisce nell’orto.
Il cedro licio è abbattuto dentro il giardino lottizzato.
Le prime nebbie trascinano macchine in panne,
vicino all’ippodromo i cavalli passeggiano adagio.
Sull’ultimo lampo del giorno esplode un aereo.
In quel preciso momento
il vecchio di ottant’anni morirà solo
nel letto d’ospedale
attraverso la finestra
guarda l’acqua di colline lontane
in quel preciso momento il ragazzo
vola via sull’asfalto contro l’albero ingessato,
in quel preciso momento
un uomo parte con la valigia
in quel preciso momento una ragazza piange dopo un sonno
triste
in quel preciso momento le prime luci si accendono.
III.
Lo scontro somigliava al fuoco.
Rapporto terzo: della prima di dieci verità.
Il paesaggio è delineato nel graffito di gesso
inoltre l’aprile viene
con le spazzole di rose incombenti.
L’imbianchino di quarant’anni crolla sul pavimento
dentro al cortile lungo il corridoio
col cuore aperto a colpi di becco da un avvoltoio.
Ha pranzato ha cenato ha pianto insieme alla morte
che prima era leggera
poi si è trasformata in violenza
poi ha cavalcato anche il suo dorso piagato.
Lei era il calcagno di una cavalla
sbatteva un fiume di giallo e furore
la morte vibrava zenzero e filigrana.
verso scia il fuoco cessò.
L’ombra si sparse ed era cenere.
La città chiuse le porte.
Gli uomini si contarono.
IV.
Rapporto quarto: di una conclusione.
Un secolo più tardi Filostrato
affermò che c’era una sola differenza fra Nerone e Tiberio:
il primo aveva apertamente praticato la violenza
mentre il secondo l’aveva velata
sotto le apparenze della legge.
Trenta milioni di italiani emigrati
negli ultimi cento anni,
i problemi dell’emigrazione saranno discussi
domani
a Roma
alla prima conferenza nazionale.
Trenta milioni di italiani.
Prima di emigrare imparare le lingue e
grazie patria mia
grazie per questi cento anni patria mia
grazie eccellentissima eccellenza.
Il frammento della pietà Rondanini è in Svizzera.
Bisognava provvedere all’ordine pubblico.
Gli opposti estremismi?
Aumentare la polizia.
Grazie patria mia.
Le prime luci si accendono
nelle case dei contadini.
Cinquantaquattresima descrizione in atto
(Possono essere di danno coloro
che lamentano certi mali
senza nominare le loro cause eliminabili)
I.
POSSONO ESSERE DI DANNO COLORO
CHE LAMENTANO CERTI MALI
SENZA ELIMINARE LE LORO CAUSE ELIMINABILI.
II.
Nube di nube, nube nella nube, la nube è nube, nube è
quella nube. È una nube
nube, la nube. La nube si alzò sulla pianura e tutta la
pianura si bruciò.
La nube la prese prigioniera. Mai più la pianura osò
dichiararsi pianura, mai più la città cantò
per paura di quella nube
che era un’ombra a coprire la pianura.
Non importa se la città ha tanti cuori
sugli occhi e sulle mani; anche gli alberi, zac!
sono stesi per terra. Bruceranno domani.
III.
Per colpa della nube Dylan è un vecchietto che vive
nell’ospizio dei ve-
terani.
I ragazzi del ’68 alla sera sul prato portano i cani.
Un dirigibile ha planato sul lago Trasimeno e
lì si è aperto mentre moriva sull’acqua.
A molti la voglia di vivere viene meno specialmente la sera.
Una donna per cinquemila lire
legge le righe della mano;
una, la linea più corta, è tutta nera.
Nella stalla il reduce della guerra di Russia piange
guardando la televi-
sione
perché gli uomini non ricordano il suo nome e la pratica
non è evasa.
La pensione non arriva e sta per crollare la casa.
Poi c’è la nube.
IV.
La nube del Settantadue.
Compare nelle poesie orfiche una dea
notturna chiamata Babo
che ha la figura lunga e la consistenza di un’ombra.
La nube del Settantatre.
Compare nella Martinica
la razza de I beché ovvero quella dei grossi proprietari
così chiamati.
La nube del Settantaquattro. Le figlie de I beché
vestite di bianco
raccolgono i fiori fra l’erba in ogni parte del mondo e i servi
neri le seguono con orme di volpe.
I servi lavorano l’oro, non conoscono il mare.
La nube del Settantacinque.
Ogni uomo deve scegliere e non dimenticare.
La nube del Settantasei.
Io al sud, tu al nord, cosa possiamo fare? La strada si
blocca al bivio
perché la nube ha ingiallito le foglie.
Un uomo raccoglie una rosa, la vede appassire.
Grandi confetti di gesso cadono uno per uno.
Ricordo che il gelo della notte nell’Europa del nord è nero
fumo.
È il Settantasette.
Da noi l’ultimo fiume morì alle otto di sera schiantandosi
contro un
relitto non lontano da qui, non lontano.
Molta gente quella notte non dormì.
In terra è restata una striscia bavosa di grano.
V.
È il quindici agosto
per la società dello scarico, del rifiuto, dello spreco.
Gli occhi del Po a Piacenza tagliano la polvere con il
giubbotto di
motociclista. Il
trenta agosto
l’indifferenza è terribile, generale, giornaliera,
sopra gli specchi
i bambini disegnano pesci che hanno tre occhi.
La crisi attuale è un grande temporale.
In cielo s’apre un’aquilone pop.
Oggi sembri un camion che sbanda in un sorpasso
tanto sei pesante e grasso. Te l’ho detto: nel sogno
con un riso spavaldo lei era legata a un albero
io cadevo nel fuoco poi mi sono svegliato.
Un mare d’erba si stava battendo a duello. Trattenevo il
fiato. La
mia vita è un inferno.
VI.
Ma dimmi tu che settanta terre hai visitato:
perché il bosco è grigio? perché il lupo è così bianco?
perché lo scudo è ammaccato? perché il mare è stanco?
perché più di un compagno è scappato?
Il bosco è grigio perché la terra dei limoni
è sprofondata nel mare.
Il mare è stanco perché la terra dei vulcani
beve vino nella scodella dei cani.
Il lupo è bianco perché il paese degli aranci
ha tra i denti i capelli di antiche città.
La pietà si rifugia nel bosco.
Non ti allontanare.
Per ogni uomo che parte dieci anni di miseria.
Dentro al fiume Basento anche il cavallo di un re morto da
mille an-
ni piange di vergogna.
Questo è il paese che conosco.
Formiamo una catena con le mani.
Neanche un’ombra lasciamo passare.
Cinquantacinquesima descrizione in atto
(Trenta poesie)
1. Pollock.
2. Cummings che dice io porto il tuo cuore nel mio cuore.
3. Miles Davis settimane fa in un palazzetto dello sport.
4. Una canzone dei Beatles.
5. Tre testi di Brecht:
il primo In Polonia nel Trentanove una grande battaglia
ci fu;
il secondo è questo Rispondendo a una domanda
sulla patria
il terzo infine: Mangia e bevi – mi dicono –
e sii contento d’averne.
6. I pensieri di alcuni bambini.
7. Il discorso di Fidel letto e riletto
fino a che il disco invece di parlare si è crepato.
8. L’ultima orazione di Castro sul Che.
9. Incollare le pagine, tagliare le pagine.
Spegnere il lume, abbassarlo e la notte può essere
inverno.
Afferrato un fucile da caccia uccidere un ladro o uno
storno.
Seduto davanti alla porta vedo sgozzare il maiale.
10. Parlare a un sordo.
11. Le ultime poesie di Hoelderlin Scardanelli.
12. La ruota del mulino.
La ruota del suo mulino
la pialla del falegname
la voce del mugnaio che batte il grembiale e guarda le
anatre nuotare.
13. La pioggia taglia le mani e i capelli.
Io io io…
14. Il riso del padrone chiude con violenza una porta.
15. Le parole dei poveri.
Nascere e camminare.
16. Un altro farà una strada più breve
noi dobbiamo andare in salita.
17. Non dico le parole che amo
dico solo le parole che ricordo.
18. Con mio padre parlavo alla sera
quando tornavamo tutti e due dalla città.
19. Un manovale che si è impiccato in carcere
è seppellito per pubblica carità.
20. Dicono gli industriali giapponesi
la scelta è fra quantità e qualità.
Correggono i tedeschi la scelta
è qualità e quantità.
21. Ma nelle città industriali i gatti impazziscono
i bimbi nascono deformi, i genitori
si vergognano dei figli, li nascondono ai vicini.
22. Siamo qua per mostrarvi, dicono alcuni,
le terribili conseguenze di un inquinamento
per le acque di scarico della CISSO.
23. La fabbrica dopo una lunga lotta fu trasferita.
24. Partenza anche dell’ultima famiglia.
25. Un operaio ingaggiato poi come specialista di esplosivi
da una ditta che scava gallerie e strade,
alla fine del primo giorno
si fece rapinatore.
Dopo una settimana era morto.
26. Il futuro si apre e brucia la mano.
Così un lebbroso appena guarito
non può essere felice
come in un giorno di carnevale.
27. Né la poesia può tacere
parla in un grande silenzio
il potere è potere
la poesia fa male.
28. La felicità è inutile.
La libertà è verità.
La verità è difficile.
29. Mandel’stam, Pilniak, Olesa, Babel o la signora
Cvetàeva.
Guardano in silenzio, camminano per la pianura,
si avvicinano, ascoltano, discorrono con noi.
Raccolgono la neve.
30. Guardo due capre che si dissanguano
dentro l’ombra degli elicotteri.
Siamo ormai nel duemila.
Spartire le cose pescate è un atto di giustizia.
Anche seppellire i morti.
Il potere è ancora potere soltanto.
Vivere ascoltare imparare
navigare su un fiume
con sette cuori diversi.
E settecento furori.
Cinquantasettesima descrizione in atto
(I boschi di Brecht)
I.
Quando sono nato mio padre non c’era, mia madre non
c’era
io ero lontano
e questa città non era alta sul piano
la campagna non era gialla di grano
il giorno in fretta cadeva, di sera
non c’era mai il sole.
La spagna bruciava nel campo.
Quando sono nato mia madre non c’era
le foglie secche
scoppiavano al passo di un uomo
l’uomo fuggiva inseguito dal tuono,
non aveva più scampo.
Quando sono nato mio padre non c’era
non c’era mia madre
io ho pianto un poco poi
ho cominciato a sentire il fuoco del mondo
e il suo furore.
II.
Il ragazzo sopra un ponte guarda il mare.
Alla televisione ha visto morire un uomo
senza troppa emozione.
Un auto di formula uno
sbattuta contro il guard-rail
si è capovolta e sotto il pilota incastrato,
nessuno si è fermato
così è morto bruciato.
Il ragazzo guarda la città.
Case su case: sono tutte case?
ombre su ombre: sono tutte ombre?
Filano taxi e taxi
non c’è più nessuno per le strade
da una finestra aperta la faccia di mio padre.
III.
È già autunno, inverno?
oppure estate? è ancora primavera?
Nel ricordo, dice la canzone,
tutto è sfumato, è nebbia, le persone
hanno un viso soltanto.
Solo una faccia hanno le persone
e un pugno di dolore.
Il ragazzo
si gira attorno e guarda nevicare.
IV.
Queste parole le hai ascoltate mai?
Ripetile!
Quella voce l’hai sentita mai?
Ripetila!
Il ragazzo si muove intorno all’argomento.
Gente possidente che possiedono
(dice una voce)
presero la bambina, la pagarono
e la portarono in Perù a Chicago.
Io non ho scambiato
(dice una voce)
mia figlia con una lambretta.
Sono figli a te, dice un’altra voce,
tu fa’ quello che vuoi e fallo in fretta.
Racconta: mi sono presentato
dicendo che volevo acquistare un bambino.
Mi sono messo in contatto
con un mediatore
il quale mi ha chiesto
se la ragazza doveva partorire
in casa mia.
Veniva dieci giorni prima poi andava via.
Un maschio di un mese
(è un’altra voce)
quanto costa? due o tre milioni.
Aspettano anche sei mesi
di registrare un bambino
fino a che se lo vendono.
V.
Gli anni passano, gli anni non passano mai.
Non disperatevi.
Non ritornate alle vostre case.
Non dimenticatevi.
Guardatevi negli occhi
stringetevi le mani
ascoltate il cuore.
Spezziamo il pane in compagnia
i piedi contro un muro.
Parliamo di oggi, di domani con la forza del caso
mentre battono i tamburi di latta
(sono tamburi di sangue)
un suono duro.
Se la parola per molti è indecifrabile
meglio con uno straccio trovato per terra
fare qualche segno essenziale
perché i tempi sono i boschi neri di Brecht,
sono tempi di guerra.
Cinquantottesima descrizione in atto
(Per il libro di Santo Calì)
I.
Questo libro trabocca da
ogni parte come un otre da cui secondo i
segni della leggenda può sgorgare
il vento di una tempesta
e io io io non posso (ancora) parlare di questo libro
– libro casa, libro strada, libro fiume –
non posso (ancora) parlare della Sicilia.
Non posso perché l’uomo, perché la Sicilia mi fa paura.
È un rombo che rotola
sembra il sole scalcinato
a picco da un cielo.
Pronto a cadere pronto a esplodere pronto a crepare.
Posso sbagliare ma chiedo pazienza. Quassù c’è nebbia,
l’aria (mezz’acqua e mezzo fiato di calce) sale
tozza dura; le sue slabbrate sul ghiaccio lasciano il segno.
Questa terra ascolta il tonfo del Po
mentre telefono per scusarmi e una
voce di donna dice Calì è in giardino.
Una rivelazione o soltanto un momento.
Voglio dire che lì in Sicilia
la mandorla del dolore matura.
Quante cose abbiamo imparato in questi
anni e quante
cose ci avete insegnato (amici siciliani)
quante cose farete nel tempo che è scatenato a venire
quante cose insegnerete ancora amici di Sicilia.
Non dentro a un vaso d’argilla
conservate l’olio per il vostro pesce.
Non è lavata e stirata a bucato
la vela della barca che pesca.
Non tornano con scarpe e chiodi i ricordi che profumano di
limoni
né le nenie di un presente che…
Una dietro l’altra con un suono di verità
da pagina a pagina le parole gridano.
II.
Ebbene.
LA PACE (trecce corvine) picciotta sblènnita
L’ULIVO che muore
OGGI PER UN CRISTO MORTO s’alzano bandiere di
poveri cristi che non
si rassegnano e offendono Vostra signoria bacio le mani
OGNI BANNERA NA VILLA DI SANGU
AFRICA GERBA (acerba).
Ebbene.
A chi e a che cosa serve un libro di poesia oggi
A CHI E A CHE COSA?
Libro casa libro fiume libro frumento
libro ferro da campo
libro vento libro canzone
libro mazza ferrata libro fucile.
Voce di balera, danza di nozze, voce di sangue, pianto. E
anche can-
zone di gesta perché un nemico ucciso
lì steso disteso aperto nella pianura
(il suo cavallo pascola vicino).
Libro sorso di vino
libro fumo suono di corno; libro che può
ferire può ferire può ferire, può tutto
con la voce che odora di tabacco di fame di dolore
vecchio come è vecchio l’uomo.
Ma un dolore che deve finire.
III.
Quando i contadini sparano i passeri volano.
La poesia è sottoscrizione di un ultimatum.
Ebbene.
Rotola un sasso lungo la pendice del vulcano.
È lava, soffia, il serpente di fuoco.
Leggere il libro di Calì riga per riga.
A CHI E A CHE COSA SERVE?
Guarda la tua vita di notte
dentro a una stalla nella
cuccetta dell’autotreno davanti a una tenda;
o quando il caucciù del potere cala di striscio sopra la tua
spalla;
quando…
Voltare pagina non tacere.
Voltare pagina leggere fino a domani.
Mentre gridiamo un minuto di silenzio per
BONANNO IN SICILIA
GALANSKOV A POTMA
I RAGAZZI ALLE MURATE DI FIRENZE.
Cani con la scabbia vigilano.
Le onde dell’oceano, i rulli del tamburo, le schiene dei
vecchi.
Non si può tacere pena la morte.
Sessantesima descrizione in atto
(Semplice appunto sul poeta Mucci scritto col cuore)
I.
Ho girato molto, intorno a questo argomento.
Mucci non l’ho mai conosciuto.
Ho girato come un cavallo da monta su e giù per prati
lungo steccati di legno spezzati macerati
mentre le ruspe scavano scavano la campagna nel fondo
e la città è vicina, col suo mondo di fuochi.
Sentire odore di città vuoi dire benzina accesa
dentro i pensieri
così anch’io brucio un poco buttato dentro
que-
sta pianura / una pianura che puzza di vec-
chia campagna / e ha il mare lontano.
Benzina accesa dentro tutti i pensieri.
Si fa presto a contare a ricontare i morti poeti di ieri
alcuni già monumenti in piccoli cimiteri
altri nei parchi pubblici dove siedono senza giuochi i
ragazzini
oppure alloggiati dentro gli scaffali
con ali strette in ordine alfabetico
rassegnati ad aspettare.
Infine si devono per esattezza ricordare anche i professori
quelli bravissimi che
sdipanando una lunga tela di segni
scrivono su ogni risvolto del mondo e sono le voci ufficiali.
Scrivono sul cuore, sugli occhi della gente. Essi solo
accecati.
La pagina è indecifrabile
come la lingua morta degli hittiti.
Meglio parlarsi con uno straccio trovato per terra.
Farsi qualche segno essenziale.
II.
Ho girato molto, intorno a questo argomento.
Ho girato come il furore degli anni
gli anni passano gli anni non passano mai,
gli anni costringono a restare giovani e sani restare
oppure costringono a diventare vecchi, vecchi cadenti e ad
amare
ore passate perché oggi dobbiamo morire.
Ma la morte non è stanchezza
non è nemmeno regalo
la morte è morte, la morte è morte di vita
la morte è la vita che non riusciamo a dire e fare in una
giorna-
ta finita.
Sono a pag. 116 di Mucci e leggo
un nuovo giorno è da fare
mentre le crepe di un lungo terremoto
segnano le facce di tutti e segnano
le case, scivolano per i marciapiedi e per lo spartitraffico
dell’autostrada.
Ad esempio, anch’io devo reggere oggi luglio del ’74
la mia porta sulle spalle ma se chiedo aiuto
ricevo l’aiuto.
Bene, sono a pag. 227 e leggo: capita che qualcuno di noi
non si ritrovi un cuore facile.
Oggi spezzo un pane di Pavullo in poca compagnia
in piedi contro un muro
intanto parliamo di oggi e domani con tutta la forza del
caso.
Ma non riscaldiamo la memoria della storia,
così ufficiale, così scarsamente produttiva, così facile
da consumarsi e alla fine così vile.
Non vogliamo saperle le date delle battaglie
l’ordine della fanteria la misura dei colpi
il nome dei vinti il nome dei vincitori
i generali in groppa o quelli sbalzati per strada.
Non servono più.
Non serve sfoggiare le edizioni dei grandi poeti
nelle sale delle biblioteche italiane
o dentro le edizioni economiche
cercare l’erba e le foglie che crescono in rima.
Leggo a pag. 222: i più vecchi tra noi hanno strani ricordi.
Coperti da onesta vergogna per i nostri errori
sporchi di terriccio e polvere
non è giusto che ci togliamo il sudore dalla faccia
con l’acqua del fiume Melisso.
Il sole cuoce. L’asfalto bolle. Poche auto. Verde polizia.
La città puzza di benzina. La città sta per bruciare.
III.
Ho girato molto intorno a questo argomento.
Leggo a pag. 223: il futuro è a portata di mano.
L’insofferenza, la diffidenza, la vergogna
ciò che è sorpassato e superato
come le nostre scarpe la maglia che indossiamo
l’andare su e giù delle nostre giornate
trovarsi a cinquant’anni con questi segni nella mano.
da decifrare. Io lo sento compagno.
Leggo a pag. 226:
ma quali anni abbiamo dovuto battere
e che pensieri torcere nei nostri
crani terrosi.
Ho girato molto intorno a questo argomento.
Mai ha avuto una maschera sulla faccia.
Ha patito soltanto per sé ma
onestamente l’ha sottoscritto. L’ha detto.
Ha patito come patisce un uomo: anche cattivo.
Con la vita non ha mai giocato ma l’ha servita.
Lo sento compagno.
Ha vissuto da uomo e come un uomo è stato ferito
ha imparato
ha inchiodato una porta è partito
è tornato non per chiedere ma per regalare.
Non per concludere ma per cominciare.
Non preservava niente.
Buttato fra la gente solo per farsi amare.
Non l’ho mai conosciuto.
Anche lui ha insegnato
che vivere non è concludere ma incominciare.
Sessantunesima descrizione in atto
(Prima modesta pagina)
II.
Caro Roversi tu avresti dovuto…
Vecchi amici e vecchi per sempre.
I morti erano morti e per sempre
i vecchi della famiglia (da contare sulle dita).
Prometteva il futuro? Altre cose oltre il poema al CHE?
Gli anni sono passati sul cuore come un aratro
rovesciando in salita rovesciando in discesa
la torba per un fuoco
su giù per pianura collina
la punta scolpiva ferendo gemendo versando straziando e
traboccava la polvere
balzano rotti antichi relitti
l’erba si scuoia.
Pochi sono rimasti sulla spiaggia
pochi restano a guardare le navi fuggire.
Per parlare bisogna avere autorità
altrimenti neppure a bassa voce (come è il caso)
si può dire che non si può vivere per niente
né che per niente è dato morire.
Aizzare i cani,
non si può accettare di arrivare strisciando al capolinea.
Quattro falegnami
due facchini
due garzoni
un gobbo un calzolaio
un liquorista tipografo e
un lattaio
un cappellaio
anche due maestri ma questi per errore.
Impiccati con italica solerzia
perché sovversivi perché poveri barabba
appesi là al lampione
come il giallo limone a un angolo del muro.
Non ombre ma corpi giovani
coperti dalle voci d’allora
dalle voci recenti
da nuove parole e da nuove invettive.
Gli specchi, tutti gli specchi tacevano.
I bambini, tutti i bambini guardavano.
III.
Gazzettieri austeri immorali
falsificavano la verità;
adattavano le viole
per il risveglio del padrone.
Un termine della vita senza tristezza.
Nessuna pietà per la penna che imbianca nella vergogna.
Nel sessantotto le strade erano piene
di giovani che si battevano.
Era troppo presto?
Con la pagnotta in mano, soldato,
hai forza fino a domani?
La crescita dell’erba, l’uragano del vapore.
Non ascoltare non ascoltare non ascoltare.
Ma ascoltare ascoltare ascoltare.
Ti prego non cedere non dirottare, la strada è lì.
Gli uomini del potere si riconoscono uno per uno
la faccia del potere la sua erba la sua lana la sua coda di
volpe.
Niente è consumato.
Oggi non è un altro giorno.
Stringi qualcosa.
La libertà è difficile.
*****
Il Libro Paradiso
Undici poesie degli anni ’70-’80
Nel 1993, per cura di Antonio Motta, Il Libro Paradiso esce presso Lacaita in edizione numerata (accompagnata da un’incisione di Piero Guccione: Un ibisco per Roversi). Questa la nota dell’autore che chiudeva il volume:
Qua, alcuni testi via via radunati fra quelli ancora inediti o pubblicati in alcune piccole riviste o su alcuni fogli negli anni ’70 e ’80. Molti da collegarsi a occasioni sconvolgenti o coinvolgenti del nostro tempo (o di quei tempi); almeno per l’autore. Quindi c’è varietà di umori. Mancano le note, anche se alcune aiuterebbero. Ne indico una, per Il Libro Paradiso e le Cento poesie: il momento di grande e improvvisa violenza politica a Bologna, nei primi giorni del marzo ’77.
Il Libro Paradiso
1. La creta, la selenite e l’arenaria.
Di qui nasce il colore di Bologna.
Nei tramonti brucia torri e aria.
22. A che punto è la città?
La città è lì in piedi che ascolta.
Io non dico il privato è politico.
Dico anche il privato è politico.
24. A che punto è la città?
La città si nasconde le mani.
I democristiani non governano l’Italia
ma la gestiscono.
In trent’anni l’hanno succhiata leccata masticata
peggio dei Visigoti
e di Attila che correva a cavallo.
Al confronto Attila è una farfalla dai novanta colori.
Questi hanno facce di pesci-tonno, pesci-guerra, pesci-fuoco.
27. A che punto è la città?
La città legge la sua pergamena.
Un giorno gli schiavi sono vestiti di bianco.
Quel giorno l’impero di Roma è condannato.
Quando gli uomini si contano
un momento di storia è cominciato.
31. A che punto è la città?
La città tace perché non è più primavera.
La verità è il massacro.
Il massacro è la realtà.
Mille creature tagliano l’acqua con il coltello affilato
per guardare il sangue del mare.
33. Oggi è già domani.
Sono in molti a parlare dell’uomo che cammina col
suo passo di polvere e con la pazienza di un frate
per raccogliere cipolle e inoltre per salire sull’albero
delle ciliege.
Da lì si guarda il mondo.
Ma il mondo è rovesciato.
34. Dentro a questo mondo-mercato
è urgente decidere
di vivere non di morire.
Prendere e non lasciare.
Non servire.
Ogni parola è stata consumata.
73. La tua sorte è legata alla mia.
Le azioni non giustificano se stesse.
Ogni azione
una per una
per passare nella cruna dell’ago
ha bisogno di motivazione.
Ogni atto è morale o non è.
Non lascia margine a un gioco.
Cento volte si deve cercare la pietra
giusta per accendere il fuoco.
75. A che punto è la città?
La città in un angolo singhiozza.
Improvvisamente da via Saragozza
le autoblindo entrano a Bologna.
C’è un ragazzo sul marmo, giustiziato.
76. A che punto è la città?
La città si ferisce
camminando
sopra i cristalli di cento vetrine.
77. A che punto è la città?
La città piange e fa pena.
Poi elicotteri in aria
perché le vetrine son rotte
Le vecchiette allibite
perché le vetrine son rotte
Commendatori adirati
perché le vetrine son rotte
I tramvieri incazzati
perché le vetrine son rotte
Tutte le strade deserte
perché le vetrine son rotte
Carabinieri schierati
perché le vetrine son rotte
Sessantamila studenti
perché le vetrine son rotte
Massacrati di botte
perché le vetrine son rotte.
79. A che punto è la città?
La città si scuote come un cane.
Il ragazzo ucciso è seppellito
con il rito formale.
Segue la pace ufficiale
con i poliziotti ai cantoni.
In galera centottanta capelloni.
Grida la gente: lazzaroni
studiate
invece di far barricate
per mandare in malora una città.
Non si trascina alla gogna
la città di Bologna.
Chi è studente va con la ragazza
non in piazza a farsi ammazzare.
90. A che punto è la città?
La città è confusa, ha un momento
di tremenda agitazione.
Il suo dolore butta morchia e fuoco.
La città va avanti a muso duro
e alza le parole come un muro.
97. A che punto è la città?
La città ansima e ascolta
il suono di un chiodo che ferisce
strisciando sul vetro di marzo
e così dice:
98. Era un ragazzo venuto dal niente.
ucciso per strada.
colpito alla fronte.
era un ragazzo venuto da niente.
gridava la gente.
scappava sul ponte.
era un ragazzo, le ore del cuore
le passava sui libri
a mangiare il furore.
una mano di sangue strisciando sul muro
picchiò con la rabbia
un colpo sicuro.
la gente piangeva, era freddo cemento
l’asfalto disteso
e lui moriva nel vento.
bandiera stracciata. un mese è passato.
La terra è fiorita
sul suo corpo straziato.
107. A che punto è la citta?
La città apre le porte e cammina per strada.
108. Cosa dice la città?
Dice che nell’inverno del ’76/’77 non ci fu neve.
Dice che in marzo è ancora inverno.
Dice che adesso è aprile.
Dice che ogni giorno aspettiamo qualcosa.
Dice: Eco? Umberto? sarà il nuovo rettore?
110. A che punto è la città?
La città riacquista i suoi colori.
Ma noi per eterni languori all’italiana vediamo
ripetersi la scena che accompagnò all’inizio degli
anni Sessanta la gimkana del centrosinistra, quando
un partito fu dato in pasto ai leoni che lo spolparono.
Il gestore del pranzo di gala, furbetto
e sciapo quasi a chiedere scusa, fu l’on. Moro.
Oggi col suo occhio sbiascicato
eccolo riapparire
con il mandato e la giustificazione
di masticare la nuova polpetta
in un solo boccone.
Ma senza fretta senza fretta senza fretta.
113. Cosa grida la città?
La città dice che l’età dei guerrieri è finita.
Dice che ieri è cominciato il tempo
degli uomini-rana, degli uomini-gabbia,
degli uomini-lamento.
114. Ma che non si può finire
col non dire più niente.
Se si tace, il silenzio è la morte.
E nella notte resta solo voce di vento.
125. Dice che
la violenza è stupida e imperfetta.
La violenza è un luogo comune.
La violenza è vecchia e senza fantasia.
La violenza è inutile e malada.
Dice che
la libertà è difficile
e non è lì che aspetta.
La libertà fa soffrire.
La libertà spesso fa morire.
La libertà ha tre segni semplici e terribili:
vuole la mano
vuole il cuore
vuole la pazienza.
Conoscere non vuol dire distruggere
e poi amare la cosa distrutta.
Amare ciò che si è distrutto
non vuol dire lottare perché
una nuova verità sia avviata.
Un ultimo dubbio è la più
urgente delle necessità
ed è conoscenza vera.
Chi è sul carro o su un carro
deve buttarsi a terra e correre correre lontano
quando il traguardo è a portata di mano
e il carro è vincitore.
Non offrirti così non sarai comperato.
Questo non è un tempo orribile.
È un tempo nuovo.
Non è un tempo impossibile.
È un tempo che non perdona ma in cui ogni sera
si aspetta una notizia vera
da Maratona.
1977
Cento poesie
Il socialismo non c’era ancora.
Bisognava scrivere molto.
Šklovskij in Majakovskij
1. Carmelina, come se miett’ u’ tiempe?
Lu tiempe se mitte male,
tira u’ viente.
2. A Bologna sulla piazza Maggiore
attraccano le petroliere.
Questa è un’epoca storta.
Le petroliere lavano le cisterne
e buttano fuori morchia.
3. Ma io a Bologna da che parte stavo?
E tu in Italia da che parte stavi?
Lui nel mondo da che parte stava?
Il fuoco di marzo si è spento e seccato?
Il vento d’aprile l’ha tutto lavato?
Anzi, non c’è più prato?
Quest’anno, è un dato,
le api non hanno lavorato.
Il miele d’acacia costa quanto l’oro.
4. Noi faremo fatica a invecchiare.
Oggi vogliono
il consenso generalizzato.
C’è poco da scherzare. Ma io so
che non lo posso dare.
5. Solitudine italiana terribile
Violenza triste non fa primavera.
Violenza/solitudine è una sera
spaccata col coltello
anzi è cuore di vitello
sul piatto del beccaio.
Non lasciamoci sopraffare.
Approfondire e cercare.
Non sbalordire sui sintomi,
concludere. Fare senza gli specchi.
Non voler sbalordire.
Approfondire, cercare.
38. A discorso con breve discorso.
A poesia con una poesia.
A un morso con un morso.
La tendenza degli stati moderni
è di fare colpa
d’ogni opinione globale.
Resisti. Il male chiama
straordinaria pazienza.
Resisti. Non perderti.
Non perderti. Resisti.
Domani. Domani. Intanto
conta fino a cento. È spento
il televisore.
41. È allora un paese che fa pena?
Un paese corrotto?
Un paese scollato?
È il paese di Bengodi?
Un paese disastrato?
Trattato al difenile?
Con uomini/donne che sono gatti nel cortile?
Sofisticano anche il pane?
È un paese con la scabbia?
È la schiena di un cane?
42. Il fondamento è l’uomo.
Con le sue nebbie e con i suoi inverni.
Il fondamento è la rabbia buona dell’uomo
un tuono che promette
pioggia d’estate.
La nostra vita sembra
un fiammifero che non s’accende?
Fra mille anni sapremo
la libertà cos’è.
Per ora aspettare
i grandi pesci che approdano carichi di uova.
L’acqua nel mese d’aprile è tutta gialla.
44. Galantuomini in Lebole
che sgovernate l’Itaglia.
Ma io a Bologna da che parte stavo?
Culi secchi maledetti.
Maledetti tre volte.
Che vi vengano le doglie.
Ma io a Bologna da che parte stavo?
Culi secchi. Le cicogne
bianche esili e carogne
prossime a scomparire
possano beccarvi le orecchie
che avete chiuse e strette
per non udire.
Io a Bologna stavo
non dalla parte del vento e del fuoco
ma all’ombra di un dolore.
52. La questione non è
se si debba dare o non dare a quei signori
nuovo potere
ma se si debba insistere
affinché sia tolto a loro quel potere
che hanno già.
Tutto il potere e per sempre.
76. Un sano accompagna un pazzo a una
visita nella clinica. Lì il savio
trova ammalata di mente un suo vecchio
amore e il pazzo trova sana e vitale
un suo vecchio amore. Alla sera quando
escono e la giornata nonché la visita
sono finite il pazzo è rinsavito e
il sano è impazzito.
Io ho cento anni
e sono nato ieri.
82. La politica è fare?
La cultura è pensare
o è giustificare?
La cultura è fare
una per una e tutte
tutte le cose pensate.
83. Ricordo la morte
di venticinquemila gabbiani
dentro al petrolio nel mare del nord.
Ricordo la morte
di due giovani assassinati
nella periferia di Milano.
Ricordo la pazienza e l’amore
di centomila persone
che li seguono piangendo.
Tutto scompare sempre troppo in fretta.
La nostra vita/saetta
cade spesso in un campo di cenere.
84. Risposte risposte risposte.
Non sbalordire sui sintomi.
Concludere.
Dare mille risposte.
Il tuo dolore è il mio dolore
non il mio piacere.
Io non ti invidio.
Ti amo.
Non perderti. Domani…
85. Parliamo
di questa guerra per bande che è la poesia.
La poesia è una mela?
Si legge per dispetto?
Si ascolta come il temporale cupo
del telegiornale?
È una partita d’arance andata a male?
È un suono secco un suono duro?
Una mano al catrame contro il muro?
È l’ombra di una cosa
ed è la cosa
è la voce e il cuore della cosa
ed è per sempre il suo futuro.
90. È inutile chiedere “resta”
se qualcuno vuole partire. Il
branco di oche che sembrava migrato
è lì fermo nel cielo che aspetta
dentro a un vento gelato.
Scoppia la luce
mentre noi lo guardiamo.
Certo sarà annientato
perché il tempo di partire è già passato.
92. Vivere è pazienza del mare.
Vivere è la pazienza del leone
che aspetta sotto il sole.
Se grande è il dolore del mondo
dobbiamo vivere dentro a questo dolore.
Per un po’ decido ancora
di sorvegliare i fatti e di aspettare
non per sempre
ma per quel tanto di tempo
necessario.
Togliere un altro foglio al calendario.
94. A Bologna da che parte stavo?
Essere liberi di decidere
liberi di realizzare
liberi di lavorare
liberi di sbagliare
liberi di ricominciare.
La libertà vuol dire
essere almeno una volta felici.
Non stavo dalla parte del lupo
ma dell’agnello.
98. E ho cercato di mangiare il pane
con quanti vivono nella disperazione
e sono i più miseri e straziati. O i
più offesi.
E ho cercato di accompagnare ancora una volta il vicino
e il lontano mentre taglio la gola
al lamento (inutile) e all’ombra
della vita che cade
sulle spalle. Dato che cammino
verso la morte.
Spezzare sotto i piedi la rabbia in cui
ognuno deve specchiarsi.
99. L’intellettuale monopolistico
(che ha tanti tanti lettori)
dà la sensazione che poca gente
lavori sulla testa di tutti.
100. Io a Bologna da che parte stavo?
Un giovane morto regalava
la sua libertà agli altri.
La città piangeva.
Oggi piange l’Itaglia.
Il campo delle patate è stato saccheggiato
da mille talpe.
Nei musei gelidi il vento di favonio
copre di neve le mani delle madonne.
Nei palazzi antichi
corrono fantasmi impazziti
perché suonerà mezzanotte. Dopo
nessuno può contare le ore.
Piange l’Itaglia
mandria di bufale abbandonate
nella terra che non dà fiori.
Qua sei qua stai.
Qua lotti, non ti fermi.
Nostri sono gli anni che vengono.
1978
Trenta poesie
1. Ero molto deluso quel giorno e
mi bruciavo sul ferro.
2. Cummings che dice io porto il tuo cuore nel mio cuore.
3. Miles Davis alcuni anni fa in un palazzetto dello sport.
4. Nelle case allineate
i televisori sono accesi
le luci abbassate
le cucine riordinate
le persone congelate
con il braccio sul tavolo a guardare.
L’aria livida da cimitero.
Una luce fra il bianco e il nero.
5. Jim Morrison chiede prima di morire cosa hanno fatto
[alla terra? Voglio udire l’urlo della farfalla.
6. Non aveva egli pazienza.
Così ha scritto sull’ardesia
[pietra che brucia]
codesta frase giacobina:
la libertà si consuma
mentre la ditt. cammina. E
procede. Così come procede la vita…
erto questa poesia è incompiuta.
La finirò domattina.
7. I pensieri di alcuni bambini.
8. Il racconto di Alcide Cervi quando comincia a dire:
[Questi sono dolori grandi, che offendono la vita.
9. L’ultima orazione di Castro sul Che.
10. Incollare la pagina tagliare le pagine. Spegnere il lume,
[abbassarlo. La notte può essere inverno. Seduto
davanti alla porta vedo sgozzare il maiale.
11. La pioggia taglia le mani e i capelli
io io io…
12. Poiché non c’è l’occasione per un solo grande dolore
assumo mille rimedi e medico le ferite della speranza.
Lascio cadere i miei occhi sulla brace
e mi confronto con la spada del mondo.
12. Un manovale che si è impiccato in carcere viene
[seppellito per pubblica carità.
13. Con mio padre non parlavo mai tranne qualche sera
[quando tornavamo tutti e due dalla città.
14. Le parole dei poveri
nascere e camminare.
Il riso di un padrone chiude con violenza una porta.
15. Non dico le parole che amo dico solo le
parole che ricordo.
Un altro farà una strada più breve noi
dobbiamo andare in salita.
16. Le ultime poesie di Hölderlin Scardanelli: lo spìrito di
[Dedalo e della foresta è il tuo.
17. La ruota del mulino
la ruota del suo mulino
il falegname la pialla l’acqua scorrente del fiume la
voce del mugnaio che batte il grembiule e chiama le anatre.
La colorazione della pianura è un giallo fradicio
un rosso gridato che
talvolta si perde nel verde nel nero vacuo nero grigio nero
[nero
nero sapiente e
prelude (non posso fare a meno di pensare che preluda)
[alla notte.
18. Il futuro si apre ogni giorno e brucia la mano.
19. Parto da zero.
Le chiatte brulicano di luci mentre sul fiume adesso è
[caduto l’inverno. Dove prima ottobre
staccava i rami con un sorriso e l’io errante di me
poteva lasciare orme non labili contrassegnando il percorso
occhi di cervo abbandonati sulla riva
guardano le voci di un altoparlante davanti al bar.
Qui ci sta un soldato che non ha meta e ride.
La forza taumaturgica delle maschere è grande se appena
dieci minuti fa ho visto Colombina passare in un treno
[per Basel.
20. Così un racconto ho cominciato qua con tre orsi (che
[ballano) di pelle nera
ballano vicino a un fuoco circonflesso da una luce rotta e
[lasciano impronte lasciano sulla neve orme di
sangue
i bevitori d’acqua i bevitori di lacrime i bevitori di parole.
21. La prima parte si riferisce a un sentimento appena
accennato di disperazione e preannuncia qualcosa.
È come guardare un gatto negli occhi.
Nella seconda parte un uomo scocca i suoi dardi senza
pensare al futuro che è troppo vicino e senza pensare
al passato che è troppo lontano. Così.
Stretto fra i due muri di ieri e di oggi
l’uomo quest’uomo partecipa alla guerra dei mondi. È
[l’alba.
Il sonno di ognuno è spazzato via.
La pianura dalla città al mare si copre di polvere. I
cavalli fumano sciabolano l’aria volano.
Oh la tranquilla ironia degli angeli nudi
che prendono il caffè
seduti sulle nuvole e si preparano allo spettacolo.
Due motociclette su un filo di
acciaio disteso salgono fin lassù portando notizie dalla terra.
22. Ma in generale il racconto è il racconto delle ceneri di
[un uomo
portate da una città all’altra della pianura padana.
23. (segue)
24. Mandel’štam, Pil’njak, Oleša, Babel’ e la signora Cvetaeva
guardano in silenzio camminano per la pianura
si avvicinano ascoltano parlano.
Raccolgono la neve
25. La Polonia non è lontana è vicina.
Guarda attraverso i vetri.
Aspetta.
26. Due capre si dissanguano
dentro l’ombra degli elicotteri.
Siamo ormai nel duemila.
Non soffocherete più gli uomini, signori del fuoco!
Spartire le cose pescate è un atto di giustizia.
27. In questo stupendo intrico del vivere
c’è troppa tempesta poco tempo nessuna soddisfazione
mentre aggiungono che la bellezza è andata perduta
e io confesso che sono stato felice in qualche momento.
Le macchine volanti piegano gli alberi segnati da una
[vecchia
tempesta
escono fra le foglie uomini di rame
e un ragazzo albino siede davanti alle pietre
accecato dalla luce.
28. Vivere ascoltare imparare
navigare su un fiume
partire partecipare ritornare
con sette cuori diversi.
29. Il potere è ancora potere soltanto.
La verità è difficile.
30. Allora anche voi
passate transitate transite
ma non disperdetevi.
Cercate ancora.
[Ripeto: accade più in un’ora che in cento anni].
1980
Poesia su alcune rovine della guerra, sulla
immaginazione che non si quieta, su una mano monca,
su un pianista di Danzica
Il testo è diviso in tre eccessi, così:
il primo fa riferimento a un incendio nel cielo di
Mosca al tempo, in un tempo… ’o tiempe de’ gnà Ava:
il secondo si riferisce allo sgomento che afferra alla gola
qualcuno quando scende la sera fra le rovine di una città
[assediata
e il bombardamento continua interrotto da ore;
il terzo eccesso voglio ripeterlo con queste parole: rifletti
con severità prima di scrivere la lettera d’addio
perché la parola scritta
può far pentire.
La parola scritta non si muove è lì e l’occhio ricorda. Lei lì rimane
MA IN QUEI GIORNI.
Ma in quei giorni anzi in quegli anni anzi in quel secolo là
dove si sperdeva la vita che avevo vissuto. In quei giorni
l’immaginazione era in movimento. Tremenda. Instabile. Per
esempio.
Per esempio vedeva il soldato stracciato fra cento rovine
suonare suonare in strada un brano leggero di Mozart
lì vicino un giovane bianco come la neve di
Carrara urlava pregava di essere ucciso per carità.
La vita era una arancia spaccata per terra.
Ma Mozart volava più alto di ogni pietà. È universale, Mozart.
Mozart non si fa intenerire. Lui suona in mezzo allo
[scempio del mondo.
Per esempio il soldato sogna quanto sarebbe stato migliore
se nato in tempi diversi o sotto un’altra bandiera
mentre scrive sulla sabbia queste parole: la sera tarda a
[calare.
Intanto
SUONA CON LA MANO MONCA IL PIANISTA DI DANZICA
AQUILONI NERI ROSSI CADONO FRA LE PIETRE DELLA CITTÀ
BRUCIANO GLI OCCHI DI UN VECCHIO DISTESO NELLA
[PAGINA BAGNATA.
Sogno di sottoscrivere le seguenti parole:
non sappiamo corrispondere alla necessità dei giorni
che si alternano ma neanche possono ammonirci
nelle giornate d’inverno vi abbiamo cercato senza trovarvi
MAI
……………………………………………………………
Non so non ricordo se alla tivù alla radio al radiotelefono
[per fax
o in qualche giornale ho visto ho sentito l’uomo braccato
inseguito fuggire e l’uomo ferito straziato
nel viale di notte col fiato che cade per terra
NON SO SE POSSO ANCORA CHIAMARLO AMICO FRATELLO se
immedesimato in questo circo di vecchie parole
ho diritto alla mutua del cuore, all’adeguamento della
[pensione
per il pensiero o sono un operaio anch’io in cassa
[integrazione in
attesa di tempi migliori
PERCHÉ ALLA MIA ETÀ SE SONO CACCIATO NON TROVO
[LAVORO.
Scacciato dall’albergo delle muse discrete, delle tiepide
[muse,
non trovo altra casa se non al cinema Alfa
la sera in cui danno un film di Herzog che fa delirare.
ma per rifarmi alla considerazione iniziale:
quando immagino qualcosa, in realtà
penso a un viaggio. Di partire non di morire.
Dicono che è segno di animo inquieto dovuto all’età.
Arrivo in Italia da dove:
negli anni Cinquanta la mafia contro lo Stato
negli anni Settanta la mafia nello Stato
negli anni Novanta la mafia è lo Stato.
È bravo chi in questa stagione può sedere al caffè.
1980
Sullo smarrimento, sul ritrovamento e sulla giusta
conservazione degli oggetti del cuore o della memoria
1. Molte annotazioni si rendono necessarie nei tempi
[attuali.
Come compagni di questo viaggio in carrozza da Milano a
Ginevra oltrepassando il Gottardo nel periodo delle nevi
il sottoscritto (il sottoscritto) ha la fortuna (ha la fortuna)
di indicare i nomi seguenti:
SUOR INÉS DE LA CRUZ (Rosa che al Prado, encarnada
te ostentas presuntuosa
de grana y carmin bañada
Rosa che sul prato
con il colore fresco della carne
svetti senza alcuna modestia
bagnata di grana e carminio)
HEBBEL (FRIEDRICH HEBBEL) La vita è risvegliarsi
FRIEDRICH HÖLDERLIN, con riferimento alla morte di
[Empedocle
Pausania risponde a Panthea:
Si è congedato e da quel momento
non l’ho più visto.
Là, sulla montagna, ho chiamato,
ho gridato
ma inutilmente.
Certo ritornerà.
Certo ritornerà.
Perché la vita è risvegliarsi… Rosa che sul prato…
Non da un lungo sonno… Rosa con il colore rosa…
Non da un sonno breve che
dalla notte porta viaggiando (al mattino).
O nelle ore notturne
approfittando del silenzio del mondo
consente di riordinare gli oggetti nella stanza del cuore
[appartata.
Cogliere le occasioni, ritenere
che niente è superfluo, niente deve essere buttato.
GLI OGGETTI DELLA MEMORIA SI DISPONGONO COME LUCI IN
UN MARE PROFONDO. Sfioro con la mano
l’acqua ricordando il pianto senza futuro dei compagni
di Ulisse.
2. Un assassino che si fa svegliare…
Sull’acqua del fiume lucido come il tempio azteco
frantumato dalle nevi…
sull’acqua disteso
passa veloce… disteso sulla neve dell’acqua
il corpo di un uomo giovane trapassato da una
freccia d’oro sul fianco…
Un assassino che si fa svegliare
dall’uomo che vuole assassinare.
Avevo deciso di ucciderlo alle sei
lui si svegliava alle sei ogni giorno
io dormivo lungamente fino a mezzogiorno
DUNQUE LO PREGAI DI SVEGLIARMI
frantumato dalle nevi sull’acqua disteso
lucido tempio azteco trapassato da una freccia nel cuore
un assassino con la maschera d’oro splende nel sole
profondamente pallido che si nega ai veli della sera…
il corpo giovane sfocerà nel mare
IO DORMIVO LUNGAMENTE FINO A MEZZOGIORNO
in quel momento conobbi la volontà di trafiggere
con un colpo d’oro la grande vita del sole
LUI CHE SI CONSUMA ADAGIO ADAGIO PRIMA DEL TRAMONTO
dal più profondo dell’anima
3. Arrivati a Genova
dopo un viaggio fortunoso dentro la tormenta delle Alpi
suor Inés de la Cruz scende al braccio
di Hölderlin che domani dovrà risalire il Neckar
EL DISCURSO ES UN ACERO
QUE SIRVE POR AMBOS CABOS
il discorso è come una spada
affilata da entrambe le parti
PARLARE
DUNQUE
PUÒ
FARE
ANCHE
MORIRE
Hölderlin si inchina
Hebbel è già lontano (HA DETTO: CERTO CHE SAPREI
[ARRIVARE ALLA VERITÀ
SE ALMENO AVESSI IL TEMPO DI SBAGLIARE. DI SBAGLIARE).
La poesia è una cosa…
I diari di Hitler (che sono falsi)
la risposta del generale argentino (autentica)
il bambino (orfano di genitori assassinati) che sorride
[dalla pagina
di un giornale perché l’hanno venduto a una famiglia
[italiana e adesso
lo cercano ma non lo possono più trovare
QUANDO ANCH’IO ERO GIOVANE
MOLTO GIOVANE
TROPPO GIOVANE
AHI!
MIA MADRE COI SUOI LUNGHI VESTITI
I SUOI LUNGHI CAPELLI…
Oggi andrò
(essendo un maggio di buona lena e di cielo onesto)
al mare.
Mi sveglierò presto.
Andrò al mare
per non lasciarmi sgomentare
dalle cattive notizie.
OGGI NON LEGGERÒ I GIORNALI
SEMPRE PIENI DI MALI DISGRAZIE MISERIE
Con i piedi fra la sabbia guarderò le formiche
un pezzo di legno sull’onda
lenta
gioconda
profonda
del mare
ascolterò il vento
SULL’ACQUA DEL MARE HA UN SUONO STRAORDINARIO
QUANDO ARRIVA CON UN PICCOLO GRIDO SULLA RIVA
[DEL MARE
COME UN TRENO RAPIDO D’ARGENTO IN ORARIO A UNA
[STAZIONE SUL MARE.
I DIARI DI HITLER (FALSI MA POTREBBERO ESSERE ANCHE
[VERI)
la risposta del generale argentino (VERA MA NON POTREBBE
[ESSERE FALSA)
il bambino
anch’esso argentino
orfano di genitori ammazzati
sorride dalle pagine di un giornale italiano…
MA OGGI SUL LITORALE (ADRIATICO) ARIA DI FESTA
NEGLI ALBERGHI PIENI SI MANGIA LA MINESTRA DI GAMBERI
FRIGGONO IL PESCE VERDE NEI RISTORANTI
CON LE PALME DAVANTI
Quando ero giovane
molto giovane
troppo giovane
ahi!
mia madre diceva che mi voleva bene
E IO IO NON VEDEVO IL MONDO NEANCHE LO CONOSCEVO
MA ALMENO SONO STATO PER UN ANNO FELICE.
Più felice del bambino argentino
che a causa di un generale
sorride dal giornale
e non ha nome
DATO CHE L’HANNO VENDUTO E COMPERATO
SOTTO BANCO
E HA VIAGGIATO FINO ALL’ITALIA
FRANCO DI SPESE POSTALI.
Autobiografia
Nato con la pioggia d’argento.
Nero d’inchiostro.
Aveva vent’anni nel mese d’agosto.
A settembre chiese le penne
volava insieme ai piccioni neri che si sparano contro i tralicci.
Diventa ape.
Scuote il cuore delle rose
cadute da un carro di saltimbanchi che parlano italiano.
Conosciuto Scardanelli
dimorò alcuni mesi sulle rive del Neckar
dove ragazze di legno
affiorano al tramonto vicino alla riva.
Vecchio all’improvviso.
Ma ancora aspettava
non sapeva cosa.
Non dimenticò ciò che era stato.
Aveva trentatre anni – l’età giusta di Cristo.
Aveva vent’anni – l’età giusta di Cristo.
Eppure…
Dimenticò il passato – fu sola speranza.
Di fronte ai convitati di pietra non tutti gli
specchi erano stati consumati anzi gli specchi
riflettevano episodi appena accaduti che molti
cittadini hanno rimosso. Lacerandosi…
erano ricordi di giovani fucilati
ricordi di giovani travolti da vecchie fatiche da vecchie
autoblindo
dentro al vento delle foreste d’asfalto o singolarmente
perseguitati
adesso che questa città è spampanata e sembra una
quercia in novembre e nessuna voce
nessuna voce
nessuna voce
si alza s’alza più s’alza ancora
a dire che oggi
è ancora ieri.
Nessuna voce nessuna voce nessuna voce.
Volano merli impolverati da una strada del cinquecento a
piazza Maggiore e
di notte un vecchio che ha un nome segreto
col bastone d’abete sotto il portico
dice “bolognesi
siete forse morti dato che siete così ricchi e
d’altra parte vedo che siete così poco felici nonostante il
forziere
per questo mentre il cielo affonda dico bisogna
legare per l’occasione la fune di un nome
americano a un nome
russo a un nome italiano e dico che dietro la musica rock
ci sta il lamento di un lupo che non si è addormentato.
È venuto il tempo degli uomini vili?
Chi muore sparato
o chi vive consumato
è subito dimenticato?”
UNA CONCLUSIONE PERSONALE:
ascoltare il silenzio non è ancora possibile.
Alcune frasi di un uomo che cammina su un ponte
Dove succedono le cose cominciò a nevicare il giorno ventotto
(agosto) gennaio nevica nevica
cominciò un cavaliere armato a sperdersi fra gli alberi delle
foreste e fu divorato dai cani dicono
i cani inselvatichiti cominciarono a urlare mentre cresceva la
luna così pallida sul ghiaccio bianco, oh bianco/ Era il
[mondo
bianco da est a ovest, da nord a sud bianco e con la nebbia si
scioglieva fra le canne dei laghi/ Mi sono
anch’io mi sono perso e trovato, un giorno
ero un sasso mi sono ritrovato piuma ero anche caduto
per terra e mi sono all’improvviso alzato tanto che in
[questi giorni
in cui l’autunno si annuncia con le sue foglie che cadono
[gridando
ho poca voce ma simile a qualcosa in
croce fra terra e cielo mi annido
fra terra e cielo ma non ancora fra le nubi regine della
[luce e
dei venti polverosa sabbia/
Spegnerei col dito il profilo di una montagna contro i vetri
Bob Dylan parla solo a me e
stravolge la bocca
ma è lei che viene lei che cammina scalza sulla neve lei
[scalza sulla neve
anche se in quel tempo mi sarebbe piaciuto ascoltare la
[voce
dei delfini
avendo letto in un libro che sono molto intelligenti
ma abito lontano dal mare/
È lei che arriva alla sera.
Occhi di gatto sugli anni Ottanta a pag. 54: poi andrà a
[sedersi
su una panchina del parco/ Ma lì non succede niente
NIENTE
se non un cadere
se non un cadere
il cadere delle foglie nell’ambito dell’autunno quando è più
dentro alla nebbia gialla/ poi si è seduto su una panchina del
parco/ poi invece di sedersi cammina
NON C’È NIENTE DA RIDERE… DOVE STAI ANDANDO?
il cadere delle foglie nell’ambito dell’autunno nebbioso
[dentro
al silenzio del parco
pensa io siedo su una panchina
guarda calare una nebbia gialla trascinata dal carro del sole
la nebbia guizza è un pesce lungo la riva del lago
il cadere delle foglie
questa presente solitudine
il carro del sole la nebbia
non predispongono ad alcun genere di considerazioni
[particolari
NON INDUCONO AD ALCUN DOLORE/ INFATTI
la foglia cade sulla mano la guarda sorridendo
la guarda con un sorriso
si alza cammina
oppure da altra direzione arriva vicino alla panchina siede/
occorre dire che la solitudine pesa/
pensa lasciami solo/ Ti lascio solo vado ritorno mi telefoni
[dici
volevo sentire la tua voce
sono triste parliamo/
a un figlio puoi stringere la mano
a un giovane dire che il fuoco brucia se vuoi se credi se lo
desideri sta attento
ti preannuncio solo che il fuoco brucia può bruciare/
Occhi di gatto sugli anni Ottanta a pag. 87: nei secoli il
rapporto d’amore è sempre esploso
dentro a una perplessità generale terribile gialla come la
nebbia autunnale CREDO DI SAPERE/ CREDO D’AMARE/
[NON SO SE POTRÒ
CONTINUARE A SAPERE CONTINUARE AD AMARE
non so se potrò continuare la vita/
il rapporto fruscia col rumore delle pagine sfogliate di un
libro
arriva all’ultima riga/
quando arriva alla pagina finale
sarebbe opportuno avere capito bene il senso della scrittura
PER NON AVERE/ COME SI OBIETTA/ RIMPIANTI
Occhi di gatto sugli anni Ottanta a pag. 102: ricominciare
Immagini di repertorio
La cometa di Halley
portò la sabbia del cielo fra le mie
mani così ho ascoltato per la prima volta il tempo
che mi diceva aspetta
ancora tutto non è compiuto
ho attraversato per brevi momenti un deserto
quieti erano all’ombra i tre cammelli che si riposavano
poi tutto accadde o potè accadere
in quella successione di ore.
È stato luminoso il lampo del faro
fino a che la corrente l’ha aiutato
– l’occhio dell’uomo l’ultimo superstite di un’antica razza
riteneva quel muro una reggia
non certo un luogo di relegazione –
sul cuore del mare calò la sera intera e
un marinaio tornava a contare le stelle da sud a nord.
Erano tempi antichi.
Oggi la sonda avanzerà. Le ombre eventuali. Le asperità…
Il nucleo la coda l’inizio della coda
a mezzo milione di chilometri
con trentasei paesi collegati
cento miliardi di comete intorno al sole.
Per il momento non polveri. Le polveri in movimento
sono molto fini.
La terra il sistema solare in formazione.
Una nube collassa verso il centro
dove sta il sole
il rosso s’accende, si accendeva
la nube che era
fra le stelle
viene aspirata dai pianeti.
Ecco la terra
i crateri formati dai meteoriti
che col tempo sono cancellati
dalle tempeste vive.
FASE FINALE
aspettiamo il susseguirsi degli eventi
ancora non si hanno notizie
se si sono incontrate onde
particolari e violente
Ultimo minuto (la regìa mi sente?)
possiamo mandare il traduttore
sulla via internazionale?
Questo è il giorno in cui Hitler, rispondeva la voce,
è partito per le ferie
d’estate.
Non ho fame diceva
il bambino fermo al semaforo.
Com’era lontano il mondo vecchio
e noi già seduti sopra la luna.
L’età del ciclostile è finita.
Compagna di battaglie
che giorni e giorni e tempeste di albe
abbiamo vissuto
quante rondini abbiamo contate in volo
prima che cadesse l’inverno.
Quante ombre possiamo ricordare.
Era come salire le scale
da piano a piano
le scale portavano al tetto
lì uccelli immobili
masticavano il cielo.
LE NUBI DEL TRAMONTO CADEVANO A PEZZI.
Una poesia d’amore
IL MANDATO AFFIDATO È UNA POESIA SUL CUORE
cuore? non conosco. ripetere
UNA POESIA SUL CUORE
il cuore? ripetere, inserendo il contatto alla casella 12 e
[quindi
premere il pulsante giallo
RICEVUTO. bene, ricevuto. ascoltare.
il cuore è un muscolo che risiede nella parte sinistra
È UN MUSCOLO
il muscolo risiede nella parte sinistra del petto
IL CUORE È SUSCETTIBILE DI EMOZIONI?
Risposta: il cuore è capace di avere gioia ma
non sa esplicitamente piangere. Ricevuto?
RICEVUTO. Per la domanda che segue sottrarre due ampère
[alla casella 7 e premere il pulsante
verde a destra sotto il riquadro… Bene! adesso pronunciate
la domanda parlando lentamente…
molto lentamente… con le labbra vicino al microfono.
RIPETO LA DOMANDA? Ricevuto… potete ripetere la domanda
purché identica al quesito formulato in precedenza
e così compilato… (premere il tasto nero e mettersi in
[ascolto
per la ripetizione della domanda)
IL MANDATO AFFIDATO È UNA POESIA SUL CUORE?
segue la risposta: il termine
mandato è perfettamente fruibile. è decodificabile. ma il
termine
affidato risulta salvo errore essere un verbo di cui l’infinito è
affidare
suscettibile quindi delle seguenti variazioni che
[sottoponiamo
in un ordine di valore semantico decrescente… aspettare
[il segnale
luminoso rosso alle caselle uno due tre… premere adesso
il pulsante bianco
in fondo a destra:
AFFIDO IL MIO CUORE A UNA CAPANNA/ LA CAPANNA È IL MIO CUORE
AFFIDATO/ CUORE AFFIDATO/ IO NON RIESCO AD AFFIDARMI/ E CHI SI
AFFIDA DI ME ERRA/ ERRANDO NON PUÒ AFFIDARSI NÉ ESSERE AFFIDATO
IO AFFIDO LA MIA SPERANZA
AFFIDO TE BENE MIO
IO MI SONO AFFIDATO
NON MI RISULTA ALCUN AFFIDAMENTO
UN GIOVANE CIGNO AFFIDATOSI AL VENTO GELATO DEL NORD È…
insistere nella domanda, il termine cuore non risulta
[oppure
è spiazzato
è termine anomalo scartato dopo la quinta revisione
[elettronica
nel febbraio del milleottocento… ERRORE… rettifico:
millenovecentonovantasette sostituito con la parola
[muscolo cardiaco.
Ne consegue che la corretta formulazione della domanda
al fine che questa macchina possa presentare in ordine
decrescente una successione corretta di risposte…
STOP… CIRCUITO INTERROTTO… PREMERE IL PULSANTE 5…
[RIPETO: CORREZIONE AVVENUTA…
una successione corretta di risposte è la seguente:
IL MANDATO AFFIDATO È UNA POESIA SUL MUSCOLO CARDIACO?
il riferimento è a un individuo di sesso maschile
di pelle nera
contrassegnato da un sangue di tipo G/A 4 attivo
difficile da ripetersi sul mercato in caso di necessità
se non alla clinica Salus di Lubecca…
DATI ESAUSTIVI… ripeto: dati esaustivi. Dati esauriti. RIPETO:
SALVO ERRORI ED OMISSIONI,
STOP. PASSO E CHIUDO
Post scriptum.
Riferimento generale da elaborare. Appunto primo.
Nuovo ordine di domande:
SE MENTRE IL PENTOTAL SODICO INIETTATO IN UNA VENA DEL BRACCIO
DEL NERO AMERICANO CHARLIE BROOKS
GIRAVA CERCANDO IL CUORE,
le parole da lui rivolte a Vanessa Sapp infermiera
ventisettenne di Huntsville stato del Texas
TI AMO, SII FORTE
debbano ritenersi dettate da un sentimento del cuore
ERRORE. CORREGGERE: MUSCOLO CARDIACO
o dalla paura della morte
o non piuttosto dal cattivo proposito
di continuare a fare spettacolo
LA PERPLESSITÀ È LEGITTIMA.
STOP.
Storia fra la farfalla e un computer
La prima voce dice quanto sei bello.
IL MIO UOMO ERA SEDUTO DAVANTI ALLO SCHERMO.
Dice la prima farfalla quanto sei bello.
La seconda voce dice quanto sei buono.
SEDUTO DAVANTI AL COMPUTER STA L’UOMO DI GESSO.
Dice la seconda farfalla quanto sei buono.
La terza voce è lieve è un poco adirata
la terza voce mormora quanto ti amo.
SEDUTO DAVANTI AL COMPUTER
L’UOMO DI GESSO CHIEDE NOTIZIE SULLA LUNA.
IL MIO UOMO SEDUTO DAVANTI ALLO SCHERMO È UN UOMO
[DI GESSO.
Io non posso abbandonare i miei amici
divento pazzo
PROVA MICROFONO PROVA MICROFONO 49, 35, 9 VIA PARTI
[PURE
Signori e signore ecco a voi….
Non indovinate quanta gente c’è qua.
Ne parlavo poco fa con uno sbirro.
Tutti voi dovete essere la più forte ammucchiata
di gente mai vista insieme.
CANTANO A TRE VOCI. PRIMA INSIEME POI UNA SALE ALTA
LE DUE VOCI CHE RESTANO PARLANO BASSO PARLANO
[PIANO INSISTONO
INSISTONO. È UNA VOCE MOLTO DOLCE E MOLTO CALDA.
Il mio uomo era seduto davanti allo schermo.
C’è sempre un poco di paradiso in una zona disastrata.
INTANTO
io non posso abbandonare i miei amici, divento pazzo.
INVECE SULL’AUTOSTRADA SARESTI SOLO.
Non c’è più benzina intorno per cento chilometri.
SEDUTO DAVANTI AL COMPUTER
L’UOMO DI GESSO CHIEDE
NOTIZIE DELLA TERRA.
Intanto
a Grants Pass, Southwestern Oregon, sotto la tempesta di
sabbia
un cielo molto basso
di sera
SEDUTO DAVANTI AL COMPUTER L’UOMO DI GESSO
CHIEDE NOTIZIE SU UN UOMO.
L’uomo è un suo amico.
LA FINESTRA È TUTTA ILLUMINATA.
Intorno la campagna è deserta.
UN CIELO BASSO SI SMORZA NELLE CREPE DELLA TERRA.
Don Hentich chiede al computer
notizie dell’amico.
Notizie della terra.
Notizie della luna.
IL MIO UOMO ERA SEDUTO DAVANTI ALLO SCHERMO.
Una tempesta di sabbia sulla campagna deserta.
È caduta la sera.
Tre farfalle calano splendendo
davanti allo schermo che
dice
MI CHIAMO ATARI.
Don Hentich ha ricevuto le ultime notizie dallo spazio
l’amico è ritrovato
le tre farfalle
LE TRE FARFALLE DI GESSO SEDUTE DAVANTI ALLO SCHERMO
chiedono notizie della luna.
SEDUTE DAVANTI AL COMPUTER.
LE TRE FARFALLE SEDUTE DAVANTI AL COMPUTER
CHIEDONO
notizie di Don Hentich.
LE TRE FARFALLE DI GESSO. Dice la prima farfalla
[quanto sei bello.
La seconda farfalla quanto sei buono. La terza farfalla dice
[quanto ti amo.
Una tempesta di sabbia a Grants Pass, nell’Oregon,
ha seppellito la casa di Hentich
con un cielo molto basso di sera…
*****
Alcune prose
Qui di seguito l’incipit di Registrazione di eventi, libro pubblicato da Rizzoli nel 1964, accompagnato da una nota critica di Guido Guglielmi, che così esordiva: “In Roversi la disposizione orizzontale dei tempi, i tagli del romanzo che segnano il ritmo essenziale dell’esperienza, sembrano negare un impianto oggettivo dei significati. Il credito che Ettore cerca non rappresenta affatto un pretesto, ma un momento oggettivo della sua esperienza che si ripercuote su tutti i momenti anteriori che sono scelti secondo un criterio razionale e costituiscono tante svolte decisive: così che essi non tanto pertengono a una memoria elegiaca o, viceversa, a una onnitemporalità interiore, quanto si configurano come temi morali. In questo modo Roversi resta fedele al suo umanesimo e può rivendicare le esigenze di una cultura che la Resistenza sembrò dover rendere concreta.
Di qui il duplice sviluppo del romanzo: lirico ed etico”.
Si riportano inoltre le prime pagine del romanzo I diecimila cavalli, che uscì nel 1976 in amicizia – e prossimità politica – con gli Editori Riuniti. Quindi nella direzione – coscientemente libera da vincoli economici – di una militanza, come sempre per Roversi (specie a partire dallo spartiacque delle Descrizioni in atto).
Lo accompagnavano una Conversazione introduttiva curata da Gian Carlo Ferretti (qui a p. 447), e una rassegna della critica che riportava brani dello stesso Ferretti, di Giorgio Barberi Squarotti e di Walter Pedullà.
Registrazione di eventi
Dalla morte non si è mai preso a
contare il tempo.
BROCH, I sonnambuli
I
Viene mai solitario un vendicatore solitario? Bussò, entrò e disse sono la morte. Contrasta l’uomo con la sua fibra robusta, era un fiore degli anni, era anche un legno verde ma infine la morte lo prese. Resta sola la moglie, crebbe il figlio, venne l’estate del 1963, un giorno del mese di luglio, dopo settimane di pioggia il calore cadeva con scoppi di polvere e questa nebbia si sperdeva sulla strada. Secchi erano i fiumi fra le rive scoscese; i pozzi, i campi eccoli immobili e spogli in quel loro grigiore spento, il fumo delle fabbriche si inchinava e sembrava una grande bandiera ferita. Disse che si poteva, disse così…
In quel tempo Ettore aveva trentotto anni e gli sedeva di fronte. L’uomo era alto, magro, forse un vecchio, forse no, forse non era un vecchio, una età indecifrabile, il viso bianco pulito, fra i cinquanta e i cinquecento anni.
Così: che si poteva. Si alzò, muoveva adagio le mani. Parlò, disse che si poteva. Girò attorno al tavolo, leggerissimo, compunto, pareva al di fuori del mondo. O di questo mondo volgare. Un’ombra bianca, il sogno di un uomo, che lui non si potesse toccare pareva, esile e alto, ma non per giuoco era un’ombra, non per potenza voluta; alta, un’ombra alta, più alta degli alberi e delle ciminiere delle fabbriche, certo più alta delle insegne luminose sul tetto dei palazzi antichi. Pam: Motta e buio; pam: Alemagna e buio; pam: Cinzano e buio; una mano che si apre e si chiude, stringe si allenta e la notte è carica di luce gialla, gialla e rossa, nera, bianca, gialla e azzurra, buia.
Disse: conoscevo suo padre. È morto presto, troppo presto, è morto nel fiore degli anni. Così disse, con un tono gentile, quasi umile, con tenerezza, con un rimpianto sommesso per chissà che cosa; per chissà che ricordo in cui l’uomo morto nel fiore entrava. Nel fiore degli anni.
Era forte e tuttavia fu preso, disse. Disse anche: certo tutti dobbiamo morire – guardandolo e sembrava sorpreso, quasi che per la prima volta si affacciasse alla mente, come una possibilità reale (non pensata e sognata soltanto) questo triste, e vano, pensiero. Restò in silenzio, guardandolo senza, guardare.
Con garbo, amandole, si stringeva le belle mani bianche e adesso era più piccolo e gentile, un po’ più corposo, domestico – con più luce (affabile) negli occhi e al bordo della bocca, sulle labbra appena segnate, che prima non c’era o non si intravedeva.
Ettore provò a dire: sì mio padre era giovane
ma è soltanto un ricordo.
È soltanto un ricordo ormai, un’ombra
(con tenero cuore) al fuoco del camino
nella sera d’inverno.
Il soffio della morte gelandolo
lo impietrì negli zigomi.
I rossori, l’ira, le parole
urlate, i silenzi, il sorriso
che passava sul viso:
larve spezzate, secche, senza ali.
L’alba di agosto era inebriante,
s’alzava un canto dal prato
di strano uccello felice,
fra l’erba correva un gatto nero.
Così lo trascinarono
con tutta la sua carne morta
sulla fredda barella al cimitero
– ma sentì la voce rimbombare e subito cadere dal soffitto al tappeto di erbe, sul tappeto persiano stupendo in ghirigori di vene di lacrime, spezzarsi contro le pareti, sminuzzarsi in frammenti, accartocciarsi in un angolo.
Sussultò e tacque.
L’uomo annuì e sedette.
Sì, faremo qualcosa – disse. Disse: certo, c’è forse, badi: forse, il modo di fare. Di accontentarla. Ripassi da me, la prego, fra tre giorni a quest’ora. Oggi – sfogliò una agenda – è giovedì. Dunque lunedì prossimo.
Arrivò con lui fin sulla porta. Tutto era silenzio: nel salone, per le scale ricoperte da densi tappeti si camminava volando, fra le colonne di marmo, giù giù fino a che fu investito dalla scarica delle Tetractys bicolore, delle Olivetti 302 alfanumeriche mosse da ometti scamiciati (scivolavano via lievi); un vociare composto ma fitto, il respiro della posta pneumatica si attorcigliava intorno a un tubo ricurvo che sbavava proiettili di cuoio stracolmi di carta arrotolata, di assegni – a cui correvano gli occhi; entrava gente, usciva gente, gente che
rimbalzava qua e là, scamiciata, col colletto, senza giacca, con la cravatta, senza la rutilante cravatta, con le maglie aderenti – gli studenti indiani avevano il turbante in testa, appoggiato sopra la sonnolenza degli occhi;
agli sportelli i cassieri volavano coi polpastrelli sulla sporcizia della carta rosata o appena verdina, ritratta e segnata da rughe, lacrimosa – che le mani calmano aprendola
a mezzo, sfogliandola con tenerezza ansiosa, con un nero amore stravolto.
I diecimila cavalli
I
1) Peripeteia = rovescio di fortuna.
1 bis) E tu cosa fai per la classe operaia?
2) Violenza, repressione ed esclusione (termini psichiatrici).
3) Route, chaussee, bld., il filo rosso e poi? [Diog. Laer. X 135]: Non esiste alcun modo di preveggenza del futuro, e se pure alcuno vi fosse, non si deve dare nessun valore agli avvenimenti [in confronto di ciò che] dipende dal nostro volere. [V. anche Epicuro, Laterza, p. 90].
4) Forse non ci rivedremo mai più.
Puoi piangere? Credevamo d’avviarci per il meglio.
5) Mettiamocela tutta! Cerchiamo con ogni sforzo di giungere a risultati maggiori, più rapidi, migliori [e più economici] nella costruzione del socialismo.
6) Mieux-que Dame.
Plus-que-Reine.
7) Shampo amamiper essere amata.
8) “Nulla è più degno di disprezzo della stupidità delle critiche se non quella degli elogi” [D’Alembert, p. XXXI].
9) The White Horse in the Ring (1923); Picasso.
10) “Non è la rivoluzione” (a proposito delle rivolte nei campus americani)… “ma tutta una generazione, che altrimenti sarebbe passata silenziosamenteattraverso questi anni di formazione; viene vaccinata contro l’autoritarismo” [9 giugno 1969, Astr. n. 19].
11) Es ist zum vergasen (mettere nella camera a gas)
bis zur Vergasung (fino alla fine, all’estremo): ha
un significato innocuo. Dunque:
Hai fame? no, non ho fame
Hai sete? no, non ho sete
Guarda le scarpe
Guardo le scarpe
mi piace [rebbe] questa, mi piace l’altra
mi piacerebbe usarle queste scarpe.
Salito sul 18 ho visto tante cose
ho visto anche un investimento
ho visto molte cose.
Milano? eh, Milano la conosco.
Perché non fumi anche tu? fammi compagnia.
La località offre innegabili vantaggi per quanto si riferisce all’innevamento; anche le attrezzature sportive a
Campitello Matese
le condizioni sono buone
possiamo fare un bilancio estremamente positivo per quanto si riferisce […]; siamo oberati di richieste, 6 attrezzature alberghiere, abbiamo dovuto creare una mentalità alpina
Hai sonno? no, non ho sonno
Sai? invece ho voglia di ridere [hai voglia di ridere?] di ridere un poco – di pensare di ridere, semplicemente.
Ho quarantanni e un buon lavoro1
(ne avevo quaranta)
– lascio questo lavoro e la città vecchia
– vado in un’altra città a cercare questo lavoro
– l’anno è la storia di questa ricerca
di questi incontri
di questo (solo) tentativo
delle persone che vedo (soltanto)
– l’anno è la storia, anche, di alcune (idee)
che si fanno e disfanno
si compongono si scompongono ecc.
– la vita è anche la storia di dieci anni di vita.
Molte più difficoltà. Meno, molto meno le così dette dolcezze, le soddisfazioni [quelle che si chiamano tali], una particolare tranquillità.
Col rumore le foreste sembrano il mare.
Il morso del vento [sic!]
Dove vuoi arrivare?
Io?
Tu!
Al pranzo della Pellizzari.
E tu dove vuoi arrivare?
Io?
Tu!
Bah! a un qualche appuntamento concreto, o molto astratto, con le cose. Si può sperare, si può soprattutto cercare prima o poi, di non buttare la vita come un lupino, di non sprecarla in questo modo orribile.
Dici: ciò nonostante il nostro sistema economico funziona, tra le altre ragioni, poiché ogni anno si spendono biliardi di dollari per produrre armamenti. Gli economisti guardano non senza preoccupazione al momento in cui cesseranno le produzioni di armi…
L’uomo è tutt’al più la carcassa del tempo [Marx, La miseria della filosofia].
Mosca che brucia e l’arpa birmana.
Il filo rosso = la pietà (è la pietà).
II
Non puoi far nulla (nel caso specifico)
se non sei come loro
se non sei
non sei un rivoluzionario se non fai la rivoluzione
non sei un operaio se non fai l’operaio
né un uomo se non stai fra gli uomini
se non vivi fra gli uomini non sei un uomo.
Puoi distorcere tutto, contaminare
mescolandoti nel veleno della metafora
ma se non sei questo e quello
puoi appena parlare.
Bisogna esercitare per poter concludere.
Guardarsi dalle imitazioni.
“Dove diavolo stai andando?”1
Nel giro di otto settimane, fra l’aprile e il maggio; nel giro di otto settimane fra giugno e luglio e agosto; nel giro di otto settimane fra quell’aprile e quel luglio; e ancora altre settimane prima dopo, per l’inverno l’està… Disse alla moglie: stasera faremo qualcosa di buono, qualcosa fra noi, qualcosa che non facciamo da tempo. Una cosa. Uscì e andò in banca, in quella banca
[rovescio la domanda e parlo col mio cavallo. Alla domanda sopra indicata1 – a cui non si può non rispondere; anzi, a cui si deve una qualunque risposta o soltanto quella risposta (voluta e dovuta) che non chiede altro, che si inchina e inclina, che è complice (un poco) e subito manifesta; a quella domanda come rispondere? così: sissignore, passeggio (un poco), rincaso (un poco), mi avvio a morire se oggi è segnato che debba morire. Forse. Se ho qualche probabilità per questo; o per schivarlo. Vedrò. Pomeriggio di festa, l’asfalto si bagna, l’asfalto è molle. Continueremo
dopo] – dunque andò
in banca, in quella banca e
tu credesti Marcho Marcho
che la liga te temesse
né già mai ardire avesse
oltre dada far il varcho. Quello disse alla moglie: noi stasera faremo qualcosa di buono, qualcosa di diverso, qualcosa che non facciamo da tempo; noi due faremo qualcosa. Uscì, andò in banca, andò alle poste dove non trovò che prospetti pubblicitari ma non l’assegno su cui contava (l’assegno che sperava), lavorò come al solito e alle tredici via, mentre cammina incontra un compagno di scuola, mannaggia è Triarchi, decrepito, chissà come ringhioso, sembra rincoglionito, è ricco, cisposo, è felice? certamente apatico, è frustrato, fuori giuoco? greve invadente frivolo simpatico umano con strisce rosse sulle guancie che gli segnano il viso un po’ foruncoloso, iellato. Forse tutto sommato un uomo moderatamente tranquillo, moderatamente disperato. Gli disse mi rallegro, lo salutò andandosene, ritornò indietro gli chiese del figlio nato ieri, era un obbligo ecc.
Andando. A casa Marcho Marcho ripete alla moglie stasera, stasera, è deciso. Il giornale radio, mangia, si sforza, mentre fa il pieno della latta dello stomaco milza e fegato traballano alle parole che escono dal transistor sporcando il boccone che diventa amaro, nero. Forse la giornata comincia qui. Marcho Marcho digerisce male con questa voce nella pancia. Una vaccata sto paese esimio per pietre. Un casino; peggio, un casino di un casino; peggio, un casino di un casino di un casino, un enorme casino, un bordello, un chiasso, un luogo per santa Nafissa. Per strada Marcho Marcho occhieggia passando un giornale che pende dall’edicola
Istituito il comitato per la tutela dei castelli d’Italia accende la Smart (rossa), lavora tutto il pomeriggio come un dannato;quando ha finito Nice il tedesco, il tedesco Nice (altro che gli indigeni; perché disperare?), arriva Nice, si siede, si può stendere le gambe e avviare un discorso, tirare una boccata d’aria; ricomporsi; cominciare a parlare; si può pensare al futuro. Al futuro. Al futuro? a domani? no, addirittura a stasera? il discorso continua mentre è sempre più sera; nevica. A notte fonda lo spazzino spazza la strada; a notte fonda lo spazzino spazza la neve; a notte fonda lo spazzino scaracchia (mondo bastardo) spazzando strada e neve. Ingabbiati in giubbotti colorati a strisce verticali nere e rosse e bianche perché nel grigio della strada, nel vuoto della città sono centrati dai nottambuli sulle Alfasud e accoppati. Il giorno di poi sul giornale: povero spazzino birillato e ucciso da un pirata della strada. Alle volte anche Marcho Marcho vede le chiazze di sangue che asciugano con la segatura. Nevica e lo spazzino spala – così si udì assai chiaro il primo urlo
corsero per le scale mentre dalle porte usciva gente; la vaccona del terzo piano era in vestaglia, sorpresa dalla paura nel sonno e il petto ballava sull’ombelico, una delusione per chi se la godeva (con gli occhi) agghindata alla domenica mattina all’ora della messa cantata con rosso antico, nell’ascensore pimpante di un profumo che secondo il portiere ecc.
Buttano giù la porta mentre arriva la polizia chiamata col 113 e trovano la donna del ragionier Spes, secondo piano, assassinata con un coltello nella pancia; il ragionier Spes con soprabito e cappello in testa, seduto in poltrona piangeva, sporco di sangue; era interessante ascoltarlo balbettare prima d’essere cacciati dai poliziotti con urbanissime maniere; diceva: “la troia, la troia, la troia” o forse “la gioia, la gioia, la gioia” o forse “la noia, la noia, la noia”. Diceva (forse): ho ucciso la troia; o forse diceva ho ucciso la noia; o forse ancora ma certamente meno probabile (o dopotutto ancora più probabile) ho ucciso la gioia. In questo caso la mia gioia, la mia unica gioia, la gioia della mia vita. E infatti quale altra matta (o disperata) avrebbe trovato che andasse con lui. Il male è che egli la voleva esclusiva e lei Iris si consolava, talvolta, allorquando. Dapprima guardarono cercando se mai il ragionier Spes avesse fatto macello anche del drudo ma il brigadiere concluse rivolto al commissario che non si dà presenza di altri cadaveri nell’edificio –
a quel punto il teatroverità era finito e risalirono in casa. La moglie a letto leggeva; quello la baciò sulla fronte o sulla guancia o sul petto, sul lobo di un orecchio? sulle spalle? sulla nuca? sull’incavo dell’addome?
“dammi una sigaretta per favore, il portacenere e carica la sveglia se vuoi”
“ciao”
“ciao”
“se fumate apri poi la finestra”
“aprirò i vetri se fumiamo”
intanto Nice seduto in poltrona racconta che si può leggere tutto senza leggere niente; tautologia? così Marcho Marcho racconta ciò che gli capita frequentando uomini singolari, sincopati, tagliuzzati all’interno, inservibili – il riverbero del fanale sulla neve spiaccica contro la finestra una luce d’ossa “il crocianesimo di Gramsci – dice Nice – è una metafisica autentica, profonda, dolorosa”
“non è che il marxismo sia in crisi; sono in crisi le interpretazioni del marxismo; gli abiti delle quattro stagioni, stracciati dall’uso; ma il torso di legno rimane; soprattutto resiste”
“bisogna rivestirlo”
“sì, certo, bisogna rivestirlo”
boccate di fumo intramezzate, un vino rosso nel bicchiere. Quando si stende vicino alla moglie, nel letto, la moglie dorme. Obiezione prima: il nuovo giorno, che è sempre mattiniero (nel senso di eccitante; basterebbero i primi rumori alla mattina, in un’aria da devastazione che si distende e subito il verde azzurro rosso che soffia sui tetti, l’aprirsi del grano), il nuovo giorno si preannuncia nel rintocco (funebre) delle ore notturne. Innanzi tutto queste ore notturne non passano mai quando l’uomo è disteso a piedi nudi nel letto con le mani sul ventre, a grattarsi la pancia (eh, via signore) o dietro la testa, quando ha gli occhi aperti nella stanza e scariche violente di rosso davanti agli occhi, mentre il radar dei pensieri gira e il cumulo delle macerie si ammucchia. Soffocato.
Durerà così.
È possibile cambiare
Come dove quando
Questo suono di piffero si scioglie come piscio sul lamento dei timidi e sul vento delle vele in disarmo. La battaglia delle idee; la battaglia e le idee; niente battaglia e niente idee. Pare solo possibile ascoltare il respiro della moglie. Che soddisfazione umana, personale, privata. Una corda che lega, una creatura viva, un raggio di luna. Dolce tenera perfetta.
Tutto il resto è cancellato dal sonno.
L’affaire del ragionier Spes stamattina è sul giornale col cappello e l’impermeabile
“l’ha visto, è proprio lui”
e fuorivia tre morti asfisiati dal gas, padre madre e sorella, una fuga di gas, la sorella era stesa vicino alla finestra (con tutta quella neve) che voleva aprire
“è probabile”.
Non uscì il 71 su Torino e la corsa tris a Mirafiori con Iron che non regge più i duemila diede 8-5-1; per le partite c’era tempo. Lavorò fumando e quel sabato fece l’amore. Si lamentava troppo per essere tranquillo; lavorava troppo per lamentarsi. E con le ore contate sempre, di furia, homo faber. Con queste ore contate non si può far nulla, nulla di buono. Resta così poco da godere; ma questa volta di sabato Marcho Marcho entra difilato nella avventura – e si calò i calzoni; anche se un uomo a quarant’anni è abbastanza ridicolo, o ridicolo, o ridicolissimo; invece la donna è magnifica quando non è incarognita dalle gravidanze ecc.
C’entrò la scala, lei che sale, le gambe; no, fu dopo; lei nel bagno; fu dopo anche questo; un contatto del gomito, un amore a primavera, una folgore. Può darsi. Più semplicisticamente lui sorrise e lei sorride, erano decisi e si trovarono a letto. Ma sono in ufficio e la cosa fu più tenera segreta più scomoda. Lei non si mise a piangere (dopo), lui non accese la sigaretta (dopo), guarda il soffitto, disteso sul divano sente il profumo della ragazza vicino
“sui duemila Iron non tiene; non lo dovevo giocare; a otto anni non c’è più fondo, poi li drogano”
“hai visto l’ultimo film di?”
“non mi piace; troppa natura e poco pane lì dentro. Prolisso, mi sembra”
“fuma”
il silenzio che segue è delizioso; è sempre così, come abbandonarsi sul mare. Naturalmente, nudi.
La peluria d’oro.
Invecchiando si diventa sempre più incerti e impacciati in queste cose; o come dice qualcuno, nelle pratiche d’amore.
E la benedetta esperienza?
Serve ma in guerra.
Non serve neppure in guerra.
Dunque non nella vita.
Neppure nell’amore.
È così.
Ogni vicenda comincia sempre da capo.
Nice racconta che tornerà in Germania, in Italia è rimasto deluso. Era venuto per emigrare, bel paese, con gente viva, con molte canzoni (di Mina), ma con molta gente morta, un pallone gonfiato-sgonfiato ecc. e poi la sinistra italiana
“all’estero è mitica, se ne parlava”
“piena di idee”
“adatta alle circostanze”
“un vulcano (è così?), un mastino, un rigoroso ideogramma,
uno scambio di proposizioni, e che altro?”
“pare soltanto disposta a saltare al governo”
“una dolorosa castrazione per punire la madre”
“pronta per il sacrificio”
“ad autoalienarsi”
“e allora?”
poi Marcho Marcho racconta la breve avventura anonima
poi Nice prosegue il discorso che
“io sono nato durante la battaglia di Berlino, mio padre era appena tornato ferito col suo fucile, per questo sono rissoso, instabile duro facile allo sgomento. Ho bisogno di appoggiarmi, non sentirmi finito. Addio Italia”
“verrò a Berlino”
“se verrai a Berlino…”
“forse verrò, certamente ci vengo a Berlino. Ma adesso non ho soldi e ho alcuni progetti vaghi; tutto da noi è poco tecnico, provvisorio. Poco sicuro. Non c’è niente di concreto”
“edificare sulla sabbia”
“direi proprio così”
è ancora notte, la neve è un pantano è un acquitrinio in cui ruotano le anatre.
Sabato pomeriggio è vacanza, un giorno di decisioni nella vicenda privata; si considerano le cose, si può scegliere, accantonare, disgiungere. Scegliere come morire. Ha preferenze? Si ammazza la settimana, si decapita il tempo, si può scrivere perfino una lettera; rispondere a qualcuno (con fatica); per un’ora leggere (in piedi? in poltrona?). Marcho Marcho riflette e fatica a riflettere; si accanisce, si propone, si sforza; tutto sembra inutile perché non cava un ragno dal buco. Eppure qualcosa deve uscire fuori dal buio; un lumicino; un mucchietto d’ossa; qualcosa che biancheggi; come si dice, una presa di coscienza, o quel suo barlume. È possibile soltanto discutere in privato, morsicare il legno coi denti. Marcho Marcho da vero imbecille vive sfiorando tutto. Ecco un punto degno di considerazione.
Alla moglie dice “io ti sfioro?”
lei è seduta di fronte e legge un giornale, lui è seduto di fronte (è sabato pomeriggio) e legge un libro, prende la rincorsa in privato. Il momento è importante. Potrebbe lasciarsi andare per sempre, essere per i tempi dei tempi fottuto, per sempre; fottuto per l’eternità. Mentre basta un salto da una parte e si lascia la nave si cambia la vita; ricominciare da un’isoletta deserta, da un segmento di mondo, si cambia la vita, tutto, si ricomincia…
basta un salto
farlo, volerlo, avere la convinzione per volerlo, farlo tu lo fai?
e quelli?
per carità, abituati come sono a loro stessi.
Cercare i collegamenti.
Un probabile possibile (anche eventuale) filo è la donna di prima che si lascia di nuovo afferrare, sbaciucchiare, stendere (con garbo) sul divano in ufficio, manipolare con una certa dolcezza e rilassare dopo l’embrassons-nous
– ma questo avverrà lunedì –
oggi è sabato, poi domenica; due giorni che scottano.
Riepilogando. Nice sta per partire (o decide di farlo), la ragazza in ufficio (da continuare nella normalità, nulla d’interessante), la moglie – e il mugugno che graffia. Un malanno da cui liberarsi, se no morire è meglio. Eppure è vero che qualcosa merita d’essere fatto. Che c’è qualcosa, qualcosa. Una cosa o tutte (da fare). Che non ci si può ritirare e crepare soltanto o adattarsi a questo come a un bisogno fisico. Non si può andare in riviera, aspettando, a contare le ore di un sole, i fiori puzzano, gli alberi sono rognosi. Cresce intorno qualcosa di nuovo che si tocca. C’è altro, un grumo, un tic, qualcosa di segreto (ancora?), oscuro, o di tremendamente esplicito e chiaro. È questo il dilemma? Pazienza se qualcuno può ridere. Non sempre il protagonista è un Amleto, un Otello (tantomeno un Charlemagne), o ha la passione, nella fede, di un vicario. Egli tentenna, dubita, si vergogna. Incerto (per un momento) cerca cerca ricorda chiede chiama domanda. Allunga una mano con discrezione. C’è un vademecum per la vita? un tascabile settimanale, una dispensa Fabbri? Aspettare, non siamo alla fine. D’altra parte si è abbastanza duri nelle vicende di tutti i giorni, che vuoi di più. Affrontando Pietri, ad esempio, che nell’esercizio delle sue funzioni, vale a dire durante il lavoro non dà respiro e fruga nelle viscere del contendente, lo distrugge, disintegra; lo riduce un verme; e con armi semplici; con l’aria ingenua di esercitare un penoso dovere. Ha la grazia, per far questo; innanzi tutto il tono – della voce. Poi un sorriso da dentifricio Listerine che non è per nulla falso. Anzi è un sorriso vero. In questo consiste il suo dinamismo efficiente: che egli usa armi autentiche. Che poi Pietri sorrida anche piangendo è un’altra cosa. In questo lavoro tutto gli serve, eccome. Gradevole, minuzioso, costante, instancabile; di una ignoranza raffinata. Umana cosa è l’aver compassione agli afflitti
“di questo – egli dice – me ne frego”
“questi – aggiunge – li schiaccio col tacco, diobono”
“questi rompiscatole ti rovinano la giornata”
“con uno che piange non sai mai che strada pigliare”
“devi fare il duro, per forza; non hai scelta; sfido io che allora tutto è facile. Non c’è gusto”
“invece dà gusto azzannare alle spalle, con piccole ferite, un falso duro, un falso furbo, un falso onesto”
“allora?”
“uso la parola d’onore, tanto me ne sbatto; giuro e spergiuro, e chi se ne frega; alle volte firmo il falso”
“e poi?”
“poi mi ripiglio il foglio, sta sicuro. Mica sono fesso. Non succede mai niente”
“A proposito – dice Marcho Marcho alla moglie – pensiamo all’affitto”
“c’è tempo. Senti, piuttosto: la luna è un mondo di pianure grige. Allunaggio morbido, il mar delle tempeste, Lunik II. Un mondo di pianure grige. Il mare delle tempeste. Titoli e sottotitoli di giornali”
“è bello”
“è stupefacente. Da rileggere; descrive le cose esatte” alza la testa dal giornale, lo guarda, gli prepara un caffè. Lo guarda con affetto. Dormi poco, gli dice. Gli versa il caffè, gli allunga lo zucchero
“ricomincia a nevicare, dopotutto non mi sento vile”
la moglie capisce che vuole andarsene (per un po’)
“se esci comprami le sigarette”
per la strada fa freddo, queste avenide sono prese d’infilata dagli spifferi; Nice gli dice che ha fatto bene a venire, intanto aspettiamo gli altri. Gli altri arrivano e siedono intorno a una tavola, poca luce, i portacenere, un team al lavoro
“una congrega di matti”
“dunque?”
“si incomincia?” e via giù fitti, avanti avanti
“Williams esclude ogni possibilità di un’alleanza fra la classe operaia americana (bianca) e il movimento nero”
“la grande maggioranza degli americani (bianchi) sono razzisti che si identificano correttamente con l’imperialismo americano”
“vi è più speranza nell’aiuto di un lupo rabbioso che non che gli operai bianchi, persuasi della supremazia bianca, si uniscano ai neri razzialmente oppressi”
“non si può fare assegnamento su di loro perché vengano in aiuto dei neri perseguitati più di quanto si potesse sperare che la classe operaia tedesca venisse in aiuto degli ebrei ai tempi di Hitler”
“già, questo è terribile”
“soprattutto è vero”
“la strategia del movimento rivoluzionario nero, negli Stati Uniti, non può essere quindi che quello di accelerare la disintegrazione della struttura sociale e politica americana”
“guardie armate per la difesa della comunità e una vasta rete di combattenti clandestini”
“Questo è il succo: buttare il proprio corpo; partecipare”
“Nelle guerre gli operai o sono coinvolti o sono sulla difensiva”
– Si attendono sensazionali sviluppi. La polizia sa già dove è l’agente di borsa fuggito con tot milioni
– affittasi posto letto a persona referenziatissima possibilmente statale e non meridionale
– società in espansione situata in una ridente cittadina della Romagna cerca aggiustatori stampatori
– distrutta una famiglia nell’auto contro l’albero
– del reato p. e p. dagli artt. 81 cpv. 110, 112 N. I, 272 C.P. in relazione agli artt. I e 21 L. 8-2-1948 N. 47 perché in concorso tra loro e con altre persone non identificate, con più azioni esecutive di un unico disegno criminoso
– a Palermo esistono 739 aule scolastiche degne di questo nome, 1411 aule provvisorie (scantinati, appartamenti privati in affitto, ex stalle ecc.) e 1090 aule mancano
– del reato p. e p. dagli artt. 81 cpv., 110, 112 N. I, 414 I p. N. I e ult. comma C.P. in relazione agli artt. I e 21 L. 8 2-1948 N. 47 perché in concorso fra loro e con altre persone non identificate, con più azioni esecutive di un unico disegno criminoso
– i posti sono 1200 per l’intera rete nazionale e 180 per il compartimento di X., su questi 180 stipendi si lanciano a gara disperata 14.000 concorrenti, tutti giovani, uomini e donne, in maggioranza maestri e
Quella notte Marcho Marcho sognò (ad occhi aperti?) ciò che poteva accadere, sognò che dall’ira nasceva un’altra ira, diversa; che dal dolore spento nasceva un altro dolore. Perché dire tutto? Parlarono in un soffio, lui e Fraulissa. Alla mattina presto serrarono porta e finestre, consegnarono chiavi, chiusero la partita. Partirono, andando andando, procedendo a cercare. Cominciando a farlo.
Note
1 Dire, in una nota, cos’è il (un) buon lavoro; il valore che ha ecc… Un buon lavoro per esempio può essere questo; è questo.
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Materiale ferroso
Il titolo Materiale ferroso, scelto dall’autore per questa sezione di interventi su politica, memoria, persone, letteratura e – ampiamente – vita, ha una sua vena giocosa, o ironica.
Negli anni e insistentemente varie bibliografie (alcune anche recenti e autorevoli) hanno dato per pubblicato, con quel titolo, un testo – di fatto – mai visto. Vivo come progetto, abbozzo futuro, comunque opera mai apparsa – se non, precisamente, tra i phantasmata o virus burloni che forse anche felicemente i regesti bibliografici di tanto in tanto inventano e trasmettono.
Qui Roversi ha voluto allora sorridere-cedere all’insistenza delle voci, e stupirle, e dare corpo al fantasma: materiarlo. E si direbbe un corpo solido e ben insolito, daccapo felicemente inusuale e agguerrito, per i tempi, e contro questo tempo (politico, per cominciare).
Il linguaggio della destra*
Voglio notare come il linguaggio della reazione e della convenzione si ripeta, nel tempo, congelato in una fissità monotona e disarmante.
Anche oggi, leggendo i fogli quotidiani ed ebdomadari o le opere di molti autori ottocenteschi, sicuramente cattolici e senz’altro minori, accade di fermarsi su un tipo di fraseggio controriformista (a cui manca, però, quella forza e quella grandezza), dalla virulenza a stento contenuta e perciò ammonitore e irriducibile nello sforzo di paragoni demoniaci (parlando di ballerine: “la deificazione del piede e degli stinchi è ormai divenuta religione più crudele e sanguinosa che i culti più atroci di Saturno, di Moloc, di Siva e di Mitra, che richiedevan vittime umane svenate sopra i nefandi altari”, padre Bresciani); con un’aggettivazione tracotante e morbosa; spreco di maiuscole per misticizzare gli istituti e le persone e accrescerne autorità e prestigio; falsamente umile, spesso reverente ma in effetti spregevole, spregiante; non sostenuto da una trama ideologica sicura, tutto ragnato nel coprire con le sinuosità sintattiche la freddezza del sentimento, il “silenzio interiore” di cui parla Carlo Bo, l’indifferenza mentale; piuttosto rappresentativo che logico. Incapaci di amore, o di un qualunque entusiasmo, senza attiva curiosità benché informati, chiusi in un’aprioristica negazione delle altrui verità o delle obiezioni contrapposte, questi uomini, sotto la specie di un’indifferenza segnata dal sorriso, di una indulgenza conquistata con fatica, nascondevano l’ansia di potenza, di predominio, di privilegi per secoli goduti e delibati e non ancora pericolanti ma già additati, discussi e contestati. Un piccolo florilegio del brescianesimo ottocentesco basterebbe a confermarci.
Abbondavano di iperboli, di metafore “non misurate”, nel tentativo di dare fuoco di convinzione a una lingua mutuata piuttosto dai praticanti del diritto, dai legulei che dalla scienza o dalla politica; quindi cavillosa, accademica, aggrappata agli istituti più reazionari, con richiami aperti, o appena coperti, ma non per questo meno grevi e pressanti, a possibili pene, ad affanni a venire, quando esplicitamente non sollecitavano interventi diretti del braccio temporale: “La politica non deve mai scompagnarsi dalla giustizia e dalla religione” proclamava Monaldo Leopardi. A ribadire ancora una volta, se mai occorresse, che il nostro “sdrucito stivale” ha sempre patito di ordinamenti borbonici, e che le norme del vivere civile, le pene passibili, le condanne eventuali, gli indulti e le scaltre amnistie, sono per consuetudine una concessione della classe dominante, la quale di questo falso diritto fruisce e se ne compiace e quelle amministra e con esse sferza o bonariamente regala secondo un calcolo che ne perpetua lo strapotere economico e la porta a superare, con minimo danno, ogni uragano. Ieri come oggi. “Pare che le Associazioni padronali ci trovino gusto a elargire invece di riconoscere il diritto…” (dalla Lettera ai Vescovi della Val Padana a firma di otto parroci, del 1 marzo 1958).
Qualsiasi occasione era utile per esortare i giudici ad applicare le leggi contro i perturbatori dell’ordine pubblico, fossero essi giacobini, carbonari, massoni, operaisti o socialisti tourt court (il socialismo, questa morte di ogni civile consorzio) – non diciamo più liberali. L’inflessibilità nell’intervento della legge s’accompagna all’ideale della “quiete”; qualsiasi desiderio di novità va contro la natura, porta tormento e incertezza, sconvolge le semplici coscienze; perciò con turgide immagini dei possibili peccati ci si affanna a stroncare nella fantasia degli incauti le probabili illusioni.
Codesto invito all’ordine “naturale” diventa di proposito, maliziosamente, un invito paternalistico all’accettazione dello statu quo,degli ordinamenti prestabiliti dall’alto, dunque a una noia rassegnata e non operosa, a una umiltà bugiarda, all’ipocrisia retribuita.
Non commosso da tentativi di rigenerazione sociale, o dalla ricerca di rinverdire, se non capovolgere, le istituzioni, l’ordine della natura – esemplato arcadicamente – serve da paradigma immutabile e immediato, per specchio e ristoro di ogni turbata coscienza; la rivoluzione è una babilonia che squarcia e travolge.
Questi discorsi si svolgono e si caricano simili a un’invettiva e a una predica. Considerata la Chiesa come corpo di Dio, il Verbo che si è fatto carne e abita fra gli uomini (“Lui è noi e noi siamo Lui”), mai inserita in un tessuto sociale: “forse perché, al momento di affacciarsi alla vita politica, tra anticlericali, massoni, socialisti non vi fu quasi più posto per i cattolici, il fatto si è che essi non si sentirono mai parte viva di tutta la compagine nazionale” (Sergio Nigra, in “Adesso”, 1 marzo 1958), la più gran parte della borghesia cattolica italiana, e i suoi scribi qualificati, mediocremente aggiornata, provincialmente irritata piuttosto che commossa da una consapevole tolleranza, da una pietas autentica, ha sempre considerato “gli altri” come discoli da correggere, traviati da convertire. Messianica e irriducibile, anche se poi, all’atto pratico, tutto il fervore si smorza in un farnetico teatrale.
Nessuna compiacenza e nessun indugio, nessuna opposizione attiva; da ciò, pressoché generalizzato, quel tono perentorio, apodittico, proprio di chi parla dall’alto agli uomini abbandonati quaggiù; non discorso o contrasto, non conversazione o dibattito, ma parole che risuonano nel tempio, di richiamo o di condanna. Non benedicente ma sempre con la croce levata, lo sguardo terribile, è il Ministro di Dio.
Questo integralismo è ancora tipico – senza alcuna particolare diversità di tono – della pubblicistica odierna di parte nera, sia democristiana o più generalmente della destra legittimista (non c’è una differenza sostanziale); con la sola esclusione, è ovvio, di quel gruppo di uomini della sinistra formatisi nella Resistenza e “nella letteratura politica dell’antifascismo e sull’esempio sociale del migliore cattolicesimo francese”, il cui contributo al tentativo di rinnovamento delle strutture della nostra società è incontestabile, anche se la loro influenza politica appare oggi ancora troppo debole e incerta; poiché, secondo l’esatta diagnosi salveminiana, patiscono una soggezione di fondo da cui non riescono a liberarsi: “La sinistra della democrazia cristiana, compare, ricompare… si sgonfia a libito dei superiori, inetta a sfidare una condanna nonché Vaticana, appena vescovile”.
Agli ebdomadari sostituiamo pure i rotocalchi, le effemeridi metropolitane e provinciali, i bollettini parrocchiali, le opere di divulgazione, o più sottilmente, i settimanali di cultura e le rivistine mensili. Altri nomi, altre tristezze. Altri campioni. Ma la società è sempre ipocrita e artificiosa, lustra di inutili orpelli (una grande fiera di esibizionismo e di lucro, e proprio dove dovrebbe essere il decoro e l’incorruttibilità), e il linguaggio è sempre cruschevole: “garruli saggi di canore interminabili voci di protesta” (“Osservatore Romano”, 12 aprile 1959), metaforico, intollerante; ideologicamente sopraffattorio, per pesantezza non per convinzione; ancora riecheggiante quello che fu definito “lo stile dei gesuiti”, caratterizzato dalla sovrabbondanza, dalla ricerca degli effetti e da uno sfarzo generico: “Sostenuti dalla visione cristiana della vita, gli artisti seppero vivificare il marmo, far palpitare le tele, animare le crete, fondere i metalli, armonizzare accenti, suoni e colori per innalzare a gloria di Cristo Gesù poemi di pietre, di marmi, di luci, di suoni” (don Giovanni Rossi, in Estetica e Cristianesimo,Assisi, 1953). E si aggiunge che la consapevolezza di una supremazia mondana, che dura, di una forza politica che l’abuso rende sempre più vasta e capillare, ne ha ora rinvigorito e involgarito l’aggressività: “turpiloquio degno di un ubriaco e vagabondo da strada… capace di deliziare gli stabbi e i porcili settari” (“Osservatore” cit.); “rigurgiti di certo para-comunismo”, “rigurgiti dei monumentini di decenza compresi” (A.G. Solari), fino all’aperta insolenza, fino a sbeffeggiare i fratelli definendoli chierici rossi o, come ha scritto il card. Ottaviani, “comunistelli da sagrestia”. Il sostrato ideologico è rimasto ovviamente ancora al dogma e la terminologia teologica con la sua paratassi disarmante (quasi un procedere a nerbate, sulla carne viva di chi si incontra) ha surrogato in gran parte il linguaggio giuridico, sostituendo, o meglio sovrapponendo all’odore della accademia il cupo respiro del Sant’Uffizio; “Non è dubbio che i cattolici, in quanto membri della Chiesa cattolica, siano in tutto e per tutto soggetti alla sovranità della Chiesa” (padre Lener); “solo se nasce dalla sola Chiesa l’azione del cristiano è aperta a tutta l’umanità; […] solo la stretta fedeltà alla Chiesa consente all’azione umana di essere veramente pacifica e universale” (G. Baget Bozzo).
Con la vittoria politica è ritornato di moda il culto dell’istituzione e, insieme, ha preso voga un tipo di linguaggio che si potrebbe dire nazional-sindacale; un ibrido tecnologico, in cui le contradditorie istanze sindacali si mescolano, si confondono con sollecitazioni nazionaliste (in politica interna ed estera e con consigli di una interessata e sollecita cautela: “evoluzione progressiva e prudente, coraggiosa e consentanea alla natura, illuminata e guidata dalle sante norme cristiane di giustizia e di equità” (Pio XII, Allocuzione ai lavoratori italiani);e si depauperano pertanto di ogni carica, perdono vigore e ristagnano. Con ben altra consapevole operosità procedeva il sindacalismo cristiano-sociale, di cui recentemente abbiamo avuto una conferma leggendo lo stupendo carteggio Miglioli-Grieco.
Nell’istituzione vedono il consolidamento del potere costituito e nel linguaggio ancora un mezzo “comodo” e funzionale per toccare prestamente le coscienze: “Nessuna istituzione sociale, dopo la famiglia, si impone così fortemente, così essenzialmente come lo Stato”; e ancora: “Lo Stato deve essere l’unità organica e organizzatrice di un vero popolo” (Pio XII); ma poi è immediato il proposito di attenuare comunque l’effetto di queste iterate enunciazioni esclusivamente funzionali e di una genericità soltanto melodiosa, con la necessità di collegare l’ordine giuridico all’ordine morale e di ancorare il progresso sociale a questo, “perché se è vero che lo Stato ha la nobile missione di essere il custode del diritto… la complessità, l’estensione e l’intreccio delle condizioni di vita nazionale e internazionale estendono considerevolmente oggi il suo campo di azione. Ragione di più perché lo Stato non abusi dei suoi poteri ecc. ecc.” (E. Guerry).
Come sempre non partecipano di altra ideologia che non sia quella ufficiale, evitano gli scontri dialettici, o li trasformano in tumulti, o in salottiere malizie, coprono la costituzionale grossolanità con invocazioni fideistiche. Ma oggi è più scoperto (perché più beffardo e offensivo) l’ossequio alle gerarchie, l’artificiosa esibizione di religione praticata, di culto in pubblico: “la nostra fede di cattolici apostolici romani” (F. Sarazani); frasi come “scritti indegni, simile infamia, viltà ignobile, ferocemente offesa” e l’orgia retoricodaveroniana delle maiuscole ammonitrici, rivolte agli avversari che scrivono, provengono da individui la cui intemperanza ha un fine non occulto (e di questo neppure si crucciano); confermarsi campioni di una ufficialità operante, ricalcando vecchi moduli aforistici e aprioristici, che il tempo ha, contro ogni onesta previsione, reso di nuovo “disponibili”: “Un Padre che ancor oggi noi piangiamo… un Pastore che tutti, anche i non cattolici, hanno sempre rispettato e venerato; possibile che proprio in Italia debbano accadere di queste cose?” (G.L. Rondi).
Si servono dunque di luoghi comuni (“L’Usbergo di Roma”), di invocazioni “sorde” oppure conclamate; la parola “patria” che sostituisce il ruvido e freddo “paese” del linguaggio degasperiano è stata ripresa, caricata di astuti significati e adoperata con sagacia, mentre più frequenti si levano esortazioni all’unione sacra, agli ideali patriottici, all’unità nazionale – per smagare ogni sia pur cauto tentativo di riformismo; o alla “giustizia” generica: “relazioni più umane, più giuste, più fraterne”; “un ideale di verità, di giustizia, di libertà”, “ricostruzione di un mondo nuovo secondo la giustizia e l’amore”. Ma a queste invocazioni, riprese con monotonia fino a un esasperato parossismo, si contrappone una livida irritazione, non dunque caritatevole, né umana (nonché “giusta”), per ogni contestazione, per il più meschino ostacolo. Allora, non conturbato dagli anni, monolitico e stratificato, riappare sotto i nostri occhi il linguaggio della “Civiltà Cattolica” risorgimentale, perfido e velenoso, rosso acceso sulla punta di penna, un arrancare infuriato. Costoro, convinti, come ieri, che “le leggi del bello sono dagli italiani bevute col latte”, scelgono l’improvvisazione e disdegnano ogni meditato giudizio, con l’estro risolvono i dubbi e ogni controversia, hanno il cielo davanti e il fremito delle bandiere, la gloria di Roma alle spalle. Privi di modestia, di curiosità, di fiducia: non fuori ma contro la storia; non fuori ma contro ogni Stato che non sia il centro di un dispotismo di tipo settecentesco, paternalistico e uniforme, vegetante e cavilloso, a volte subdolamente ricattatorio. Infatti se Monaldo Leopardi scriveva, oltre un secolo fa: “La libertà, la più cara e fedele amica che abbia il demonio”, noi leggiamo spesso sui quotidiani ufficiali un’allusione insofferente e sdegnata “a quella odierna libertà di stampa”, che andrebbe, s’intende, vigilata.
Esemplare, a convalida in limine dell’ipocrisia imperante, è il termine “autonomia fedele” coniato apposta per stabilire il margine circoscritto di libertà, l’area d’azione oltre la quale non è concesso andare ai sindacalisti più attivi e a quei cattolici, quei “cristiani d’anima” che, come scrive Mauriac, “oltre cercare il regno di Dio, cercano anche la sua giustizia, il che è la parte di una società cristiana”.
Autonomia, dunque, fino a che non si turbi quella “mitica quiete” entro la quale vigilano le superiori potenze ispiratrici della condotta politica democristiana; fino a che le gerarchie non si risentano o si sorprendano e siano distratte dal loro particolare; autonomia, ma tale da non svegliare la base dal conformismo: “Sino a pochi anni fa, non v’era pace nei campi, perché il mondo contadino camminava verso la propria redenzione: oggi, non succede niente, perché quel mondo si va spegnendo sotto piccole concessioni, che gli tolgono di guardare avanti” (in “Adesso”, del 15 dicembre 1957).
Sicché gli spiriti più vigili (i pesci che vivono nelle acque profonde, secondo la metafora di Mauriac), i più sinceramente insoddisfatti (“perché se la dittatura è rossa… è sempre da scomunicare, mentre se è nera… può sempre essere esorcizzata?”) folgorati, sgambettati, annichiliti hanno dovuto abbandonare il campo o ridursi in un angolo, dopo una avvilita resistenza. Così come accadeva anche in passato a tutti i “campioni del nuovo” che non si accontentavano di mortificare la speranza nelle funzioni barocche (“la buona agonia” di don Primo Mazzolari), nelle dilazioni di comodo, lasciandosi assorbire dai notabili consorziati, i quali oramai dispongono di un paese disarmato, vinto dalla noia e dalle strazianti delusioni.
Ritornano dunque vere, a conferma di un’antica paura che ha sempre unito la reazione alla sopraffazione, le parole di Tacito, che De Maistre ripeteva con sicura compiacenza: “Quando si trattò di dare agli schiavi un abito particolare, il senato vi si oppose per timore che giungessero a contarsi”. E forse ci si appresta a benedire qualche altro tiranno.
* “Officina”, Nuova serie, maggio-giugno 1959, n. 2, pp. 57-62.
7 domande sulla poesia*
1) Si è anche di recente parlato di una “crisi del romanzo”. Si può parlare analogamente di una “crisi della poesia”? Se sì, in quale senso?
2) La poesia del dopoguerra è stata caratterizzata, fra l’altro, dalla “reazione” ideologica all’ermetismo: che ne è ora, di tale “reazione all’ermetismo”? E che ne è dell’ermetismo?
3) Si sostiene da molte parti che il compito della poesia d’oggi è di sviluppare i nuovi “contenuti” e temi che il nostro tempo propone, il che comporta altresì nuovi problemi di comunicazione. Le si rivolge l’invito a una energica presa di coscienza intellettuale delle direzioni in cui muove la storia, e magari le si assegna un fine pratico di chiarimento e di animazione, com’è avvenuto in altre epoche anche non recenti. Cosa ne pensate?
4) Qualunque poesia, o meglio qualunque poetica concreta, postula, esplicitamente e implicitamente, un problema di linguaggio, comportante una esigenza di innovazioni e, insieme, quella di un particolare rapporto con la tradizione, che è l’angolo sotto cui qualunque poeta “innova”. Cosa pensate delle esperienze linguistiche o stilistiche della poesia recente? Cosa pensate del neo-sperimentalismo? Della tendenza di alcune correnti a riassorbire atteggiamenti e forme della cosiddetta “avanguardia” europea o americana? Cosa pensate del dialetto nella poesia recente?
5) È definibile il momento irrazionale della poesia, di qualunque poesia? E se lo è, in che cosa si differenzia l’“irrazionale” di un poeta “impegnato” dall’irrazionale di un poeta “puro”? Coincide la nozione di irrazionalismo con la nozione di decadentismo fino a una identificazione totale, oppure c’è un irrazionalismo necessario non decadentistico, cioè non mitizzato come unico modo di conoscenza possibile?
6) La poesia appare sempre determinata da un suo particolare necessario contatto con la prosa. Cosa ne pensate dei rapporti dell’attuale poesia con l’attuale prosa, di romanzo o di saggio?
7) Anche la poesia costituisce un “valore” sociale, qualunque posto voglia a essa assegnarsi nella gerarchia dei valori del nostro tempo. Come s’inquadra, in particolare, la poesia con le altre espressioni dell’arte d’oggi? Cosa pensate della situazione del poeta nella nostra società?
1) Ogni epoca o presume di sé l’eccellenza nell’ordine, o si consuma a cercare in ogni modo, e appare quindi oscura, magra di idee, ottusa, fredda – fintantoché quel suo dolore è inteso e dà frutto.
Dibattiti recenti (alcuni qualificati e sottili) pare abbiano almeno chiarito che la crisi della poesia, come quella del romanzo e della critica (che questo e quella dovrebbe amministrare) sia da identificare non già in una generica degradazione dell’espressione in versi o delle arti in genere (involuzione, ritardo, regresso ecc.), ma nella crisi più ampia, nella ferita grande della società in cui viviamo. Crisi starebbe allora a significare una carenza, un vuoto – qualcosa di più perfido, e di più difficile, che uno sforzo per modificare, per adattare, per contrastare utilmente; qualcosa di più problematico e aperto nel tempo di una stasi non progettata o pianificata, di una costanza interessata a princìpi svuotati del rigore tipico di una reazione che si muova e finga invece di adattarsi; infine qualcosa di più amaro e distorto della volontà di restare e di essere presenti: volontà che potrebbe in certi casi determinare, spesso provocare, i contrasti, le frizioni, quei dibattiti utili finalmente che sono soltanto scontro di idee. Né l’alternativa neo-capitalista proposta in questi anni come copertura alla debolezza ideologica di cui sopra1, ha saputo offrire una rivalsa all’usura delle vecchie idee, alla perdita di presagio e di forza delle verità istituzionali; poiché non vi ha sostituito un sistema alternativo appoggiato su una organizzazione culturale efficiente seppure monolitica e fortemente condizionata, ma si è limitata, con intelligenza dei propri fini, ad assorbire il materiale umano dopo averlo sollevato da uno stato grezzo e disponibile a un livello di specializzazione soddisfacente. Questa operazione, e i primi risultati di essa, servirono molto bene a deformare, capovolgere, e mistificare (non a modificare) la situazione qual era nella realtà: così pigra e triste, in un paese afflitto, nonostante i conclamati allori, o addirittura congestionato, nel campo delle lettere, da una manovalanza non qualificata, da solitari obiettori di coscienza, da iniziati protetti dal fuoco di un qualche dio.
2) Subito nel dopoguerra l’ermetismo (che, secondo il teorico ufficiale, anche recentemente, ha rappresentato l’ultima grande stagione letteraria italiana) significò per i giovani un atteggiamento, di fronte agli obblighi della cultura, da respingere, e proprio nell’identificazione della formula tipica “letteratura come vita”; restando chiaro che in quel movimento la fierezza disarmava in un rifiuto del cuore non delle idee e che il riserbo era sperequato e gentile, non fiero e di quello sdegno utile che fa volgere la testa; che si usavano le parole per cifrare una lusingata preghiera d’anima mentre si lasciava senza eco la richiesta, da parte dei più “umili” e dei più giovani, di una verità possibile, di una provocazione generosa e disinteressata. Insomma, l’ermetismo assumeva l’impegno letterario esclusivamente come missione (“quel loro mutuo isolarsi”); esprimeva un atteggiamento mistico, venato di un cattolicesimo d’intonazione controriformista, un po’ perfido e ossessionato, intollerante quanto più pareva patteggiare; con curiosità non provinciali ma localizzate e identificabili, rivolte a testi, autori, e a princìpi che aiutassero a ricevere conferme non a sviluppare analisi, che non contrastassero e implicassero nuovi problemi. L’istituzione dell’équipe ermetica ha segnato il punto estremo non di una involuzione ma di una coagulazione della nostra letteratura, di una rarefazione dell’impegno che non fosse meramente stilistico; assorbendo in sé, in una chiusura meditata, il processo di restaurazione della legalità da belle écriture avviatosi con la trasformazione vociana del ’16 (non solo un passaggio di consegne) e giunta, attraverso “La Ronda” e “Solaria” (ma in questa sede complicata e il discorso allora verrebbe più sottile), fino ai giornali pre-ermetici ed ermetici degli anni ’37-’42.
Nel fervore della pace riacquistata, non riuscendo a trovare altra alternativa alle vecchie proposte ormai consunte2, ci si rivolse a un populismo sinceramente autentico nell’ansia della novità e di ricerca di una verità, ma mal mansionato, superficiale, ritardato da un linguaggio liso dal gran uso della nostra tradizione. Linguaggio ermetico, para-ermetico ecc.
Ma se è impossibile, in questa sede, tracciare sia pure in modo sommario una storia breve della poesia italiana più recente (autori e testi sono sotto gli occhi di tutti), si può accennare che “reazione all’ermetismo” significava, nelle linee generali, reazione a un modo, a una situazione letteraria appena alle spalle, a una “tradizione” falsata; e voleva essere reazione alla società che questa situazione aveva espresso, legittimata; e reazione (anche se contenuta in principio entro motivi polemici, generali e ideologici, solamente entusiasti e un poco incerti) agli uomini che questa situazione avevano rappresentata. Ci troviamo adesso a dovere constatare che in questi ultimi anni, insieme alla reinvenzione di modi (o motivi) culturali che parevano scomparsi o superati; insieme al processo di restaurazione di un borbonismo rammodernato e fatto meno pesante, più eclettico e, nello stesso tempo, più sapiente; insieme al raffiorare di vecchie proposizioni filosofiche, critiche, poetiche sono proprio, e di nuovo, vecchi stilemi ermetici, variamente mimetizzati, a puntualizzare le prove recenti (non solo dei vecchi pateticamente inguaribili, ma soprattutto di giovanotti di poco pelo); e siamo costretti a prendere atto che tanto più si inorgoglisce questo ritorno che affiora dalla critica alle formulette di comodo, quanto più alla sommità dell’escalina,insieme a uomini nuovi che sono subito vecchi e ai soliti uomini che sembrano non finire mai, antiche formule di governo possono consentire una equivoca politica di liberalismo falso, di gaiezza economica stratificata, di insinuante retrograda cattolicità (i veri cristiani, come sappiamo, sono pochi e non hanno il potere).
Perciò la risposta non può essere che questa: l’ermetismo è di nuovo presente, nei suoi arrocchiti stilemi, nelle sue proposizioni d’anime agonizzanti o di kamikaze di una letteratura disimpegnata (nessun ermetico risulta morto in guerra). E non è vero neppure che possa segnare il riproponimento di una tradizione interrotta; la possibilità, pure cauta e un po’ codina, di “continuare” (non dico di un impossibile progresso). L’ermetismo, nelle sue varie implicazioni (c’è adesso, mi pare, riconoscibile, un futurismo ermetico e un ermetismo futuristico – ça va sans dire!) si sforzò di indicare negli anni del suo libertinaggio metafisico l’impotenza della letteratura come azione e il rifiuto di operare, di scegliere un lavoro, per continuare soltanto a credere – seppure non in una provvidenza politicizzata; ma tutti finirono poi su “Primato”. In questo anno 1962 accompagna il momento del consolidamento di tutte le possibili avventure reazionarie.
3) Da quanto detto in modo sommario, può apparire la sostanza di questa risposta. Penso che il fine della poesia sia nel rifiuto di produrre una cosa bella per un prodotto “vero”. Che il suo fine consiste nell’essere all’opposizione delle istituzioni codificate e lungimiranti; di essere minoranza; di rivolgersi a minoranze (non di élites ma politiche); di svolgere tutti i possibili motivi di critica alle istituzioni – quali sempre si sono configurate nel loro lassismo e nella loro frigida impenetrabilità. Ne consegue che il discorso della poesia non può essere descritto che come un discorso politico; una ricerca di verità continuata, straziata e contaminata (andare col lebbroso); una polemica per quanto possibile coatta, mai generosa; un atto di coraggio (non dico un atto di fede).
I contenuti della poesia (di oggi?), i suoi argomenti espliciti, le sue istanze dichiarate, aiutino a svolgere un discorso paradigmatico, ironico, tragico, violento, comecchessia, sulla situazione della nostra vita; sulla impenetrabilità delle stratificazioni sociali dominanti; sulla massificazione dei concetti snaturati e delle idee prime; sull’ironia facile, da avanspettacolo, che deteriora tutto perché è senza moralità; sulla condizione alienante in cui opera un artista; sulla facilità che ha l’arte, oggi, nel nostro tempo, di corrompersi e di morire; di essere comperata. Questo è un discorso politico (politico in una accezione totale, da agonizzante, con tutti i peccati sulla mano), non letterario o critico – almeno secondo gli schemi; seppure siano impliciti motivi critici evidenti. Ma la situazione non sospinge che a questa difesa piena di consapevolezza, di nessun furore, decisa, confortata dal bisogno di una moralità bruciante dalla quale non si può prescindere. “L’atto della poesia… è un’assoluta volontà di veder chiaro, di ridurre a ragione, di sapere” (Pavese).
Inoltre questo discorso, se assunto con qualche dignità, può confermare un’altra cosa: come nel ’56 e negli anni che seguirono (quando tutto era possibile e niente fu fatto, e ci porteremo per la vita, sulla schiena, il peso di quei ferri che non fummo capaci di gettare lontano: “noi habbiamo potuto vincere, et non habbiamo saputo”), chi riesce a condividere una prospettiva quale ho appena delineata è di nuovo alle corde e pare senza speranza; relegato in un angolo, abbandonato all’isolamento, un personaggio che sembra cechoviano. Non è così. Questo clima di miracolo economico all’insegna dei mille frigoriferi, del calo della benzina e delle macchinette di piccola cilindrata; questo boom giuntoci di traverso, come un ciclone, spinto dal Mec, e che ci lascerà sprovveduti poiché nulla di serio intanto si risolve; questa particolare “congiuntura”, dicevo, può coprire con il clamore o con il silenzio, può rifiutare il contraddittorio e la polemica con chi non consente e, attenendosi alla sostanza delle cose, alla realtà dei fatti che non si vedono,giudica e critica. Ma sono i precedenti storici, richiamati da questa domanda, a offrirci, fra l’altro, la conferma che la “compattezza” delle istituzioni che ci consumano e delle forme letterarie che ne accarezzano la protervia, proprio perché affidata a una ideologia di comodo può essere insidiata e contraddetta, è destinata prima o poi o sbriciolarsi.
4) La formula fortunata, e tempestiva, di Pasolini, servì allora a qualificare un modulo stilistico in un certo momento della nostra storia letteraria più recente: gli anni ’57-’59; e mi pare che questa formula sia valida se intesa o applicata storicamente; nel caso in questione, pure per un periodo tanto breve e per prove così effimere.
Lo sperimentalismo stilistico, anche se dichiarato in una accezione genericamente critica, rischia di fare coincidere, e di mescolare con l’avanguardia, ogni tipo di prove, anche le meno riferibili a esercitazioni di maniera; oppure rischia di svalutarsi di contenuto critico come “formula” in sé, considerando che ogni opera d’arte proprio nel suo farsi, e nell’essere collegata ad altre operazioni analoghe in momenti consimili, esprime uno sperimentalismo engagé e quindi può tollerare una indicazione critica di tal genere, necessariamente equivoca o generica.
Ogni poesia, proprio perché intesa come ricerca di una verità, di per se stessa è sperimentale, per riuscire poi conchiusa e definita; mentre il termine neo-sperimentalismo presuppone( va) una prospettiva in fieri,qualcosa che si faceva e che si esauriva o riceveva interesse proprio, e soltanto, in quel farsi; tipiche le prove assunte a conforto, fra cui quella di un A. confermatosi poi soltanto un elegante eclettico pasticheur,o di un D. scomparso ecc.
In quanto ad alcune correnti riassorbenti atteggiamenti ecc. mi pare che possiamo riferirci soprattutto ai verseggiatori del “Verri”, ai fortunati sussunti nel limbo dei novissimi. In questo caso, o nel caso di prove analoghe, alcuni lettori o critici sembrano stravolti da un equivoco, confondendo per novità di un certo tono (si dice che sono bravi, sottili) il riproponimento, affaticato da sovrastrutture letterarie caotiche e affrettate, oppure scaltramente mescolate, di stilemi d’ascendenza futurista ed ermetizzante: è il caso tipico di una plurivalenza di contaminazioni della tradizione letteraria più recente; un futurismo non cialtrone e nutrito di qualche lettura, passato attraverso la discrezione ammiccante e sorniona dell’insegnamento ermetico, anche universitario. Non per nulla questi verseggiatori sembrano dei notabili in rodaggio, dei prossimi accademici, dei possibili uomini illustri, con la vena un poco ironica e aggrondata; sembrano divertirsi coi versi.
Lingua dell’uso, lingua colta, dialetto. L’uso dell’uno o dell’altra presuppone il grado di consapevolezza che l’autore ha di farsi intendere e identifica pure il grado, la misura della sua socialità. (Come scrive Anders: “Il nostro compito è di parlare ai Corinzi e di scrivere ai Romani. Farlo in ebraico o in aramaico, non avrebbe senso. Bisogna tener conto di questo fatto”). Tuttavia, in una società avente vari strati di parlanti, cioè classista e sottosviluppata, il dialetto presuppone la soluzione immediata o mediata che sia, comunque sempre contingente, di alcuni problemi di comunicazione o di espressione. Obiettivamente esiste il rischio che il dialetto, anche se usato con il convincimento della sua fruibilità interessata o effimera, limiti la prospettiva critica dell’autore (ancora Anders: “La poesia è oggi un’attività provinciale, e il poeta, almeno in questo momento, è diventato un eroe di villaggio”) e limiti la ricezione del consumatore, e contribuisca in fondo a un’operazione reazionaria: a “ribattere” la situazione provinciale della nostra cultura: elegiaca e non drammatica, ingenua e non sentimentale, casalinga e per nulla avventurosa, scarsamente ideologizzata, amorosa senza contrasti, antropomorfa o metafisica. La poesia in dialetto ha sempre richiesto, per autenticarsi in una realtà non letteraria, un movimento sociale che l’accompagni e la determini, la scelta di nuove soluzioni politiche, il sommovimento di classi, la necessità di raccontare.
Riferendomi al primo comma della domanda, dirò che esso comporta un discorso lungo, difficile; e almeno per me, ancora incerto. Ci si riferisce a un problema per nulla equivoco ma “imponente”; un problema che tutti cerchiamo, secondo le forze e gli interessi, non dico di risolvere ma di affrontare secondo la prospettiva più coerente e meno fallace. Ritengo che non si possa avere un linguaggio nuovo, cioè un linguaggio con maggiori margini di fruibilità e di utilizzazione a più livelli, se non si collabora a progettare, in termini realistici, la società dentro la quale l’artista (l’artista italiano) opera e vive. Finché persisteranno gli istituti attuali, e nonostante le modificazioni che l’uso e la tattica comportano, dovremo usare o la lingua equivoca ed esautorata che ci troviamo disponibile (corrosa, meschina, retriva perché classicheggiante), oppure affidarci alla lingua più rigorosa della scienza, intesa non nel suo momento specifico o tecnico, ma in quello razionale; di associazione di idee e non di verifica, nel momento inventivo e non empirico; affidarci alla sua rigorosità (“la scienza come disciplina culturale”), decifrabilità, alla assenza di significazioni plurivalenti, di metaforicità imprecisa e mistificante. Ciò contraddice l’interpretazione solipsistica di uomo illustre, secondo il quale “per ora non possiamo che salvarci con mezzi di fortuna del tutto individuali”.
In questi giorni è in corso una discussione su un problema generale, di cui il problema del linguaggio è un aspetto fra i più significativi, immediati e importanti. Non vorrei apparire precipitoso o impreciso; ma non essendoci altra alternativa (in attesa che una situazione ideologico-politica più sbloccata consenta al marxismo, sorretto da una dinamica finalmente meno introversa e da peccato originale, meno apocalittica e “tecnicizzata” nel senso del sottile, meno retrospettiva, di apparire come la alternativa dirompente; e a noi di riconoscerci e di operare, in una società che potremo chiamare solum nostra), non altra alternativa, dicevo, per dinamizzare stilemi e logora ideologia, che scontrare le forze, comunque siano, che ci fanno adesso dura opposizione; ebbene il rapporto della letteratura con l’industria, non più intesa come elemento esclusivamente tecnico ed economico, ma come “realtà” operante e incombente (realtà che l’industria stessa neppure ha riconosciuto sino in fondo, nelle implicazioni più sottili, nel momento che proponeva o utilizzava i lemmi neocapitalistici), può suggerire possibili alternative alla poesia e alla letteratura in genere, insieme alla possibilità di un linguaggio innovato almeno per inserzioni.
In effetti il marxismo, in fase revisionista di grande portata ma di lunghe prospettive, non solo non può offrire attualmente alcun pretesto ideologico maturo,ma neppure, come è il caso recente3, indicazioni temporanee, proposte alternative, sia pure al livello della contingenza.
Invece il dibattito al quale ho accennato (se aiutato da una collaborazione critica una volta tanto non affrettata o indifferente) può contribuire a sbloccare, almeno in parte, la situazione di crisi totale che paralizza la cultura italiana; nel suo complesso crociana o liberal-qualunquista ancora, con pochi casi isolati di cui potremmo fare nome e cognome.
5) In poesia l’irrazionale è l’alibi che un artista si concede per contrabbandare le proprie “delusioni” (termine generale e improprio; volevo dire: deviazioni ideologiche, concessioni al gusto comune, giustificazione dell’amor sui,consumo di sé nel potere). Il grande decadentismo europeo, alle cime, è stato tragico non irrazionale (semmai a-razionale); ha teorizzato la consapevolezza della morte, ma non mi pare che sia mai stato succube o indifferente; oppresso, non ossessionato, dall’ombra della fine, ha proseguito col lucido ordine di chi verifica la paura perché sa soltanto ciò che lascia; mai cattolico; laico o indifferente, per una generosità della vita che era, si può dire, amore. S’intende che l’armata dei peggiori, o soltanto dei mediocri, ha intorbidato le acque, e anche rovesciato questa prospettiva.
Ma non c’è dubbio che la giustificazione dell’irrazionalità in arte è un’operazione di riformismo culturale se non di autentica convalida della invalicabilità dei poteri temporali. Al contrario la verifica della razionalità dell’arte è il suo linguaggio (“il linguaggio come immagine logica del mondo”), cioè il linguaggio stesso; al modo che la verifica della razionalità della scienza è il suo linguaggio espresso in formule. L’artista, in questo caso l’uomo che scrive, è consapevole di ciò che deve fare sino alla fine; si propone scopi, risultati, verità determinate; ricerca la verità; conosce attraverso il suo fare.
L’artista schiavo di ombre oscure, tormentato dai sogni, propone una immagine dell’arte che ha il suo equivalente nel fascismo in politica e fornisce un alibi a ogni possibile potere. È nella consapevolezza razionale, pianificata,del lavoro che il poeta (che sta nella nostra mente come imago) fa le sue scelte; o si adatta a verificare il proprio lavoro al lume di altre tecniche, delle nuove scoperte; consapevole che le macchine sono oggi il cannocchiale galileiano che l’uomo ha per speculare dentro di sé, e che solo nella ricerca di una sempre meno deficiente totalità di conoscenza, non solo umanistica ma scientifica, si realizza un aumento delle sue capacità di realizzare, di rottura, di confrontarsi e ritrovarsi nel proprio lavoro; quindi di trovare una maggior complessione strutturale e dignità e verità nel linguaggio che si usa, e diventa di volta in volta più nuovo, completo.
6) Al di fuori dei problemi più sottilmente tecnici, gli stessi problemi che si impongono alla poesia si trovano di fronte alla prosa; al romanziere o al saggista. A questi ultimi, proprio per la tipicizzazione di taglio narrativo, si potranno aggiungere gli altri pericoli di facilità umorosa, di esibizionismo intellettivo, di sofismi zuccherati, di cattiverie soltanto industrializzate.
7) Ho risposto prima a questa domanda. Aggiungerò d’essere convinto che la poesia sia più avanti della pittura e forse della scultura, per esempio, proprio perché progredisce con conturbante lentezza e, pare, con confusione e ritorni. La pittura soprattutto sembra stata soffocata, nel momento di un travolgente vigore espressivo e di ricerca, dalle richieste di mercato, e trasformata in prodotti di consumo. Identico pericolo non è detto che incomba sulle altre arti. Per esempio (ecco una possibile aggiunta al paragrafo 6) il romanzo comincia a subire la stessa esigenza,l’ossessione della richiesta come merce. Da ciò un bene e un male, che si dovrebbero esaminare in altra sede. Accadrà che resisi conto che anche la poesia non è solo un giuoco di perditempo o di timidi folli, ma un mezzo espressivo immediato e potente, i magnati del nostro tempo s’affrettino a strumentalizzarla ai propri fini (di ciò nessuna meraviglia).
Invece l’architettura divide in questo momento molti problemi comuni con la poesia, nonostante un’apparente esorbitante differenza di moduli espressivi e di fini. Non da oggi la soluzione di forti perplessità strutturali e linguistiche è stata confortata dall’esempio dei risultati nel campo dell’architettura. L’elaborazione del poemetto, inteso come struttura a più archi di fondamenta, come una massiccia palizzata di cemento armato, anche nella sua flessibilità organica e “studiata” ma attraentissima, da inserirsi in un contesto sociale articolato (perverso magari negli egoismi, nei rifiuti, nelle intolleranze e nei pregiudizi, nel modo di intendere la pietra soltanto come “peso” economico, ma attraente nei momenti di lucide gioie) viene dall’architettura.
È ovvio che ci sono, poi, anche le costruzioni di comodo, poco edificanti, fatte per l’amore o per la stupida inerzia, case di campagna, ville al mare, i piccoli incantevoli chalet per i week-end. Ma quelle, come sappiamo, sono per i signori.
Note
1 Mentre l’ideologia marxista operava e incideva piuttosto in una opposizione sindacal-politica che sul piano culturale. Infatti le esibizioni dei suoi leader, su giornali e riviste apparivano inquinate spesso da sottili veleni di vecchio crocianesimo che aiutavano a confermare grossolani equivoci, o almeno ritardavano ogni possibilità di discorso “obiettivo”.
2 Poiché non si potevano ancora reperire criticamente, partendo da Gramsci, le frazioni minoritarie, e in ultima analisi determinanti, del nostro Novecento; le quali, oltre a fornire le sollecitazioni più interessanti rappresentavano, in potenza, quella nuova moralità di cui le generazioni più giovani avevano fame, dopo il lugubre divampare; e potevano, inoltre, offrire una serie di pronte e affascinanti proposte per una rilettura in chiave “diversa” della nostra tradizione.
3 Alludo al dibattito aperto sul “Menabò”, verso il quale la stampa qualificata di sinistra, al livello dei recensori di terza pagina o degli elzeviristi del “Contemporaneo”, anziché intervenire con le idee, opportunamente critiche e modificanti, è apparsa ancora una volta suggestionata da possibili timori conventuali e da una interpretazione del fenomeno ancora relegata a un passato senza prospettive (che si intende proprio seppellire). La sola lettura interessante è, come al solito, apparsa su “Mondo Nuovo”. (Aggiungo, adesso, lo scritto di Gianluigi Bragantin su “Rassegna Sindacale”).
* “Nuovi Argomenti”, marzo-giugno 1962, n. 55-56, pp. 77-88.
Avanguardia e avanguardismo*
Come ogni disposizione dell’artista nei confronti della realtà, l’avanguardia rientra in un sistema di rapporti socioculturali che la implicano, la provocano, la determinano, la qualificano. Un’ascendenza di tradizioni e di leggi della memoria a cui si oppone; una realtà effettuale che si deliba o si contrasta, o tuttavia si analizza e si mistifica; una serie di “proposte” per lo più grezze ideologicamente (nel senso di una prevalenza di motivi sentimentali o intuitivi più che razionali); proposte che nell’esuberanza esornativa acquisiscono una forza d’urto che può sembrare determinante – nelle contingenze. L’avanguardia si è sempre espressa (o quasi sempre) nell’ambito di strutture socio-politiche preordinate; nel velleitarismo abbastanza risonante dell’opposizione, la tiepida ideologia dell’avanguardia se ha innegabilmente servito a disincantare una situazione e a esorcizzare una tipologia artistica ormai goffamente tradizionale (governativa), non è mai riuscita, o quasi mai è riuscita, ad aver ragione delle resistenze strutturali che la costringevano; sicché l’opposizione finiva per essere ricuperata e conglobata entro il mondo della mitologia borghese (cioè entro un sistema di preconcetti). Esiste un arco programmatico entro il quale confluivano sempre: dapprima l’icastica rivoluzionarietà dei propositi, poi uno stabilizzamento di questi propositi e delle proposte – come un ripensamento; infine un ritorno nei ranghi con l’assunzione motivata all’ufficialità (magari retribuita). Sappiamo che tranne casi da nominarsi uno per uno, anche gli angeli più ribelli, dopo “il crampo della rivoluzione linguistica”, sono finiti in un seggio a fingere la celebrazione degli immortali. Confermando che i miti reazionari o almeno soltanto conservatori della società sono più resistenti dei propositi disorganizzati o dissociati che si esprimono nel clamore o, sia pure con più motivazione, nell’urto.
Questa è solo una constatazione, da opporsi, con pazienza, a chi vede o vedrebbe, propone o proporrebbe l’avanguardia come esorcismo dai mali o comunque il solo modo “equo” di esercitarsi addottrinandosi e di operare con profitto nella contemporaneità. Ribattiamo che essa rappresenta un momento di “frizione” culturale; espressa da gruppi di individui, e articolatasi in una opposizione al fondo esautorata da specifiche istanze di rinnovamento; e che tale “momento” finisce e si esaurisce – quasi sempre è accaduto – in una nuova proposta di rileggere i classici (e magari sul modo); anziché rappresentare un modo diverso di intendere il mondo (ovviamente: di rappresentarlo, discuterlo, ricomporlo). L’avanguardia novecentesca, nella sua articolazione pragmatica di gruppo, si configura come espressione di un atteggiamento culturale – che coinvolge a un profondo riconoscimento di sé anche un’illimitata illusione (Sedlmayr) – piuttosto che come alternativa di fondo, come una nuova o diversa ideologia dell’arte. Perché – e in ciò consiste la sua contraddizione e la degradazione del suo potenziale di scasso – mentre propugna la verifica razionale della realtà, al fine di decomporre le sovrastrutture e disarticolare i miti societari, per contrapporle una diversa (più acuta o più astuta) verità, essa finisce in una accentuata irrazionalità idealizzando la propria violenza (“chi può comprare il coraggio è coraggioso anche se vile”, Marx); in uno sperimentalismo dissociato; o in una forma di vitalismo linguistico spesso gratuito, superficiale e alle volte decisamente reazionario. Prescindendo dalle opere, che per lo più non conseguono a un discorso critico organizzato, o che addirittura contrastano o contraddicono i propositi, e che di volta in volta (in ogni modo) sottopongono risultati da determinarsi criticamente, magari in una diversa prospettiva, il dibattito culturale inerente all’avanguardia si svolge ideologicamente incongruo, un po’ sciatto sul piano delle idee, spesso inesatto nelle collusioni specifiche; e l’interesse per siffatte operazioni allora finisce per travasarsi, autenticamente, nelle “invenzioni”, in quella sorta di lupercali dell’immaginazione entro cui pare che la fantasia acquisisca una rinverdita sostanza, o un fragoroso ordine nuovo.
A meno che non ci si riferisca, dibattendo sull’avanguardia, ai massimi scrittori del Novecento, da Joyce a Kafka a Musil; a Brecht, che sono oltre il muro del suono di un dibattito aneddotico e soltanto disposti ad accettare un ben diverso cumulo di titoli. Perché l’equivoco par proprio che consista in questo: che si discute sull’avanguardia, in questo momento, da noi, senza aver compiuto prima una propedeutica ricognizione semantica, valida sul piano non solo etimologico ma ideologico, e nell’ordine degli affetti; che chiarisca i concetti e i termini dell’uso; sicché ciascuno ripeta la formula (o il termine) a proprio uso e consumo, alle volte quasi, e soltanto, commosso da un’autentica esagitazione culturale. L’avanguardia indiscutibile, sostanzialmente determinante, al livello della sovranità, è stata nel nostro secolo quella che non tanto s’è data un’estetica quanto un ordine ideologico; quella che s’è distorta dagli abiti grevemente ontologici del misticismo letterario, o della letteratura, per proporsi l’impegno di un’operatività globale, entro cui l’operazione letteraria era sussunta ma non determinante; cioè per dissacrarsi in un’operatività programmatica, in un dissenso “sostanziale” con le strutture. L’esilio era allora l’alternativa alla sconfitta; spesso lo era la morte nel silenzio; cioè la morte del silenzio era la verifica dell’impossibilità di progredire. L’ironia di Joyce (la stupenda struggente “disarmonia” che coinvolgeva il mondo prima che la sua pagina); l’epicità ossessiva di Brecht; il pragmatismo tragico di Majakovski; il simbolismo escatologico e pauroso di Trakl (ecco alcuni referti soltanto); l’avanguardia, la feroce avanguardia che resta e che frantuma la realizzano i colpiti a morte, i ferocemente perseguiti, i fuggiaschi con le cagne dantesche alle calcagna; non i funamboli, leggiadri davvero, pronti all’improvvisazione, che giungono sorridendo, in terza o quarta fila, sul palco dei vincitori.
Invece è altro, a mio parere, l’avanguardismo di questi giorni lucrosi che s’avviano all’estate. Non dunque, sia pure in una generosa accezione, un’avanguardia, qualcosa che produce o programma ecc.; piuttosto, fatto con umore di dati (e qualche riferimento erudito), un esercizio, un’esercitazione soltanto – che dei propositi dell’avanguardia detiene solo il velleitarismo della formula. Ai personaggi manca l’ironia intellettuale e la pronta felicità d’invenzione – allo stadio primario (l’arte, parafrasando Kant, del bel giuoco di sensazioni); perché sono coinvolti, ambigui e incerti, fra il cauto riformismo che nasce da un’operazione compiuta col beneplacito dell’ambiente accademico, e i propositi di un’azione tattica che li autociti; manca la chiarezza dei rapporti contestuali, avendo piuttosto reperito su fonti di ampio consumo le norme abbastanza equivoche ma sufficientemente appariscenti da spendere nei pubblici dibattiti; manca l’autodeterminazione di ricostruire un ordine dei rapporti culturali sul fondo di una rilettura e di una riverifica di posizioni politiche (la presunzione di ideologizzare l’avanguardia è soltanto il ribadimento di uno stato confusionale ed equivoco – e di un’oscura collusione in atto); manca infine il disinteresse (cioè il proporsi un programma piuttosto che tabelle di marcia individuali). Ma è evidente (fin troppo) che ogni opera ha in sé il proprio grado, il quantum di mercificazione, il marchio della propria morte, della propria discontinua irreparabilità, del disinganno e dello sgomento che viene esemplificato; e d’altro canto, dicotomicamente, è altrettanto evidente che ogni opera esprime – se è tale – anche la parte della propria “resistenza” al mercato, cioè un’offerta di propria conduzione, di originalità non compromessa, di autentico distacco dalle circostanze.
La ferma opposizione a questo tipo di operazione congiunturale si impone, a mio parere, a quanti hanno a noia per abito mentale la confusione ribadita nell’eleganza, i verba spesi nell’eccitazione di un’esibizione, e l’esecrabile tatticismo di operazioni culturali derivanti infine da un abito piuttosto provinciale (sì, sommerso dal cumulo dei pregiudizi “nazionali”). I molti che anche in questi giorni si nominano, si direbbe che approfittano delle circostanze e consumano una buona intelligenza sulle formule. Ricordassero la frase di Lenin (ripresa anche da Lukács), che ogni verità si trasforma in errore non appena la si esageri oltre misura. E la verità consiste, certo, nell’urgenza di un rammodernamento “totale” (linguistico-strutturale) della realtà, entro cui invece la cultura italiana sfiorisce, e di una verifica linguistica da compiersi con autentica freddezza e con l’attenzione specifica di chi opera su un corpo piagato; e la contestazione di una tradizione culturale che si può compiere ma non con la sovrapposizione di lemmi esagitati e con le veline degli ordini dall’alto ecc. L’eccesso consiste in una forma di orgoglio della mente, di tipo accademico o liederisticomondano, tipico di chi può permettersi “tutto” (o si illude almeno) e non tollera antagonisti ma solo tesi ammorbidite da un abbraccio universale; e in una proposta linguistica che presume, e nella presunzione ostenta, di operare da zero e che, rovesciandosi sul foglio, propone invece risultati del tutto novecenteschi: in un caso di bamboleggiamento dannunziano, nell’altro di spappolamento nella gnomica – anche se cantano le macchine. Il risultato è che si fraintende poi lo scialbo stupore di alcuni come un po’ di vento per i propri stendardi. (E ancora ovvia la considerazione che ogni epoca culturale, in Italia, ha avuto sempre, ha sempre espresso i propri Papini; e Marinetti, poveromo, aveva in più del toscano soltanto il conto in banca). Ma a distrarre ciascuno, che sia responsabile, dai propositi troppo affrettatamente e superficialmente eversivi e dalle formulazioni lancinanti arbitrarie che patiscono la moda, converrebbe riaprire per un passaggio non soltanto fugace, il Kant del “giudizio”: “la poesia è l’arte di dare a un libero giuoco dell’immaginazione il carattere di un compito dell’intelletto”. Un compito dell’intelletto. Io credo un invito autorevole alla serietà delle operazioni e al lavoro concreto – tralasciando l’alchimia fumosa delle formule e i marxiani “banali luoghi comuni”.
* “Quaderni piacentini”, marzo-aprile 1964, anno III, n. 15, pp. 34-37.
10 domande su neocapitalismo e letteratura*
1. Il rapporto tra certa letteratura moderna (nouveau roman, romanzo surrealista, romanzo magnetofonico “Alla Salinger”) e il neocapitalismo è simile al rapporto tra l’ermetismo e il fascismo? Oppure è diverso?
2. Il neocapitalismo è la riscossa anticomunista del capitalismo sul terreno stesso che il comunismo ha sinora preferito: la rivoluzione industriale. A suo tempo la controriforma non agì diversamente nella sua lotta contro la riforma: dopo un momento di smarrimento e di dubbio, adottò e fece suoi i metodi dei protestanti. Secondo voi ci sono dei punti di rassomiglianza sul piano culturale tra riforma e comunismo da un lato, e neocapitalismo e controriforma dall’altro? E comunque nei modi della lotta? E in che modo ne è stata influenzata la letteratura?
3. Il marxismo è umanistico, il neocapitalismo è produttivistico; cioè per il marxismo il fine dell’uomo è l’uomo, per il neocapitalismo il fine dell’uomo è la produzione (e il consumo). Credete che questa diversità sia all’origine dell’antiumanesimo del nouveau roman e in genere della letteratura moderna?
4. Pensate che a ogni situazione di prosperità e comunque di ideologia della prosperità debba inevitabilmente corrispondere una letteratura formale e conservatrice? Oppure credete che si tratta di semplici coincidenze? In altre parole il nouveau roman si affaccia sulla scena francese insieme con il gollismo come a suo tempo la Ronda coincise con il fascismo? Credete che sia un mero caso oppure che vi sia una relazione?
5. Il nouveau roman ci descrive città senza nome nelle quali persone senza nome si aggirano per strade senza nome facendo cose che non hanno nome in situazioni innominate. Queste città, queste strade, questi personaggi sono molto simili a quelli di Kafka: sola differenza è che Kafka era consapevole della alienazione che era all’origine di una simile astrazione, e Robbe-Grillet no. Credete che il processo di astrazione letteraria di cui il nouveau roman è un esempio risalga a Kafka, o più addietro, addirittura a Dostoevskij? Quand’è insomma che l’uomo ha incominciato a scomparire dal romanzo e in che modo?
6. Pensate che vi sia un rapporto fra il favore di cui godono le ricerche linguistiche dialettali e magnetofoniche (ossia materiche) nel romanzo, e la simpatia che i conservatori hanno sempre dimostrato per qualsiasi problematica che riguardi piuttosto i mezzi che i fini della letteratura? In altri termini non pensate che al neocapitalismo convenga che la letteratura si occupi di se stessa, piuttosto che si occupi del neocapitalismo?
7. Le tecniche del nouveau roman e in genere della letteratura più aggiornata rassomigliano molto alle tecniche della produzione industriale moderna. Nella letteratura moderna l’uomo fa parte di un mondo che egli ignora e che lo ignora, allo stesso modo che l’operaio nella fabbrica moderna ignora la fabbrica e ne è ignorato. L’operaio produce parti di macchine ed è lui stesso una parte di macchina; nella letteratura moderna l’uomo è un oggetto tra i tanti oggetti. L’abolizione della psicologia, del resto, sta a testimoniare che il personaggio della letteratura moderna non soltanto è oggettivamente un oggetto, il che permetterebbe ancora la psicologia, ma anche sa di esserlo, il che uccide ogni psicologia. Ora non è questa anche la condizione dell’operaio dell’industria in serie moderna?
8. Il problema sociale nel neocapitalismo trova la sua soluzione in una espansione dei consumi e dunque della produzione. L’uomo diventa così sempre più un semplice anello di congiunzione tra produzione e consumo; cioè, in sostanza scompare in quanto uomo, e non è più che un passaggio obbligato affinché la merce dopo essere stata prodotta venga consumata. Non vi pare che i personaggi del nouveau roman siano in fondo soprattutto dei consumatori? Così forse si spiegherebbe la loro qualità fantomatica: il consumatore infatti non esiste che nel momento in cui consuma. Il resto del tempo egli è socialmente dunque umanamente inutile e superfluo.
9. Non credete che le discussioni letterarie all’interno della letteratura moderna equivalgano alle discussioni economiche e sociali all’interno del neocapitalismo? Ossia sono possibili soltanto in quanto è soppresso “l’altro”, il contrario. E che in ultima analisi equivalgano alle accademie di un tempo le quali anch’esse si occupavano soltanto di questioni formali, cioè interne? In altre parole non staremo assistendo alla resurrezione di vecchissimi mali sotto nuovi nomi seducenti?
10. Non vi pare che il rapporto tra il neocapitalismo e la letteratura sia in ultima analisi rapporto tra il neocapitalismo e i letterati presi uno per uno nelle loro situazioni personali? In altre parole non credete che il neocapitalismo eserciti un’influenza sulla letteratura non soltanto indirettamente attraverso la modificazione dei rapporti umani ma anche direttamente attraverso stipendi, salari, posti, consulenze, sinecure, e altre simili incombenze?
L’uomo ha cominciato a scomparire dal romanzo quando ha cominciato a scomparire dal mondo. È stato l’avvento della borghesia a neutralizzare la curiosità sociale, a defraudare l’individuo del solo bene tradizionale di cui potesse ancora godere, cioè del tempo; ad assorbirlo e infine a deteriorarlo. Componendolo insieme (vicino) ad altri, la borghesia potente prima ha livellato l’uomo poi l’ha massificato; prima l’ha distorto con la violenza collettiva delle guerre micidiali poi l’ha ricomposto secondo uno schema di preordinata utilizzazione. Oggi è in atto la conclusione di questa estraniazione dell’uomo dalla realtà, e il suo ricupero in un paesaggio alienato, irto di spigolose resistenze, sovrabbondante sì di novità ma paurosamente uniforme. È in atto l’astrazione dell’uomo dalla realtà da quando, con l’ipocrisia degli idola metafisici, è stato costretto o indotto a distruggere se stesso guerreggiando nelle proprie città, dentro alle proprie case, violentandole con una indifferente furia, rivoluzionandole, annichilito in una rassegnazione senza dramma. Ha ricostruito, certo, pietra su pietra (secondo la retorica ufficiale), ma già condizionato sostanzialmente a essere e a esistere; senza memoria storica; secondo una volontà di altri, non più di un padrone ma di un sistema, di cui egli stesso era partecipe e complice, detrattore e in egual misura consapevole. È nella valutazione della capacità (volontà) di distruzione dell’uomo che è identificabile il segno della potenza degli “instituta” che lo implicano: e, insieme, della inesauribile possibilità di durata del sistema entro cui l’uomo si ritrova determinato. Soltanto distruggendo per rifare, con minuta ossessione (non dico per ricreare), il sistema sopravvive e prospera; né può ovviamente stabilizzarsi nella tranquillità sociale (ipotizzata per tattica), cioè nell’ordine, poiché l’assimilazione del fatturato, per quanto frenetica e di continuo sollecitata, non può né potrebbe accadere e risolversi con la necessaria rapidità. (L’accumulo delle scorte ecc.; l’invenduto che si scarica o si distrugge ecc.; o tutto ciò che viene accantonato e utilizzato soltanto per la previdenza di terremoti, epidemie, probabili guerre). Sicché a un certo momento di questa economia deflagrata, conseguente alla periodizzazione delle vacche grasse, non è più il singolo consumatore l’oggetto della ricerca e della ripulsa, dell’invito o dell’invocazione, ma in toto la collettività; non più il singolo nella sua debolezza e fragilità economica, evanescenza sostanziale, effimerità, ma lo Stato, astrazione che si identifica nel bilancio e nella disponibilità finanziaria, nelle sue urgenze e nella sua corruttibilità, nella sua parziale indifferenza e nella sua scarsa “informazione”. A esso si possono e si debbono affidare gli acquisti globali, l’assorbimento una tantum. È evidente che siffatto mercato, in ultima analisi, non può sussistere che nei momenti di esasperazione delle cose e degli affetti; non può che ricomporsi nella morte delle cose. È un processo, e un progresso (nell’ordine delle date) verso la distruzione per “poter rifare”; indecorosa contaminazione di delitti e di dubbi, di scalate all’Olimpo e di mitomanie, di falsificazioni storicistiche e di richiami istituzionali. La produzione infatti, oggi, supera il consumo (è risaputo); il rapporto, drammatico, non è più, secondo la fenomenologia tradizionale, fra capitale e lavoro; ma fra capitale e capitale, fra produttore e consumatore; in conclusione: fra produttore e produttore, in una complementarietà di interessi e di problemi alle volte insormontabile. Al limite del dramma diventa una collusione e una complicità. Sicché pare sempre più evidente, dentro a questo contesto, che il sistema del capitalismo (la sua ideologia, più ordinata agli effetti e più aggiornata di quanto non fosse, e necessariamente apparisse, in passato) ha come fine ultimo l’interruzione dell’ordine ordinato (entro cui l’uomo può ancora esibire e arrischiare qualche scelta economica), il proponimento ciclico di una distruzione delle cose, la distruzione globale della merce per ricomporla; non più un assorbimento graduato ma un annientamento rapido; la dissipazione. E subito, la ricostituzione, la ricomposizione nel (e del) dolore. Non un “fuoco” secondo la casistica mistica così cara e accetta, domenicalmente, alla profumata borghesia italiana; e neppure l’ossessivo medievale liberatore di streghe e di incubi (sia pure); ma un fuoco che brucia (soltanto), pragmaticamente e banalmente inteso come “avventore”, insieme il più discreto e il più rapido fra i possibili acquirenti; certo più insaziato, quindi più accattivante di un gruppo di pellegrini pacificati dall’abitudine del consumo, disincantati dalla routine. Questo è un punto. Il benessere in effetti è soltanto per un momento “storia”; il periodo di adattamento, e di necessario trapasso, che il neocapitalismo concede al consumatore per abituarlo al consumo; un periodo di adattamento al consumo razionalizzato: tenendo conto che il consumatore, o ogni nuovo consumatore, par sempre un individuo liberato da poco dalla urgenza della miseria e della fame, e bisognoso di tutto. Lo svezzamento di costui, nella fattispecie, è per lo più affidato al tramite televisivo, che determina i primi choc; consegue poi l’aggressione programmata secondo i canali abituali: richiamo al nord, sottoimpiego, piccola officina, l’impiego in fabbrica, una qualificazione di mestiere e il via alle spese: frigo, tele, forno, aspirapolvere, motoretta, cinquecento, ecc. La politica delle strade e delle autostrade. Dentro a questo contesto la cultura si esprime in una consapevole acquiescenza. No, neppure è complice; essa stessa è partecipe (una partecipazione agli utili). Il rapporto è diverso da ieri; più preciso e pubblico, semmai con qualche ostentazione di civetteria. Fra capitalismo e nouveau roman non c’è la dinamica dei contrasti (o dei contrari) ma una consapevole integrazione; così come allora, fra fascismo ed ermetismo, sussisteva un’ambiguità calibrata, il languore dell’assenza (e la complicità consisteva proprio in quell’apparente evasione; come il non voler vedere ma già con l’ebbrezza di quel non voler vedere), oppure ci si adattava a una partecipazione sospettosa, un po’ lacrimosa magari, con qualche svenimento (femminile). Esiste oggi una suddivisione di impegni, una razionalizzazione degli incarichi “pubblici”; una partecipazione che in effetti è anche d’affari. Prima semmai era, egualmente colpevole, una sottomissione al braccio secolare, alle volte rallegrata da una tolleranza paternalistica. La nuova situazione in atto ha forse i suoi vantaggi ma comporta delle precise responsabilità pubbliche (non private – o soprattutto pubbliche) alle quali gaiamente tutti si sottraggono o che di proposito eludono. Questo tipo di rapporto, quale si è configurato negli ultimi anni, si può esaminare da due opposte posizioni, diacroniche: utilizzando strumenti marxiani, che sottintendono ab abundantia un dissenso “organico”; oppure esibendosi da una parte che s’invera in atteggiamenti dialettici ambivalenti: da una indifferenza provocante, per finire alla partecipazione o alla accettazione. Non credo, lo ripeto, che si possa concludere qualcosa, nell’ordine dell’opposizione a un siffatto sistema, presumendo di operare dal di dentro (così come non credo a tutte le sofisticate operazioni letterarie di mediazione, meglio dire atteggiamenti, che invece di esprimere idee coprono e sostengono una politichetta personale, sulla soglia della sagrestia). La particolare condizione italiana corrode(rebbe), è troppo noto, qualsiasi forza ideologica che cercasse di incunearsi nel vivo delle giunture, o soltanto di saggiarne le resistenze. La condizione nostrana è tale da potersi diagnosticare in tutta tranquillità come pericolosamente uniforme e caotica, sprofondata (nonostante le apparenze) in una intolleranza ipocondriaca, scettica al modo torbido e vacuo, sornione ma in fondo svirilizzato del sottoproletariato conculcato dagli eventi, che procede nel suo ciclo vitale condizionato soltanto dall’umore;oggetto, in un contesto storico, patetico e tuttavia alla fine commovente (il nostro mammismo) nella sua debolezza cronica e senza avvenire. La classe dirigente, non intercambiabile, è cavillosa, non specializzata; informata ma non profonda nelle sue cognizioni specifiche; è ampollosa, riservata in una cerimoniosità di affetti mistici; generica non programmante; in definitiva è inintelligente e indifferente. Oggi assistiamo all’ulteriore spappolamento del tessuto sociale, non alla costituzione o alla ricostituzione di una novità operativa; all’inalveamento dentro allo sperimentalismo linguistico delle istanze “politiche” di una letteratura che dovrebbe contrarsi altrimenti impegnata; all’assorbimento conclusivo delle residue speranze e delle velleità (non dico neppure dei propositi) anziché all’estrinsecazione non formale di un programma politico, sia pure a lunga scadenza, evidente e circostanziato; all’ossequio delle tradizioni (folkloristiche) e non al progresso verso le “novità” – cioè verso un nuovo modo d’essere, un cambiare totalmente la pelle. Intendo novità sostanziali, mein Gott, non le solite sbrindellate formulette da cronicario politico, da lazzaretto delle circostanze – di cui traboccano gli atti parlamentari dai tempi di Depretis e di Sella. Si vorrebbe insomma vedere incanalato lo stupendo raptus progressivo del tempo nostro – in sé grande – verso opere, e conclusione di opere, di pubblica utilità (e felicità): a) gli ospedali; b) le scuole; c) la riforma fiscale; d) la pianificazione urbanistica. Letteratura (cultura) e politica invece, in una crasi esistenziale, collaborano al ribadimento dell’élite neocapitalista. Da essa hanno ricevuto un compito, nel momento della divisione degli impegni, che si persegue soltanto con una apparente problematicità: il ricupero e la riqualificazione “archivista” di tutte le pratiche ideologiche e di tutte le forze d’urto: indagate, schedate, inanellate secondo un calcolo preciso. La letteratura, depauperandosi di sostanza ideologica, s’arrotola in se stessa per risentirsi “cantare”; una maretta dentro a una conchiglia. Illusa nel contempo, con faccia tosta, di disperdere le tracce della sua torpida ascendenza tradizionale, che si riferiscono al maestro “tardo” di tutti i possibili pateracchi, al gran reprobo, al mistico viaggiante, al signor di Gardone. Come lui, anche questi nipoti sognano i levrieri e si dissipano sugli scogli delle città, sia pure di provincia, per le loro canzoni d’oltremare. Divertono i borghesi (con sberleffi fingendosi delusi e picchiati, dimenticati e boicottati), soddisfano il committente, hanno qualche successo personale e la fotografia sul rotocalco – tutto eguale a sempre, nei progetti, nei propositi, negli equivoci. Perfino nella difesa, al fine, dell’etica tradizionale; nell’immobilismo organico. Nei riferimenti di quella che s’usa chiamare oggi, in modo più corretto secondo la storiografia amica, non già controriforma ma semplicemente riforma cattolica, si può inferire che il neocapitalismo è, in effetti, la riforma capitalista (in opposizione a un primo riformismo economico); cioè è il sistema che eguaglia e congloba, in selezioni dinamiche e in verifiche, tutte le forze, e soprattutto le forze economiche, ma non solo quelle, che difendono comptu sui l’etica tradizionale (non mica per convinzione!). È qui uno dei punti fondamentali a mio parere, e la ragione vera di ogni disputa; altrimenti che importerebbe disquisire sul sesso degli angeli stilistici? È ancora lo scontro di due ideologie globali; la “messa in chiaro fenomenologica” della realtà contro ogni mistificazione irrazionale o contro ogni razionale mistificazione; sì, ancora una scelta che implica, come sempre in verità, il destino dell’uomo. Mescolare le carte della ragione, sostenere la “necessità” o l’utilità della contaminazione (prego, in un paese come il nostro!); divagare per sorprendere o per stancare – utilizzando a questo fine anche alcune stanche ombre; procedere all’avvelenamento dei pozzi, mescolando avanguardia e socialismo in un côté di autentica conservazione; indifferenti alle richieste di fondo, e alle necessità, di una società che non cerca il compianto, o gli isterismi di giovinetti declamanti, ma soluzioni tecniche che risolvano affanni antichi, e appaghino antiche morti. A tutto si oppongono, con la connivenza di alcune operazioni di freno sociale e di invalidamento di ogni attesa. In occidente poco è mutato, nella sostanza, da duecent’anni a oggi, se non nell’elenco allungato delle distruzioni di guerra, degli inganni patiti dalle collettività nazionali dai retori di ogni tipo, e dei cavilli giuridici sul corso dei fiumi. Pretendere che sia possibile “revisionare i motori” nella calma domenicale del sistema neocapitalista è un’illusione che trascina essa sì alla staticità, nel sogno di un moto che non c’è, e dunque a quell’autentico immobilismo mascherato dalle circostanze che è proprio voluto e ipotizzato dagli altri e a cui concludono tutte le cose nostre. In questo giuoco al livello più basso (e tragico), la letteratura – che interpretata gramscianamente doveva assumersi un pubblico impegno di rottura e di frazionamento e smascheramento delle circostanze e delle persone – decisivo, intendo, ai fini di un’operazione globale – ha ceduto e procede cauta e nevrotica, immedesimata nei propri errori, teorizzando di voler rappresentare anziché discutere, di limitarsi all’osservazione critica anziché all’affronto, esibendosi intelligente e mondanuccia all’uso più smaccato di fuorivia. In questo momento neocapitalismo e letteratura nuova, in situazione di piena analogicità direzionale e di asserita comunicabilità economico-politica, sono assestati su posizioni di preminenza specifica e di riconoscibile individuazione; apparentemente, e per il momento, senza “avversari” plausibili. In questa operazione di assunzione culturale del potere, o di assunzione del potere culturale, l’aspetto più irritante, e a un tempo disarmante, è che procacciatori dell’ideologia marxista, delusi dall’immobilità imbarazzante o tattica, si sono prestati a lasciarsi sussumere senza troppa discussione; sicché è in atto un’operazione conclusiva con cui i nuovi rettori e le teste d’uovo si prestano vicendevolmente i programmi e le credenziali ideologico-stilistiche e discutono i termini di una comune operazione verso il potere (o di potere), verificando nel contempo i possibili ricuperi, in una comune utilità, dei trombetta di un tempo. E si intessono i primi legami con i gollisti e i timidi marxisants di Francia e con gli insipidi socialdemocratici d’altre zone e paesi. Stringendosi nelle file, in un momento decisivo dell’operazione, il neocapitalismo occidentale non può trascurare di organizzare il proprio settore culturale adattandolo a queste circostanze, in cui il liberalismo amministrato eccita (e provoca) gli sperimentalismi ontologici. È vero fino in fondo che in tal modo si propone (si è già proposto) e si vuole ottenere (si è già ottenuto) che la letteratura si svii dal pensare alle idee “grosse” e badi a se stessa, illusa di cantare riguardandosi a uno specchio depurato; e goda di questa apparente libertà nel successo. Ma la poesia non ha tempo per la libertà.
* “Nuovi Argomenti”, marzo-giugno 1964, n. 67-68, pp. 109-116
[Intervento su testi di Jahier]*
C’è una certa “monotonia” in Jahier che è tipica dei moralisti; una monotonia sentimentale affidata a messaggi comunicativi semplificati o comunque “dilatati” nel senso di una accentuazione lirica (mai esaltazione) che si sforza di renderli perspicui il più possibile e fruibili secondo ogni modalità. Povertà e giustizia; ancora: la purezza nel segno della povertà (“ripasso una a una queste virtù che sono dono di povertà”); la purezza del povero, una purezza sociale oltre che privata; nel povero è assenza di esasperazione e una disposizione ad accettare il sacrificio (disposizione che è metodo, non religione), un adattamento “solenne” alla fatica; la purezza come “pulizia” dei sentimenti rodati e semplificati (direi scarnificati) dalla fatica; poi il dolore della vita, che è il trapasso della fatica di ogni giorno, la fatica nella sua continuità, l’esigenza della fatica, la sua necessità (che qui, sì, diventa quasi religiosa, cioè un atto che comporta fede) per sopravvivere (“la fatica d’Adamo degli uomini”); e la disperazione che non è mai una rivolta o una più profonda rassegnazione (tale da lasciare traccia di rancore) ma una accettazione complessiva e momentanea del male possibile (che si aggiunge ad altro male presente e in atto, inevitabile); la disperazione, allora, come un aumento di pena che incrina la calma, cioè (ancora) la pazienza di vivere; la calma che non è rassegnazione dispettosa alle circostanze (a questo grosso peso) ma comprensione delle circostanze, un verificare il presente con la forza (che è l’esperienza) del passato – ed è tuttavia anche “assenza” (indifferenza) di futuro. Certamente il povero si esalta anche in qualche sogno, in qualche progetto proiettato in avanti, ma piuttosto come un prolungamento della fatica presente, o una sua parziale risoluzione, un parziale “riscatto”: la casa (entro cui raccogliere la donna, i figli, la roba), il campo (magari a valle, per non dovere più emigrare) ecc. Questo, estremamente semplificato, è un primo dettaglio della geografia sentimentale di Jahier – che si articola nel rapporto coi “figli”, cioè col popolo, o con quella parte di popolo che l’autore conosce e di cui partecipa (“essere un uomo comune”; “far compagnia a questo popolo digiuno”). La guerra “vera” è, dunque, soltanto una continuazione, e neppure peggiore, della guerra di tutti i giorni (e così è subito smitizzata); nella guerra vera almeno si muore, nella guerra di tutti i giorni “sentite le condizioni: tribolare, emigrare, ammalare, ospedale, camorri, prigioni”. La guerra vera intesa (nell’abitudine e nella solitudine di chi si disperde, emigra) come una possibilità e una necessità di radunata, di ritrovarsi, riconoscersi, non come soggetti ma come gruppo, come coalizione sociale operante (infine, perché non dirlo?, come “nazione”).
Chiuso il quadro, si intende l’abisso di prospettiva che divide questa “posizione” da quella esibita e conosciuta di tanti coetanei (“gli intellettuali che gridavano guerra tra sigarette e stravizi”). Se c’è una esaltazione stilistica che potrebbe preliminarmente creare qualche equivoco, l’epicità di Jahier (cioè quella tensione) a mio parere è sempre “didascalica”, e il lirismo non è una esercitazione dello stile o una eccitazione sentimentale ma una “necessità” per strumentalizzare a fini specifici il sentimento – la sua carica di comprensione, e di persuasione (“fare il bene con disperazione”, “guadagnarsi d’essere il loro capo”); e questa strumentalizzazione si organizza non su un progetto di umanitarismo generico ma, come ho detto, pedagogico (“questa è assistenza d’amore”; “o se potessi portarli alla luce”). Il primo, comunque, presuppone una concezione “aristocratica” della società, interclassista, per cui l’interesse, l’attenzione sono soltanto una “curiosità” (alla fine) e una trasposizione o un trasferimento dall’alto di miasmi paternalistici; questo invece chiede la partecipazione della ragione – oltre a una estrema perspicuità e “deferenza” sentimentale: una “partecipazione” fortemente interessata e caratterizzata. Il lirismo, dunque, è una tensione che si consuma, non una esagitazione ontologica, bellettristica. C’è in Fromm, nel saggio su Freud, una sottile definizione della differenza fra ribelle e rivoluzionario: il primo è colui che si oppone a un ordine costituito, alle istituzioni e agli uomini che le rappresentano (o le amministrano) per rovesciarle e sostituirvisi; in altre parole, per rifarne altre e identiche, sotto diversa specie – col solo trasferimento di potere; il secondo è colui che si oppone col vigore della ragione e dell’azione e con legittima costanza per rovesciarle soltanto, senza alcun progetto “privato”, senza alcuna prospettiva di tornaconto. Nella misura in cui l’autore di cui ci occupiamo (Jahier) si oppone al superomismo ribellistico dei Maigret letterari del nostro primo Novecento, identificandosi con una lucida continuità nell’impegno di un operatore didattico (con la rigidità e la severità che tale progetto comportava) egli fu un rivoluzionario – e un isolato (naturalmente). In altre parole: all’esaltazione abbastanza paranoica dei colleghi (“giovani amici che rodete il freno e vi angustiate di veder passare a portata di mano l’eroismo così raro a una generazione”, Prezzolini; “Amiamo la guerra! La guerra è spaventosa e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi”, Papini; o anche, con la più cauta struggente passione di Serra: “Non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione”) egli oppose fin dal principio una “concitazione” più diffusa, un fervore che direi da ape operaia, per organizzare piuttosto che guidare, per persuadere ed educare piuttosto che per comandare (“la sventura della guerra mondiale” scriverà su “L’Astico”);dunque, per ripeterci, un fervore pedagogico – che era un fervore della coscienza e una assoluta esigenza, necessità di dedicarsi; un “pathos parenetico” (Walter Jens). In questo senso un “maestro” è rivoluzionario: nella misura in cui opera e si oppone, cioè modifica o si sforza di modificare, entro situazioni di fatto, la condizione degli uomini. Mentre i colleghi si proponevano magari di emergere o comunque si esaltavano disponendosi a utilizzare la guerra come un farmaco privato che appagasse la loro bramosia vitalistica o nazionalista e rimarginasse le loro piaghe private, in Jahier è subito tipico un proposito violento, tenero, misteriosamente ottuso (nell’apparenza di un candore semplice) di regresso, di rientrare nei ranghi, di perdersi nel numero, di imparare dagli altri (e non tanto dalle “cose” terribili), di identificarsi e smarrirsi nella grande massa anonima e veramente gemente (“ritirati fratello-padre, perché è il momento di ritirarsi e di soltanto guardare”). La sua ambizione è orizzontale, prospettica, contro l’egoismo realistico e verticale degli altri; il suo progetto di lavoro è subito metodico, non esaltante e improvvisato ma convinto, demistificato; dunque paziente, oscuro. Cerca i collegamenti, si propone di allargare la serie dei rapporti umani, sente di non poter agire se non conoscendo (“bisogna che sappia di ciascuno come gli è andata fin qui la vita”); provoca un discorso continuo, in cui egli sia piuttosto un uditore o un partecipe che un artefice da applaudire; non chiede consensi ma convinzione; non vuol suscitare ammirazione ma simpatia e, alla fine di tutto, fiducia, cioè amore. È un impegno di vita piuttosto che un progetto letterario (nella guerra); ed è un impegno che soprattutto si esalta e si compie, anche se non si esaurisce, nelle vicende da cui è determinato. Lo stesso Gino Bianchi rappresenta in un certo senso l’introduzione, l’antefatto alla vicenda alpina; è una esegesi preliminare, ironica, infastidita, raccontata con un distacco “acrimonioso”, talvolta perfido nell’ironia leggera, alla catastrofe che seguirà – che è nell’aria. È una ricapitolazione o una descrizione di una società che si è consumata (o lo sta tuttavia). È l’antefatto di tutte le possibili negazioni e involuzioni, con quel tanto di gaddismo che affiora, in una contraddizione abbastanza tipica e legittima con le opere seguenti (e tuttavia legata a esse): l’ironia, come ho detto, e il linguaggio piatto (burocratico), a piccole increspature; trasposto; che ricalca una condizione sentimentale di assoluto distacco, rivagheggiata da un personaggio che non la patisce più, non è più protagonista.
Nel lirismo pedagogico (che rappresenta a mio avviso l’unico esempio di trasposizione letteraria del proficuo sociologismo salveminiano, e di quel tanto di utile investigazione della realtà italiana che ha reso classica almeno una parte del lavoro della prima “Voce”) rientra senz’altro la rude e intransigente componente religiosa di Jahier – che non è quella di Serra, per esempio, tutta sfumata e tragica e che intendo come una “terribile” rassegnazione o come un presagio “augurale” che disancora l’uomo dai propri progetti e lo fa quasi morto innanzi tempo, rendendolo agli altri “pauroso”. In Jahier nonostante qualche ricalco, che era nell’aria (“questa chiarezza di moribondo che la guerra ha donato”), c’è piuttosto un fervore operativo “francescano”, quasi gioioso, affidato alle cose e alle persone (nonostante i dubbi inevitabili, i rammarichi, i segni e i riconoscimenti angosciati di una propria debolezza per la complessità dell’agire); c’è una prospettiva di lavoro lungo, un progetto a cui attende (senza limitazioni) e una speranza per esso; non c’è la presenza “continua” della morte, non quell’angoscia chiusa, selvaggia, manichea. Al contrario: continua a svolgersi la vita (nonostante tutto), che semmai deve migliorare o servire a qualcosa per tutti; che deve procedere acquistando conoscenza di sé, con questa volontà di progredire – e non è intesa come qualcosa che è sul baratro da cui deve arretrare balbettando. Anche questa è una novità che ci colpisce. In un momento di grandeur (irrazionale o interessata), Jahier ha anticipato nelle pagine delle sue opere (che resistono fra le più solide del secolo) la folgorante protesta che sarà poi di Brecht: infelice la terra che ha bisogno di eroi. Infatti non di eroi occorreva il seme ma di cittadini “buoni”, cioè giusti. Egli coglieva il presagio dei tragici impegni che seguiranno, della continuità della lotta (per cui occorreva la chiarezza che produce a ogni costo fermezza); perciò anche in seguito non si è contraddetto, non ha demeritato; pagando con la pelle viva; e con un silenzio che ha tutto il nostro rispetto.
“Paragone-Letteratura”, Nuova Serie, ottobre 1965, 16, n. 188/8, pp. 103-107.
[Intervento su poesie di Cesarano]*
Tengo sotto gli occhi, per questo rapidissimo inventario, oltre naturalmente ai testi che qui si presentano, dell’altro libro di Cesarano, La pura verità, soprattutto Autodromo; che mi pare tipico e mi serve – mentre offre un risultato eccellente sotto tutti i punti di vista per “organizzazione” e per “lingua”; per espressività organica.
Là, subito: “il cancello si spalanca, / un muso di bestia che annusa l’asfalto / esce adagio / poi intiera si vede la macchina… / Cammina / in tuta il meccanico, scorta la macchina / col fumo dello scappamento che sfiata / sulle ginocchie lente e le macchia”. E dopo, di un coniglio che si precipita ammattito dal frastuono dei bolidi: “Nel pelo / parassiti e semi a uncino di vegetazione / selvatica”. Mi sembra, sia pure dai brani estrapolati, che risulti (e risalti, in qualche modo) il bisogno “freddo” del particolare, la ricorrenza a una ricapitolazione (che non è descrittiva, non soltanto descrittiva) dei singoli dettagli, per incastrare una scena, un fatto che conta; come uno scendere dal generale al particolare e non viceversa (risalendo); una illuminazione o chiarificazione a ritroso. Cioè: da una certa sicurezza preliminare ci si svolge alla ricerca di tutti i dettagli, che non vengono contestati ma reperiti e subito strumentalizzati (classificati) ai fini di una dichiarazione di princìpi. Si esprime anche una “esaltante” prevaricazione in questo procedere senza scrupolo – e, direi, senza l’ombra di una memoria ingombrante e senza “troppi” dubbi. Ne riesce, in generale, un risultato fortemente struggente nell’ambito sentimentale (ma senza sbavature e complicazioni) e di chiara o comunque risaltante fermezza ideologica; non un interrogarsi ma un dichiarare, contestando le cose. Anche una scaltrita prepotenza che non finisce nel generico o nel gridato (l’usura del melodrammatico) ma si mantiene contenuta, controllata dalla ragione che opera e indaga. Scene di un racconto, è stato detto? o un racconto tout-court? Sia pure. Con qualche malizia che contraddice subito ai rapidi (e leggeri) indugi lirici (il “trabocco” del sentimentale di cui si diceva sopra).
Nei testi qua offerti il discorso cambia, o comincia a cambiare, per il critico. È da un po’ che sto attento a questo mutamento, a questo passaggio di coordinate – che avviene, mi sembra, nonostante tutto, con le regole, i necessari calcoli e con cautela. Ora il discorso si infittisce, si aggruma; si fa “spesso”, alle volte addirittura difficile, per una concentrazione che risucchia all’interno i possibili appigli esplicativi e li assorbe nello spessore caldo delle argomentazioni. L’autore appare nervoso e in un’attitudine di sospetto, comunque indifferente al fruitore; non lo consiglia, non lo segue, non lo provoca (di proposito) e non vuole convincerlo (non cerca di convincerlo). Il discorso, che era prima con l’altro, si fa monologo; il personaggio si sfuoca; il racconto diventa introspettivo e accentuato nei nodi ontologici; c’è una recrudescenza di lingua colta, quasi un ricupero di una certa accademia compiuto di proposito (s’involve; aurea; gravi collere; visceri; ratti; s’involò; intiera; voraginoso; trasalimenti; sorte impredicata; l’aspro grido; divaricati sguardi; lenti vocaboli ecc.; e ancora: canuto, afrore, orante, codesto, m’appiglio, pulsa, rovi ecc.); una insofferenza a generalizzare (“tanto, registro / ciò che è a portata d’occhio, ciò che si sente / sopra o sotto il brusio”);cioè subito sopra e subito sotto, quindi appena una impercettibile divaricazione; il proposito di affidarsi a una metodologia; restringere i confini. Questo si traduce in una (magari apparente) maggiore calma, o quiete (dopo una tempesta); il discorso, mentre si complica si amplia anche; prolifica in sottosezioni congetturali, attinge la metafora. Decade, ai fini argomentativi e strutturali, la necessità di reperire e codificare il particolare; e sopravviene una dilatazione sfumata come lo sgranarsi di una fotografia ingrandita. Una “irrequietudine” dell’intelletto (che non contraddice quella calma) e una più accentuata (e drammatica) incertezza sentimentale. La struttura è vilipesa, violentata, quasi contorta (al modo di un filo di ferro più volte piegato); i dettagli sono accatastati; gli oggetti, le cose relegati alla funzione “negativa” di controcanto; non sono più funzionali ma demoliti, quasi archiviati a un ruolo subalterno, espressionisticamente decorativo. C’è un autentico “scempio” del particolare – che è tragico, irritante e, nello stesso tempo, molto interessante. È un annuncio che il privato avrà il sopravvento? di una possibile autobiografia (fortemente drammatizzata)? del prevalere del particolare e il dilatarsi dei nuclei sentimentali, sia pure controllati e vigilati dalla ragione? assisteremo a una rappresentazione d’interni? o esploderà il dramma autentico, già preannunciato, di chi è dilacerato fra l’obbligo della sua socialità e il necessario espletamento degli incarichi e dei poteri privati? Tali domande, disposte con l’affanno del breve spazio, presuppongono intanto una concentrata problematicità in questi versi che leggiamo, una carica provocatoria di forte rilievo; e testimoniano intanto dell’interesse che nasce dall’interno di testi lungamente e acutamente elaborati.
* “Paragone-Letteratura”, Nuova Serie, dicembre 1965, 16, n. 190/10, pp. 149-151.
La rabbia e la ragione*
Premetto che la scelta, volutamente unilaterale, sottintende in breve una immediata indicazione di temi, quali: la guerra (ogni guerra), la politica (la lotta politica), e quel tanto di privato (ma non lacrimoso) che si conclude col ritorno dall’esilio (“incendi precedono il figlio”); sino alla fine, cioè, di una odissea e al riaprirsi di un nuovo capitolo altrettanto problematico; o, se vogliamo, di un capitolo di vita non troppo diverso dal precedente per le nuove difficoltà e i contrasti che incombono (“Le fatiche dei monti stanno dietro di noi / davanti a noi stanno le fatiche delle pianure”).
La produzione in versi di Brecht (materiale di scontro, d’urto e di immediato realizzo a fini pratici, contingenti, politici) è tipica delle prospettive dure e particolari entro le quali l’autore adattò ogni sua opera, ogni suo scritto. Nessun altro scrittore in questo secolo strumentalizzò con così rabbiosa protervia il proprio talento e violentò la propria fantasia per persuadere il prossimo, il compagno di strada (“Non aspettate tranquilli la morte!”) o per attaccare l’avversario. Ogni opera di Brecht presuppone sempre un interlocutore che la contesti e un lettore consenziente che deve essere persuaso a leggere; nella sua dose e dote di chiarezza (apparente) e di logicità alle volte ovvia c’è raccolta la tensione di un operare con le ore contate e dentro lo stimolo di una urgenza mortale. Da una parte un nemico (reale) che avanza, dilaga, schiaccia (“tanks, cannoni, corazzate, e a punto / nei loro hangars gli aerei”); dall’altra uomini isolati che fuggendo si adattano a sperare e affilano le armi, non solo della ragione; oppure che si inviliscono in una lotta che pare non risolversi. Il rapporto è terribilmente incongruo, eppure in questa disparità di forze che dialetticamente è disarmante (“Di prima mattina / giro la manopola e ascolto / i notiziari di vittoria dei miei nemici”) si verifica in ogni momento la consistenza della “giustizia” e della speranza che nasce dalla giustizia. Non ci si aspetta un trionfo improvviso, mentre si è immersi nelle ore buie, ma il faticoso ritorno della normalità entro cui vivere, e di una certa realtà non corrotta. E col ritorno della giustizia non l’emergere del tempo dell’oro; ma, se non un ragionevole equilibrio, almeno una più diretta volontà d’agire, un ricomporsi del tessuto sociale.
È evidente la mancanza di utopia in Brecht. Egli non affida i suoi messaggi a simboli, non prefigura capziosi ideogrammi nel misticismo (sia pure della politica), non fa del narcisismo ideologico; piuttosto incalza metodico, monotono, alle volte con una certa pesantezza, una ridondanza che può apparire mediocre, spersonalizzata, ma che in realtà finisce per convincere e avvincere più di ogni esaltante invocazione lirica (“Mostro / quel che ho veduto”). Non epici, i testi di Brecht sono piuttosto organizzati con un razionalismo didascalico che non teme neppure le contraddizioni quando esse finiscano per riuscire proficue. I temi sono la guerra, il partito, l’imbianchino,la rozzezza astuta e tragica dei potenti (“Quelli che stanno in alto / si sono riuniti in una stanza. / Uomo che sei per la via / lascia ogni speranza”) e le contraddizioni anche economiche di una società volgare (nel senso di “spaventosa”); il suo metodo è quello di scegliere o di centrare un tema e di svilupparlo come una argomentazione, che non è mai moralistica – perché non vuole colpire il sentimento – bensì dialettica, cioè rivolta alla ragione; e comunque pratica, perché tiene conto obiettivamente della situazione e delle necessità utili per contrastarla.
Questo produrre per un pubblico (per la gente comune) non da richiamare e convincere ma già disposto dalle vicende a intendere ogni dilemma o problema, e che non si lascia frastornare o fuorviare, dispone l’autore a drammatizzare i propri testi, ad adattarli a canovacci per una tragedia dell’arte,a possibili recitativi, a invettive e prese di posizione, ad aneddoti, scene, schizzi, stravolgenti bozzetti; o addirittura a proporli come fatti di cronaca (nera) per renderli più immediatamente e largamente fruibili per tutti gli usi di una vita intera. Sono testi in movimento; celebrativi (nel senso che sforzano le situazioni di fatto isolandole in rapide folgorazioni narrative) e politici (nel senso che enunciano e propongono, dentro ai vari momenti di tensione pubblica, una scelta; o ribadiscono la necessità di queste prospettive di scelta); ciascun lettore potrà poi aggiungerci qualcosa o togliere qualcosa, cantarli, contestarli, rivoltarli; potrà in continuazione riscriverli, liberamente appropriarsene, adattarli ad altre circostanze, implicarli in situazioni diverse. Apparentemente rozzo nella sua scaltrissima semplicità; poco sfumato perché tutto teso a una argomentazione che vuole partecipare (proporsi uno scopo), Brecht compie una profonda operazione di demistificazione poetica, trasferendo la poesia dall’isolamento tradizionale, in cui prevale l’interesse privato-lirico (e dove risuona la dolcissima retorica) all’impegno irto e difficile dell’interesse pubblico e della lotta politica (“Nel mio canto una rima / mi parrebbe quasi insolenza”). Non più sentimentale (“la lirica deve essere giudicata sulla base della sua utilità”) egli la declassa con una operazione di trasferimento violenta e improvvisa (ma tuttavia consapevole, misurata e calcolata) a strumento di persuasione, di sollecitazione, di ammonimento; la utilizza e manipola in ogni modo, con la scaltrezza tecnica dello specialista, usando la ballata o un secco discorso disarmonico, “gli ottoni dell’allitterazione” e le rapide e balenanti allusioni, ammicchi ecc. che toccano mente e cuore e si annidano subito nella memoria. E non evade mai da questo impegno, non svirgola, non elude; se nei tempi bui bisogna cantare dei tempi bui, egli fa oggetto della propria operazione questa ricognizione spaventosa e difficile; alle volte quasi un’opera impossibile, un’impresa disperata. In molti componimenti c’è quell’ironia ringhiosa, da cane, che graffia la realtà e la esaspera dilatandola, non potendo intanto colpirla a morte o soltanto ferirla; e tuttavia, a sostenere la struggente tensione del discorso, si sovrappone la consapevolezza drammatica di operare sul concreto per il futuro del mondo e, in altre parole, e sia pure con pochi strumenti, per la salvezza dell’uomo (“Sì, verrà un tempo / che a quei savi e cortesi / pieni d’ira e speranza, / che sulla nuda terra si posero per scrivere / nel cerchio di chi era in basso e di chi lottava, / sarà data pubblica lode”).
* “Avanti”, supplemento della domenica, 30 gennaio 1966.
Una nota su Rebora*
Ci limitiamo, in questa sede, ad alcune annotazioni su un autore che meriterebbe (perché lo vuole) un lungo discorso; che si organizzasse, fra l’altro, tra i meandri di una critica non sempre amica o attestata, per lo più, in una rispettosa indifferenza. Già Prezzolini ricordava che “quando apparvero i suoi Frammenti Lirici non direi che facessero impressione nemmeno nel gruppo nostro” e che c’è “qualche superstite del tempo de ‘La Voce’ che non si sente di cambiare il giudizio piuttosto negativo che allora egli ne dette”; e Contini, in un saggio esemplare, annotava “ma i suoi lettori si fanno sempre più rari”; infine Montale, in un epinicio post mortem, “Rebora ha sfiorato la poesia contemporanea”. Ora poi accade anche l’inverso, per una specie di agitazione incongrua; ed è soltanto il mistico, l’uomo di fede, l’operaio della fede che prevale insinuandosi nella considerazione.
Direi subito: poeta durissimo, da rasentare il fastidio. Duro, perché ogni progressione è fatta al modo di chi, parlando, cerca le parole (con fatica) e non per sceglierle fra loro, ma non trovandole. O forse per un disdegno del mezzo (“tu sei cagnara e malizia e tristezza”) che esprime, minimizzandolo o deformandolo, o comunque non con quel rigore e con quel vigore, un prepotente e “deciso” (perché convinto) bisogno spirituale. Tutto ciò che è confortevole se lo preclude (“perso in divino fremito il pensiero”), le sue scelte imbarazzano lo stesso lettore (“e nella gola mi gorgoglia e brucia / tutto un impeto rosso / che vien sulla parola e accieca il suono”). Perché mai? innanzi tutto, direi, perché il lettore non è da Rebora disposto ad assistere a una rappresentazione o al dramma di una condizione esistenziale ma è investito subito da una responsabilità, costretto a un contatto diretto, indotto a una contestazione: “Ma tu che ascolti, recalo (il mio canto) / al tuo bene e al tuo male / e non ti sarà oscuro”. Coinvolto in un colloquio a due e messo nella condizione del protagonista (e, sotto un certo aspetto, del colpevole) il lettore diventa esso stesso personaggio attivo e violentato (“ma ciò ch’essa non dice / ognun, s’entri a cantare, / l’intenderà secondo suo bisogno”), direi esacerbato con il crudo rigore della tensione piuttosto che della persuasione (“così mi è grato confortare altrui / mentre rotolo dentro”); è scosso più che convinto – poiché la convinzione deve seguire a questo forte anelito di verità (non di bellezza) che travolge; o conquista oscuramente. Ma la tensione preminente è verso una spiritualità faticosa (non eroica), cioè proposta con l’impegno della fatica verso terzi; da assumere, dunque, non come vittoria per sé (quando accada) ma come un pane per gli altri (“esser qualcosa di adatto”; “nell’amor della gente mi paleso”); la buona parola, come un sussidio da dividere, come un impegno profondo di vita. Un impegno societario a livello metafisico (mistagogico) da cui non è disgiunta una forte carica di eroismo (cioè, una volontà di fare e di pagare direttamente). La sua tensione, che sperimenterà via via ogni sorta di dubbio “in progresso” (dal riuscire nell’intento della persuasione: “E porgo la mano con fede / agli uomini senza aspettarli”; alla contestazione continua della propria capacità di soffrire e di amare: “ma il dolore non basta / e l’amore non viene”; alla contestazione della propria capacità di intendere, cioè di compenetrarsi fino in fondo nell’impegno, “in questa angoscia gioita”); e che sperimenterà ogni sorta di ansia dolorosa (“esser qualcosa di adatto”), di ansia direi favolosa (e in ciò si scopre un motivo struggente) e di fatica per raggiungere vittoriosamente un suo assestamento “definitivo” – si esercita nel tempo e nella vicinanza di quegli uomini, rilevanti, che operarono dentro al movimento modernista, per un tentativo non tanto di opposizione e rovesciamento ma di “rinnovamento” all’interno della Chiesa (“nell’ambito di una riforma delle strutture, della teologia, di tutto l’apparato dottrinale ecc.”); e dell’opera di costoro condividendo il proposito (lucido, per quanto problematico) di cercare di convertire “all’interesse verso il problema religioso” un pubblico quanto più vasto di personaggi culturalmente impegnati e qualificati, di notabili e di dame. Questo fervore operativamente pratico di apostolato, che contraddistinse fin dal principio la qualità dell’impegno di Rebora, giustifica e spiega come egli abbia inteso sempre il lavoro poetico come un appoggio (e non uno sfogo) al proprio lavoro “terribile” e alla propria ricerca, più che un appagamento; e spiega anche il tono denso, ingolfato, alle volte precipitoso, di questo discorso in versi, ridondante ed ellittico. E dunque una poesia aggrottata e di una “ingenuità” straziante, indifesa e indifferente sul piano linguistico (in cui confluiscono stilemi dialettali e colti; risonanze domestiche; in uno con l’utilizzazione di durezze dantesche, scansioni campanelliane, carduccianismi, pascolismi e rimandi rapidi ai minori e minimi protonovecenteschi), evolventesi per esplosioni di grumi concettuali che si dilatano integrandosi o intersecandosi, o di accensioni liriche torbide e dure; una poesia scandita spesso su ricalchi direttamente strumentalizzati. Che l’approdo, dopo il furibondo travail di un decennio (e dopo un periodo di riflessione più individuale), sia stato il sacerdozio è solo un fatto che va constatato; ma nel momento del suo precipitoso e denso “fluire” (come vorrei intenderla, nel senso di andare verso) l’opera di Rebora, raccolta nei Frammenti, è significativa di una condizione della società italiana, o almeno di una parte rilevante e tipica di essa (al nord); di una società, cioè, che vuole riadottare, e cerca confusamente, una dottrina per lo spirito, un sistema cui aderire, sortendo dall’esagitato entusiasmo post-risorgimentale per il positivismo, entro cui si era adattato il piccolo miracolo borghese e provincial-industriale seguente all’Unità. È il moto, che si va esprimendo, del rinserimento attivo (e partecipe) del cattolicesimo (e non dico tanto dei cattolici, ancora) nella società italiana, attraverso una serie di prove o di tentativi delegati ai singoli, ai gruppi minoritari ecc. È il moto e il proposito della borghesia qualificata e di un patriziato “intelligente”, ma da cui è lontano o indifferente il popolo (“la plebaglia”, “i clamorosi grovigli di folle”); che è visto o ricordato circoscritto in una banlieue grigia nebbiosa indifferente. Rebora infatti tentava (e voleva, tentando) di uscire proprio da quel “quinto piano d’un alveare cittadino” in cui viveva “conducendo una strana vita che si può dire disperata, nella tormentosa ricerca di una giustificazione e liberazione che non riusciva a trovare nel mondo turbinoso della nostra civiltà”.
Mentre la sua opera seguente (esigua, per la verità) ha il risalto di una lucida pacificazione d’amore e tutta la febbre di una adesione e partecipazione conquistata (o ritrovata), l’opera prima di Rebora si offre come esemplare importante e lucido per una ricognizione nella cultura italiana d’allora; si offre come esemplare di un momento (o del momento) del riesame religioso; dell’identificazione di un problema centrale che urgeva e che chiedeva risposta. Il dramma dei modernisti (che sfiora anche Rebora) conferma a noi, spettatori assai attenti e in qualche modo disinteressati, che – sia pure in quella disposizione a cui non ci troviamo evidentemente consenzienti – la fatica, il lavoro, il faticoso dibattito di questi uomini ebbe una sua spietata e logica necessità; e Rebora ci offre il parametro per una ricognizione letteraria ad alto livello (e a lui si potrebbe intanto adeguare, per altro verso, Boine). Gli uomini “responsabili” del tempo si avviavano verso la guerra consapevoli, al fondo, di una tragedia imminente e frastornati da dubbi dolorosi e da oscure necessità; e intanto si affrettavano – ma non riuscendo a concludere a tempo – per verificare gli strumenti conoscitivi che li avrebbero fatti più chiari a se stessi e più utili, alla fine, sul piano dell’interesse pratico, agli altri – e in definitiva capaci di condizionare se non di governare gli avvenimenti. Tutti arrivarono troppo tardi. Anche Rebora, in questo caso, dovette demandare la risoluzione del proprio dramma, autentico, a dopo. A dopo, come sempre accade (“vivere è giustificarsi”). E fu allora più solo. E fu perso per noi.
* “Paragone-Letteratura”, Nuova Serie, aprile 1966, 17, n. 194/14, pp. 90-93.
[Intervento sulla poesia di Sereni]*
Dopo Frontiera e Diario d’Algeria, Gli strumenti umani è un libro diverso da questo e da quello e per alcuni versi contrastante. Da qui il suo fascino e il suo interesse attuale, almeno per noi, così tendenzialmente determinati. Libri definiti e storicizzati, i primi; esemplare dell’ermetismo post-montaliano l’uno (dunque “molto” importante per questo, non trovando altra campionatura adeguata da affiancargli); ma di un montalismo scarnificato (nel senso di una deduzione culturale), in parte eluso per la mescolanza di altre vicende e ascendenze e già segnato da un interno contrasto, da una diaspora caratterizzante (indicazione di una delusione postuma, dell’impossibilità di usufruire lo stampo per un ricalco ulteriore, di una sazietà paradigmatica ecc.). Il montalismo (inevitabile, si intenda) di Sereni è settoriale, contestatario al limite del privato e accettato con un (deciso) turbamento della ragione (per prefigurarlo: un’adesione sentimentale – una serie di sentimenti – contratta e contrastata da alcune argomentazioni “valide” che si svolgono al fondo, che inducono tuttavia l’ordine apparente, o faticosamente disposto, a riscomporsi. Una continua, e abbastanza tragica, operazione di riadattamento). Da qui l’insoddisfazione della mente, cioè l’intarsio delle argomentazioni che sibilano alle volte con una oscurità contraffatta e allarmante (allarmata); l’impossibilità di far collimare ogni particolare in questa geografia sentimentale oscurata dal preannuncio o dalla considerazione di eventi precipitosi. C’è dunque, già allora, nell’atto di fare, un avviso di contrasto rimandato e di presente fastidio; di una coscienza turbata dall’impossibilità di una utilizzazione totale dei referti ai fini di un conforto privato (e dunque legalitario) e culturale (e dunque pubblico). Tuttavia predomina, sopra, in una evidenza non contestata, la nota il segno di un lamento sui generis sulla propria vita delusa, l’accarezzamento di un esistenzialismo romantico e commiseratorio da morte nel diluvio,da dopo di me il silenzio;quasi l’esempio, insomma, di un’esigua ed esile aridità di vecchi, e di un bieco egoismo che s’annuncia. La disposizione al conservatorismo aulico e indifferente. Il Diario non determina ancora un trapasso dalla situazione di equilibrio privato di cui sopra (sia pure con tutte le possibili tracce di ferite); o non determina certamente un trapasso; ma approfondisce i motivi della situazione, li problematizza e li rende perspicui, provvede a considerarli più autonomi; li infittisce e nello stesso tempo li seleziona; il gusto (o in altre parole: il consapevole bisogno) dell’astratto si fa più raro, più sfumato, meno impellente (o esigente). L’urbano decoro,entro cui si qualificava semanticamente la poesia precedente (cioè i testi che sarebbero tutti da esemplare) adesso viene messo in dubbio, se ne soppesa la scarsa rilevanza ai fini di ogni operazione; la necessità nei riguardi dell’ordine privato entro cui agire (e senza salvezza probabile al di fuori di esso) viene discussa; si avvera un progresso (deciso, direi, anche se da rintracciarsi con critica pazienza) nel dubbio “utile”, sia pure esistenziale; nel malessere che nasce da insoddisfazione dei risultati (“luci sinistre”; “disperato numero”; “sono cieco ed inerme”; “il tempo irreparabile della nostra viltà”; “sono un tuo figlio in fuga”). La guerra, in cui si è già immersi, non è più una possibilità nera del futuro, ma la realtà stessa, il presente, la condizione della vita; e dunque la guerra si inserisce nel discorso decidendo la scelta dei termini col peso della sua presenza verificabile e atroce (si può dire?). Ma il progresso, nell’assimilazione dei dati, è lento; Sereni non si presta al di fuori,è restio e dubbioso insieme, ha una sua cattiveria nel dubbio e resiste per sospetto di non essere o non riuscire sincero fino in fondo. Egli deve tirare le reti dal di dentro,consumare da solo la carica di fervore privato che si scontra con le vicende del mondo; consumare il suo esistenzialismo etico e una discreta carica di cattiveria (egoistica o soltanto scontrosa?) che nasce evidentemente da quella educazione così ingarbugliata. I tempi erano tali. Un duplice lavoro, dunque, lo impegna assorbendolo, in uno sforzo di chiarimento, di scelta (dicevo: di rinnovamento) che esigeva una partecipazione totale, disarmante (o armata fino al parossismo), proprio nella misura che era pronta a consolidarsi. Non c’erano lune rosse per Sereni. Ecco perché il peso del suo silenzio, della sua fatica, delle difficoltà via via consumate (e non soltanto private) acquistava un significato propedeutico di estrema significazione e interesse.
Gli strumenti umani (in questo mi pare consista la sua tempestiva necessità, nell’ordine delle ricerche comuni, abbastanza aggrovigliate ma conturbanti ed eccitanti), è il libro “esemplare” di un contrasto vittorioso, la deduzione di un trapasso, un rilancio di vita, una rinnovata presa di posizione, l’esempio di come si riesca a prevalere nonostante tutto contro la situazione, contro il peso del cuore e la ragnatela della tradizione. Il libro rappresenta una partecipazione diretta alle vicende dell’epoca, non più soltanto una odissea privata magari intessuta di astuta curiosità; un libro “generale” non già l’excursus patetico del mistico medievale, l’esemplare catalogazione delle provocazioni luciferine dedotte entro la cassa armonica del cuore – e oltrepassate, cioè catalogate col canto. Il rapporto con la realtà non ha più l’incertezza (assai suggestiva, bellettristicamente) di un amore-odio, di una luce che si spegne, di una finestra nella notte (lo sguardo nel buio), un equivoco da Giardino dei ciliegi;al contrario, possiede la durezza, e l’inesprimibile angoscia, di un braccio di ferro che si svolge ogni giorno, a occhi aperti; di una lotta senza risultato (cioè: che non cerca la vittoria o una possibile conquista; che non l’esige necessariamente); di un rapporto “definitivo”. L’autore, adesso, e proprio dal di dentro dell’opera che si svolge, cerca i collegamenti “esterni”, s’attesta su posizioni non di distacco severo ma di partecipazione risentita; condivide (sia pure condizionato o contrassegnato dai limiti comuni di un’età e di una educazione) l’esigenza di ricerca e di nuovo trapasso che sta avanti dietro intorno alla nostra officina, in questo tempo. Il nuovo volume rappresenta dunque non già (o non più) l’adeguamento eccellente a una situazione culturale segnalata dall’ufficialità contratta e cerimoniosa; ma il riconoscimento di sostanziali mutazioni non solo nelle cose che passano, nei fatti che declinano, ma nella prospettiva della cultura; e nello stesso tempo raccoglie, con una tensione che riesce a entusiasmare, una serie di proposte, di inserimenti organici, di contestazioni, per svolgersi dal di dentro di queste nuove prospettive. Per precisare ancora le ragioni di una particolare ammirazione per questo libro (che non è un libro “bello” nel senso tradizionale – o almeno non m’importa che lo sia – ma un’opera esemplare nel senso più autentico di: derisione delle magagne pubbliche, di utilità per gli altri e di indicazione sottile di problemi proposti, o accettati, e risolti – con particolare difficoltà di tempo e della ragione) vorrei sottolineare come esso rappresenti, nell’ambito della ns. lett. più recente, infestata da prodotti Ferrero,un’esigenza lucida e documentata (senza alcun vieto ritorno o ritardo) di uscir fuori dagli schemi conclusi, dagli ordini prefigurati, dai giardini di Edipo; di sovvertire le deduzioni accertate, di rifiutarsi alle definizioni ovvie, per rimettersi in moto in una disposizione non prima sperimentata ma ora raggiunta con le verifiche pazienti e le prove più dolorose. “Immerso nell’incertezza”, o come altri vuole “nell’infinita ambiguità della realtà contemporanea” (io direi: discusso nell’incertezza, adattato nell’incertezza, con la disposizione cosciente verso un diverso progetto di ordine) il libro si dispone via via a esprimere argomentandola (e magari contrastandola per un poco, se si vuole) la riconosciuta necessità, considerata sotto ogni aspetto particolare, che “scoppi alfine la sacrosanta rissa”. E il punto di rottura, il primo, l’archetipo, mi sembra sia Ancora sulla strada di Zenna in cui, per me, si sfalda con un brusco atto il passato – inteso come lucido ricettacolo di memorie e prezioso vaso di unguenti da conservare, e il presente drammatico (per tutti noi, sempre il grande presente dantesco) è proposto (ricuperato) con sforzo, con uno sforzo fisico intendo, proprio da corda che si tira, e con un cupissimo livore. Leggo il libro, insomma, come la definitiva rinuncia al privato e l’entrata altrettanto definitiva nella sfera del pubblico, sia pure con un moto inizialmente recalcitrante e che conserva tutte le sue stupende virtù (dopo l’era dei ritiri spirituali, delle mille rose di santa rita, delle coscienze rimemoranti). Dal “trepido concetto di Europa”, che contraddistingueva il tono “lirico” – tenero e struggente – di Frontiera,si smotta a una valutazione-rappresentazione del presente stringata e abbastanza dura; e quasi sotto il segno di una partecipazione fisica oltre che culturale. Nulla adesso è più raccontato o descritto (entro fumi nebbiosi); non resiste, più, alcun intenerimento patologico e ontologico né alcun intermediario sentimentale a cui demandare il cumulo degli incubi e dei dubbi (degli ultimi dubbi, degli incubi persistenti); la realtà è affrontata in modo diretto; finalmente se ne subisce il fascino o l’oscuro fastidio e in qualche modo il suo disordinato rancore. Si sperimenta la fatica per catalogarla. Non si accettano più le condizioni di riposo (o di attesa); ci si dispone a impugnare la penna. Dove sono gli anni passati? dove rifugiati? dove estinti? Ogni lotta, ogni lotta si svolge sul ponte.
Tale è il mio modo, scorretto e affascinato, di leggere il libro; che compiuto nel corso di un ventennio, si pone – mi sembra giusto dirlo – fra i pochi che in questi anni onorano la cultura italiana; nel senso che testimonia di una vitalità che rimonta, di una attenzione sottile per i problemi, di una insoddisfazione lucida e infine di una disponibilità intelligente profonda e assai giovane (scattante) entro i nuovi collegamenti che si vanno sistemando con tutto l’aspro della fatica. Non un libro per la biblioteca o per gli ozi del mese di giugno, ma per il nostro lavoro. Un’opera, finalmente, che ci aiuta.
* “Paragone-Letteratura”, Nuova Serie, febbraio 1967, 18, n. 204/24, pp. 98-101.
Un passo avanti e uno indietro*
Credo che il racconto di Sciascia segni un momento specifico, tipico, nella vicenda dello scrittore – e su questo converrà fermarsi; credo anche che raccolga in una sventagliata piuttosto rapida e abbastanza secca, ma variamente colorata e codificata, un gruppetto di problemi, alcuni dei quali di fondo, che suggeriscono o possono suggerire tutta una serie di utili riflessioni. Il momento specifico (e tipico, come ho detto) nella vicenda dello scrittore è biforcabile in due elementi, in due direzioni: a) rinuncia alla sicilianità esplicita come back-ground folkloristico-decorativo del racconto, a parte alcuni particolari che sono tuttavia riducibili a tocchi e ritocchi marginali; b) impatto dell’esprit de finesse con un pessimismo sostanziale sempre presente anche nelle opere precedenti ma in una prospettiva un po’ defilata seppure già abbastanza definita; pessimismo tuttavia mai prima d’ora reso così esplicito, quasi con violenza, e mai prima d’ora dichiarato in modo così fermo e argomentato, perfino in versi. Tenendo conto, o meglio, tenendo fermi i due punti indicati, si può anticipare intanto che il libro di Sciascia può essere inteso come una novità nella storia personale dell’autore e certamente come un progresso e un atto di meditato autoriscontro culturale rispetto alla situazione di stallo, sia pure fortunatissimo, rappresentata dai libri precedenti, circoscritti dentro una geografia definita e caratterizzante. Alle volte fin troppo definita e fin troppo caratterizzante. Sicilia e mafia come Spagna e toreri, tanto per dare una rapida indicazione e fare una insinuazione altrettanto rapida; Sicilia e mafia, o quel tanto di Sicilia e quel tanto di mafia voluti, essendo le travi portanti di racconti in cui i personaggi si disponevano dentro circoli precisi (i vivi e i morti), al modo che si collocano entro i cerchietti prestabiliti sul terreno gli intervistati negli studi tivù. Coppole e scoppole, finestre socchiuse, un mondo epico e tragico antichissimo e nello stesso tempo aggiornato anche se stazzonato dal gran fuoco delle trazzere; spiare; fichidindia; insomma i supporti del giuoco dialettale che raccoglieva e conteneva i personaggi canonici di una commedia dell’arte di presa rapida, traducibilissima e anche pronta per essere subito filmata. Di conseguenza la scelta odierna mi sembra una scelta meditata, all’interno del mondo registrato dall’autore, quindi responsabile e in un certo modo criticamente provocante. Anche il paesaggio si è sgranato e le definizioni degli oggetti risultano più sfuggenti o struggenti, intorno ai protagonisti si agita una ventosità da cavalli da corsa seguiti col teleobiettivo, la quale fa muovere i vestiti come fossero bandiere o quasi che l’aria che si solleva dal corpo li sollecitasse, sicché le persone sembrano trascinate o, alle volte, sospese; le distanze si sovrappongono non si accomunano; gli spazi appaiono dilatati ma non deprimenti, in quanto non sono che distanze da punto a punto (da città a città) e non natura percorsa goduta e ferita; oppure, se appare una natura circoscritta e “raccontata” essa non sovrasta, cioè non incombe, si compone di alcuni elementi e basta ed è illustrata da una aggettivazione di trasandata ovvietà: “spiaggia stupenda”, “dolcissima sera di maggio”, “alti alberi” ecc.; il rapporto fra i luoghi abitati non è più mediato dalla campagna e dalla sua solitudine ma dal segno bianco e asciutto di una strada da scorrimento veloce (tramite più o meno alienante, secondo i casi, ma che non promette più né consente deambulazioni); i luoghi si slavano, defoliandosi dalle connotazioni iconografiche e uniformandosi, nello sviluppo dentro al sistema, al cliché del consumismo speculativo (grandi magazzini, ingorghi stradali ecc.; “era l’ora che il traffico stringeva la città in un feroce groviglio”). Così la Sicilia di questo Sciascia, cioè di questo racconto di Sciascia, a me sembra una Sicilia “altra” e non direi, come invece l’autore avverte in nota forse per uno scrupolo residuo, che potrebbe essere anche la Sicilia; semmai una Sicilia è (o può essere) è una Sicilia come dicevo contrastante la norma del codice abitudinario (che ha finito per trasformare in apologhi “neri” e in aneddoti tutte le sue tragedie); una Sicilia trovata,vale a dire ri-scoperta, con l’aggiunta di nuove tensioni della memoria; in un certo senso una Sicilia inventata; non più la Sicilia peccato, la Sicilia leggenda, la Sicilia tributo. Basterebbe questa intuizione, o questa nuova disposizione, a stabilire il peso dell’operazione tentata con questo racconto da Sciascia anche contro se stesso e il conseguente habitat. Ma se non c’è più, almeno con quel tale rilievo pregiudiziale, quella Sicilia, non voglio poi sostenere che il paese abbia perso ogni rilievo e che l’uniformità greve a livello consumistico e di sviluppo capitalistico proponga (e dipinga) un luogo asettico, tecnologizzato in superficie, dove tutto può accadere: un paese stadio, una cinecittà, un paese-Melano, un paese-dormitorio, un paese-petrolio; luogo di comodo comunque deputato alla scenografia capitalistico-migratoria. Non si passa a una astrattezza simbolica sostitutiva ma a una schematicità che salva e conserva l’essenziale; una essenzialità entro cui si organizza prima, poi si svolge il disegno argomentativo. Perché questo è il punto, che deve essere raggiunto: Sciascia ha una sua tesi da proporre, una confessione mediata da registrare, mescolando il thrilling al Cahier de doléances;o più esattamente, utilizzando il thrilling per sottoporre l’elenco dei propri possibili reclami – al modo di un Courier mai soldato, dunque con meno memorie addosso e con meno rancori ma certo con molti più sgomenti essendo meno vecchio (poiché dentro a questo suo racconto, inzeppata, suona continuamente al vertice una irrequietezza della ragione che produce dissonanze violente, stridori, barlumi di discorsi, intuizioni ecc.).
Dunque il passaggio dalla lupara al revolver (rivoltella, pistola beretta calibro x o altro) si accompagna a un contemporaneo passaggio dalla campagna alla città – un passaggio, conseguente, dalla oppressione alla pressione programmata e più subdola; l’obiettivo si sposta a seguire il o un bersaglio in continuo movimento e mescolato fra la gente, come un uccello in branco e non isolato su un ramo: “in un grande magazzino… o dove le tante porte, gli ascensori, le scale mobili e soprattutto la folla consentiva di confondere ecc.”; un certo affanno nei movimenti dei personaggi presuppone la precisa angustia dell’autore che si accorge di non essere più in sintonia col solito paesaggio, non più servito dall’iconografia tradizionale all’interno della quale si sentiva protetto o magari sicuro. Ci accorgiamo di una inquietudine ambigua e un po’ incerta che connota il discorso (l’ho appena sopra accennato); ci accorgiamo di sbalzi d’umore – un borbottio da cane sdraiato accanto al fuoco, quando sente rumori lontani o un passo lontano.
Tale atteggiamento, o questa disposizione, connota il pessimismo in senso classico: abbastanza feroce con il nuovo da sperimentare, sulla base di precedenti delusioni. Tuttavia questi sbalzi d’umore, frequenti, abbastanza rilevanti e alle volte veramente irritanti (ricordo come è trattato, con trasandatezza isterica, un personaggio qual è il Pontormo, di una stravolgente drammaticità oltre che di travolgente grandezza, chiuso nelle sue ire e nei suoi silenzi, stilita di grande ingegno dentro al verde profondo degli orti fiorentini; ancora: come è liquidato il romanzo manzoniano, con l’abulia uterina di un ricordo liceale, fra il lusco e il brusco, in modo definitivo; senza neppure far presumere o presumere sia pure stridendo che quella “noiosità” è una delle poche isolate, nel gran mare dei fogli a stampa, che aiuti in tutti i modi, profondamente bruciando, gli uomini a invecchiare e a morire); questi sbalzi d’umore, dicevo, non li prenderei troppo per buoni; o per sostanza vera del discorso. Un umore, così come una rabbia, può essere destinato a scomparire o a essere riassorbito. Riferendomi al punto b indicato all’inizio, voglio dire che l’esprit de finesse è anch’esso un moralismo condizionato o contrabbandato dalla verve; e che il pessimismo, si può magari affermarlo con la pezza d’appoggio di riferimenti celebri, chiede la volontà o semmai la possibilità di sorridere “duro” piuttosto che quella di indignarsi “teneramente”. In altre parole esprit de finesse e pessimismo sono due mimesi di uno stato d’animo che presuppone l’ironia, non già la rabbia, come componente sostanziale. Sono anche disposto a riconoscere che il pessimismo, più della tranquillità che si affida al luogo comune dell’idea, o più dell’ottimismo generico o generalizzante che si accende e si spegne come un’insegna luminosa, ha un occhio nel futuro e una memoria infallibile e può alle volte prevenire certe domande del tempo; può anticiparle, se accompagnato dal giusto comportamento dell’esprit che è dopotutto, forse, una concessione voluta alle ragioni dell’avversario; una disponibilità. Circoscritto così il quadro, sia pure per semplici accenni, vorrei dire che Il contesto affronta un grosso problema disponendosi in un modo nuovo – o affatto provinciale; e che in questo impegno le connotazioni d’umore marginali, i semplici clic sentimentali ovvi, scadono a puri referti e vengono riassorbiti alla fine. Il problema di fondo è il potere;direi meglio: non più soltanto il potere ma l’autoritarismo del potere e non l’astratto autoritarismo identificato e raccontato anche dalla pubblicistica ufficiale, ma l’autoritarismo bieco e quindi più tragico, angoscioso a livello patologico, continuamente premente in quanto, appunto, alla superficie accattivante sorridente mellifluo ubiquo anche se onnipotente e onnivoro. Non più il potere, e l’autoritarismo che ne promana, identificato,contrassegnato da tutti i suoi marchi d’infamia, ma il potere fantasma, il potere mimetico, sdoppiato, sul sorriso durbans, capace perfino di colpire se stesso e se stesso processare nella sua frenesia e nella sua fregola esibizionistica o nella continuità e razionalità delle sue regole; il potere dinamico; il potere spray, il potere sentimento, il potere amore, il potere finale della coppa del mondo, il potere calcio della domenica o gazzetta dello sport, il potere carosello e il potere Anastasi, il potere diaframma; dracula che solo a volte esibisce i suoi uncini di morte ma per lo più indossa e veste l’aspetto più quieto, più ufficiale, più burocraticamente innocuo; il potere patria, il potere mamma, il potere scuola, il potere bandiera, il potere altare della patria, il potere ah come respiro! Un potere che ha prolificato incestuosamente o ormai ha raggiunto con tutti i componenti della mirifica schiera o della laida tribù ogni pertugio, senza lasciare e senza concedere alcun vuoto, alcuno spazio libero o angolo occulto, goccia d’acqua o sorso d’aria che non siano preventivamente programmati e autorizzati.
È merito di Sciascia d’avere rappresentato questo con rigore e con una discrezione d’alta classe. Certo il problema, che è poi il problema di fondo di questo momento (di questi anni) coinvolge in modo critico anche l’autoritarismo burocratico dei partiti, l’autoritarismo filologicamente arretrato della dissidenza, l’autoritarismo dell’antiautoritarismo, più specioso e farneticante, in quanto più sfaccettato, dell’autoritarismo in atto. Il dettaglio, in fondo, finisce per contare poco. Naturalmente non posso omettere di registrare alcune stecche nel racconto, come in ogni repertorio di tenore per quanto celebre e applaudito: giovani dissidenti schematizzati superficialmente e con una certa volgarità ideologica; le insofferenze nei riguardi della o delle sinistre poco o male argomentate; e altre che ho già indicate. In margine è tuttavia giusto sgomberare il campo da un equivoco (forse): sperare nella rivoluzione (in altre parole, sperare che le cose mutino e debbano mutare, nella sostanza) non è proprio come sperare nella vita eterna (leggendo Pascal). Se un paradiso c’è ci vai, se non c’è ci resti semplicemente trombato; ma se la rivoluzione la speri e la vuoi e non puoi più sperarla e farla, non si resta in pace sull’inginocchiatoio a speculare le stelle ma si finisce in galera o su una sedia cogli elettrodi ai coglioni; bastonato, picchiato, inseguito, finito, defenestrato. Dico ciò alla fine di un breve discorso argomentato, come credo; ma sono convinto che Sciascia nonostante alcuni estri contrari non l’ha dimenticato; anche lui nelle conclusioni di questo bel racconto.
* “Giovane Critica”, 1971, n. 29, pp. 74-76.
L’imbellimento strategico*
Il discorso sul romanzo deve oggi ampliarsi a un discorso sull’informazione in generale (radiofonica, televisiva, giornalistica, libraria) e sulle concentrazioni in atto di gestione e produzione di mass-media.
Dove va il romanzo? innanzi tutto, risponderei, dove va quell’uomo. E che cosa si trascina dietro il romanzo? innanzi tutto, risponderei (con la possibile ironia), la carcassa del tempo, il lembo della sua ovvietà, il trofeo corrotto delle sue bende. Ma la domanda, in ogni senso e per la sua ripetizione, è indecente, o sorprendente, come vuole Blanchot. Accettando tuttavia di esercitarsi in fretta nel giuoco delle profezie o dei placidi consensi-dissensi, delle piccole ricognizioni analitiche e degli altrettanto astratti giuochi verbali – su un soggetto che, in quanto tale, da pagina uno a trecento, sembra lontano come il mare – non si può non ripetere (scolasticamente) che il romanzo, che è una invenzione della borghesia e concresce con i traffici e con i commerci di lei e si intorbida con le sue paure e canta con quel tale usignolo, seguirà come è giusto e anche prevedibile la sorte e le vicende del ventre di classe che l’ha partorito e custodito; magari accettando, come vedremo, a un certo momento e per una precisa necessità, una diversa e più ferma adozione. Cominciando a dire che il romanzo è una invenzione del cuoco (la torta più ghiotta e appariscente, veramente nuziale, che illustra la sua arte di fabbriciere) se ne può dunque stabilire, in un certo modo, le inquiete ma forse per nulla tortuose vicende.
Un discorso, comunque avviato, sul romanzo, o una serie di domande sul romanzo, sono ancora un discorso o una serie di domande all’interno della cultura borghese; che è d’altra parte quella che stiamo giornalmente consumando (vivendo). Eppure a questo punto, proprio per precisare quanto sopra ho accennato (poiché pare esatta l’indicazione che “la borghesia non è cresciuta o migliorata, né ha preso il sopravvento la parte progressista; ma la borghesia è rimasta infine schiacciata dal capitalismo, che si è appropriato anche dei mezzi di comunicazione” – in ogni senso), direi che il o un discorso sul romanzo diventa adesso un discorso, magari generalizzato, pur partendo da una argomentazione così specifica, all’interno della cultura capitalistica; di una cultura da catena di montaggio, da cottimi e minimi garantiti, asettica e apparentemente aerata ma spietata indisponente e ricattatoria al fondo, cioè nei luoghi deputati dove tutto il potere è amministrato.
Poiché al capitalismo, nella sua fame di mercati, occorre sempre, per ogni specializzazione, produrre e mostrare (poter mostrare) una gamma di prodotti,un catalogo per ogni gusto, per ogni classe, per ogni età, per ogni stagione della vita e dell’anno, al mare, ai monti, in campagna, per distrarsi, per riflettere, per ripetere, per imparare, per distinguersi, per viaggiare con la mente o col fisico; per uscire dallo smog dell’infame città; il romanzo sarà allora progetto, sarà prodotto, sarà cosa (in piena rispettabilità e con tutti gli attributi virili o femminili); tanto più condizionato in quanto il proposito dell’autore parrà resistere opporsi contrastare. L’assimilazione e la sottomissione alle regole (a certe regole) riuscirà indolore. Il romanzo, allora, come volontà di narrare, come possibilità di narrare, come conato o conclusione di quella tale voglia, o spinta. Il romanzo, allora, come volontà di documentare, come possibilità di documentare, come estrapolazione e conclusione di quella tale voglia. Il romanzo come ricatto sentimentale, il romanzo come plagio, il romanzo amore, il romanzo erotico (esotico), il buon romanzo – quello detto rosa alle volte; il romanzo colto; il romanzo telepatico; il romanzo che esalta le tematiche o invece quello che le denigra, incerto; il romanzo classista auto-punitivo (masochista); l’uno o l’altro nevrotico, ossessivo, scaltro, ubiquo. Il romanzo che si consuma in se stesso, divorato dalle proprie parole; o il romanzo con la lingua del romanzo, il saltarello grammaticale, il suo fragile rondò, la sua densità gergale (o verbale), il regno della crusca. Il romanzo gregoriano e mistico. Quello fantascientifico; il romanzo sportivo.
Insomma, quelli che sono subito in orbita (all’apparenza) per gli anni duemila e gli altri casarecci, quieti fra le pastorelle (vicino a quel rio), per la luna del mese. Ma proprio in quanto tale, e così sezionato e distratto; proprio per quella matrice sopradescritta (un utero di ferro l’ha custodito) egli ha, come i gatti, sette vite; sorge-risorge ancora dalla cenere. Il capitalismo (che si prepara a menare per un poco la danza) ha bisogno fra altre mille cose anche di questo strumento, così come ha bisogno, per esempio, di esercitare in pubblico una propria carità; in entrambi i casi, sia pure da angolazioni diverse e sia pure con motivazioni assai dissimili, esso scarica le raffiche del proprio programmato concerto di morte (proprio con l’amministrazione di questi mezzi repressivi); e, insieme, scarica la zavorra non troppo peregrina della propria falsa coscienza; e per il colto e per l’inclita si aiuta ad assumere quella maschera di fervore che lo salva da tutte (o in parte) le quotidiane sconcezze.
Sappiamo e leggiamo, abbiamo letto, che la letteratura (dunque anche il romanzo per essa) da molto tempo e a cicli periodici – per una sorta di commedia in cui si mescolano, avvertiti o inavvertiti, i calcoli più sottili – suole fingersi disposta a una morte imminente; secondo gli aruspici avendo già predisposto il proprio rituale funebre, prodromo di un affossamento rapido definitivo. “L’arte è per noi cosa passata”, o per la penna del Tenca nell’anno 1845: “del presente è d’uopo disperare, e rassegnarsi mestamente a veder perire la nostra letteratura”. Ma è anche vero che a ogni stagione il distacco è rimandato e gli spettatori – quelli che vogliono – assistono a ricuperi soltanto in apparenza sorprendenti, nel senso di una disponibilità subito risonante e subito vitale (anche se la vitalità, questa vitalità non è poi integra e corposa ma piuttosto una funzione astuta di essa).
Dunque in riferimento a questo oggetto – cioè al romanzo in quanto tale – tutto appare incerto ma tutto appare certo e definitivo; tutto sembra devastarlo e scorrergli via in fretta, bruciato dall’indifferenza di una società che sembra trovi altrove i canali rapidi di informazione e di intrattenimento; bruciato dalla stanchezza di questa società (e alle volte è soltanto una stanchezza apparente), dalle sue nevrosi, dai suoi ossessivi e possessivi interessi; e nonostante questo continuano a passare davanti agli occhi come un fiume come una lava come una ordinata catena come il rimorso – o, se si vuole, come un residuo vegetale – un carosello di fogli che coprono le piazze stravolgendole simili a una forsennata nevicata. Pare che ogni cosa debba restare sommersa; anche il malumore.
L’ambiguità del romanzo, inteso come forma diretta di pressione culturale e come ulteriore salvaguardia di interessi costituiti, è confermata dalla propria ambivalenza che gli consente e anzi in questo senso lo legittima e sospinge a “riflettere sia la fase costruttiva che quella disgregatrice della società contemporanea” e a aiutarci a spiegare, o spiegarci addirittura come “funzioniamo collettivamente nella società” (secondo Bergum); a registrare dunque anche i contrasti sociali, non altrimenti che una televisione scritta. Poiché la cultura borghese; meglio, la cultura gestita dal capitalismo, ha scoperto in questi ultimi anni la necessità di una partecipazione diretta non solo alla elaborazione di tutti i problemi, ma anche alla loro scoperta – scoperta che una volta era affidata, in una delega disinteressata e infastidita, alle avanguardie.
A tutti i problemi, ho detto, siano quelli del consenso che quelli del dissenso; e soprattutto ha potuto e saputo valutare i vantaggi di ogni genere – ai fini della propria egemonia – che l’utilizzazione e la strumentalizzazione di tale problematica comporta. Una volta, insomma, c’era uno spazio esiguo per la libertà di un artigianato risentito (e attivo); oggi non più. Per quanto ho detto prima, basti il rapido raffronto – giornalistico – con la scoperta “che stiamo distruggendo Torino”, pubblicizzata dalla grande gazzetta e dopo vent’anni di scempi inauditi al nord e al sud; o la scoperta (non saprei definirla se più tragica o comica – nel senso della morte) dell’ecologia da parte delle dirigenze politico-amministrative.
Il punto è che il potere può auto-accusare se stesso, può auto-punirsi; può auto-condannarsi; e ormai senza nemmeno il fastidio, di un tempo, di compiere le piccole operazioni di resezione dal proprio corpo delle escrescenze malate. Fermo e indifferente, egli può continuare a portare in groppa le proprie vergogne; basterà raccontarle, descriverle, cantarle; poiché ormai ogni atto pubblico, quale che sia, può tradursi in vantaggio, in una moneta;in quella tale cambiale. Il potere dunque gestisce adesso anche il tribunale delle proprie colpe; si ammonisce, si ferisce, si perseguita, si assolve. Appare impietoso con sé ed è invece perso in una girandola di scaltrissime manomissioni.
All’inizio degli anni Cinquanta, mentre nella grande fabbrica orgoglio della nazione, si impostavano le catene (montaggio- prigione) per dare il via all’operazione macchina utilitaria- strade ecc., il romanzo si impegnò a descrivere la condizione di sordida ignominia delle classi subalterne appaltando al sentimento (che generalizzava e piangeva) un giudizio politico preciso nella descrizione dei lager nuovi che si apprestavano. Si lamentava la miseria immediata, non il progetto dell’immediato ergastolo a cui si condannava la condizione dell’uomo. All’inizio degli anni Sessanta, proprio nel momento della seconda ristrutturazione capitalistica, nel momento della riconversione tecnologica il romanzo si impegnò a descrivere questa condizione di trasformazione programmata, dell’inurbamento caotico, della parcellizzazione del lavoro contadino e delle concentrazioni metropolitane – restando l’uomo come un oggetto o soggetto di pietà, dunque subalterno in questo grande giuoco del mondo, e non protagonista. Il romanzo si dispose infatti ad aggredire e frantumare una lingua di marmo e le linee di un montaggio narrativo che apparivano obsolete e infide.
* “Libri Nuovi”, Periodico Einaudi, luglio 1971, n. 9, p. 1.
Conversazione introduttiva*
con Giancarlo Ferretti
Sarebbe interessante anzitutto che spiegassi perché ti sia rifiutato nel 1970 di pubblicare editorialmente la raccolta poetica Le descrizioni in atto, e l’abbia ciclostilata e distribuita in proprio, e perché invece tu faccia uscire oggi questo romanzo presso una casa editrice, e in particolare presso gli Editori Riuniti.
La scelta del ciclostilato, allora, voleva essere non tanto un rifiuto dell’industria editoriale ma la ricerca, grezza fin che si vuole, di un nuovo canale di distribuzione della comunicazione; un canale diretto, meno viziato dal consumo o da ogni ingorgo programmato. Gestendo questo ciclostilato ritenevo di poter trovare un modo più esatto puntuale rapido per distribuirlo. Ho fatto quattro tirature per oltre tremila copie; tutte stampate confezionate impacchettate spedite con le mie mani. Certamente l’operazione è superata da altri problemi, da richieste oramai diverse nella sostanza e più complicate; ma mi ha permesso di raccogliere un manipolo di esperienze nuove e di mettere alcune cose in discussione fra noi.
Adesso gli Editori Riuniti propongono di pubblicare questo libro; ho accettato e accetto come un atto di pratica politica, altrimenti il testo restava dov’era. Per convalidare questa scelta non si è sottoscritto alcun contratto o impegno; trattasi di uno scambio e così deve restare. Lo intendiamo libero e disinteressato. Do quello che posso dare perché mi viene chiesto, da una parte giusta, quello che ho. Io posso augurarmi d’avviare un rapporto con più lettori; e a questi nuovi, se per me ci sono, vorrei rivolgermi.
C’è, per il lettore non specialista, una certa difficoltà di approccio al romanzo, fin dall’inizio.
Sì, c’è purtroppo. Ma più che difficile (non è certamente difficile) credo che il libro sia denso, però di una pesantezza che a me non dispiace. È possibile che si fatichi a entrarci, ma se qualcuno arriva alla fine vorrei che ricavasse quel tanto di sollecitazione per proporsi una rilettura più filata. Magari mi illudo. Ecco: un suggerimento fatto con onestà e un po’ di utile autoironia potrebbe essere questo: leggete il libro prima di acquistarlo.
Una tua introduzione alla lettura, comunque, una specie di risvolto d’autore, potrebbe essere molto utile: non solo descrittivo, naturalmente, ma soprattutto problematico.
Registrazione di eventi (1964) tentava di giudicare una situazione, cioè di stabilire; nei Diecimila cavalli si cerca di capire. In questo libro – una volta per tutte: parlo sempre e solo delle intenzioni, naturalmente – in questo libro mi sembra che debba esserci una tensione ordinata che non c’era nell’altro (apparentemente più legato); una serenità più dura e forse più vitale, anche se in mezzo a molto dolore. Il dolore che è una fatica, come dire, buona. Su Registrazione pesava una lacrimosità dell’intelligenza un po’ risentita, una partecipazione alle cose anche sentimentale; qua, certo, c’è il sentimento e ci sono tutte le ombre e anche il calore che a lui si riferiscono; ma non si considera il passato come una gloria della memoria, o il futuro come una lavagna da riempire con l’angoscia del caso. Tutto è dentro ai fatti concreti nei quali, o con i quali, l’uomo vive.
Come gli altri che ho scritto anche questo è un libro di pellegrinaggio, cioè di movimento (un movimento goethiano – che è sempre un desiderio di conquiste oltre che di ricerca); andare arrivare partire ancora; l’uomo si trascina dietro – non come un’ombra ma come un animale all’erta – il cesto dei pensieri e una curiosità attenta che è ragione.
Ecco perché nel romanzo non c’è trama, non c’è una trama. Di preciso si può indicare la partenza di un uomo e di una donna che decidono sul serio di chiudere bottega e di mettersi in cammino per andare altrove; ma di andare e cercare non con il gusto o l’angoscia di muoversi verso una nuova frontiera ma di raggiungere un altro posto e un altro ancora proprio per continuare a vivere imparando, o per cominciare a farlo. Nel corso di questa vicenda che si snoda abbastanza rapida i personaggi in azione si imbattono e si scontrano in due tipi di situazioni che chiamerei primarie; una dei sentimenti (quella che vede coinvolti Marcho Marcho, Fraulissa, Nice e in parte anche il “calabrese” – il quale è uomo che ha una disperata pietà da distribuire e proporre, anche come un’arma), l’altra politica (e nella sostanza si svolge intorno alla tenda che poi diventa fabbrica occupata, città occupata – una rete che tira a riva mille pesci. E diventa anche una vita intera, quale è quella del giovane arrestato). È soltanto un rimando. In questi due fatti molto concreti contrassegnati dal movimento – moto da un luogo verso un altro e con le cose che accadono prima intorno e nella tenda e poi nella fabbrica e intorno alla fabbrica (la fabbrica, come una piazza comunale, è luogo soprattutto di incontro e di scontro dove esplodono lotte vitali) – si esemplificano situazioni politiche per cercare di capirle affrontandole con una passione attiva che chiamerei totale. Davvero: totale.
Marcho Marcho è personaggio che ribadisce (anche con il suo nome) la necessità di essere di continuo ridefinito perché, procedendo, cambia si muta acquista; con lo scrupolo puntiglioso di non lasciarsi, e lasciargli, alcuna screpolatura intorno. Così ogni volta che Marcho è chiamato in causa verifica la sua consistenza e la sua costanza, si scioglie dalle trame esistenziali e dalle immediate inquietudini che a ogni angolo si propongono ed è o torna disponibile per la sua funzione. Sarebbe un modo di timbrare il cartellino senza pregiudizi, e di timbrarlo due volte.
C’è nel testo questa frase: “Meglio, per onestà, non dire né fare cose che non si possono fare”. Questo invito molto indicativo non è mio ma di un classico e rimanda all’impegno di una ricerca pragmatica calata nel reale, a un aggancio reale alle necessità del momento (dovrei aggiungere: intese come tanti problemi che ci stanno di fronte).
Un’altra differenza fra questo e il libro precedente: Marcho Marcho al passato non ritorna; o ci ritorna poco e male; non lo usa né gli serve perché è spinto a procedere (anche quando è ripiegato nell’atto stesso di interrogarsi); in ciò rovesciato rispetto a Ettore di Registrazione che il passato se lo sentiva addosso disunito fragoroso incalzante. Marcho è più vecchio di dieci anni (ma non è un personaggio autobiografico), il passato l’ha masticato, il suo interesse è per le cose a venire; sente il futuro non come uno zero ma come un processo che si apre e che si può seguire – aprendosi la strada col machete. Sente che il futuro è, sì, molto importante; al di là di ogni previsione; magari insanguinato, o di quel rosso che è sangue, per la fatica con cui il nostro tempo si sta rinnovando. Tutti quelli che vanno e vengono per il libro non vogliono invecchiare con le cose vecchie ma seguono o inseguono la novità delle cose che si stanno facendo. Giovani? sì. Giovani se vuol dire: vivi; o meglio: nella vita.
Ma quale significato e funzione ha, per te, l’inizio del romanzo?
Quell’inizio è li, procede a lemmi cauti, a volte ovvi, ansima un poco, finge di faticare a districarsi, come un motore a freddo sotto la neve. Intanto si accendono piccole esplosioni della memoria, che magari ad alcuni diranno poco o niente Eppure ci vogliono; secondo me ci vogliono e lì ci sono. Ecco l’inizio dovrebbe essere un primo condensato ideologico del libro; composto con una premura attenta e un poco ansiosa; e solo in apparenza dato in quel modo caotico. Dentro un ordine c’è. Si ramazza con una scopa dura e con un po’ di violenza – anche con una rabbia che poi subito si placa; e si comincia a disporre in fila una serie, tutta una serie di indicazioni come pane sul tavolo. Queste, mescolandosi, dovrebbero formare l’appiglio rigido sul quale il libro appoggia e prende avvio. A un certo momento, se lo ricordi, dopo aver radunato questo materiale fatto di allusioni, brevi frasi, rimandi solo caratteristici e anche di uno o due tentativi più articolati, il libro prende moto nel segno di due riferimenti emblematici: l’incendio di Mosca (cioè la violenza di quell’incendio) e l’arpa birmana (cioè l’autentica pietà, anche in quel film); tutto ciò che brucia per la violenza del fuoco e tuttavia non finisce per bruciare e tutto ciò che la pietà, non dico solo salva, ma riordina e torna a riportarci perché possa ancora durare e servire soprattutto la nostra coscienza e i nostri pensieri. Ecco un elemento del libro che ci terrei se riuscisse a saltare fuori: non una tenerezza per le cose, non una tenerezza solo generica per noi ma la vera dura grande e faticosa, direi faticata, pietà che dovrebbe segnare il rapporto civile e virile tra tutti; un grande vento sconvolgente. Per fare un esempio: direi che il rapporto tra Fraulissa e Marcho Marcho è toccato da questa ansia pietosa. Scusami ma insisto perché per me è importante: credo che la pietà, e l’esercizio della pietà, rappresenti un sentimento vittorioso, capace di caricare la nostra azione, anche e soprattutto politica, di elementi nuovi, di una tensione che ci permetta di incontrare e affrontare i problemi senza pregiudizi o falsa coscienza. La pietà è naturalmente comprensione ma è anche aspettare a giudicare, non concludere tutto in fretta con la rabbia dell’insoddisfazione ma invece perché convinti o solo quando si è convinti; in questo modo si spiega il “filo rosso” a pagina otto del testo.
Quindi non c’è abbandono sentimentale, ma ci sono i sentimenti.
Discutendo parlando scrivendo adesso abbiamo bisogno, direi un bisogno urgente, di ricuperare al nostro discorso una serie di temi, di elementi antropologici che erano stati accantonati frettolosamente e con un certo snobismo squallido come deteriori, reazionari, invecchiati; insomma come inutili e perfino pericolosi. II discorso sull’amore, sul sesso, sulla paura della morte, inesistenti nel realismo spiritato di tanti anni, vanno recuperati uno per uno, collocandoli in una diversa disposizione che ci consenta di sentirli, direi: di risentirli, subito come nostri e come parte di una vita ritrovata. Quindi mi va bene se il rapporto di Marcho Marcho e di Fraulissa si può estrapolare come una storia d’amore; una storia ellittica. Io l’ho voluta così, con le inquietudini le incertezze le contraddizioni esemplificate; e con quel tanto di sfumato, di irregolare nella struttura e di perplesso nel discorso, che c’è.
Questo è uno dei punti. E mi va bene, come indicazione, anche l’altro rapporto dei personaggi con il calabrese, se può essere inteso come una storia che lievita, una storia di rapporti umani sempre mescolata a qualcosa d’altro che la completa.
Marcho Marcho accenna perfino a dire la breve frase ti amo; a dirla in un certo modo; si capisce che sta raggiungendo una maturità ideologica che permetterà di pronunciarla senza ironia; l’ha già appiccicata alla lingua come un sapore diverso anche se non la dice perché sente di non essere ancora pronto a pronunciarla. Anche questa è una strada abbastanza nuova per noi ma necessaria; scoprirsi così senza cedere alle tentazioni squisitamente esistenziali, senza che noi si rida – mancando di ironia.
C’è stata, in questi ultimi anni, una certa fioritura di romanzi “politici” in Italia: da Vogliamo tutto di Balestrini a Irati e sereni di Leonetti ad altri ancora. Come si colloca il tuo romanzo, sia nei confronti di questo filone letterario, sia soprattutto nei confronti del movimento reale?
A ciascuno il suo, con il merito e i limiti se ci sono. Direi che nel mio romanzo di proposito e con puntiglio c’è sempre l’uomo; o meglio, ci sono gli uomini che agiscono. In carne e ossa e quindi con le loro ombre, con i dubbi, qualche ferita, certi errori. Perché, come è detto in una pagina, non è la rivoluzione che deve recuperare l’uomo ma è l’uomo che deve recuperare la rivoluzione – cioè quel bisogno di cambiare rovesciando gli schemi. Quindi la rivoluzione delle cose non sta sopra tutti col vento della sua astratta follia utopica deve essere fatta da; ma è l’uomo che la deve scegliere bene e volere perché l’ha dentro e la cerca con gli altri. Altrimenti continueremo ad avere – come per esempio ho anche detto nel Crack (la mia pièce teatrale del 1969) e non voglio smentirmi – avremo ancora una volta rivoluzioni nuove avviate da uomini vecchi, con vecchie idee, vecchi mali, vecchi miti e vecchie sconfitte – che si devono lappare. Secondo me questo è il modo per rendere più valida, più utile, meno dispersiva l’ipotesi del progresso reale, quindi quello che rovescia. Ma se vogliamo questo; se vogliamo il progresso deciso e preciso, se vogliamo rinnovare scompaginandole le cose, dobbiamo volere e potere, con tutta la fantasia possibile, scalciare le vecchie utopie, correggerle, rinnovare, inventare, pensare, produrre e sperimentare tutte le cose ancora; cercando il vantaggio più rapido, più sicuro, più conveniente e meno costoso. Una astuzia della ragione e una pazienza che ci devono rendere nuovi. Dunque, cerchiamo questo metodo, o questi metodi. Riverifichiamo i nostri strumenti.
Questi sono anni nodali, anni terribili e aperti, nei quali siamo richiesti di vivere con coraggio, senza riposo, ciascuno disposto a collaborare per trovare strade nuove, nuove idee, metodi nuovi, nuove risposte. Le domande infatti sono già state poste; sono lì che aspettano.
I personaggi. Hai già parlato di Marcho Marcho. E Fraulissa? E il tedesco Nice?
Fraulissa ha il nome della madre di Giordano Bruno (finito al rogo). È un personaggio centrale, anche se può apparire un po’ defilato. Ha meno inquietudini sul piano della prassi però è pieno e definito, ha più curiosità di ogni altro, è duro per volontà perché è molto umano cioè pronto a liberarsi e a cercare. Ha quella struggente generosa fatidica chiarezza che è giusto ci sia, quando è possibile, anche nella inquietudine. Fraulissa è la donna che se non partecipa al tentativo di cambiare il mondo, e se in qualche modo non lo cambia, è destinata, e lo sa già, a generare figli che saranno bruciati. Per non subire questo destino è partecipe di questa situazione aperta al contrasto e alla lotta; e lo è con una consapevolezza intima e intellettuale assolutamente decisiva.
Nice invece è l’altro o un altro,per quanto molto necessario; potrebbe essere “l’uomo che viene dal freddo”, uno straniero come ce ne sono tanti, portatore di problemi, di angustie; lo indicherei come una controspalla molto organizzata del discorso generale svolto nel libro; colui che nelle commedie entra e esce sempre puntuale e preciso, con un ritmo che dà scansione al discorso (nelle commedie); ed è giustificato proprio come ritmo più che da una esigenza concreta – psicologica e narrativa stretta. La presenza di Nice è giustificata da fatti e problemi urgenti – dentro a una smania delle cose – che devono poi essere manipolati e risolti, quando è possibile, dagli altri. Quindi Nice è importante ma insieme agli altri; quando scompare è perché la sua funzione è finita. Allora lo sostituisce, entrando in lizza, il calabrese,con la sua vera cultura antagonista e con i discorsi che toccano a fondo il cuore.
C’è una cosa che colpisce, e non soltanto nel romanzo: una certa presenza ossessiva del “tedesco” un po’ in tutta la tua opera. Lo Schumann di Registrazione di eventi, Il tedesco imperatore, Unterdenlinden, questo Nice, eccetera.
Il tedesco è ossessivo, come dici, perché per me è stato il riscontro più diretto e imperversante fin da ragazzino. La lingua tedesca l’avevo imparata come seconda lingua; le primissime letture che non fossero quelle scolastiche le ho fatte quasi tutte su testi di autori tedeschi. Ho letto prima Hölderlin che Ungaretti, prima Goethe che Leopardi, prima Rilke che Saba; ho fatto la mia tesi su Nietzsche. Andavo in Germania. Poi c’è anche la guerra, con le cose terribili e conseguenti, in cui per noi e in Italia i tedeschi sono stati coinvolti e protagonisti. Un muro di pietra dura e uno specchio accecante.
Ci sono poi, tra i personaggi del romanzo, i “cavalli”, i “fagiani”, i “persiani” e i “fiumi infernali”.
“Ahi / i diecimila cavalli / sono tutti ammutoliti” sono due versi di un poeta cinese di secoli addietro citato da Mao. Li ho presi per intenderli non come simbolo e riferimento agli uomini che si sono ammutoliti dentro a una critica grigia o al rancore o al dolore che graffia, o si sono messi dentro la solita situazione di disarmo non soltanto apparente; disarmo susseguente a lotte non definite, a contraddizioni sempre contrapposte e agli impatti imprevedibili che si propongono con una furia delle occasioni talvolta opprimente o frastornante. I diecimila cavalli sono, e restano, tutti quelli che si muovono e corrono, che operano – e scelgono di conseguenza – perché le cose possano cambiare dietro spinte continue; sono quelli che tengono più duro, che durano di più, opponendosi sul piano delle idee e delle cose.
I persiani? sono una rapida e semplice trasposizione da Senofonte. Come in quel testo, qua vengono associati al brivido cupo dell’oppressione, al mare della sorpresa violenta, al rancore, a un certo odio che fa male e a tutto ciò, insomma, che non si vorrebbe più vedere come esercizio criminale e lubrico del potere.
I fagiani dorati? non so precisare in questo momento il piccolo riferimento bibliografico; l’ho nell’orecchio certamente da una vecchia lettura. Ma credo che importi poco o niente. Qua stanno come i rappresentanti della giustizia ingiusta, della ingiustizia gabellata e lacrimosa, dei fescennini calibrati e rigorosi della giustizia ufficiale, che si tramuta e recita, è ironica o lacrimosa, suggerisce o colpisce, invoca e reprime. Sotto le sue svariate penne si adattano le trasformazioni più tragiche, alla fine; e colui che ammonisce conduce e conclude è assiso in alto, come su un trespolo d’oro, a esercitare il suo giudizio parziale in uno splendore terrorizzante.
I fiumi infernali? qua sono i cinque rappresentanti di un potere economico. Ciascuno ha la sua faccia e il suo luogo; conduce la danza o segue, secondo interesse e programma. L’accordo apparente è perfetto; c’è un’armonia ibrida e giallastra fra di loro, che è alla fine più borbottante e pericolosa di una tempesta o di un terremoto che arrivi. Charlot del petrolio è il petroliere, è chiaro; coi suoi baffetti, minuto e lindo, feroce come un gatto accecato. Si può anche immaginarlo con la bombetta in testa. L’uomo col pompon è un altro, della grande industria di Stato; è lui, non l’ho inventato io; gira in macchina su e giù per Milano, terrorizzato dal freddo e dallo spionaggio industriale, che è poi uscito insieme a trucioli della sua pancia di buffone shakespeariano. Agli altri tre metti la maschera d’uso; basta allungare una mano.
Ma ecco, proprio sull’altra riva, vorrei ricordarti un personaggio protagonista; comunque da stringere in mano: Nello Savore. Savore nasce e lotta e muore e poi torna a vivere e a lottare; sempre vivo dentro la stessa lotta; ha sette pelli e un fuoco che è fuoco, cioè quel fuoco. È veramente l’eroe popolare che arriva e appare subito per quello che è; rappresenta, poiché la raccoglie subito e con entusiasmo, la voglia di vivere di tutti, e la loro voglia di lottare, la loro impazienza, il loro amore alle cose – che è generoso. Lui immediatamente trova consonanza con gli altri senza neanche cercarla; perché sono gli altri che, per una scadenza straordinaria ma che si ripete, l’aspettano, sanno che arriva e hanno subito la premura il desiderio la necessità di identificarsi con lui. C’è sempre, in una situazione d’emergenza, l’uomo che rappresenta gli altri e ne convoglia e ordina umori voglie e immediate necessità; che parla per gli altri; che rassicura gli altri; che dà una rassicurazione agli amici non solo psicologica, ideologica ma proprio pragmatica. Nella scelta ordinata delle cose. Ecco perché Savore va viene muore poi è ancora vivo; non è un personaggio ufficiale ma è un personaggio essenziale. Lui, con Marcho Marcho e Fraulissa, chiude il libro. Il libro si chiude su queste tre spalle che vanno; e ripropone con un rimando rabbioso la frase stupenda di Alcide Cervi: “Sempre coraggio e tutto sarà niente”. Non c’è succo, al lavoro, e anche al mio lavoro, più autentico – in questo caso. Coraggio che è ricupero degli insuccessi e rifiuto organico di arrestarsi per lapparsi le ferite col solito e stolido gesto di agnello; coraggio che è coraggio anche negli sbagli di ogni giorno e nei lunghi errori dei lunghissimi tempi; coraggio di andare avanti, di utilizzare tutto, proprio tutto fino in fondo. Ecco, questo credo che sia uno dei punti positivi, o il dato positivo, a cui il presente libro invita; o vorrebbe invitare. E senza smanie o scoperti furori esistenziali. Così, dal fondo delle nostre giornate. Magari in opposizione immediata e responsabile ai libri tutti politici di altri.
Tornando a Marcho Marcho: qual è il suo significato più direttamente politico?
Marcho Marcho non si defila, non inveisce, non piange, non scappa. Cerca, tenta, si muove, progredisce, impara. Non è un monumento a qualcosa; semplicemente si sta rovesciando la pelle. Soprattutto non si finge diverso da quello che è; ha il coraggio di non rifiutare mai la propria implicazione di classe e le relative contraddizioni. Ma quando decide di scegliere, sceglie e non torna indietro.
Ho amici che nel ’68 hanno indossato maglioni e zazzere e scarpe rovinate fingendosi all’improvviso diversi e nuovi; invece infilavano un quasi tragico completo da arlecchino. Non approdava a niente, non riparava neppure dal freddo. Marcho Marcho non è cosi; sente sul serio il bisogno, per continuare a vivere, di collocarsi in una situazione diversa, diciamo pure rovesciata, di fronte a tutte le cose e ai relativi impegni; ma ci mette tempo e procede adagio; tenta, sceglie e alcune volte, come ho detto, sbaglia. Ebbene: sbaglia. Non ha la coscienza abbastanza falsa che per alcuni consegue al ’68, anno fondamentale ma talora tatticamente usato per creare con qualche artificio uno spartiacque ideologico molto pericoloso, perché dovrebbero esserci quelli di prima, quelli di durante e quelli di dopo – secondo un catasto generazionale. Marcho Marcho, che ci è passato di mezzo, continua a camminare.
Il tuo romanzo dà l’impressione di voler riflettere, anche nella sua struttura narrativa e nel suo linguaggio, un mondo frantumato e riorganizzato al tempo stesso; di voler esprimere, cioè, delle forze distruttive e costruttive. Non è forse un caso che il brano anticipato su “Nuovi Argomenti” nel 1966 si intitolasse La lucida organizzazione del presente.
Sì, si sta abbattendo qualcosa; qualcosa è demolito o frana e altro si fa crescere o cresce o si preannuncia in mezzo a mille fatiche. Molte cose si sdipanano; è in atto un fervore difficile e contenuto ma molto attivo, con un potenziale energetico insospettabile, forse.
Indico un paesaggio da Texas, di frontiera; è lì dove ci sono polvere e detriti, perché è li che non sai se stanno demolendo o costruendo e se la polvere e i detriti sono in conseguenza di ciò che si alza o si distrugge. Questa frammentarietà; questa situazione incerta tra la frantumazione e la costruzione, nel libro è indicata di proposito. Non è una inquietudine di pelle ma un dato oggettivo che si coglie e si trasceglie, indicandolo. Inoltre c’è da dire, e va documentato, che oggi si stanno compiendo gli ultimi atti, tragici, del genocidio perpetrato con cinica freddezza, negli ultimi vent’anni, della cultura contadina; con la soppressione a freddo delle ultime residue isole di resistenza. L’esemplificazione dell’operazione è da manuale del terrorismo ideologico. Ad ogni modo direi che il polverone raccolto nel mio libro è anche un campione di questo estremo lenzuolo funebre che è steso nell’aria.
C’è la forza nuova del movimento operaio, naturalmente; ma io la sento in movimento, tutta inquieta e giustamente inquieta perché si sta organizzando e riorganizzando, scoprendo vuoti o riempendo vuoti e adattandosi alle grandi novità, alle necessità del momento. Così diverse, e straordinariamente diverse. Un impegno che direi senz’altro formidabile, e che coinvolge tutti, che è appena avviato. Ecco la ragione di quel sentimento, di quella sensazione di sommovimento, di cosa agitata, di qualche vuoto o di qualche relativo scompenso in giro. Tutto è manomesso; e giustamente manomesso.
Nel brano pubblicato su “Nuovi Argomenti” tu davi una definizione (che poi si ritrova sostanzialmente qui) del marxismo come “torso di legno” forte e resistente da “rivestire”. (“Non è che il marxismo sia in crisi, sono in crisi le interpretazioni del marxismo, così suggestive; gli abiti delle quattro stagioni del medesimo stracciati dall’uso; ma il torso di legno duro rimane; soprattutto resiste” “bisogna rivestirlo” “questo è il punto. Bisogna rivestirlo”).
Sono ancora convinto. E poi, d’altra parte: che cosa è stato fatto in questi dieci anni (il brano su “Nuovi Argomenti” è stato pubblicato appunto nel ’66) se non ricontrollare rimpannucciare e poi non accontentarsi, accantonare, rimettere in discussione con una impazienza e un coraggio esemplari da tante parti? In realtà c’è stata una tensione continua da alveare. Si portava, si ammucchiava, si faceva e disfaceva; ciascuno pensava, discuteva, proponeva, era contraddetto. Sì, sembrava che in giro ci fossero solo macerie mentre lo ritengo un tempo eccezionale per questa generosità di tutti quelli che hanno pensato con disinteresse e che giorno per giorno si scontravano con le cose da modificare. L’interpretazione partitica, così secca, era saltata prima del ’66; ma quante mani e bocche e cuori e cervelli si sono affaticati intorno al tronco assatanato.
Eppure la verifica non è conclusa, è in atto, sembra nonostante tutto appena avviata. È il lavoro che a ciascuno compete, secondo impegno necessità e interesse, per gli anni a venire.
Ecco perché non mi vergogno del libro, di questo libro; come è, l’ho messo insieme con pazienza e senza approssimazione.
* I diecimila cavalli, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. IX-XXI.
L’urlo della farfalla*
Sempre più frequentemente assistiamo al ritorno sulle scene dei gruppi o dei protagonisti del grande momento della musica rock, da contrassegnare all’incirca nel quindicennio ’60-’75. Ma in effetti, a quale pubblico reale intendono davvero riproporsi questi artisti dai capelli grigi?
Dopo il lungo declino o le prolungate assenze, è solo la necessità economica che li spinge a questi rapidi conclamati inattesi rientri? Oppure pesano elementi esistenziali, cavilli sentimentali? E a chi intendono più direttamente proporsi? Alla giovane tribù dei nostri giorni, oscillante astuta frenetica e poco decifrabile nei gusti particolari; oppure a coloro che li conobbero già al tempo delle prime vittorie e che li seguirono per l’arco intero della loro vicenda artistica?
Nell’ottobre scorso si mise in moto il giro europeo di Paul McCartney, legato alla promozione di un nuovo Lp squisitamente ovvio ma professionalmente ineccepibile. Sempre per la distribuzione al commercio di un nuovo album, è del mese scorso il concerto di Phil Collins a Parigi. In questi giorni tocca ai Rolling Stones. Se Collins ha lucrato a Parigi tantissimi applausi da un pubblico non da calcio ma raffinato, la serata di Paul McCartney in Germania, in contemporanea a una partita di Coppa delle Coppe distante neanche mezzo chilometro, radunò non più di dodici-quindicimila persone, mentre allo stadio lì vicino erano in più di cinquantamila. Ma i giovani di oggi, i giovanissimi, come possono masticare, in che modo possono deglutire questo Beatle redivivo, questo Collins inesauribile che mescola e confeziona con arte sopraffina, nell’alambicco, squisitissimi sciroppi musicali?
I Beatles erano nel pieno fulgore di lavoro e di consenso, correva l’anno 1965, quando Filippo d’Inghilterra, durante un viaggio di Stato in Canada, a una domanda precisa in pubblico ebbe a rispondere che il gruppo inglese era irrimediabilmente sulla via del tramonto. La sorpresa di tutti – la frase fece il giro di mezzo mondo – fu più ironica che preoccupata; ma non passò un anno e i Beatles si presentarono a San Francisco per proporre il loro ultimo concerto in pubblico. In seguito, fra loro, solo Lennon restò un protagonista isolato e assoluto; gli altri tre si fissarono nella memoria dei giovani e cominciarono a invecchiare con loro. McCartney è tornato allo scoperto solo dopo la scomparsa del vero protagonista del gruppo, proponendosi con il garbo e l’intelligenza necessari alla circostanza ma senza novità, senza tornare a scuotere il mondo. In questi casi l’aggancio abbastanza immediato è con il pubblico anagraficamente datato; segue poi la tribù tempestosa dei molto giovani, che si muovono in tutte le direzioni per conoscere, confrontare, potersi ritrovare. Le alte tirature di vendita, spesso non collegate alla grande novità del prodotto, sono da riferirsi a questa eccezionale squilibrata vitalissima forbice generazionale. Se si vuole: il ricupero costante e l’apprezzamento di questa alta montagna di materiale musicale, fra cui le scorie radioattive dei passati decenni, avviene non nell’ambito della necessità ma in quello ben più definito della curiosità immediata e della memoria – per classi di ascoltatori, così si potrebbe dire, ben definiti. Inquieti imprecisi infedeli ma entusiasti e imprevedibili gli uni, ormai quieti e fedeli spasmodicamente agli idoli della propria gioventù gli altri.
Allora forse è più vero che, al di fuori di questi ritorni calcolati e preparati in carne e ossa, il maggiore e più giustificato interesse musicale è da ritrovare nelle proposte discografiche, collegate a una precisa filologia, che rimettono in circolo testi pregiati, preziosi per la difficoltà di reperimento, quasi mitici ormai.
Con una postilla particolare e marginale: che questa sempre più attiva spinta a riaffondare le mani nel passato per trovare vere emozioni, può anche testimoniare il momento di grigiore nella comunicazione musicale dei nostri giorni, molto stravolti dentro un proliferare di approssimazioni e di tante piccole ma inesauribili volgarità. Immergendoci nel brivido sonoro del passato, verifichiamo che è soprattutto anglosassone. E, ancora, più americano che inglese. Un confronto con noi? Allunghiamo a caso una mano nello scaffale. Italian Graffiti 2, anno 1964. Titoli delle canzoni: Con te sulla spiaggia; Sul cucuzzolo; Ti ringrazio perché; E più ti amo ecc. Idem, anno 1968: Un angelo blu; Il gioco dell’amore; Se perdo te.
L’America è già dentro a un turbine totalizzante di problemi vitali che stravolgono il vecchio e che ne avrebbero rovesciata la faccia e la pelle; noi sediamo al piede del vulcano ma il naso di chi canta e chi scrive sembra essere ancora perso nella luna. Mescoliamo Sergio Bruni a De André, mentre si è appena concluso il genocidio della civiltà contadina. Poco prima, nell’ambito della scrittura e per esemplificare ancora, noi avevamo appena avuto Quer pasticcaccio di Gadda, l’America invece Sulla strada di Kerouac. Correva l’anno 1957. I grandi libri da noi sconvolgono, semmai, la letteratura – quindi restano un problema interno alle minoranze rigidamente, specificatamente acculturate; in America sconvolgono la società; tanto che si potrà dire in seguito che niente è stato più come prima. Quelle pagine hanno aperto una profonda ferita da cui è sgorgato sangue esistenziale nel corpo della gioventù americana. Anche per quel libro l’America è tornata a essere una terra da riconquistare, un West la cui infinitezza faticosa pericolosa e impervia dava i brividi. E un modo, dietro quella spinta, negli anni seguenti, per molti giovani fu di cominciare a cantare, a suonare – partendo dalle trombe di alcuni padri, anche di pelle nera.
Si può prendere a esempio uno di questi giovani, non fra i molto amati, i troppo lodati dalla storiografia ufficiale, dai critici di ieri e di oggi. Un giovane non facile, controverso: Jim Morrison. Che parecchi tengono ficcato solo dentro al gruppo dei Doors. Giovane tragicamente sventato o avventato dentro a una inesauribile irrequietezza culturale. Un autentico testimone di quegli anni che cominciavano a rovesciare un’epoca.
Quando Kerouac pubblica Sulla strada, Morrison ha quattordici anni e si sta già scontrando con la famiglia, il sistema, le regole della vita come tradizione di buone maniere. Figlio di un alto ufficiale della marina, usa una violenza ispida e sregolata per difendersi dall’ovvietà famigliare insinuante e costante come un rettile. Dieci anni più tardi scriverà il testo e canterà la canzone The End, porto d’arrivo di un infernale itinerario dei sentimenti. La struttura, con il rispetto delle esemplificazioni, è da scena di una tragedia classica; ed è poi la conclusione della lunga canzone quasi dodici minuti a portarci dentro al cuore di questa storia sognata sperata: mentre si alza il sole il figlio si sveglia, calza stivali, si ripara con una maschera, per una lunga galleria si avvia verso la stanza dei genitori, apre la porta “padre?”, “sì, figlio!” “ti voglio uccidere”, “madre, io voglio…” e la rabbia e il terrore del cuore uccidono anche le parole. Quasi all’inizio aveva cantato: “Scene terribili dentro la miniera d’oro. Bambina, cavalca verso ovest sull’autostrada del re”.
Ascoltando la voce equilibrata, quasi calma, che striscia come un dito, tentandola, sulla lama di un coltello affilato, si ha anche oggi il senso della terribile concentrazione di questi ossessionanti e ossessionati abitatori del suono, i quali si sono uccisi o sono stati uccisi quando hanno perso la voce insieme alla speranza. Letteralmente travolti dalla morte. Nell’altro lungo poema cantato, Quando la musica è finita, Morrison dirà: “Prima di affondare nel grande sonno, voglio ascoltare voglio ascoltare l’urlo della farfalla”.
Obiettano che, a fronte di grandi parole e forti impegni questa generazione di grandi autori musicali, per lo più maledetti, ha aperto la strada alla valanga della droga; che è stata il tramite per la trasmissione della peste del secolo. Una risposta potrebbe forse essere: la droga allora era un muro opposto alla società; aiutava a scontrarsi non a incontrarsi. La droga era l’olocausto che una generazione eseguiva con se stessa per cercare di trovare la via di una verità che le era negata; o continuamente sottratta. Ma è solo una risposta.
Altri testi, naturalmente, e di altri autori, sono esemplari di quel momento e di quella condizione; Morrison ha avuto in destino di essere fra quelli che hanno ottenuto il grande consenso e di scomparire in un rapido incendio. Di bruciare tutto in un pugno d’anni, non più di dieci. Certo, non un profeta grande o piccolo; ma come un camminatore dentro la realtà, che apre anche solo una piccola strada, non ha potuto che andare avanti, e avanti, su terreno impervio, consumando nel viaggio non la parte migliore di sé, ma tutto se stesso. Gli ultimi suoi giorni a Parigi, nel luglio 1971, sono una progressione minima di atti e di fatti, di depressione senza speranza e di minute squallide violenze private che avvicinano il momento e l’occasione della sua morte (l’ora notturna, la piccola strada, la cappa di mistero e di silenzio) a quella che poi seguirà, di Belushi.
È lo scollamento progressivo della vita per accumulo di acidi risentimenti, di fantasie sminuzzate; l’incapacità ormai quasi voluta, dentro a una nevrotica indifferenza di osservarsi, anche soltanto di vivere e di avere la pazienza di aspettare per potere uscire, almeno una volta ancora, dalla prigione delle ore. Per la morte di Morrison, questo accumulo di complicazioni, come un peso trascinatosi dalla prima giovinezza, è più incalzante, più pesante, alla fine forse più determinante della droga.
Si muove molto, nelle ultime settimane. In giro più volte per la Francia, poi in Spagna, Marocco, Corsica. Ma ogni ritorno è senza pace. Poche persone, sembra il caso di poter dire, hanno coltivato così poca pietà per sé come Jim; la progressiva devastazione è stata offerta in pubblico, come l’ultimo sacrificio a cui non poteva sottrarsi.
Anche se altrettanto violentemente esibita, è diversa tutta la storia dei Rolling Stones, felicemente in corsa anche oggi; difesi da una corazza ibrida di satanismo ironico e di violenza isterica e anche scenografica, che ha permesso alla “banda Jagger” di sopravvivere e durare fino a oggi, intenerendosi sempre un poco via via fino a diventare quasi gioiosa; sicuramente giocosa. Uno spettacolo nello spettacolo. Ricchi da morire, sazi da morire, bravi da morire, inquieti nonostante tutto fin quasi a morire, eppure non sono morti. Mick Jagger, ormai cinquantenne, sembra un nonno aitante che racconta le storie ai nipoti mimando con voce forte maghi e streghe. Altri invece sono morti giovani, con le mani nel fango. Non per fatalità ma per l’implacabile violenza, non ancora compiuta, della storia di questo secolo. I superstiti molto spesso sono soltanto i più fortunati, non quelli che hanno più talento.
* “L’Espresso”, 17 giugno 1990, n. 24, pp. 99-103.
Conversazione in atto*
con Gianni D’Elia
D. […] Nella letteratura italiana, c’è un altro libraio antiquario di cui io almeno mi ricordo, che è Saba… Quando e come è nata la Libreria Palmaverde, e qual è il nucleo centrale del suo catalogo, chi ci ha lavorato, chi ci lavora…
R. È fare una piccola storia, rinvangare una storia appartata di quarant’anni. Anzi, quarantuno, tanti sono ormai… Potrei dire che è una storia privata che non ha interesse per altri, e certo è vero; ma dopotutto, sia pure nella modestia delle cose fatte, non sarebbe neanche giusto questo, non sarebbe vero, se non ci si vuole mortificare più del lecito. Qualche piccola cosa, non del tutto volgare l’abbiamo pure portata a termine. Siamo riusciti a compierla. E poi a quattr’occhi possiamo parlare a ruota libera. Ti dirò che come siamo, qua dentro, anche un po’ mi piace, perché… e non l’ho mai fatto… è la prima volta che mi capita di voltarmi a guardare quello che c’è dietro le spalle, come dietro le spalle di tutti… Le ombre, le piccole carte, i segni delle ruote, le voci, gli errori… tremendi errori. Certo che non è stata, non è mai stata, un’impresa per fare soldi, ma piuttosto una tensione quasi irresponsabile per cercare qualche cosa da fare, qualche cosa di nuovo da fare… o cercando di fare le cose nuove che avevamo in mente di fare. Questo posso dirlo, per Elena e per me. Piccoli risultati, è vero; modeste conclusioni ma non siamo né sorpresi né amareggiati in generale, perché tutto è stato portato a termine, sia pure dentro alle ovvie difficoltà.
Questa disposizione di faticoso realismo ci concede di andare comunque avanti, anche se gli anni del vigore man mano si allontanano. Perché si può ancora, in qualche modo e in ogni occasione, progettare qualcosa, inseguire il nostro destino… Intanto, tutti questi anni dietro le spalle… La libreria non è nata per caso, anche se poi è nata del tutto per caso, scusa la tautologia… per l’assommarsi di piccole vicende, al seguito di un desiderio, di un proposito che si stava precisando. Questi percorsi, quando si è giovani, e anche in riferimento alle piccole cose che ci toccano, a propositi privati, sono sul momento faticosi dubbiosi e poi, nel ricordo, memorabili determinano… Per esempio il nome, l’intitolazione prescelta. Che, concordo, avrebbe potuto risultare senz’altro più brillante, o più severa, comunque più pertinente… e invece. Per caso, dicevo. Però un progetto di una vita pratica fra i libri l’avevo sempre in testa, dato che ho cominciato a frequentare i luoghi del culto molto presto, prestissimo. In seconda istanza, come si dice, mi accompagnava la convinzione che non avrei mai potuto saputo voluto svolgere un qualunque lavoro che fosse a padrone, un lavoro che mi portasse a ricevere con costanza e puntualità la busta paga settimanale o mensile; che mi vincolasse, insomma, a una norma; soprattutto a sottostare agli umori peregrini, alle bizze, alle torpide nevrosi di un qualunque che pagava. Questo, fosse anche lo Stato… Ma prima, avevo avuto due esperienze iniziali rapidamente consumate e assunte per necessità. È materiale di vita che affiora adesso perché rimescolo l’acqua. Erano gli anni in cui si ballava quasi ogni sera, anzi ogni sera, o almeno si suonava, in piazza Maggiore a Bologna. Come in tutta Italia, credo. C’erano orchestrine jazz anche di sole donne, con molta curiosità. L’anno ’45, il secondo semestre. L’anno ’46, un periodo bello, pieno. Con parecchia propensione alla speranza e, un poco, anche alla reciproca fiducia. C’era molta propensione d’amore, dopo le notti della guerra. Quanto è durato? Fino a quell’aprile del ’48, che chiuse porte e finestre? Ma in quell’anno ’46, almeno questa propensione è durata…
Mi sono anche laureato in filosofia con una tesi su Nietzsche; però le mie propensioni erano prevalentemente storiche.
Mi interessava la storia del Risorgimento soprattutto, letta la prima volta ancora al liceo sulla documentazione interminabile ma per me ragazzetto affascinante del Tivaroni. Quei fatti minuti, sottratti alla pompa dei velluti e delle medaglie e delle barbe dei vincitori; quella perspicacia nel documentare e quel respiro che quasi faceva voltare le pagine come un piccolo vento… Chiesi e ottenni di diventare assistente alla cattedra di Storia del Risorgimento all’università di Bologna. Rimasi due anni, con progressivo appannamento delle speranze di fare, della voglia di fare. Il mio proposito modesto ma convinto era di indagare sul serio, voglio dire in profondità e con continuità, la storia da fanfara e da bandiere al vento (ma in realtà da tragedia e da morte) di quegli anni, disponendomi non dalla parte del vincitore ma sulle carte del nemico. Non scartabellando a Roma o a Torino ma a Vienna; come aveva fatto a suo modo, con una cultura e una esperienza archivistica fuor del comune, il Luzio… Niente, neanche mi ascoltavano. Volevo cercare di indagare sulle violenze ripetute e sui ripetuti massacri compiuti dalle truppe piemontesi soprattutto in Abruzzo, negli anni dell’annessione… ed ero stato conquistato dal severo eroismo dei soldati borbonici asserragliati nella fortezza di Civitella del Tronto per quell’ultima resistenza, senza resa, fino all’ultimo uomo. Solo per fedeltà a una parola. A scuola, nessuno me l’aveva mai raccontato che c’erano uomini simili anche dalla parte sconfitta. Da quel momento, da quelle letture, da quelle notti passate su documentazioni appassionanti, ho imparato come una verità mai più dimenticata a diffidare delle parole dei vincitori. O comunque, di andare cauto nell’ascoltare e di non intrupparmi mai, in nessun caso, nell’applauso… Lasciai senza saluti l’università e mi dedicai ad altro, cercando intorno a me…
Il proposito di lavorare con i libri vecchi, con i libri antichi… con i libri che hanno la polvere addosso, diventò reale un giorno per una occasione, come dire? precipitosa, che richiedeva celerità di decisione e di esecuzione. Un nobile smobilitava casa, campagne e archivio volendo o dovendo trasferirsi altrove… questione di ore. Tutto era dunque affrettato incontrollato. L’archivio imponente e secolare capitò, in quei tempi era ancora più comune di oggi, in mano a un grossista o rivenditore di carta straccia… che aveva insaccato tutto, il lusco e il brusco, come fosse sterpaglia per il fuoco. Il capo commesso della libreria Cappelli, Otello Masetti, mi avvertì e decidemmo, con un prestito, di acquistare quei sacchi. Erano tanti… ma parecchi erano già stati stivati via. Per questa ragione trovammo molte opere mancanti di qualche volume o tomo… Fu il fondo librario d’inizio, con il quale cominciai a pubblicare i cataloghetti di vendita della libreria. Furono quattro, in seguito sempre bollettini. In questi giorni stiamo diffondendo il numero 205. Quarant’anni. Possiamo calcolare d’avere offerto in vendita più di centocinquantamila volumi… meglio, centocinquantamila opere, perché un’opera può essere in più volumi. Però occasioni d’acquisto come quella capitata all’inizio, se erano possibili un tempo oggi si sono fatte più difficili. Nei nostri giorni, anche il lavoro con i libri vecchi è completamente capovolto… è diventato una ennesima piazza d’affari, dove luccica spesso soltanto la moneta. Sottrarsi al risucchio di questa sarabanda non è facile, comporta il progressivo assillante aumento delle quotidiane difficoltà. Tutto questo va ad aggregarsi alle scelte private e si confonde, più in generale, con una scelta di vita dentro a un onesto rigore… Insieme a tanti altri, dopotutto… per fortuna.
D. Quindi, alla libreria, hai lavorato tu…
R. Come ho detto, con Otello Masetti, che aveva esperienza pratica di libreria… come fare, come muoversi, dove rivolgersi. Fu lui che nel 1942 portò Pasolini, Leonetti, Serra e me da Mario Landi, libraio antiquario; una personcina di grande delizia, di grande esperienza, di straordinaria modestia e povertà; per ricevere la sua sigla editoriale… la usava per i bollettini bimestrali di vendita… sul nostro primo libretto in corso di stampa a nostre spese. Sigla ma anche firma editoriale, che mi furono prestate anche l’anno seguente, 1943, per la pubblicazione di Umano in 50 esemplari e delle Rime in 30 esemplari… Con Masetti cominciammo a riscontrare i volumi di quel primo acquisto in uno stanzone avuto in affidamento, anche questa volta per libera cortesia, dal parroco di San Michelino, un primo piano attaccato alla chiesa. C’era una grata forse del Cinquecento contro il muro, appostata sopra l’altare; da lì vedevamo l’interno della chiesa, ascoltavamo le messe, le preghiere, i cori. Quando l’organo suonava lo stanzone rintronava come sotto il temporale… Ma per lunghe ore del giorno il luogo era confortevole e silenzioso. Corrispondeva direi, sì corrispondeva, in un rapporto quasi diretto di necessità, con le file dei libri allungati per terra. Ne raccoglieva, con i barbagli del sole che percuotevano i dorsi per lo più in vecchia pelle o in pergamena, la luminosità… un po’ disfatta ma struggente, che credo abbiano in qualche modo percepito tutti quelli che vivono, per mestiere scelto, fra i libri vecchi… […]
Ma come, possono dirmi adesso, con una guerra appena terminata, le macerie ancora fra i piedi e tutto ciò che girava per il mondo, annusavi solo la polvere e ti esaltavi? Non avevi altro da fare, altri interessi? Rispondo che è giusto e che avevo anche altro da fare, avevo dieci altri interessi di corpo e di testa, però quel particolare così poco significante in generale ma legato a un principio di lavoro quieto e semplice, serviva più di una corda di canapa a legarmi di nuovo alla quotidianità. Il rumore dell’orologio, una porta che sbatte, un libro che cade per terra. La corda di canapa che trattiene la barca al molo. E allora anche la polvere, come il fiore di loto per Ulisse e compagni. […]… Ma in due parole, per concludere, riprendo l’elenco dei vari passaggi successivi, sempre collegati a una piccola, piccolissima intrapresa editoriale. Dalla sede in chiesa finimmo in un cubicolo al primo piano dentro una antica torre, nella centralissima via Rizzoli… e quello è anche il tempo, fra parecchie altre cose, di “Officina”; poi in un negozio aperto al pubblico, distante cento metri, e quello è anche il tempo, fra parecchie altre cose, di “Rendiconti”; poi in via Castiglione, di fronte alla grande chiesa di Santa Lucia, in un interno, e quello è anche il tempo dei ciclostilati e della “Tartana degli influssi” e dei “Dispacci”; infine in via De’ Poeti dove adesso siamo, in quattro stanze all’interno, e questo è anche il tempo, insieme ad altri, dello “Spartivento”, di “Numero Zero” e di parecchi altri impegni ancora in corso.
D. Una delle prime volte che venni a trovarvi, mentre si parlava di poesia del Novecento, ricordo che Elena mi disse di avere fatto la tesi di laurea su Saba. Tu hai conosciuto Saba?
R. Una volta, all’inizio, è venuto con Alfredo Rizzardi. Girava con il bastone. Era di una severità affabile, non concedeva di sorridere ma lui sorrideva; non intimidiva perché non prevaricava; lasciava liberi di parlare in un discorso senza divagazioni. Sedette senza impazienza. Indicò alcune opere che ricercava. La sua libreria antiquaria distribuiva cataloghi molto interessanti, anche se allora non era Saba a redigerli ma Cerne. Saba si stava distaccando, così mi pareva in generale, dai libri… dal lavoro con i libri… per vivere sia pure conflittualmente dentro alla propria fama. Prima della guerra, invece, il suo impegno era più costante, più determinante. Sempre Mario Landi mi aveva raccontato… Landi aveva la bottega in un interno, in piazza San Domenico, dietro la tomba del grande notaio del Duecento Rolandino de’ Passaggeri, un luogo quieto e appartato… mi aveva raccontato che quando veniva a Bologna e lo visitava, avendolo prima preavvertito, arrivava in una carrozza a nolo, dalla stazione, e si faceva aspettare, cavallo e vetturino, anche più di un’ora. Landi ne aveva soggezione, lo riteneva molto attento e molto esperto… Con riferimento alla poesia mi viene in mente che con Saba ho avuto un contatto indiretto, un breve contatto iniziale che mi aveva emozionato, essendo io così giovane; e muovendomi nell’ambito un po’ claustrale dei librai antiquari. Fu il dottor Luigi Banzi, specializzato soprattutto negli autografi, con il quale ero in rapporto dato che ho cominciato da liceale ad andar per librerie, come si dice… o si diceva… un giorno mi mostrò il manoscritto de Il fu Mattia Pascal,piccolo formato, scrittura minuta e chiarissima, un gioiello anche solo a rimirarlo… fu Banzi, dicevo, a inviare a Saba tre o quattro poesiole. Ne ebbe lui, per me, in brevissimo tempo, un riscontro con qualche benevolo consiglio. Non mi garantiva per il presente né mi tagliava le gambe per il futuro. Insomma, mi lasciava fare; e non essere stato stracciato mi diede una spinta in generale. Banzi mi regalò il biglietto, andato smarrito nei traslochi durante la guerra… Fu a seguito di questo contatto indiretto che cominciai a leggerlo con attenzione. Mi riuscì di leggerlo bene. C’era una ragnatela di appigli che mi afferrava adagio e a fondo e mi collegava alla lettura che mandavo avanti quasi in contemporanea di alcuni tedeschi, o di Rilke. Era un mio sentimento; impressioni private, naturalmente slegate, senza alcun riscontro critico. Ma la gioventù è il mondo profondo delle suggestioni.
Certo è che ho letto Saba molto prima di Ungaretti e di Montale. Subito dopo Saba ho letto Campana, nel libretto giallino di Binazzi. Però in assoluto il primo italiano che ho letto, per un incontro del tutto fortuito, è stato Thovez… Sono ricordi, lasciamo perdere.
D. Ne hai scritto, anche… Mi dicevi, tra l’altro, che una delle prime cose che hai scritto era su Saba, o su Penna…
R. Su Saba, ma non ricordo dove. Su Penna, sì, pubblicato in “Architrave”, una rivista… anzi la rivista del Guf di allora, non bene allineata, con un po’ di fronda dentro. Ero al liceo e questo articoletto me lo fece pubblicare Antonio Meluschi; così come, in precedenza, aveva consegnato la mia prima scrittura, sulla poesia di Carlo Betocchi, a “L’Avvenire d’Italia”, quotidiano cattolico bolognese.
Meluschi era comunista e il marito di Renata Viganò, quindi mi trovavo dentro a un piccolo guazzabuglio politico, senza troppo penare. Meluschi era uno scrittore parecchio fuori dalla norma, con una scrittura diretta, molto carica, alle volte ampollosa, non mediata, ma che grattava nella direzione del popolo più tempestato, della fame, della povertà, della miseria, di un picarismo reale con vera polvere di strada, costretto dalle circostanze. Uno scrittore oggi dimenticato ma da rileggere, inquadrandolo in quegli anni, ’34-’39. […] Avevo cominciato a frequentarli, dalla scuola, quasi ogni giorno, ed era la mia prima amicizia letteraria. Così ebbi il loro appoggio per esordire […]. L’articoletto su Penna mi gratificò, invece, con la prima vera innocente emozione letteraria, mai più ritrovata. […] Uscì poco dopo, da Hoepli, la prima edizione dei Lirici Nuovi a cura di Luciano Anceschi. Sfogliando il volume in libreria, trovai indicato il mio articolo nella breve bibliografia su Sandro Penna. […]
D. […] Come autore, e nella pratica di organizzatore militante di cultura, hai sempre sottolineato la necessità del fare, cioè del cercare con indipendenza, come dicevi anche prima, e con attenzione, con continuità, strade nuove, e anche impreviste. Ti sei posto il problema della comunicazione, e della distribuzione della comunicazione letteraria. L’ultimo tuo libro di versi uscito con un editore, se non sbaglio, è del 1965, la seconda versione o edizione di Dopo Campoformio, stampata da Einaudi. Poi, la scelta dei ciclostilati in proprio, fuori commercio, come Le descrizioni in atto nel 1970, e successive integrazioni nel 1974 e nel 1985. Ti chiedo, come e perché avvenne il rifiuto dell’industria editoriale?
R. Non è stato un rifiuto dell’industria editoriale. Mi arrabatto a precisarlo, ogni volta che è possibile. Figurati che paura avrei fatto a questa industria, e per loro quale perdita grave!… No, no… Avevo pubblicato, per la generosità esemplare e l’attenzione di uomini come Bassani e Vittorini, ai quali mi lega un affetto e una gratitudine mai decaduti negli anni, anzi rinforzati… avevo pubblicato senza troppa difficoltà con Mondadori, Feltrinelli, Einaudi, poi anche con Rizzoli… nonostante, e devo dirlo non per mortificazione ma per igiene mentale e autoironia, non avessi più di cinquanta lettori; potevo arrivare forse a cento, con i curiosi familiari. Quindi avrei fatto sorridere, se mi fossi messo ad alzare muri e divieti. Semmai, a essere concreto, avrei dovuto ringraziare, e io che non sono ingrato l’ho anche onestamente fatto, quando è capitata l’occasione di scriverlo… perché ero un cavallo zoppo in una scuderia di trottatori. Quindi non era questa la ragione. Ho chiuso porte e finestre, e anche il cancello di un modesto alloggio, quando ho deciso di scansarmi da una collocazione, sia pure ai margini, istituzionale. Insomma, dentro alla norma. Farsi da parte significa anche allontanarsi. Non è stata senza fatica, senza strappi, questa divaricazione, stretta stretta a quegli anni fantastici e terribili, sale della terra e amarissime spine, dai quali ho personalmente cavato e ancora ricavo con forza molti insegnamenti magari dentro a mille errori, utili per la vita. Quegli anni Sessanta, il Sessantotto, contro cui imprecano oggi tanti ex compagni-amici quasi irriconoscibili, perché per voler troppo pentirsi oggi si sono cavati gli occhi… Allora, uno dei problemi di fondo impostato e promosso con una violenza di propositi del tutto legittima, e con una partecipazione faticosa e costante nell’applicare in pratica le norme alternative… direi anzi, uno dei problemi determinanti si riferiva alla comunicazione. Alla comunicazione in generale; più in particolare, alla gestione della comunicazione… Bada che tutto il mio discorso è riferito al movimento, alla sinistra extra-parlamentare… Non potendo conquistare la comunicazione, cioè i centri della comunicazione ufficiale, né potendo ancora contrapporsi se non con una debolezza sconcertante, ci si proponeva di allestire e gestirne qualcuno almeno alternativo. “il manifesto”, ma anche “Lotta Continua” e “Il Quotidiano dei Lavoratori” furono, in vario modo, dei risultati concreti in questo senso. In ogni caso, anche in seguito, restava male impostato e comunque irrisolto l’altro nodo del problema, tanto e forse più importante, cioè la distribuzione di questa comunicazione… Il ciclostilato con Le descrizioni in atto,scritte nel corso di quegli anni faccia a faccia, spalla a spalla con gli avvenimenti, intendeva presumeva… presumeva come atto, come fatto mio, come prova per me, del mio operare … di inserirsi come una scelta militante e diretta, in cui uno metteva in gioco ciò che aveva, nel cuore di questo problema drammatico e, come ho detto, determinante. Mi inserivo come un chicco di polvere ma con convinzione, determinazione. Gestire nell’ambito privato la comunicazione coordinando i due momenti integrati… sperimentare in dettaglio errori, ritardi, contraddizioni, incongruenze. Un mare in tempesta su cui era stimolante navigare. Si poteva ritenere, in questo modo, di ottenere riferimenti certi contro cui battersi o impegnarsi; l’avversario era pubblico e identificato da tempo, i termini del contendere, in generale, specificati. Potrei dire, con una anticipazione di vent’anni. Era una situazione, vorrei dire meglio, una disposizione di lotta, se contrapposta a oggi, ottimale. C’era più gente a disposizione, più freschezza di intenti, più decisione e non ancora la mortificazione del rifiuto e della scancellazione; del pentitismo… Si partiva ogni giorno con un impegno, diretto sulle parole da far circolare, da distribuire intorno, sapendo che non era possibile vincere… ancora non era possibile… ma che si poteva non perdere, cioè che un piccolo margine era conquistato. Un frammento di voce. E che niente, in ogni caso, andava perduto. Ogni suono aveva il proprio orecchio. Il presente, con le faccione vincitrici, dispensatrici di velenosa saggezza, sembrava ancora lontano, in ogni caso, improponibile. Perciò il quadro attuale per me, è ancora più insopportabile. Meglio ammutirsi che partecipare anche con un solo bla alla quotidiana cerimonia delle investiture.
D. A proposito delle istanze conoscitive, diciamo dei contenuti, oltre che delle forme, rispetto al ’68, mi dicevi – e poi lo hai scritto sia nelle Descrizioni in atto che in altri interventi – di una tua tensione critica rivolta contro una eccessiva fretta, nelle acquisizioni del ’68 stesso, mentre ribadivi la necessità di una riflessione maggiore, di una pazienza costruttiva. Spero di non avere sbagliato a intendere…
R. Non hai sbagliato. Ma più che dissentire dalla fretta… non era poi fretta, piuttosto precipitazione… quindi direi così: dissentivo dalla precipitazione che sottostava al tutto e subito,una formula, una autentica arroganza che non era rivoluzionaria… in realtà era stata formulata da borghesi… ma soltanto scriteriata, inevitabile fornitrice di guai… il popolo, che fa le rivoluzioni che contano e servono, conosce solo la pazienza feroce, la calma inesorabile, i denti contro il tempo… ma riprendo e dico che quella formula da cartellone pubblicitario, oggi, allora sconvolse per un po’ di tempo i termini della possibile riflessione inquinandola di un avventurismo micidiale… Adesso piangono, i guidatori dei treni di quei mesi… Dentro di me, io intanto mi arrovellavo in deduzioni più allargate, del tutto personali sia chiaro, che ubbidivano alla mia natura e all’ordine sì infuriato ma diverso dei miei pensieri; e queste deduzioni cercavo di collegarle alla metodologia generale di lotta che vedevo impostata in quegli anni… sdipanando a stampa qualche mia personale argomentazione, lì in successione, nei vari fogli […] sulla violenza da negligere, sull’impazienza sostitutiva, sull’arretratezza metodologica al cattivo servizio di eccezionali spunti teorici ricavati dalla realtà di quegli anni. Mi aveva preso come una ossessione, nel valutare la utilità generale di parecchie chiavi di lettura suggerite dai protagonisti di quei mesi, e la metodologia di lotta applicata che retrocedeva lo scontro a tempi e occasioni tardorisorgimentali. Da Comune di Parigi. Quella violenza che si andava proponendo e si poteva già raffigurare come lotta armata… e lotta armata divenne… poteva soltanto autorizzare la violenza contrapposta dello Stato, con risultati di una inevitabile sconfitta sul campo e il conseguente affossamento di ogni straordinaria utopia… Tanto entusiasmo per niente, o per poco, in quanto ai risultati sul campo… tanta fatica e partecipazione e speranze e ferite intime per niente, o per poco… una generazione, generosa e straordinaria, spazzata via, ridotta al buio della storia o della galera… e gli improvvidi maestri che ancora oggi cicalano sui rami… Quella violenza era ignobile perché era feroce ma infruttuosa, spargeva sangue inutilmente, che è atto ancora più atroce; non lasciava dietro di sé alcuna traccia da seguire. Era solo l’ombra di un inferno. […]
Vedo in questi giorni, col movimento studentesco in corsa, l’uso del fax o dei canali televisivi gestito con convinzione e con corretta cognizione dai giovani del 1990. A me fin da allora pareva, e non solo a me, è evidente… io ero mescolato nella buriana… ma a personaggi che ci avevano informati e ci andavano informando con libri o saggi molto suggestivi e aggiornati… che i luoghi dello scontro reale si erano trasferiti altrove, non più nelle strade, ma nei centri di elaborazione e di distribuzione della comunicazione; e mi pareva che lì dentro si sarebbe giocata la vera finale di coppa per il futuro del mondo. Almeno per il prossimo futuro. Cercavo di scrivere queste cose anch’io mentre andavo verso questa direzione, ma avendo pochi lettori buttavo ogni giorno i miei fogli nel fosso… Era incongruo continuare a usare vecchi sistemi, già arrugginiti dentro la storia, per supportare problemi urgenti e di fondo, identificati e portati alla luce con occhio vigile e nuovo… finalità eccezionali, da cambiare sul serio la nostra storia.
Ho scritto allora, in questo habitat, le mie “descrizioni in atto”, lì ciclostilate e distribuite gratis a documentare la mia convinta insania per i problemi e la mia passione critica per quel tempo che ci è fluito sotto gli occhi come un mare di lava e di cui non c’è niente da rifiutare… se non, appunto, la metodologia della violenza, vecchio ingorgo ideologico di una sinistra impallata su congelati schematismi… Per il resto, conservo i libri, gli opuscoli, i fogli volanti, i giornali, le riviste di allora su scaffali rialzati da terra, perché non si inumidiscano; e neanche li confronterei con la maggior parte delle balordaggini attuali. Resto anche del tutto indifferente alle scancellazioni perpetrate da tanti giovanotti insofferenti allora e oggi quasi in abito talare… Cercavo, per me, di contrapporre alla violenza la pazienza; non per ritardare ma perché questa è, tatticamente applicata, più fruttuosa e in sostanza più rapida nel raggiungimento degli obiettivi. L’atto paziente di cercare il nuovo… di ottenerlo… […]
Non voglio mitizzare niente di niente, lo ripeto, soltanto accennare alla realtà di quelle giornate, così come passavano; come le vivevo. Dalla mattina alla sera, giorno dopo giorno, era un continuo passaggio di giovani, di facce nuove… dico qua, in libreria… per ciclostilare sopratutto e suddividere e impacchettare, ma anche per incontrarsi, parlare, gridare. In quelle occasioni cercavo puntualmente, fra l’altro, di portare il discorso e una attenzione specifica, ben prolungata, sulla necessità, anzi sull’obbligo inerente alla pratica militante, di impegnarsi perché anche il più urgente succinto scalcagnato foglietto volante venisse redatto e trascritto con lo scrupolo dell’esattezza e la premura della forma, senza alcuna approssimazione, curando anche la rigorosa semplicità dell’impaginazione… dicevo, quasi fosse un volume edito da Tallone. L’eccitazione, l’angoscia, gli sprazzi d’esaltazione di quei giorni sentivo in profondo che richiedevano tutti questi particolari legati a una pratica operativa che scartasse come nemica l’impazienza infuriata e il micidiale dilettantismo, portatori di malanni a non finire. Mi angustiava, come mi ha sempre angustiato, non l’errore, non la conseguente fatica per ripararlo, non la semplicità così difficile da conseguire, non la ripetizione, ma la volgarità che tutto sconvolge. La volgarità che non lascia scampo, se non è corretta in continuazione dall’umiltà convinta, operativa… che, appunto, è pazienza e curiosità, disponibilità mai interferita all’ascolto e alla discussione; capacità e, direi, un dono eccezionale, di sapere ascoltare. Come ti dicevo la pazienza, in quel tempo, era morta ma sussisteva ancora, quasi liberandosi dai fiati di ciascuno di noi, tanta e tanta curiosità; sicché spesso i vuoti erano compensati da rapidi travasi che li completavano.
Allora le incertezze si equilibravano, in qualche modo, riducendo la momentanea disfatta della vita. Oggi, senza alcun rancore ma solo prendendone atto, devo riconoscere che, come una nebbia padana, è la volgarità rivestita di nuovo come per una festa di paese a coprire cielo e terra, dall’alba al tramonto. La volgarità generalizzata, talmente sciatta, precipitosa, indifferente a tutto… tanto prepotente da sembrare che non lasci scampo. Come una marmotta, per me ho cercato di mettere nel mio angolo qualche travicello trasversale, nell’acqua di allora… anche nell’acqua che scorre oggi… per adempiere e continuare in seguito ad adempiere almeno all’impegno della pazienza, della curiosità non distratta, della partecipazione reale al dramma degli altri; curando intanto per lunghi anni, dal ’61 al ’77, da solo, la rivista “Rendiconti”,una caldaia di nave che mi bruciava la vita. Ma bisognava andare avanti sul mare. La rivista, voglio precisare, era più letta all’estero che in Italia… anche perché la mandavo a chi volevo.
D. Un’altra domanda, lasciando un attimo questo problema… Tentiamo magari, se vuoi, di entrare un pochino più dentro le motivazioni espressive che abbiamo solo sfiorato, interne al tuo percorso poetico, e alla tua biografia letteraria… Tu sei nato a Bologna nel 1923, e hai pubblicato il primo libretto di versi, come dicevi prima, da Landi, a diciannove anni, nel 1942… La mia è una domanda forse un po’ banale, ma me la devi consentire: come sei arrivato alla poesia?
R. Come? Leggendo. Come sempre capita a tutti, un giorno o l’altro. Anch’io con la sorpresa della lettura, l’avventura della lettura, forse anche l’incidente della lettura. Un giorno, dunque, ho scoperto anch’io un libro dentro a un armadio, in uno degli agosti infuocati della pianura padana, in una vecchia villa, in un silenzio rotto dalle cicale, con i grandi pioppi immobili, e ho cominciato a leggere vedendo una piccola formica che risaliva lungo il dorso la pagina. Leggi perché sei solo, perché c’è l’afa che fa dormire i vecchi, perché così ti annoi e per il sole non hai voglia di correre nel parco. Continuai a leggere con una certa costanza anche in seguito, tornato in città, senza più tante sorprese dai cassetti. Infine, ed è anche questo un trapasso naturale, scrivi qualcosa. E io ho scritto qualcosa. Metti insieme parole con la tua scrittura, che non siano riservate alla scuola. Ma, almeno nel mio caso, era… la scrittura era una specie di arpione per agganciarmi al testo del vero autore che avevo sotto gli occhi e mi affascinava… […] Non dimenticare che stavamo maturando come alberi in piena guerra. E adesso, che in questo momento ritorno indietro nel tempo, mi viene in mente che la prima poesia in qualche modo conclusa, e in ogni caso ricopiata a penna, la posso collocare nel ’39 o nel ’40… insomma, quando la Germania invase la Polonia. Si intitolava Cavalleria polacca e non ho dimenticato il primo verso, perché girò in casa con soddisfazione di mio padre: “Cavalleria polacca alla carica. Getta tutto l’ardore…”. Lusingato per il familiare consenso, poco dopo imbucai la paginetta spedendola a un giornale culturale di allora, “Il Quadrivio”,diretto da Telesio Interlandi. Non ebbi più notizie ma non è il caso di sottolineare l’incongruenza della scelta, in generale… Il primo libro letto in qualche modo? Da quel tale cassetto, in quella tale estate, dentro a quel tale caldo, un Baudelaire, I fiori del male,tradotto, in una edizione che a me parve subito come una successione di trabocchetti e di cascate, rilegata in una tela spessa e dipinta con rose rosse e viole di un tenerissimo azzurro, con una dedica di mio padre a mia madre; e l’albatro sulla tolda che si dibatteva già vinto. […] Piuttosto le due prime letture vere, confortanti senza pipistrelli, quelle che suggeriscono i primi autentici stupori angosciati, con un’angoscia che controlli, che riesci a contenere, che è come un propellente per correre, sono stati i Colloqui con Eckermann e le canzoni di Campanella. Pietre del mio edificio tutt’ora. Queste due punte acuminate mi portarono per rapidi e brevi passaggi trasversali a Hölderlin; quasi subito a Hölderlin di Diotima. Lì mi sono assestato un poco, cominciando a dipanare le mie private riflessioni…
Scoperta intermedia, i lirici greci non delibati a scuola ma nella traduzione di Quasimodo… l’edizioncina verdina opaca di “Corrente”… che mimeticamente, con pulsioni legate alla mia vita, trasferii nel primo libretto del ’42. Ma già nel ’43 ero sotto le ali del frate legato nelle profonde segrete vaticane, e dentro almeno con gli occhi… lo vedevo… dentro alla sua disperazione intransigente, inesorabile. Ero addirittura travolto da quella voce, da quell’ombra… Tommaso Campanella!… Dove può leggerlo, un giovane degli anni ’90? In biblioteca?… Il 1943 era un anno tremendo. Quella di Campanella mi sembrava la mia condizione. Pubblicai in trenta copie il libretto azzurro scuro delle Rime,dedicato appunto al frate, con un testo rubato ad altri e che cito a mente: “a Th. C. vir qui omnia legerat / omnia meminerat / prevalidi ingenii / sed / indomabilis”. Mi è restata quella dedica come un punto fermo. […] Da quel frate che non dorme si è sviluppato il costante amore e l’attenzione di lettura per gli autori meridionali, per la cultura meridionale, che deve sempre scavarsi la fossa anche per morire… per quello scrigno di tesori appannati che è la cultura oltre Roma.
Incontri successivi, interlegati, come entrare in una stanza dove, uno dopo l’altro, entravano tutti, a portare qualcosa. La loro scrittura, per me, non chiede nulla, è di un disinteresse totale, strabiliante, abbagliante, ma dà tutto. E inesauribile. Non chiede perché è sempre dentro alla realtà della vita fino ai capelli. Non c’è una riga che non sia sangue, sangue di cuore e sangue di pensiero… eppure ha una intrepidezza generosa costante contro la sorte da sconvolgere il lettore. È la scrittura forte di gente che è forte anche contro il dolore. Miei maestri, avrei voluto perseguire quel cammino, con l’alimento di tante pagine. Il Giannone, il Genovesi, il Pagano, Cuoco, Telesio, Settembrini, la canzone napoletana, l’opera, De Sanctis, Viviani, Croce…
D. Ti chiedo ora un’altra cosa: sul poeta. Pasolini suggeriva in una prosa dell’ultimo periodo, con una confessione abbastanza lacerante, arrivando alla sanzione del fallimento della poesia: vai a grattare, in fondo ci vedi sempre un bisogno atroce di riconoscimento…
R. È così ma non è una novità. Così è l’uomo. Se non lo applaudono, quell’autore si sente distrutto; se l’applaudono, quell’uomo si finge schivo ma tende a distruggere gli altri, o l’altro. Non c’è pietà in questa società da foresta; da selva profonda. E neanche fra i quattro muri della disadorna poesia. Guardale, le belle odalische distese. È la linea post-petrarchesca che furoreggia da sempre nel bel paese e non lascia altro scampo. Prova infatti, come accennavo prima, a trovare una edizione recente del frate. Trecento edizioni di Recanati, con tutte le donzellette ma il calabrese stia in galera e buona sera. Non si vuole zampa di tigre sul giardino all’inglese della nostra buona letteratura. E sì che di ingegni gagliardi e di stravolgenti scrittori i nostri secoli non mancano… Poiché sono un cane randagio in una notte di pioggia, posso dire a ruota libera il mio pensiero e cioè che noi procediamo, o vegetiamo, sui bagnasciuga ternari di ascendenza medievale e di catalogazione accademica: Dante-Petrarca-Boccaccio, Tasso-Ariosto-Boiardo, Foscolo-Leopardi-Manzoni, Carducci-Pascoli-D’Annunzio, Saba-Montale-Ungaretti e adesso è in atto la cerimonia di allestimento per la sesta corona, di rose o di spine… a conclusione del secolo e a gloria dei santi. Altro che Sessantotto, caro Gianni; altro che rivoluzione. Qua da secoli continuiamo a mangiare le tagliatelle della nonna. Non abbiamo alcuna libertà di scegliere i nostri santi nel paradiso o nell’inferno della poesia. Li troviamo tutti e subito serviti a tavola. […]
Così si può dire che il bisogno atroce di riconoscimento a cui si riferiva Pasolini, nasce in prevalenza non solo dal tipo di società in cui viviamo… i nostri uomini politici, nel secolo scorso e in questo secolo, sono stati tutti quasi centenari… ma anche dal tipo, dal genere di cultura che uno si rassegna o si adatta ad accettare. Per esempio, e concludo, la poesia verbovisuale; è ghettizzata come quella dei neri o delle donne; o sopportata con ironia.
D. Da alcune poesie lette in antologia, mi pare, anche in quelle raccolte da Spagnoletti nell’edizione curata per Guanda (Poesia italiana contemporanea, 1909-1959), mi sembrava che ci fossero, se possiamo definire così, temi d’amore, d’amicizia, e di guerra anche, del conflitto tra città e campagna, e per lo più erano testi brevi, dominati da un sentimento di solitudine, amorosa però e combattiva. Ti vorrei chiedere come è avvenuto il passaggio, da queste scansioni più brevi, alla poesia narrativa, civile e allegorica dei poemetti di Dopo Campoformio.
R. Non so se rispondo bene, ma erano cumuli di letture, scaglie di una mia storia privata, frammenti di maturazione, piccoli faticosi rifiuti della memoria. Temi d’amore, non so. Brividi, caute impazienze. Più sorpresa e attesa che passione che inizia. Un po’ di meraviglia, qualche delusione. Normalità, che un giovane esaspera nella sua incostanza e nella sua fantasia sempre inquieta. Temi d’amicizia, certamente.
[…] Il dopoguerra finiva, era finito rapidamente, nei suoi necessari entusiasmi, nelle sue ultime violenze e si metteva in moto una diversa violenza, torbida e costante, inesorabile; meno manifesta ma atroce perché non lasciava scampo… dato che era finalizzata a compiere uno sterminio da anno zero contro la civiltà, il mondo, la cultura contadina. In brevissimo tempo fu spazzato via, al riparo di una indifferenza quasi generale, un mondo che rappresentava l’unica montagna contro l’invadenza del nuovo capitalismo. Arraffone spietato e cialtrone. Non ci fu pietà per nessuno. Alla fine restarono solo le ruote dei carri, gli alari dei camini e i gioghi dei buoi appesi nei musei cimiteri allestiti in fretta per raccogliere le spoglie ramazzate sul campo di battaglia. Anche qualche scodella di latta. E il filatoio della nonna. Sembrava un film di Ford, con il settimo cavalleria, quando gli eroi superstiti si aggiravano fra i morti indiani e fra i carri che ancora bruciavano… dentro l’enorme pianura secca e senza alberi… Chi vince e opprime con la prepotenza versa sempre, dopo i genocidi, queste lacrime di coccodrillo. Tutto sta a non lasciarsi incastrare, almeno nei sentimenti.
D. Anche nella Raccolta del fieno c’è questo passaggio già drammatico, in atto, definito… Còlto in una sopravvivenza…
R. La raccolta del fieno è già, per me, una piccola personale finestra aperta, direttamente, su quel mondo che cercherò in seguito di intendere ancora meglio e di partecipare con più coordinazione in Dopo Campoformio. Era una scelta, sia di campo che di vita, proprio come dicevi tu, definitiva. Partecipare con chi era calpestato, che è molto di più che essere oppresso. L’oppressione è politica, coinvolge la società intera, presuppone un nemico con gli occhi di brace che tu vedi e affronti, secondo la norma… mentre il piede sul collo lo sente il singolo come se avesse per sé solo il peso del mondo addosso, senza poter contare su qualcuno. Io, per me, facevo conto e cercavo di fare conto, esclusivamente delle cose e dei fatti che vedevo. Per esempio, sembrava sul serio di potere ascoltare durante la notte, a notte fonda, attraverso le finestre socchiuse, il passaggio dei carri, nella transumanza dal sud al nord, di questo popolo di migratori senza terra, spinto a risalire lo stivale per cercare lavoro. Non cento, non mille, non centomila ma milioni di persone che camminavano i mille chilometri per entrare in periferie ossessive, in dormitori da quarto mondo… Durante il giorno avevo in testa perfino il suono di questo passaggio, un battere di gavette contro le stanghe dei carri che passavano. E questa migrazione epocale stabiliva anche la fine di una civiltà dentro alla quale anch’io ero nato qua in Emilia e che non si sarebbe più ricomposta. Così addio anche all’Emilia, non verso Milano ma verso Ferrara; il grande paesaggio padano spolpato ogni giorno di qualcosa; masticato, aggredito, vomitato, sconciato, sopraffatto; macchina fredda di ferro per produrre soldi, senza più acque e cielo… Questi pellegrini così inermi e sbandati erano poi sottoposti a qualsiasi ricatto sociale. Unico atto immediato, venivano risucchiati in fabbrica. Ingoiati alla mattina risputati alla sera.
D. Non è un caso, forse, che questi testi furono pubblicati sul numero 2 del “Menabò” di Vittorini, e proprio con una Notizia su Roberto Roversi scritta da Elio Vittorini stesso, nel 1960.
R. Ho tre grandi gratitudini, tre grandi riconoscenze umane e letterarie che conservo e difendo dal tempo, alimentandole nel ricordo con i sentimenti. Per Giorgio Bassani, per Elio Vittorini, per Paolo Grassi. Vittorini è stato fra i pochissimi con cui ho potuto entrare in un rapporto di attenzione costante sulle mie cose, man mano riuscivo a completarle. Era molto generoso perché sapeva dedicare, direi naturalmente, convinta attenzione alle pagine degli altri. Un lettore raro; partecipante, incalzante ma anche inesorabile. Averlo come possibile punto di riferimento rassicurava. Prima dei quarantasei testi sul “Menabò” n. 2, Vittorini l’anno prima aveva accolto nella collana che dirigeva da Mondadori, “La Medusa degli Italiani”, la seconda stesura del romanzo Caccia all’uomo;stampato in una prima stesura, a mie spese, nel ’52, con il titolo Ai tempi di re Gioacchino,in poche copie. Ma nella Raccolta del fieno sentivo di cominciare a rendere esplicito, come ho detto, il sentimento reale, profondo, della società nella quale mi ero formato; quasi in un contatto fisico, diretto e quotidiano, con suoni, rumori, odori, luci, voci, dialetti, violenze e quella sessualità dura cruda e aperta del mondo contadino della pianura padana; non povero, laborioso, millenario. Mezzadri, in una proprietà di un mio prozio, erano da cinquecento anni in quello stesso podere, nella stessa casa… Tanto che anche oggi posso dormire con la luce sugli occhi o nell’arrotarsi di cento dannati rumori; e leggere o scrivere o ascoltare in mezzo a suoni di canzoni o di voci; o fischi di treni o stridere di gomme o berciare di contese oltre i muri; perché sono quelli giusti o ingiusti della vita. Il mondo che circondava Bologna era agrario, fino a metà degli anni Cinquanta. Uscendo dalla città eri sorpreso dall’odore forte della campagna.
Forte, perché non è un solo odore ma il composto di tanti, fra buoni e sgradevoli; si riesce sempre, volendo, a separarli… quasi a staccarli… e così ciascuno di questi rimanda a cose, oggetti, lavori precisi. Le opere di Esiodo. C’era, anche per questo, un ordine straordinario che sovrintendeva al mondo contadino, pure dentro a una fatica grande e costante. Era un ordine che corrispondeva all’ordine della natura. Potevi guardare l’orologio del campanile e ti indicava mezzodì; ma potevi guardare il cielo, e fra le nuvole il sole, e il divagare di queste nuvole, e le ombre sulla terra e anche da lì deducevi che era mezzodì; nello stesso tempo la campana di una chiesa ti segnalava mezzodì. Non eri mai lasciato solo nel corso dell’intera giornata. Anche gli animali, gli alberi partecipavano a questi segnali. Una concatenazione che gli anni, e i tragici destini, non riuscivano nonostante tutto a spezzare; direi, neanche a incrinare; e che contrassegnavano i confini di un mondo dentro al quale l’uomo, la donna, il bambino, il vecchio non erano mai abbandonati… Ma voglio riprendere il discorso per aggiungere questo: quando uscivi dalla città, per esempio nei mesi estivi, fra i forti odori della campagna percepivi, predominante, quello della canapa. Regina della nostra pianura. Quando era in fiore, l’odore era forte e dolce, forse anche un po’ saporoso. Le vespe giravano intorno frastornate ma quasi ilari; senza stancarsi. Immersi in seguito nei maceri, i fusti si scomponevano adagio con un odore sempre più denso, sempre più acido, amaro, spesso opprimente. Ma quando si gramolava e gli stecchi schizzavano e i fili si arrotolavano in balle, ritornava a espandersi quell’odore struggente che restava a lungo nell’aria e indicava che l’estate cominciava a declinare. L’estate, una stagione di molto lavoro e di nessuna vacanza. Più avanti sopravveniva l’odore del mosto, anche per tutta la città, dato che sui carri agricoli ben scolpiti e ben lucidati, trainati da coppie di buoi, arrivavano le castellate o le mezze castellate… botti lunghe e basse… di mosto; che finiva nelle cantine dei privati per essere trasformato in vino… In ottobre, per le antiche strade di Bologna fiottavano queste zaffate di botti entro cui bolliva e ribolliva il mosto. Non voglio dire che tutto ciò fosse gradevole o utile fino in fondo, insomma che sia da rimpiangere. Dico solo che c’era, a stabilire un dato caratterizzante della città; e che non c’è più.
D. Se ti posso interrompere, riprendendo quello che in precedenza dicevi, quali altri autori ti hanno “influenzato”?
R. Oltre ai citati Saba e Penna e Campana e gli altri, anche alcuni stranieri, non troppi ma con costanza; soprattutto di lingua tedesca, e ci aggiungerei uno finissimo, che non vedo più ricordato, Hans Carossa. Poi il Rilke delle duinesi. Pagine e pagine, come ogni giovane…
D. Invece, nella poesia italiana, si potrebbe parlare di una influenza, o di un fraseggio insomma a distanza, con autori come Rebora, cioè di un rapporto con un protonovecento espressionistico, in qualche modo sperimentale, verso il quale poi tu sei andato, se non sbaglio, in direzione sperimentale… o è sbagliato?
R. Rebora sì, molto presto. Per quelle vie trasversali che ti dicevo. Rebora sentivo che aveva un trapano in mano che punzonava il marmo in continuazione, con un rumore anche agghiacciante, talvolta perfino fastidioso. Ma si prolungava, si prolungava… Mi sembrava alle volte che fosse impegnato a bucare il lucchetto della prigione di Campanella, per liberarlo. Mi sembrava anche che di fronte al mondo, alle cose del mondo, entrambi avessero la stessa disperazione violenta… ma intransigente.
D. […] Secondo te, c’è spazio ancora oggi per una critica che, come voleva “Officina”, cioè come voleva questa rivista che noi leggiamo come una rivista di ricerca, oggi, anche in un quadro ideologico e sociale profondamente mutato, ma di cui condividiamo il piglio morale e storico, una rivista cioè letteraria ma non solo chiusa dentro il letterario, – una critica che sappia unire il testo al contesto, la parola poetica e letteraria al referente, alla complessità del senso e a un’esperienza della lettura e della scrittura che non rimuova la soggettività in nome di una pretesa purezza scientifica, o idealistica, o ideologica, – e rileggendo così in modo diverso, proprio antinovecentesco, oltre la triade appunto nota, la tradizione del Novecento…
R. Sono il meno indicato a rispondere. Meglio, a dare una possibile risposta obiettiva. Perché mi sento così staccato, lontanissimo da ciò che viene detto fatto dibattuto in giro a livello delle autorità della buona cultura e letteratura: quindi a tutti i livelli riscontrabili. È come se uscissi dal mare, pellegrino affranto, e algato. Appunto perché sono in questo stato, allontanato e disamorato dalle e delle carte che girano dietro a tanti venti, beh! direi proprio di sì. Almeno per cercare di dare qualche spallata, in particolare, alla situazione. Ci sarebbe per di più bisogno di poter disporre di qualche mezzo per garantire una continuità di lavoro, allo scopo di portare a termine il progetto, l’impresa… Non come “Officina”,che è rimasta lì, come un cavallo stroncato da una corsa troppo affannosa; e invece… Ecco, riagganciandosi a quella nostra vecchia ipotesi, o giovanile ipotesi, se vuoi, che può trovare qualche utile riferimento, qualche riferimento di pregio, nelle pagine di alcuni collaboratori, oggi si potrebbe ritentare di immettere nella nostra cultura testi e autori fino a ora negletti o emarginati, che invece sarebbero vivificanti e perfino dirompenti. Soprattutto per i giovani, che attraverso antologie di scuola o di libera lettura sottostanno all’apprendimento delle solite tiritere oppure dei testi avvolti dentro la gabbana della tradizione di cui ho già parlato. Dov’è la satira, sovrana, l’ironia, l’amore reale, crudele e ossesso, la fumisteria, straordinariamente cialtrona irriverente sorprendente? Dove il non senso, cioè l’insensatezza che ti travolge, come un’ondata di cenere amara? L’epica alta, la pornografia che non dà respiro e inquieta i sensi drammatizzandoli, quasi che l’immaginazione proponesse un corpo nudo e bianco in fuga inseguito da un felino? Non sono cose che dico o che ricerco solo oggi. Quarant’anni fa, avviando la libreria, subito pubblicai due volumetti di Galgenlieder di Morgenstern, splendidamente, ineguagliabilmente tradotti da Anselmo Turazza, con vittorie continue sul campo. Si ebbero alcuni buoni riscontri, poi una onesta dimenticanza… In un ambito un poco più ridondante e compiaciuto oggi, qua da noi, c’è Scialoja. È interessante ma a me sembra… non credo di sbagliare… che sia in giro applaudito piuttosto come un artista da circo; un innocuo stravagante che allieta, mentre ha certo una solidità di base nell’uso della lingua e una inquietudine lucida della mente, notevolissime. Invece, sorrisi risa applausi, poi tutti a casa. Una cultura letteraria militante, la nostra, mediobassa e di scarso affidamento.
D. Vogliamo parlare ancora un poco, se vuoi, di “Officina”? Come avvenivano le riunioni, le scelte critiche, testuali, e soprattutto m’interessa una cosa, già detta e ridetta, ma vorrei riascoltare qualcosa da te in proposito: perché finì la rivista?
R. Siccome Pasolini era molto bravo e il più noto, anzi, sulla via di diventare famoso, fu facile da tutte le parti stabilire che la fine di “Officina” fosse dipesa dall’epigramma sul papa… papa Pio XII… Ci fu maretta, certamente, intorno a quell’epigramma, ma niente di eccezionale, se non alcuni problemi privati dell’editore Bompiani… diventato nostro editore con quel numero, che fu per lui anche l’ultimo. La verità più interna, molto meno interessante per il pubblico che neanche ci seguiva, era che redazionalmente ci eravamo squilibrati, nello stesso arco di tempo, con l’assunzione di Fortini, Romanò, Scalia. I quali, anche se collaboratori da sempre, e da sempre interlocutori molto attivi, tuttavia non avevano avuto la chiave in tasca della casa redazionale e consentivano a noi tre di chiudere le questioni, avendo una certa omogeneità caratteriale… e su alcuni principi di base. In questo secondo momento non fu più consentito alcun filtro, alcuna pausa riservata; il tam tam di Fortini, per esempio, divoratore di tronchi redazionali come una termite africana, procurava perscrutando ogni dettaglio una perenne tensione.
Fortini era allora… voglio dire, in questo rapporto, un insonne stimolatore; ma la sua ossessione anziché essere soccorrevole si trasformava… credo di poter dire, anche in altre direzioni, oltre che nella nostra – in una lacerazione. Aggiungeva pietre nelle tasche, perché ciascuno, questo o quello, sprofondasse… No, non dico bene; sprofondare non è giusto. Non c’era dentro di lui questa cattiveria della ragione; piuttosto una ossessione della ragione, continuamente perforante. Questo, credo, non gli faceva guardare in faccia nessuno. E sì, che aveva molti dettagli che sentivo congeniali… Dove appariva lui, tutto deflagrava anziché comporsi magari dopo una ferita. Sta’ attento, non dico affatto che sia stato Fortini la causa, o la concausa della nostra rapida fine. Lui semmai aiutava a rendere più faticoso… direi, perfino fastidioso con angustia… un lavoro che non era davvero agevole. Diede una mano, semmai, ad acuire le tensioni, inevitabili in ambiti redazionali, ma che erano state controllate e in qualche modo coordinate fino ad allora. Non bisogna dimenticare, perché anche questo è determinante, che Pasolini, con il passare dei giorni, assumeva sempre più un rilievo nazionale; questo squilibrava il lavoro di fondo della rivista… l’ordine del proprio lavoro… che tendeva a diventare non più una rivista con Pasolini ma la rivista di Pasolini. Le collaborazioni alte passavano attraverso di lui. Era una verifica operativa di cui prendere atto realisticamente ma che non produceva alcun attrito fra noi tre; semmai il desiderio e il proposito di confrontarci andando al fondo di ogni singolo problema e di ogni dettaglio, perché ciascuno, come poteva e sapeva, progredisse all’interno del proprio lavoro. Un lavoro di scavo, in noi e fuori di noi, nel quale ci sentivamo concordemente impegnati. E ci piaceva esserlo. Eravamo, in questo fare, pieni di disinteresse; liberi nei propositi.
In quel mondo, in questo paese, quasi appiccicato agli anni della guerra, nonostante tutto. Quindi, in quel primo cenacolo così ristretto, nessuna reciproca arroganza, nessun trionfalismo, nessuna, sì, nessuna volgarità della ragione; ma la voglia attiva di impegnarci in una riflessione e in un controllo sulla situazione o sulle situazioni della cultura che erano state interrotte. Interrotte dalla guerra. Le macerie non erano soltanto nelle strade. Cinque, sei lunghi anni di una guerra mondiale spezzano ogni legame, interrompono le continuità. Il nostro era, dopotutto, un proposito necessario e urgente, che svolgevamo nel nostro ambito e che altri in altre direzioni, avrebbero potuto condividere e perseguire… cioè, per spendere parole semplicissime e senza sillogizzare, quello di sedere intorno a un tavolo e ricominciare a leggere coordinando le nostre letture, ricominciare a scrivere, coordinando le nostre scritture e confrontandole o avvicinandole ad altre; cominciando infine a fare i conti più generali fuori di noi, con la realtà in corso, dopo averli fatti, in qualche modo ma rigoroso, dentro di noi…
[…] il nostro fascismo, mi chiedevo, come abito talare da noi giovanilmente vestito, dov’era relegato?
Nell’armadione della nonna, o in una rivendita di stracci oppure la vecchia camicia la indossiamo ancora, non per convenienza ma per disattenzione, lavata e stirata? Parliamo agli altri come se freschi freschi… e meravigliati più che spaventati o ossessionati… uscissimo dal periplo di Alice, mentre la nostra generazione, e noi con questa, e fatti salvi i casi particolari, è stata educata, ripeto educata, dal fascismo… non picchiata, martirizzata, conculcata; ma nel corso di circa vent’anni, soltanto educata; poi sbatacchiata qua e là dal fascismo, travolta dal fascismo, infine riconsegnata piena di piaghe reali alla vita… quando c’era rimasta la vita. Quindi non possiamo evitare di rimescolare le nostre carte, al fine di controllare ogni dettaglio che lega o collega il nostro passato di apprendistato al nostro presente che vuole essere operativo. Adesso, così mi pareva, occorre provvedere al riesame dei depositi incontrollati. Tutti i nessi, i passaggi; le piccole insinuazioni, i depositi culturali infeltriti. Tanto più che un nuovo fascismo… o lo stesso fascismo in faccia diversa oppure con cento facce diverse… si era ricomposto e si schierava di fronte. Qualche piccolo assaggio, in verità molto modesto, ho tentato di suggerire dentro alle pagine della rivista: Il tedesco imperatore, Il linguaggio della destra. Avvicinarsi allo specchio per romperlo, buttando via anche i frammenti… Forse è vero che, benché amici e amici operativi, non ci è stato dato o consentito, o non eravamo in grado, di formare un gruppo. Un gruppo redazionale solido nel suo insieme; forte al suo interno e forte all’esterno. Per questo, forse, nonostante l’interruzione prematura, a noi non è stato possibile di approdare ad alcuna testimonianza editoriale completa e concreta, fuori dalle pagine dei fascicoletti di “Officina”… così come riuscirono a fare, invece, quelli del “Verri” con la loro antologia dei Novissimi. Allora, ripeto, quando ci siamo inoltrati nel lavoro e si è trattato di definire in modo sempre più specifico le concordanze operative, anziché consolidarci nei propositi si sono fatte esplicite le diversità. Che erano alla fine diversità generazionali e quindi di impostazione culturale.
D. Ecco, se c’è, parlando di Pasolini, qual è una parola-chiave o la parola-chiave con cui tu apriresti un discorso, non solo letterario, sull’esperienza di questo scrittore?
R. Il passaggio. Se non sbaglio, è la parola-chiave. Quando, avendo perso l’innocenza, quella libertà intrepida degli inizi, per essere sbattuto in un mare di tempesta… traumi soffocanti e non un giorno senza una offesa e un vero dolore… riesce a riappropriarsi della vita e così acquista la convinzione, la tremenda convinzione, degli ultimi anni, in cui sembrava poco per volta rinascere mentre stava per morire. In quel momento, ecco il passaggio, scatta il mutamento. Capovolge il suo faticoso atteggiamento di giustificazione della diversità, condotto negli anni con una continuità e una rabbia e una amarezza assillanti, in una difesa intransigente, intrepida. Soprattutto aperta, dichiarata. Pasolini si propone come l’avanguardia di un esercito che esce da un ghetto circoscritto e ritorna in campo. È l’ultimo Pasolini, che si riunisce al giovane di Casarsa per dare forza a una voce quasi unica nel nostro tempo.
D. A cosa stai lavorando, attualmente? C’è curiosità da parte nostra, curiosità e cioè interesse di lettori…
R. Lo capisco, e ti ringrazio, che è un tuo interesse amicale; siccome è raro, ti rispondo. L’Italia sepolta sotto la neve procede; è un lavoro lungo, di cui è girato già qualcosa. Vedremo…
D. Quando hai cominciato a lavorare a questo “poema”?
R. Da circa otto anni, avendo accantonati i testi degli anni Settanta mai radunati in volume. Procedo anche con un racconto, intorno al quale giro da tempo. Lo concludo o forse lo escludo; non ho obblighi di sorta. Scrivere è un continuo confronto.
Bologna, Libreria Palmaverde, 19 dicembre 1988; 9 marzo 1990.
* “Lengua”, luglio 1990, n. 10, pp. 18-52.
Forse non è ancora tempo di ritirarsi in campagna*
Avvio questa riflessione ancora molto semplificata dicendo che ci dobbiamo riconoscere ancora una volta non come persone buone ma in mezzo alla cattiva compagnia come dunque particella empia e malvagia; dato che ci sforziamo di muoverci soltanto su un terreno calpestato e squinternato dove l’affanno alberga e sovrasta. Anche se alla fine puntiamo sia pure alla lontana, in questo momento, a una risoluzione della situazione che dovrà pure conformarsi, se lo vogliamo, un poco più specificata e rasserenata; ma soprattutto e completamente rovesciata rispetto alla presente, che affanna. Intanto, una indicazione rassicurante ci viene dagli scienziati. I quali dicono, anzi assicurano, che abbiamo almeno due miliardi di anni prima che il sole metta un omissis sul foglio bianco di questo pianeta che stiamo abitando. Perciò possiamo pungolarci invece di disperderci, se è vero che c’è un tempo quasi infinito, davanti; e la temuta frantumazione del globo non è così vicina vicina, come spifferavano i maghi di ogni ventura rovesciando sabbia-nebbia su noi cittadini, molti dei quali già timidi o impauriti. L’avventura generale della vita può continuare a essere disperatamente piena di quel fascino rischioso e di quella oscura speranza che già travolsero gli uomini delle caverne, solo se torniamo a convincerci d’avere tempo e spazio ancora apertamente elargiti per cavarci fuori da questi anni, con difficoltà ma con qualche risultato concreto; e rialzando la testa. Non si può negare che il mondo, e per scrupolo diciamo pure la parte piccola che si riferisce all’italietta sbracata, non sia tormentato da liquami. Anzi, con il cumulo dei problemi divulgati ogni giorno dalle pagine urlate delle gazzette, sembra scappato via dalle mani dell’uomo. E proprio mentre tanti credono ancora di reggerlo prevalendo, alla fine, sulle diversità, novità, contraddizioni, larghe ferite in corso. Capita così che questi continuano a gestire le cose personali e i tanti impegni pubblici con l’abuso della loro vecchia memoria ormai strizzata come una pelle; e con una intelligenza astuta e poco riguardosa, oppure indifferente, o molto perfida. A conferma, basterebbero pochi dati ricavati dalla cronaca di una mezza giornata. Un riferimento fra i tanti: dopo quattrocento anni e dopo che siamo risaliti fin sulla luna, appassendola con le scorie abbandonate e con i nostri fiati ambigui (anche se dobbiamo concludere, ricapitolando le conseguenze reali, che dopo il grave daffare sembriamo usciti fuori dall’orbita come per una gita aziendale) soltanto in data odierna la Chiesa cattolica riconosce d’aver sbagliato con Galileo (Galilei) e gli chiede scusa – anche d’averlo mezzo massacrato. Quanto tempo dovrà passare perché uguale risarcimento sia riservato per esempio a Bruno, a Campanella, a fra Dolcino, ai mille altri ingegnicuori clarissimi che hanno illustrato il mondo? A conferma di una acquisita buona disposizione e di un esploso savio proponimento? Fuori dalle argomentazioni in corso, quasi illeggibili quasi inascoltabili, comunque troppo specifiche per astrazione o troppo catastrofiche per dissimulati interessi, la constatazione, da cui muovere con pazienza, sembra essere che la terra si è così rapidamente non solo dilatata ma divaricata come un frutto maturo, da non fare ritrovare più all’uomo, intorno o sopra o sotto, alcun appiglio di rassicurante sostanza e durata (una resistenza reale contro l’effimero delle occasioni e del tempo) che possa aiutarlo a uscire o addirittura a cavarsi fuori dal pattume attuale. Infatti: via tutto. Via le frontiere fra gli Stati (la macilenta Europa sembra essere già un campo di papaveri al vento; e con le destre ovunque in emersione staremo a vedere); via i vincoli giustamente restrittivi di una morale risalente ai grandi saggi che redarguivano non secondo le leggi del mondo ma secondo la verità del cuore; via i vincoli liberamente codificati dei rapporti sociali, degli obblighi necessari, della equa severità pedagogica. Per contrapporre, nella concretezza ripetitiva e implacabile delle giornate, una massima e iniqua frantumazione, uno sbriciolamento poroso di tutti e di tutto al fine di acquisire i favori di una errabonda licenza, che si rovescia in un vuoto personale. Questo dunque in un mondo senza freni, affidato in prevalenza all’ibrida incoerenza di occulti manovratori. Così che il pizzico di equilibrio e di rigore sociali ancora in atto è affidato alla residua porzione di rigore che nonostante i venti contrari continua a perseguitare il lavoro e la giornata di molti cittadini qua e là dispersi nel nostro pianeta. Che continua a essere aggredito, nei suoi forzieri non più tanto opulenti, con una ferocia e una indifferenza legata a una ignorante avidità. Tutto questo in quanto (mi appoggio a un secondo dato da ricordare) l’incontenibile verbosità esercitata in ogni campo della vita pubblica e privata (una verbosità, spesso irresponsabile, che è il contrario di una necessaria e utile comunicazione) si impegna in prevalenza a coprire, manomettendo i dati determinanti, l’intrico economico finanziario politico che stringe fra di loro i trafficanti della roba e i trafficanti della parola, delle parole, in ogni Paese. Questo intrico ha prodotto, come si sa, l’enunciazione e l’applicazione incontrastata di un postulato oggi determinante; che impegna a sottoscrivere come unica e operativa la logica di mercato; la teologia della rendita d’impresa applicata e applicabile inesorabilmente. Si tratta, insomma, di un capestro, stretto stretto, senz’anima, e a tempo reale, che obbliga a schiacciare tutto e sempre, quale che sia l’atto da compiere, da svolgere. Ogni atto della mente e ogni atto politico e amministrativo sia pure rivolti ai bisogni fondamentali degli uomini, delle donne; soprattutto degli inermi e dei poveri. Bisogni, ripeto, ormai affrontati senz’altra preoccupazione se non in collegamento con questa risoluzione irrinunciabile. In generale, possiamo anche annotare a questo proposito, con altre parole, che da tempo qua da noi, per indifferenza o rassegnazione, leggiamo america, pensiamo america, beviamo america, guardiamo america e non abbiamo più spazio per respirare se non si respira, con lo stesso fiato, america america america. Come nota, a questo punto, ricorderei il brano di una canzone rap di un gruppo berlinese (dell’Est): “Adesso ci tengono sotto come non era mai accaduto prima”. D’altra parte, questi aspetti minuti della situazione raccolti per esemplificazione in un mazzo, non ripropongono soltanto la logica vincolante di mercato, ma l’ideologia di mercato, di nuovo inchiavardata; perché si impegna a ridistribuire, secondo formule che appena dieci-quindici anni fa si potevano ritenere esauste, regole generali di comportamento pubblico e privato. Regole morali, sociali, economiche. O, se si vuole, più che di comportamento, di adattamento alla nostra vita. Le conseguenze collegate di questo cafarnao sono, almeno pare, sotto gli occhi di tutti. Benché, ripeto, mimetizzate e sostenute dagli innumerevoli puntelli offerti dai segugi dell’informazione; che vediamo saltabeccare sotto qualsiasi tempo. Oppure sconquassate dalle indecenze quotidiane, registrate con insistenza sempre dagli stessi, propensi a fare di ogni erba un fascio (dietro l’equivoca e sempre ribadita enunciazione del diritto di cronaca). Ma su tutti presiedono i soloni della carta stampata e dell’immagine registrata, veri imprenditori delle nostre coscienze e dei nostri pensieri; sempre in movimento per suscitarci forti emozioni e poi seduti in buone sedie a perlustrare recensire inseguire ammonire blandire perseguitare indagare, con l’attitudine di chi può permettersi di sgranocchiare la realtà quotidiana con ironica libertà. Molti anni fa, in riferimento a un diverso contesto, risultò precipua e convincente, per la riflessione da elaborare, sicché anch’io la memorizzai, una frase-lampo di Eugenio Garin: “Bisogna cercare come mai i barbari abbiano vinto…” (La cultura e la scuola nella società italiana, Einaudi, Torino 1960). Da questo suggerimento funzionale per lo specifico lavoro che ci assegniamo, muoverei per radunare, intanto, provocazioni attive, minuti ricuperi, approfondimenti. E direi che a questo proposito non ci sia da temere delusioni. Infatti, anche se oggi è prevalente un solo potere che regge o guida un solo sistema (un potere reale, per il momento senza contrasti effettivi, dell’economia rigida e legata al reddito, quindi con la faccia del soldo inserita e palpitante in ogni anfratto), uno dei problemi urgenti è quello di trovare un primo bandolo della matassa per mettersi in moto e ricostruire con sospettoso rigore nuove rappresentanze politiche (niente di trasversale o verticale) che possano riappropriarsi dell’impegno di interpretare richieste e affanni quotidiani di una società pluristratificata, plurirazziale (e, si dica pure, ancora duramente razziale) che è rimasta senza alcuna possibilità di contrapposizione forte al sistema dei poteri ufficiali. Situazione confermata, in una intervista televisiva del 14 marzo, perfino da uno dei primi esponenti del PDS: “Ci sono valori che il mercato non tutela”. (Le necessità sociali come valori, la politica come mercato; affermazione, una volta tanto, preziosa). Valori, non bisogni; cioè, esigenze dell’uomo e della donna non eludibili con i gelidi rimandi alla inevitabilità dei libri mastri; e nemmeno risolvibili con l’affrettata genericità di una attenzione burocratica. Allora, a questo punto, può essere utile allineare qua di seguito il primo gruppetto di indicazioni immediate, perciò stimolanti, alle quali ho già accennato; perché in qualche modo possono corrispondere all’invito più generale di Garin. Con una personale annotazione, e cioè che i barbari degli anni Novanta sono per il momento vincitori soprattutto perché per anni la gente dai bisogni forti ha perduto di vista i veri avversari; i quali, mentre il tempo passava, si rendevano sempre più ubiqui, sempre più incombenti e minacciosi, sempre più forti; e gli altri si smarrivano dietro le eterne debolezze. Sicché alla domanda: dove sono acquartierati questi barbari (appunto), è stato prima difficile poi quasi impossibile rispondere. Erano per ogni dove, non si riconoscevano, assorbiti dentro al magma della società universale degli anni che scorrono. Invece adesso è possibile secondo qualcuno (proposito da condividere) impegnarsi in una iniziale ma necessaria risposta. Dato che la situazione in corso e le riflessioni sui problemi specifici, hanno portato a concludere che è di nuovo impellente la necessità non di rivoluzione ma di nuova e diversa aggregazione. È il bisogno di riformare l’ordine e il rigore della politica con la ricodificazione delle nuove realtà emerse, le cui richieste sono chiare precise urgenti. Questo rimescolamento generale, che era nell’aria da tempo dentro le nostre giornate, è avvenuto soprattutto dopo la confusione drammatica dell’ultimo decennio. Che ha acceleralo ogni corsa. Così, anche dentro l’Italia si può pescare con la mano come in un vaso in cui ruotano pesci voraci; con il rischio, oltre a bagnarsi il gomito, di essere addentati e feriti. Ma anche convinti che si può abbrancare un piccolo mostro e scaraventarlo sull’erba, dove resti prima guizzante ma inerte poi esausto; sopraffatto. Porto un esempio immediato. Constatiamo spesso che parte dei detenuti (i giovani, in modo particolare) nelle carceri italiane, in quanto a realismo nella valutazione di tante situazioni non solo specifiche ma sociali, all’attenzione riflessiva e alle deduzioni generali sui problemi, è non solo più aggiornata, ma più precisa e pragmatica nelle soluzioni proposte, di troppi teorici o dei politici inconcludenti. Occorre perciò riaccendere fiducia e stimoli in un mondo che è ancora vitale; non perduto, non ferito a morte; per ritrovarlo e ritrovare noi stessi. Per ripensarlo intero con lo sforzo, con il soccorso, di quanti non si sono disamorati. Ecco perché non è scorretto riprendere la strada partendo dalla utilizzazione di piccole costanti morsicature sul corpo, tronfio in superficie esausto sotto la pelle, della società ufficiale. Premettendo la secca constatazione ripetuta da Francesco De Martino in una intervista su “Panorama” del 7 febbraio: “Mai la sinistra è stata debole come oggi”. Sì, nemmeno nei momenti più duri degli anni Trenta e Quaranta, nemmeno nell’epoca delle scissioni e dei grandi sgomenti. Ecco allora Pino Cacucci, in un intervento su “il manifesto” del 24 gennaio, che afferma: “Credo che sia finalmente venuto il tempo di riaprire un dibattito su quel buco nero che è la nostra generazione… Se lasciamo le cose come stanno, tra una o dieci generazioni qualsiasi giovane che vorrà sapere che cosa accadde negli anni ’70, si ritroverà in biblioteca le versioni di Cervi e di Montanelli. Davvero non vi dà l’angoscia un’immagine simile?”. E Paolo Volponi, nell’intervista a Marcoaldi su “La Repubblica” del 19 gennaio: “Per una persona come me, con la mia formazione, la politica è un modo di stare al mondo, di progettare la vita. Il fatto che ormai sia diventata tutta un’altra cosa, non significa affatto che il problema sia chiuso. Anzi è più aperto che mai… Ma che cos’è questo benedetto comunismo? Oppressione, nazionalizzazione, distruzione delle libertà individuali? O non piuttosto una divisa morale, uno sguardo critico sul mondo che ci consente di capire come la soluzione non stia certo nell’Europa delle monete, o nel continuare a vivere rapinando, straziando, bombardando il terzo mondo? Insomma, un desiderio di giustizia e di progetto?”. Infine Mario Tronti, su “L’Unità” del 19 febbraio: “In mezzo a questa voglia strisciante e galoppante di autodistruzione, che sembra cogliere opinione pubblica, giornali, culture, partiti, forse anche pezzi di istituzioni, bisognerebbe ripartire dai luoghi sani della collettività, laddove c’è una questione sociale non toccata da una questione morale. Operai, sì. Drammaticamente colpiti sulla carne viva del loro lavoro. Ma anche capaci di stare in campo sulle grandi questioni, secondo la migliore tradizione della loro storia. Rendere visibile questa faccia offesa e pulita della società, far sentire il peso di questa risorsa disponibile e spendibile per tutti, non è qui il cuore del compito della sinistra?”. A conferma, e a proposito, pochi giorni dopo, il 24 febbraio, “L’Unità” ha pubblicato una intervista (nella sua semplicità e nel suo realismo esemplari) a Francesco Cardinale, napoletano e operaio cassaintegrato dell’Alenia (ma anche poeta dialettale di infuocato vigore e lucido appassionato nelle sue annotazioni satiriche con i fumetti): “A Napoli non c’è quasi più niente… ogni giorno è un vero bollettino di guerra, che fa il paio con quello dei politici e degli imprenditori che in questi giorni vanno in galera… chi si immaginava che a Napoli quasi scomparisse la classe operaia?… Dove non c’è cultura del lavoro c’è miseria umana”. Attraverso questi riferimenti, l’enunciazione di una tabella di riferimento e l’identificazione (rigorosa a mio parere, intanto) di problemi di fondo su cui riconoscersi e da cui partire per impegnarsi. Muovendo dalla constatazione della inefficienza della sinistra politica e della conseguente perdita di ogni intraprendenza operativa; come conseguenza, inoltre, di una disarticolata struttura organizzativa. L’urgenza di ricostruire la verità storica (una storia che aggruppa vicende ancora vive sulla mano) di anni di ferro; e nella verità storica, la generazione degli anni Settanta, quasi inesistente; spappolata nei riferimenti culturali, nelle riflessioni, nelle scelte anche istituzionali di ogni genere. In effetti, scomparsa dall’impegno di una necessaria opposizione al marasma sociale, e affiorante ma dilacerata solo nelle occasioni celebrative o documentarie dei giornali sempre affamati; rimpannucciata nei vestiti di buona marca di personaggi che procedono negli anni cancellando non solo la memoria del passato ma anche il passato immediato – che hanno ancora come polvere sulla punta delle scarpe. Un contesto contraddittorio, in cui interagiscono persone che hanno lasciato da parte ogni stimolo di lotta, ogni volontà di difendersi, per accettare il giuoco e le profferte di una parte. Volponi, invece, ci ha aiutato a sottolineare la riconferma della necessaria difesa o riappropriazione della dignità e utilità della politica, riconosciuta come il solo modo di partecipare direttamente alla vita, di essere nel mondo. Mentre gli operai, con la loro rinnovata presenza attiva, colmano il vuoto di potere e di sapere effettivi; rimettono in campo i bisogni reali e anche i pensieri; aggiornano i sentimenti; rinnovano le emozioni e le riflessioni; non consentono timidezze, frodi nell’agire. Rimettono sotto gli occhi di chi vuol vedere un quadro sociale definito senza equivoci dentro alle violente motivazioni. Ha detto ancora Cardinale nell’intervista citata: “Il dramma di oggi, comunque, si chiama licenziamenti, cassa integrazione, liste di mobilità, espulsioni, tagli… Invece è proprio questo il momento di dare valore all’onestà e credibilità della politica. Ci potrà essere un domani se non c’è nessuno che crede in un domani?”. Questi sono puntelli a cui appigliarsi per riprendere fiato; per riorganizzare la vita, fuori dai traumi del dubbio prolungato e del peso di disfatte periodicamente ripetute. Infine, per ricuperare il brivido di una libertà operativa, anche nella gestione privata, che sembra (o sembrava) annichilita. Rimettersi all’opera, oggi, in questo senso, non per obbligo ma per una riconquistata volontà di fare e rifare le cose, direi che è simile a piantare un albero, o solo un alberello, sul cemento di una strada cittadina, trafficata senza soste. Vuol dire, esemplarmente, interferire nella sua armatura di cemento, contrapporsi alla sua indifferenza senza sangue. Ma ancora meglio, significa spostare i termini della contesa; riprendere in mano i fili di un destino che le Parche istrioniche e pericolosissime cantano di avere reciso. Ma mentono; non ci sono riuscite. Non ancora. Però sono lì che aspettano la nostra rinuncia.
* “Rendiconti”, Nuova serie, maggio 1993, n. 32, pp. 3-8.
Ich war ein blinder Knabe, lieber Bellarmin!*
(Ero un fanciullo cieco, caro Bellarmin!, Hölderlin, Hyperion, 1797/1799)
Il mio commento è breve. Egli non voleva, anzi non sapeva morire ma voleva e sapeva perdersi, disperdersi; per poi drammaticamente ricercarsi. Entrare come nebbia nella nebbia, come fumo nel fumo, come il sole nel sole, come un’ombra nell’ombra – ed essere sempre colui che ancora non è nato ma aspetta di nascere, volendo prima ascoltare il canto (o il pianto) della vita che si avvicina. Senza temere la vita, egli cercava di frugare dentro al cuore del mondo alla ricerca di un ordine d’armonia perduto – o dimenticato. Frugando via via dimenticava le voci e conosceva il silenzio, sempre più profondo, sempre più vero, sempre più essenziale. E necessario. Così ha perso per strada la ragione ma non la musica delle parole, perché la sua passione non contenuta tendeva sempre a bere il fuoco. Finché il fuoco tutto intero l’ha divorato il sette giugno 1843.
Hölderlin vecchio si preannuncia con l’odore forte del toscano. La vecchiaia di Hölderlin infatti è quella che è, ma è quella che ci interessa.
Egli così si preannuncia con il fumo, arriva, siede, aspetta che si apra lo spettacolo del mondo. Del suo mondo.
Guarda il mondo. Aspetta il mondo. Perché egli è il re, si sente il re. Egli induce se stesso, e gli altri, a percepire alte fantasie che non trovano riscontro nel mondo e che riescono anche a ferire. Sono suoni di parole di mistero che si svolgono lente come le nebbie mattutine su un lago di deliziosi o tenebrosi incantamenti. Egli qua siede qua parla con il mondo.
Il suo toscano adesso è spento fra le labbra. Odora forte. Ma è spento, umido di saliva. “Non posso esprimere la gratitudine che io sento, amore mio, perché la primavera, una primavera che sa di cielo, può dare anche a me un poco di gioia, a me così consumato dagli anni, oramai… e ogni giorno cammino per nuovi sentieri ma nella luce non ti raggiungo mai, anzi ti perdo. Ti insegno, ti seguo, ti perdo”.
Hölderlin siede. Può un poeta vecchio sedere davanti al giudice che presiede il mondo? Ed essere giudicato? Hölderlin è seduto, tace ascolta, è composto, è in attesa.
A una domanda (portata dal frusciare della sera, fra gli alberi o portata da un sogno) risponde: “È nostro destino non trovare requie in nessun posto, mai” e aggiunge: “Come acqua che corre e schizza da una pietra a una pietra”.
Silenzio.
Gli chiedono: “Ha parlato? Non vuole continuare a parlare?”. Risponde: “Es gibt zwei Ideale unseres Daseins, due sono gli ideali della nostra esistenza: partecipare e godere della massima semplicità e dopo la grande fatica di cercare e apprendere, partecipare e godere della maggior conoscenza, interiore chiarezza, lucido delirio per il futuro che viene”.
Il cielo si irradia di un sole pazzo e violento, che scaraventa carbone acceso fra i rami e le foglie degli alberi che restano annichiliti. Il mondo brucia, o sembra bruciare.
Il poeta è proteso alla finestra, ha acceso poi ha spento ancora il toscano, sibila lame di parole, urla o mormora appena: “Ich will nun wieder ich will in mein Jonien zurück voglio ritornare alla Jonia che è mia, che è mia. Inutilmente sono partito dalla mia patria per andare in cerca della verità”. Si presenta Waiblinger* e dice nel ricordo: “Cercava la verità? La verità? Egli solitamente pensava a voce alta”.
Waiblinger siede sul divano, vicino alla finestra, alle spalle di Scardanelli. Continua: “Quando riusciva a progredire nella determinazione di un concetto o di un’idea, era colto da vertigini”. Scardanelli: “Vertigini, Waiblinger? Cosa ne sa lei, buon amico, di queste ali di pipistrelli che mi sfiorano gli occhi, le orecchie, scendono sulle punte delle dita, mi contano i giorni e mi hanno tolto la memoria?”.
Waiblinger: “Fragilità mentale, piuttosto che follia. Non riusciva a fermarsi sulle cose”. Scardanelli: “Ero io, oppure le cose in movimento, come le pale di questo mulino, non consentivano le fermate, perché fuggivano sempre via? Come il fumo di questo toscano. Oui, Vostra Maestà, lei parla bene… Ascoltatemi, un momento. L’ode tragica comincia nel fuoco più alto… Lo spirito puro, la pura interiorità ha varcato i suoi limiti”. Pausa, accende il toscano. Il sole basso è un fuoco, gli uccelli qua e là volano frenetici. Mentre fuma, Hölderlin/Scardanelli ripete a voce bassa: “Le ceneri dei barbari… fuori dalla terra. Empio osarono dirti? O sacro uomo, oh, ti legarono, oppressero il tuo cuore… L’oscurità della Grecia è più luminosa del fuoco acceso dalle vipere vaticane contro il corpo dei santi martirizzati. Empio, osarono dirti? Io brucio con te, con lui, con loro… Waiblinger, Waiblinger dove siete? È già sera?”.
Waiblinger: “Sono alle vostre spalle, vi vedo, vi ascolto, vedo calare la notte fonda sulle vostre spalle”. Hölderlin/Scardanelli: “Sapete? La vera saggezza è nella follia piena. Così va bene. I dolci giuochi della vita ti lasciano senza amore. Ma se è intensamente addestrato, l’intelletto conserva la sua forza anche nella dispersione. La dispersione è timore della verità, per l’amore che le dobbiamo e che le portiamo. È il mare senza onde, dove il pesce guizzante sente la siringa dei tritoni… Io amo la filosofa ma la poesia è il mio pane. Tace l’oceano quando è il giorno che anche gli dei muoiono. Allora è possibile, forse è necessario, precipitare nel gorgo di parole senza senso. Senza senso per i mortali, perché gli dei prima di morire hanno inteso e hanno divorato tutte le parole. Così il cielo resta vuoto. E anch’io, Waiblinger mi ascoltate?, anch’io posso tacere un poco. Posso ascoltare il canto della formica sulla punta delle mie dita. Waiblinger non dite nulla? Non ascoltate neppure? Siete silenzioso nel silenzio?”.
Il sole scomparso, il mondo scomparso, il cielo resta nero. Si ode, lontano, la voce di Waiblinger:“Sono qua, mio re, non troppo lontano da voi. Posso ascoltarvi, non posso più parlare. O forse non so più parlare”.
Hölderlin, stringendo il toscano fra i denti e accingendosi a chiudere i vetri della finestra: “Lei lo dice, lei lo afferma, non me ne faccio nulla. Sì, Maestà. Ma anch’io sono maestro di silenzio. O principe della parola. Parola spenta. Come questo buon toscano, spento, bagnato dalla mia saliva. E questa la mia vita, in una conclusione non retorica. Arriverà la fine con il rumore del fiume adirato. Ma solo la Grecia antica ha dato senso alle cose”.
* “EnnErre”, II semestre 1994, n. 1, pp. 16-18.
Franco Fortini. Poesia zona franca*
In un itinerario che tenda a collegare i momenti importanti della riflessione di Franco Fortini, unirei il libro appena pubblicato dalla manifestolibri, che è il primo di due (Disobbedienze: Gli anni dei movimenti, scritti sul manifesto 1972-1985, pp. 248, £. 25.000), alla Verifica dei poteri del 1985 (ma seconda edizione, con prefazione del 1973) e ai Dieci inverni del 1957 (ma seconda edizione, con prefazione del 1973). Entrambe sono prefazioni lunghe, motivate, approfondite; indispensabili, credo, anche oggi per riaccendere stimoli riflessivi e chiarire in qualche modo trascorse situazioni dei dibattiti accaniti. Anche Disobbedienze sono scritte a partire dal 1972 (per arrivare al 1985) ma via via, in modo abbastanza incisivo, si percepisce come un cambiamento di marcia. Permane, è certo, l’insistenza sui problemi specifici; ma una sorta di ringhio amaro entra a sopraffare il fervore imperterrito di un tempo. Lo straordinario iracondo insopportabile a volte ma generoso fervore pieno di una rabbia sana lucida talvolta spietata, che rendeva le sue pagine strumenti necessari di riferimento dentro al terremotato panorama della nostra cultura e della nostra condizione sociale in continua fibrillazione. Lo indica anche Rossana Rossanda, nella prefazione, quando annota come Fortini, dopo una breve sospensione, riprenda a scrivere nel 1981 sul giornale ma che il tono dei “suoi interventi era diverso, andava perdendo la speranza che il 1968 avesse segnato un inizio invece che una fine”.
Infatti Fortini, qua presente, è spesso contratto, un po’ all’erta, talvolta alterato o rapidamente maldisposto. Sembra che tenda a intervenire quasi per l’obbligo di sbrigare degli impegni, per rifinire o correggere precedenti conclusioni, per congedarsi da argomenti in passato privilegiati o ritenuti determinanti sul momento. Confrontare, per esempio, l’articolo del 28 settembre 1975 Alla fine del Politecnico, con Che cosa è stato il Politecnico del 1953 e raccolto fra le pagine dei Dieci inverni. In questo ampio racconto-saggio, vibra ancora la tensione di partecipare, anche nelle revisioni, a un moto culturale teso a raccogliere e alimentare comunque una sfida globale in atto: anzi, la sfida; contro coloro che intendevano gestire il pensare e contro quelli che intendevano gestire o stavano gestendo il potere. Ponendosi, da allora, nella posizione specifica di oppositore metodico e dialettico. Proprio nel secondo articolo del ’75, Fortini ha reso pubblica una lettera di Vittorini, della fine del ’47, in cui sono radunate e catalogate le due anime, intersecantesi, della sua personalità: “A proposito, mi sembra di doverti avvertire anche su un altro pericolo che tu a volte corri. Quello di metterti in posizione di scelta. (Anche dialetticamente; nel ragionamento; e lo fai anche a un certo punto nel tuo ultimo articolo). La posizione di aut-aut… Non bisogna, Franco. Non dobbiamo nemmeno dirci ‘questo o quello’. Dobbiamo essere gli uomini del ‘questo e quello’”. Fortini, per me, è stato l’intellettuale che soffrendo, problematizzando, tagliando in quattro i capelli delle idee e dei problemi, ha proposto l’aut-aut, il questo o quello, senza settarismo ma con una decisione estrema; cercando di ascoltare capire, riformulare, ma con una intransigenza da sembrare spesso prepotenza. Questa implacabilità era impastata a sottilissime raffinate cautele riflessive e consegnata a pagine che, anziché a convincere, erano destinate proprio a scuotere irritare: a non lasciare quieti.
Il Fortini del 1981 si consegnava a un timbro più spigoloso e a conclusioni più secche, irritate; come a volere appannare una inquieta incertezza. Per un esempio, rimanderei all’articolo del luglio 1981, sempre su Disobbedienze, intitolato Che i giovani si separino, anche da chi li lusinga. Invito a una congiura in piena luce. Scrive: “Perché andare a dire quel che non ci viene chiesto?… Non dire nulla se non chiesto, se non preteso. Debbono essere i giovani a chiedere…”. È un Fortini che risulta diverso. Non è stato prevalente, in passato, proprio l’impegno di parlare e intervenire non richiesto, di sforzare le situazioni comunicando? Di approfittare delle occasioni per inserire micce, per alimentare i dibattiti? E come intendere senza ironia la frase: “Cerchiamo almeno in questo la pratica e il consiglio degli analisti e dei taoisti”? Nei Dieci inverni, miniera inesauribile di riflessioni e sommovimenti problematici, sento un Fortini furibondo (lucidamente ebbro nello squinternare con acida cautela il libro della storia in atto, con relative implicazioni); mentre in questo libro de “il manifesto” ricavo e ricevo, anche alla rilettura, un Fortini insofferente di fronte alla durezza perdurante dei problemi e alla ripetitività implacabile degli scontri (sempre gestiti da manipolatori inesausti); ma anche un Fortini in cui affiora con struggente evidenza la convinzione di aver raggiunto con la poesia e nella poesia un approdo sicuro: l’Itaca da sempre ricercata.
L’angosciato cruccio di Fortini, il bivio fra poesia e ideologia in una mescolanza quasi assatanata che l’aveva sempre ferito, e impensierito, veniva finalmente superato, rassicurandolo dopo tante faticose rimozioni. Su questo e soltanto per questo, vorrei rifarmi alle sue righe su “Officina” (rivistina certamente da discutere fino in fondo ma non da irridere o scancellare come vorrebbe), stese con rapido disprezzo in un articolo del 4 luglio ’75; in cui ancora una volta – o per l’ultima volta – si propone come il maestro che bacchetta, come l’anticipatore di consigli saggissimi. Ma intanto: per intendere bene la complessità di un personaggio vitale per quarant’anni della nostra cultura, e per disporla nella luce e nell’ombra, è utile non dimenticare che Fortini ha partecipato (con bruciante utilità) a tante riviste, però si è sempre aggregato, non ne ha mai avviata e condotta una, prolungandola nel tempo. È stato con altri; e molto spesso nel corso del lavoro, dopo un primo avvio, la sua acribia, il suo aut-aut, il suo questo o quello, la irriverente impazienza delle sue attenzioni erano una spinta alla scomposizione, alla disgregazione. Il fatto è che il suo “pensare” è stato di gran lunga prevalente sul suo “agire”; come di uno che sa le cose ma non fa le cose.
Ma dicevo di “Officina”. Ecco, se a Fortini non importava, perché ha voluto starci e rimanere dentro fino all’ultimo, se era così povera cosa? Vero è che in quel microcosmo appartato ha trovato la stanza segreta dei suoi segreti pensieri. Una camera in un motel della poesia, in cui poteva rifugiarsi lasciando per poco gli alti consessi e gli antri delle spericolate riflessioni. In “Officina” era vincolato soltanto alla sua poesia, libero da ogni altra timidezza. Mi consento due riferimenti. Una risposta in versi a Pasolini, nel fascicolo n. 8 del gennaio 1957: “Mi provo a un non mio discorso, vedi, / credendo che anche a me la rima e il verso / fingano forza ad essere diverso / dai miei vizi”. E un allegato a un gruppo di Versi pubblicati in un fascicolo precedente, il n. 3 del settembre 1955: “Scrivo versi anche perché penso che la poesia in versi abbia, oggi, e più oggi di ieri, sue buone ragioni di esigere. Quei versi mi paiono spesso mediocri o così sono considerati. Me ne dispiace. Mi piacerebbe esser persuaso di aver scritto una bellissima poesia e sentirmelo dire da coloro che amo e stimo. Mi sono gradite le lodi, sgradite le censure, amaro il disprezzo. A diciott’anni avevo scritto un epigramma molto vanitoso che diceva: ‘Datemi quelle lodi che vi costano / amici, così poco. / Sono quelle / che bastano ad un giorno; sono quelle / che voi potete, ed io non voglio, darmi’. Da allora – continuava Fortini – son passati vent’anni, ho cominciato a scriver versi, non molti, a gettarne via una buona parte e a stamparne – di rado. Non quelle lodi sono venute che mi sarebbero state gradite. Amici benevoli scuotono il capo davanti al mio volto, quando somiglia all’antichissima maschera del cattivo poeta; e, affettuosi, consigliano maggior impegno nel lavoro critico dove, dicono, dò buoni frutti. Quindi i miei versi, stampati o scritti, sono un argomento, per me, sommamente patetico. So bene che partecipano di tutti i vizi che da critico leggo nella maggior parte della poesia dei nostri giorni”. Queste righe, appena ricevute per la stampa, mi fecero intendere la parte contrastata contestata, ancora vulnerabile ma superba, di Fortini; e da questo versante ho continuato a leggerlo, a intenderlo negli anni. Lui stava lì, insofferente per le questioni generali, come in un piccolo rifugio in un giorno di pioggia, dove poteva con libertà scrollarsi i cattivi pensieri. Non era contestato, non frainteso, ma accolto e partecipato per la lucida evidenza dei suoi testi. Ecco come leggo le poche righe su “Officina”, scritte con pessimo umore, come volesse liberarsi dal ricordo di un cedimento, o di una concessione, che in seguito lo imbarazzava. Ma è questo Fortini, che continuerà a lottare con sé, in una adirata solitudine, a presentarsi sulla retta d’arrivo avendo superato, meglio: accantonato i nodi segreti e contrastanti del proprio lavoro, e non più indifeso ma sicuro dentro a un dolore rinserrato nel più profondo del cuore. L’esaltazione calma e la rassicurazione convinta riservate alla poesia nell’ultima parte della vita, prosciuga a mio parere il fuoco una volta intenso dei suoi interventi critici, riducendoli alle volte a essere soltanto acrimoniosi. Con la perdita “dell’assunzione permanente di responsabilità” (che vuol dire, necessità bisogno stimolo prolungato di partecipazione e di comprensione); con la perdita dalla “sua ostinazione a separare”, “a condividere le preoccupazioni” (cito dalla premessa 1973 ai Dieci inverni); avendo ricompattato i contrasti che lo avevano così a lungo ferito.
Per scrupolo, si può annotare che l’opera prima di Fortini, Foglio di via, fu pubblicata in una collana einaudiana che accolse altre quattro opere: Ossi di seppia e Le occasioni di Montale, il Canzoniere di Saba, Lavorare stanca di Pavese. Una partenza, sul piano dell’autorevolezza, sfolgorante; poi travolta od offuscata dall’impegno della partecipazione al dibattito culturale politico. E si può in ultimo annotare che, comunque, i volumi di poesia pubblicati da Fortini superano in numero i volumi saggistici. A esempio, negli anni della sua alterna collaborazione a questo giornale [“il manifesto”, N.d.R.], pubblica tre ampie raccolte antologiche: da Einaudi Una volta per sempre (poesie 1938-1973); da Mondadori Questo muro (poesie 1962-1972) e Poesie scelte (1938-1973). Nello spazio di due anni (1973-1974). Eppure, dal ’46 in avanti, a tanto impegno di scrittura poetica, il Fortini pubblico (contestato e amato, seguito o rifiutato) sembra essere, ed è, soprattutto l’ideologo impaziente, il “guastafeste magnifico”, l’uomo di cultura di tutti i gelidi inverni, delle situazioni problematiche al limite; il chimico da laboratorio su materiale esplosivo. Riferendomi a questi estremi contrapposti, a questo continuo stridore di freni nell’opera e nella personalità di Fortini, fin dagli anni Cinquanta a me pareva di poterlo avvicinare e confrontare con Pasolini. Due personalità di alto rilievo ma così contrastanti, direi inconciliabili; alle volte quasi nemiche (se si vuole, leggere – per esempio – le sottilissime pagine dolci-amare dedicate a Pasolini in questo volume, alle pagine 102 e 241); con il peso esistenziale e culturale di una “diversità” autentica da vivere in proprio ma anche da giustificare e verificare in pubblico, confrontandosi sui problemi. Conosciamo nei dettagli il dramma di Pasolini legato alla sua “diversità”; poco o niente abbiamo valutato il peso oscuro del rapporto di Fortini con la poesia, che lo costringeva all’obbligo di continue giustificazioni, precisazioni; quasi si trattasse di un tradimento, di un cedimento nei riguardi degli “amici” con cui divideva sul campo il lavoro della riflessione e della polemica. Sforzando, si potrebbe dedurre che, una volta pubblicati, egli tendesse a coprire l’orma dei libri poetici con una mano; per sottrarli agli sguardi, che lui temeva, degli amici-censori (ma chi erano? chi li ricorda? dove sono?); mentre, nello stesso tempo, si aspettava un qualche cenno di consenso, di assenso, dalla critica e dai lettori di poesia. In altre parole, per molto tempo della vita, trascorso e sopportato con una amarezza nascosta che talvolta intristiva e incattiviva, Fortini ha indossato l’abito della poesia mentre tanti, del pubblico vagante, lo vedevano nudo (o fingevano di vederlo) con un carbone acceso in mano per la scrittura d’assalto. Solo nell’ultimo arco della vita – magari a partire, come tempo, da questi scritti su “il manifesto” – Fortini raggiunge una piena completa convinzione operativa, la liberazione di sé nella poesia. Non frastornato da una superbia nascosta, non più necessaria. L’ultima parte della sua esistenza si assesta intorno al nucleo vitale della parola poetica; la scrittura si contrae e si innalza; il linguaggio è come cavato fuori da una cenere calda che lo ricopriva – per nasconderlo a un qualche nemico. E così veniva riportato con un lancinante volo, per esempio, alla sottile “dolcissima ebbrezza”, all’affascinante sperduta leggerezza (senza indulgenza) dei primi testi; come a vice veris, del ’46, che avevo sempre ritenuta a mente: “Mai una primavera come questa / È venuta sul mondo. Certo è un giorno / Da molto tempo a me promesso questo / Dove tutto il mio sguardo si fa eguale / Ai miei confini, riposando; e quanta / Calma giustizia nel pensiero è in fiore / Quanta limpida luce orna il colore / Delle ombre del mondo…”.
È un poeta non ancora contaminato dalla lacerazione di un destino; è prima di aver gettato il saio. Un poeta (e lo ritroverò dopo anni) che, lontano dal passo di lupo del dubbio, si lascia quasi soffocare dalla vitalità vibrante del reale. Questo spirito poetico era stato impigliato dal fiato di tanti, di troppi giorni ingrigiti – in generale; tanto più, dunque, risulta mirabile l’accanita difesa compiuta, dentro di sé, per non invelenire irrimediabilmente una scrittura invece impietosa che, come certi corsi d’acqua, ha dovuto spesso interrarsi per proseguire il corso e poi risalire. Questa poesia si alimenta nel tumulto di una quotidianità tutta, di volta in volta, da pensare, riaffrontare, riconoscere, incalzare: cresce per doppia fatica, per accanimento di difesa o di attacco. Ma è quando si fa giusta attesa “la vergogna di vecchiezza” che il pubblico fustigatore, il sapiente senza livrea, arriva a disporre – dopo la lunga macerazione e per intero – della propria parola poetica. Il Fortini presente in questo “manifesto” cede a rabbia e disinteresse; si mostra non aggressivo ma infastidito. Non vuol rifare il mondo, neanche ferirlo; il mondo non gli piace più, non lo attira più. La sua delusione è forte. Non si sente neanche un partecipe sconfitto ma soltanto un escluso. Si è accorto, per inizio di una umiltà prima inconcepibile, che la semplice verità può stare in una semplice poesia. Mentre, neanche molto tempo addietro, aveva scritto: “Credo alla verità di alcune mie poche poesie perché ogni lor verso porta il segno della contraddizione… posso dire che la poesia è sufficiente a se stessa ma non a me e che più di tutto mi importa la semplice verità”.
Nell’articolo qua a pagina 140 e avanti, dal titolo In piazza tra operai e studenti rileggo: “Cammino ai margini. Li guardo dal portone di casa. Uno della mia età, tra di loro, o è uno storico, o è un questurino, o è uno spettro”. E perché non potrebbe essere ancora una volta un uomo, semplicemente, magari un uomo vecchio, che vuol continuare a camminare con loro, fra loro, per loro, senza immedesimarsi in una parte rappresentativa, senza prevalere (senza voler prevalere)? Ripeto solo quel che ho detto altrove senza volere tanto rispondere: amavo il primo Fortini, temevo l’ultimo Fortini. L’ultimo Fortini (lo si intende anche in questa raccolta, pagina dopo pagina) è il Fortini ferocemente addolorato per il mondo che non è cambiato e, dunque, a leggerlo dava e dà ancora forte tormento. Invece il Fortini delle annate buone, come il primo Fortini (e poi l’ultimo) non ancora sgomento o non più sgomentato né contratto, era ed è alto e violento – nella sua poesia che spingeva avanti, che aiutava a procedere con l’astio di un furore squillante. A questo Fortini ritorno, con questo Fortini mi arresto e lì permango. (Naturalmente, ciascun lettore avrà le sue impressioni, le sue deduzioni e, se non più giovane, le sue memorie). Con Fortini, molti l’hanno provato, era difficile essere amici, quasi impossibile. Ma era anche difficile, quasi impossibile, non leggerlo; non custodirlo come riferimento di giuste o utili deduzioni, di nuove acquisizioni; come custode di necessarie memorie. Oggi non c’è e si sente un vuoto. Mi tornano in mente i nove versi della poesia A Vittorio Sereni: “Come ci siamo allontanati. / Che cosa tetra e bella. / Una volta mi dicesti che ero un destino. / Ma siamo due destini. / Uno condanna l’altro. / Uno giustifica l’altro. / Ma chi sarà a condannare / o a giustificare / noi due?”. Nessuna condanna, nessuna giustificazione; apprezzamento sul campo.
* La talpa libri, inserto de “il manifesto”, 15 gennaio 1998, pp. I-II.
E lì resta senza spegnersi*
Alcune considerazioni dietro sollecitazione di questo librone che raccoglie l’opera in versi di Giorgio Caproni in ben 1996 pagine complessive, di cui 825 solo per l’apparato critico. Nella stessa collana de “I meridiani” dell’editore Mondadori – mausoleo selettivo e autorevole di scrittori e poeti antichi e moderni – ho voluto per scrupolo riscontrare un paio di volumi fra quelli che avevo subito a portata di mano.
Virgilio, con l’Eneide, ha 916 pagine complessive fra le quali 225 di commento; Rimbaud, Opere (con traduzione a fronte), ha 907 pagine fra cui 118 di introduzione e note; Goethe, Faust I e II, ha 1138 pagine fra cui 77 di note. Mi chiedo allora con sorpresa ma senza ironia, come mai Caproni sia stato travolto da una micidiale slavina annotatoria di tale dimensione, lui così severo nella sua affascinante semplicità; lui così cauto rigoroso e asciutto. E mi concedo questa motivata ma del tutto personale risposta, sia pure sommaria.
Le istituzioni universitarie gestiscono ormai, quasi in regime di monopolio, le fabbriche in cui si lavora criticamente (professori e, giustamente, allievi) sui testi letterari del Novecento (un tempo neanche troppo lontano poco frequentati, a parte il solito gruppetto di autori stranoti), arrivando per necessità di auto-alimentazione testuale fino alle opere degli ultimi cinquant’anni. Questo, perché sono scarsi e dispersi i critici letterari di prima linea – quelli che combattono con convinzione e partecipazione sul campo e a ogni scontro-incontro, dopo avere ferito, escono essi stessi feriti; compagni quasi viscerali e impagabili di strada, di polvere, di avventura.
Ripeto, le faccende della poesia, nello specifico, sono gestione quasi unica di quelle mani autorevoli; le quali hanno la necessità di reperire cadaveri, tanto meglio se eccellenti, per le pressanti esercitazioni e investigazioni di anatomia critico-letteraria, indispensabili al regolare corso delle lezioni e al prestigio delle stesse istituzioni.
Capita che in siffatto regime di monopolio, si perde talvolta il controllo delle buone maniere e delle rispettose caute affermazioni. Per esempio: come posso valutare l’affermazione, ad apertura di libro, che Caproni sia tra i massimi e più originali poeti del dopo-Montale? Intanto, e subito, quale concilio ecumenico ha stabilito per dogma che Montale debba essere il bivio unico e inevitabile per garantire e smistare il percorso della nostra ultima poesia? E quale spessore critico vincolante devo assegnare al termine “massimo”? È detto, ripeto, tra i massimi; quindi devo intendere che altri a quella altezza partecipino dello stesso fulgore, dato che tutti i vocabolari riscontrati, enunciano per spiegare il termine: grandissimo, sommo, estremo, principalissimo, il più grande. Vivremmo dunque in un fortunato e benefico momento della poesia, come al tempo di Pericle in Grecia. Ora, in un momento come questo, decisamente sboccato e traboccante senza misura, approssimato ed esasperato, è forse troppo richiedere dai centri culturali severi, che hanno il dovere di servire d’esempio, annotazioni critiche meno totalizzanti?
Liberato dalle oppressioni eccessive – come incrostazioni intorno a un sasso ripescato o a una conchiglia di mare – poco rispettose della sua riservatezza esemplare, Caproni dovrebbe ritrovarsi nella sua cella quasi conventuale, lui che a me sembra alle volte l’unico Alfonso de’ Liguori del nostro tempo – il grande prete poeta che faceva cantare i morenti con la poesia.
Mi serve un rapido ricordo personale. L’avevo pur letto ma l’ho incontrato più tardi, due volte, fra altri, al tempo di “Officina” (anni ’55-’56). Lo puntai con interesse, perché non parlava, come ritratto in sé con cautela, non per difesa ma credevo di capire per concentrarsi meglio, tutto intero; per non lasciare andare niente disperso di ciò che lo circondava: parole, voci, suoni, luci, concetti. Gli occhi intensi e sempre fissi a qualcosa, sembravano una lingua che ogni tanto si avventasse senza violenza ma precisa ad afferrare una parola, un gesto, un’argomentazione concisa per cibarsene poi. Appariva minuto e integro, vibrante dentro una riservatezza di forte misurato rigore, ma quasi affettuosa, con dentro una istintiva gaiezza (briciole di lucente ironia).
Riscontro, per entrare nel merito delle sue poesie, che è prevalente nei primi testi (anni ’32-’35) una intitolazione temporale: Alba; Ricordo; Vento di prima estate; Vespro; Primaluce; Spiaggia di sera; Fine di giorno; Sera di Maremma – un guardare a fondo, graffiando il tempo con il sentimento. Poi nelle successive raccolte entrano immagini o ritratti di donne in tenerissime pose di luce, mescolati ancora a scorrere di notti e di giorni e volgere più ampio di stagioni quasi fossero fiati su un vetro lucente, e spazi aperti su città che si muovono ed entrano: Udine, Pisa, Roma, Assisi e, sempre, la sovrana Genova. Con i Sonetti dell’anniversario (1942) il registro metrico a me sembra simile al respiro di uno che sale e porta addosso un peso e tuttavia si lamenta con cautela, resistendo in sé; il discorso si agglutina quasi attorcigliandosi intorno a un tronco e si fa più denso; l’occhio che scruta si fissa su pochi punti e da lì non trascende. Mi avvicina al magistrale ritmo interiore di Campana: “Poco più su d’adolescenza ahi mite / fidanzata così completamente morta. / Sulle compagini sfinite…”; “Oh fu / anche il tuo nome una paglia in estate / strinata fra i papaveri”; “Brucerà dalla bocca dei cavalli / rossi di fuga l’alito rovente / delle sere che accendono le valli”. C’è molto lume di sera, dentro a questo gruppo di testi concentrato sapiente (in qualche modo solenne, direi) e donne severe, quasi contrite; e la terra tenuta presente in attesa di ricevere drammatiche offerte. Un altro trapasso ancora, ma non un rovesciamento; anzi un proseguimento, come a buttarsi di proposito dentro una caverna, con i testi de Gli anni tedeschi,le poesie degli anni bui a cui una voce – si può dire una luce – vera l’ha data anche Caproni.
Il suo lavoro accanito e di scavo, in seguito, proseguirà secondo il rigore di sentimenti sempre più sottilmente individuati e precisati, nel sobbalzo di contrastanti vicende speculative ed esistenziali, restringendosi magari nel ferreo delirio di poesie di quattro versi (che tanti degustano e mandano a memoria, ignari che c’è un veleno di sottilissima alchimia sotteso fra le parole).
È proprio ricollegandomi a Gli anni tedeschi che mi domando e poi mi spiego come mai Caproni (estensore, soprattutto dopo, di una micidiale combinazione di testi brevi – poesia di quattro versi, di cui cantava anche Sandro Penna – accentrati su pochi e calcolatissimi elementi esistenziali e riflessivi, orafo di un parlato essenziale dispensatore di brividi), ripeto, come mai Caproni ci abbia consegnato, in una prosa di straordinaria asciutta precisione, un capolavoro letterario sulla Resistenza italiana, le ventotto pagine de Il labirinto. Ancora più alte del giocoso profondo epicismo di Fenoglio, che però sembra a me attestato in mezzo a un fiume turbolento, con le mani che scrivono appoggiate alle due rive contrapposte, indecise quale nella scrittura debba prevalere.
Caproni è uno che cammina, in fila, sul bordo di una montagna alta e guarda giù carpendo voce passi respiri dagli uomini che sono dentro a un faticoso destino, impegnati in un faticoso lavoro; inoltre consegnandoci l’unica figura di donna combattente co-protagonista ambigua tormentosa e drammatica. Lui è dentro al terrore universale, inesorabile, perciò scava con le mani delle parole per guardare gli altri, per guardare se stesso e per capire le ragioni e le occasioni di una speranza in mezzo al mondo che brucia. Questo lucido filo luminoso ci conforta anche con le sue pagine seguenti, fino alle postume di Res amissa. E lì resta, senza spegnersi.
* “Alias”, supplemento a “il manifesto”, 4 luglio 1998, p. 20.
Il buio della luce. La poesia di Guglielmi*
La perfidia della ragione. Che è insonnia della mente e continuo vibrare della scrittura.
Una perfidia meta-fisica (o meta-linguistica).
Senza tuttavia la perdita degli affetti secondari.
E un distacco, solo apparente, dalle conclusioni che tolgono voce e fermano per sempre le cose. In realtà, invece, le cose sono di continuo manomesse, mai ferme e vanno inseguite.
La sua prevalente capacità di intrattenersi con equilibrio dentro a un corso di ironia (insoddisfazione della mente), sempre macinata e mai lasciata perdere. Anzi, raccolta minutamente nel vaso dei versi.
Una ironia agra, ma mescolata a una tenerezza di fondo (una ansimante tenerezza scontrosa) sempre calcata con la mano quasi a comprimerla o piuttosto a difenderla
una tenerezza che si divincolava. Questi sussulti in quattro direzioni spasmodiche e tormentose sono il fascino (e il brivido) di questa poesia
una tale tenerezza (che io colgo e insisto) si dimena e appare scompare. Va intesa. Va ascoltata. Va cercata. Come il frusciare del vento fra rami e foglie di un albero.
Perché così lui (l’autore) vuole, dicendo.
Sulla linea (può servire esplicativa una linea di riferimento già altre volte da me sottoscritta) di un Gadda senza inibizioni, senza renitenze, senza le dolorose vanità conculcate.
Ma con una più convinta decisione e persuasione nel procedere verso il prediletto, vagheggiato limbo dove gli scontri si attenuano ed è sovrana e non mesta l’attesa.
Dove la rabbia cede al bisbiglio.
Il suo impasto verbale, come la tavolozza di un pittore non genericamente turbato, è tutto su toni precisi e decisi (toni primari, ricavati, scavati da un lessico tumultuoso). Toni scalfenti, arrotanti (come una ruota in continuo peregrinare fra i sassi); graffianti.
Percorsi da lampi che fanno temere a ogni volgere diverso un temporale di sentimenti che sciolga e distrugga, mentre è in verità (e in realtà) come intriso da un quieto gravame di gocce primaverili; che dalla testa dove sono alloggiati i buoni pensieri e i densi turbamenti e il solido grumo di intellettuale sapienza, scendono calano si diffondono senza interferenze sulla carta e lì si fermano (un fiume arrivato al suo mare)
e lì si fermano si dispongono per rendere vere ferme per sempre le parole.
Stracciava (direi meglio, incideva) il dolore della vita con il dolore dei versi; con un’ironia simile a una lama con magistero affilata che, sguainata, riverberava, un brivido di luce che la esaltava.
Non c’era, non c’è, così sembrava, l’eco o l’afa sordida della guerra appena conclusa nella sua poesia, già più di cinquant’anni fa. Ma quasi impauriva, ben dentro, la tensione di una violenza implosa (simile al lavoro di un guastatore che tendesse sotto un cielo notturno fili per fare esplodere mine).
Nessuno (a me pare) come lui è stato, proprio scrivendo, così poco egoista e invece disponibile a nobili colloqui senza affanno ma senza interruzioni. Sapeva concedere, e voleva farlo, la mano da stringere; mai la testa come deposito della proprietà delle parole.
Il buio in Guglielmi (nella sua poesia) era il buio tenebroso che contorna colui che si muove dalle caverne profonde della vita. Ma era un buio fremente (non opprimente) rotto dalla luce rapida secca tagliente di una risata masticata fra i denti.
Non ossessiva, non improvvisa, non violenta ma partecipante, emozionante, coinvolgente.
Una risata non uscita da una gola ma da un’idea. Da un pensiero in movimento. Con un suono che si svolgeva progressivamente arando il campo arido delle parole.
Certamente. Quando nei prossimi decenni una critica più vitale, più giovane, più interessata a cercare e a riequilibrare; più curiosa e scontenta; vorrà fare sul serio i conti con i cinquant’anni ultimi di un secolo maledetto impietoso violento spietato e, in più, conformista; allora con una rinnovata sorpresa collocherà Giuseppe Guglielmi al posto che gli compete fra i pochissimi, pochissimi davvero, insigni del suo tempo.
Ma con le sue quattro brevi raccolte di 43 pagine, 61 pagine, 24 pagine e 80 pagine, già ora, già fin da ora il suono, il tuono, il precipite incalzare della sua voce (lo stridere raggelante, per ironico strazio, della sua poesia) si impone e conquista.
Così come il Rebora degli anni ’10-’20.
Un discorso poetico costruito con fatica e fatica ma con la leggerezza apparente di un angelo adirato. Con eccezionale densità significativa e unitarietà argomentativa e linguistica (da classico).
Tutto da leggere. O da rileggere.
Una aggressività che talvolta (spesso) coincideva con lo sforzo ansimante (e il respiro rotto si sente come un murmure) di fuoriuscire dagli inviluppi scabrosi offensivi ottusi di una quotidianeità non confortata dalla generosa allegria di una buona speranza.
Ma con la sua poesia non rinuncia a niente. È dentro a tutto.
* “Rendiconti”, agosto 1999, n. 45, pp. 61-63.
Nessun monumento a Vittorini*
Era, oltre che scrittore di grande attrazione, un terapeuta della letteratura, meglio, della scrittura. Dove metteva le mani, meglio, gli occhi, lì metteva ordine e respiro. Oppure collocava, avveduto, una giusta confusione.
Nessuno meglio di lui riusciva a cavare fuori dal buio la pagina derelitta di ogni giovane scrittore; né, meglio di lui, riusciva a perlustrare le pagine ordinatissime degli scrittori illustri e a disporle, come lui sapeva, in modo nuovo e diverso per una lettura più ardita.
Ecco perché dico “ardire”: una sorta di felice continua impazienza intellettuale, che non era mai compagna della fretta; no, era invece un secondo pregio della sua personalità. Unito alla caparbietà, che gli consentiva di fare e ancora fare, lavorando duro e continuo in mezzo ai reticolati di tempi torbidi e amari per un verso, o frastornati da esultanze esasperate, senza mai lasciarsi distrarre, senza mai perdersi o rifugiarsi.
Così, dire ci manca (manca a noi) è appena sfiorare un minimum per un grandissimo vuoto; che tanti tuttavia non patiscono camminando dietro altre chimere; così che si ascoltano e si leggono conclusioni raggelanti al seguito di diversi stimoli, diverse carriere critiche e altrettanti diversi breviari.
Qua si può invece parlare di Vittorini come di uno che ti prendeva per mano (stringendola) anche solo scrivendoti una mezza lettera, in un tempo (ripeto) certamente difficile da intendere bene ma anche sollecitato – e ricavo parole da un suo grande libro – da astratti furori. Furori della mente “ornata” da infiniti desideri, da infinite curiosità, da infinite nuove speranze, che agitavano con ventate varie la bandiera della letteratura – e della vita. E i superstiti ormai vecchissimi di quegli anni, che continuano ad amarlo come il maestro delle grandi avventure (delle grandi avventure della giovinezza) possono mormorare, magari intorno al fuoco di un bivacco, le parole del Falstaff shakespeariano: “che tempi, amici, abbiamo vissuto insieme”. Ho scritto “mormorare”, perché questo forte sentimento giri solo fra noi.
Conversazione in Sicilia, Le donne di Messina, Diario in pubblico sono tre libri della letteratura alta del Novecento da leggere e rileggere sempre con brividi acuti; ma non di questo credo di voler parlare in questa occasione; sento invece di dover dedicare come so e posso un riferimento, sia pure breve, per schiarire il personaggio traendolo fuori dai soliti legacci critici e collegandolo piuttosto a un testo di grande libertà, che mi è sempre rimasto in mente. Intendo riferirmi al dibattito a tre voci fra Vittorini, Oreste del Buono e Umberto Eco, pubblicato sul numero 121 di “Linus” dell’aprile 1975, con il titolo Vittorini senza monumento. Da quelle pagine trascrivo subito la conclusione di Del Buono: “Non saprei cosa aggiungere in questo numero dell’aprile 1975, in quest’omaggio, senza monumenti, alla memoria del nostro grande amico. Senza monumenti, perché i monumenti si fanno solo ai cialtroni”.
“Linus”, ma si sa, era un mensile d’avanguardia di fumetti e sui fumetti; denso, pagina dopo pagina, di continue implicazioni dirette con il mondo e le vicende del mondo, anche quelle del piccolo mondo italiano. Nel sommario iniziale, alla pagina 21 indicava: “Dieci anni fa esatti cominciava ‘Linus’. E a inaugurarlo era proprio Elio Vittorini. ‘Linus’ vuole ricordare in questo numero, ovviamente attraverso le immagini, il suo grande amico, il grande amico di ogni novità e di ogni anticonformismo”.
Sì, è da confermare subito l’eccezionale e vibrante curiosità culturale di questo uomoscrittore,oggi turpemente negletto, e la sua, direi unica fra gli altri, capacità volontà in mezzo a un continuo dinamico aggredente lavoro personale, di organizzare e realizzare fatti e strumenti culturali di alta e coinvolgente qualità e novità. Tre, fra altri: “Il Politecnico”, “Il Menabò”, I Gettoni, nel corso di una vita purtroppo breve e nonostante questa vita breve. E poi: prima a Firenze, poi a Milano e con mani e occhi anche a Torino; mai a Roma, come è giusto, dove si è sempre troppo vicini, in ogni caso, volendo fare cose, ai poteri istituzionali, agli alterni condizionamenti in atto dei vari poteri e dove sembra sempre, comunque, di dover bivaccare davanti al portone del re.
Ai miei tempi, nessuno fra i grandi personaggi della letteratura italiana è stato, con costanza (ripeto), così generoso e suscitatore di benzina culturale per i giovani (e non solo) scrittori; tanto che la sua scomparsa, come un vero disastro, aprì un vuoto reale, suscitando nell’immediato, e poi nel tempo fino a ora, profonda “tenerezza” e profonda “gratitudine”. Non si può dire questo di nessun altro (forse di Franco Fortini, a cui nuoceva un carattere eccessivamente conflittuale). Vittorini no; egli collegava, in un infaticabile lavorio (elaborazione) di connessione, la letteratura alla vita; come risorsa di tanti (forse di tutti) e non come un club privato nel quale stabilirsi ed erigersi come presidente.
Scriveva nell’occasione (citata) Oreste del Buono (un protagonista delle nostre lettere, anche lui confinato a ricevere solo in varie occasioni elogi generici e non catalogati): “per avere l’occasione di confermare agli inizi del secondo decennio la mia e nostra gratitudine, il mio e nostro ricordo, la mia e nostra tenerezza per l’uomo che forse ha più fatto per strappare la cultura italiana all’accademia e alla retorica”.
Mentre vati insigni inseguivano in proprio il sogno dei grandi “premi” per adornarsi petrarchescamente con foglie di fico nei giardini d’Arcadia; e mentre il mondo (il mondo più vasto) stava cominciando a sommergersi per la sua nuova prolungata glaciazione, lui era lì, maestro indimenticabile e insigne, scrittore da cime, uomo che ci accompagnava e tutt’ora ci accompagna, anche nel momento del nostro non rassegnato declino.
Ringraziarlo, è nulla; ma leggerlo e ascoltarlo, rileggerlo e custodirlo, questo si può e si deve fare; anche solo per riconsegnarlo nella sua alta misura alle generazioni che verranno e che avranno certamente bisogno di alimentarsi non con i papaveri di Lete ma con pane solido e intatto da mettere nello zaino per le inevitabili battaglie della vita.
Per vivere. Per aiutarsi giorno per giorno a dar forza alle idee e ai sentimenti del cuore per vivere. Per essere intrepidi. Insegnamento che a pochissimi è dato elargire. Vittorini sapeva.
* “Il Giannone”, 2003, n. 1, pp. 53-55.
Una matita e un pezzo di carta*
intervista di Fabio Moliterni
L’intervista che qui trascriviamo è il risultato di alcuni incontri che si sono svolti nella libreria Palmaverde, quella “bottega di libri” che il poeta continua a gestire nella sua città, a Bologna. Da essa dovrebbe risultare agevole individuare i nuclei problematici essenziali, emergenti dalle sue posizioni rispetto a tematiche generali del passato come del presente.
Se si operasse una traduzione, un’esemplificazione o una sintesi dei significati politico-culturali e strettamente letterari delle parole e dei testi di Roversi, affidandoli ai termini di una “storia degli intellettuali” e delle poetiche del Novecento, si potrebbero identificare alcuni cardini statici della sua opera, dinamicamente articolati nel corso del tempo. La tensione, espressa sin dagli anni Cinquanta e dall’esperienza di “Officina”, nel piegare la letteratura e il linguaggio poetico a fini dichiaratamente extraletterari; il tentativo, attraverso la sperimentazione dei mezzi espressivi ereditati dalla tradizione, di realizzare un rapporto con il reale che si evolvesse nella direzione della denuncia morale e della testimonianza civile. Una “letteratura del rifiuto” che, per tutti gli anni Sessanta, si esprime per il tramite di uno sperimentalismo dei generi (dal romanzo alla poesia, dal teatro alla pratica saggistica), in evidente opposizione alle formulazioni ideologico-letterarie della neoavanguardia. Una intensa attività teorica, articolata sulla sua rivista, “Rendiconti”, che si colloca con originalità nel contesto del “marxismo critico”, con le ricerche avviate sulle questioni linguistiche e sociali, derivanti dall’emergenza del problema della “comunicazione”. Un impegno letterario e pratico-organizzativo che, a ridosso del movimento del 1968, assume la forma “integrale” della ricerca-sperimentazione di canali di distribuzione autogestiti e chiaramente alternativi all’industria culturale (il teatro “politico”, le Descrizioni in atto)e che, al contempo, si mostra lucidamente consapevole delle proprie precarietà, dei limiti e delle profonde potenzialità di ogni operazione intellettuale. E dà prova di questa autocritica e auto-dissacrazione all’interno stesso del testo, sulle pagine dei suoi lavori. L’elenco potrebbe proseguire allargandosi ai corollari più mediati di queste posizioni di fondo. Pur nella genericità di ogni formulazione, e sulla base delle sue risposte, apparirà che esse, nel loro insieme, anche nei loro risvolti provocatori e paradossali, definiscono con precisione la collocazione storica e poetica dell’autore.
D.: Vorrei partire da alcune sue dichiarazioni più recenti, tratte dall’editoriale di apertura del numero 31 di “Rendiconti” (luglio 1992), con cui si rilanciava la pubblicazione della rivista dopo un’interruzione di diciassette anni. Si legge: “[…] tutto ciò che occorre fare, è da fare al di fuori del bailamme della società dello spettacolo che dentro al frastuono predominante omogeneizza tutto, tutto livella, appiattisce e si dispone a sollevarlo appena un poco, fuori dalla norma, solo se intersecato dal contrassegno di qualche transitoria risata”. A ben guardare, si tratta della ripresa di termini risalenti alle riflessioni svolte nei decenni passati. Nel 1964, in risposta a una inchiesta sui rapporti tra letteratura e neocapitalismo, avvertiva: “[…] non credo, lo ripeto, che si possa concludere qualcosa nell’ordine dell’opposizione a un siffatto sistema presumendo di operare dal di dentro. Così come non credo a tutte le sofisticate operazioni letterarie di mediazione”.
Potrebbe spiegarci il senso e le finalità del suo operare che si è venuto affermando, in maniera solitaria, in opposizione all’“ufficialità” dell’industria culturale?
R.: La risposta sta tutta nel problema della gestione della comunicazione. Partendo da una constatazione, forse un po’ generica perché visceralmente “impaurita”, della situazione che cominciava a configurarsi negli anni Sessanta, e cioè della codificazione-pianificazione del sistema di comunicazione ufficiale, generale. Che dapprima in modo già determinato, e adesso compiutamente, tende a gestire interessi non solo economici, ma collegati alla convinzione che la comunicazione è diventata il potere ufficiale, reale, del tempo dato. Il sistema di comunicazione iniziava a coprire e a rendere inefficaci gli spazi marginali di libertà che sino ad allora erano consentiti. La mia posizione, in realtà, non era volutamente solitaria, ma partiva dalla convinzione che non c’era modo di fare opposizione in tale situazione se non stando da parte. Non c’era altra soluzione ai miei occhi, lo ripeto: alla rotativa bisognava opporre il ciclostile. In termini assoluti poteva sembrare un’opposizione perdente in partenza, ma cercava di non esserlo del tutto: perché ponendo il ciclostile all’opposizione, si poteva confidare su un sistema di distribuzione che è stato per alcuni decenni capillare, quasi mano a mano, porta a porta, e si attuò fino alla fine degli anni Settanta, a livello nazionale e non solo locale. Mi riferisco all’operazione collegata alle Descrizioni in atto e a tutta quella serie di fogli, foglietti volanti, ciclostilati d’ogni genere, rivistine di poesia tirate quasi a mano, che davano la possibilità di tenerci in contatto, di comunicare, di operare, proprio mentre ci si interrogava su questo problema formidabile che ci scorreva sotto gli occhi, mentre il potere ufficiale stava risolvendo assai bene il problema del dominio assoluto della comunicazione. Contemporaneamente, il mio impegno era quello di riflettere sulla debolezza dell’operazione che si compiva, e sulla necessità e l’urgenza di trovare dei sistemi di comunicazione più resistenti e aggiornati. Siamo arrivati a un certo punto in cui, come ho scritto in un verso di quegli anni, “l’età del ciclostile” era finita. Non voleva essere un verso dantesco, profetico, ma una constatazione e uno stabilire che il periodo di quella militanza era concluso, non per mancanza di lievito personale in me o negli altri, ma semplicemente perché la situazione generale non la rendeva, oramai, efficace. Che cosa sostituire? Non si è sostituito nulla, e anzi quelle ultime colleganze, quell’organizzazione capillare si è dissolta con la crisi della sinistra, e non si è ancora riusciti a cogliere nuovi elementi validi e sostitutivi, propulsivi.
D.: Colpisce, nella ricostruzione del periodo, l’originalità e, assieme, la marginalità della sua posizione sostanzialmente isolata ed eccentrica. Come si spiega l’indifferenza dell’intellettualità di quegli anni nei confronti della questione della comunicazione?
R.: Gli altri accettavano, non si accorgevano di entrare (sia pure dialetticamente) nel sistema, e quindi vivevano tutta la conflittualità che quegli anni proponevano dal suo interno. Si diventava deputati della sinistra, docenti universitari, giornalisti di grido, funzionari editoriali (è il caso a me molto caro di Vittorio Sereni). Tutti erano, in un modo o nell’altro, nel disagio o nell’indifferenza, dentro il sistema, dentro gli apparati del sistema culturale. La posizione, drastica e precisa, risentita, veniva considerata come opposizione individuale, via via sempre più perdente e destinata alla sconfitta, che lasciava un margine di efficacia solo a un ascolto certo non molto alto. La mia convinzione, d’altra parte, è che il fervore di una ricerca in questo campo comportava e comporta il rischio di sperimentare con libertà, di provare con libertà, e magari di sbagliare con libertà.
D.: Qual è stato il suo rapporto con la politica organizzata?
R.: Dal punto di vista pratico, il mio rapporto con la politica è stato un rapporto nullo, perché non vi ho mai fatto niente di pubblico. Ho sempre ritenuto che il livello di partecipazione politica si dovesse misurare nei confronti dei problemi specifici, e attraverso i canali a me più consoni: io davo il mio contributo facendo il mestiere che so fare non meglio ma meno peggio, quello della scrittura. Scrivere o far scrivere, organizzare un sistema capillare di distribuzione editoriale autogestito, ritenendo che la scrittura stava entrando nel gioco alto, nel problema della comunicazione che si faceva via via un problema anche politico. A me non è mai interessato cercare di fagocitare dei riconoscimenti: la questione della comunicazione è stata, da un certo momento in poi, un elemento nevroticamente, drammaticamente fondamentale.
D.: Sul rapporto tra politica e letteratura, le giro alcune considerazioni di Calvino [Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, 1976]: “gli anni della mia gioventù, a partire dal 1945 e per tutti gli anni Cinquanta e oltre, hanno avuto come problemi dominanti i rapporti tra lo scrittore e la politica. Potrei dire che ogni discussione girava intorno a questo punto. La mia generazione potrebbe essere definita come quella che ha cominciato a occuparsi di letteratura e di politica allo stesso tempo. Negli ultimi anni invece mi è capitato spesso di preoccuparmi di come vanno le cose politiche e di come vanno le cose letterarie, ma quando penso alla politica penso solo alla politica e quando penso alla letteratura penso solo alla letteratura. Oggi, affrontando queste due problematiche, provo due sensazioni separate, e sono entrambe sensazioni di vuoto: il vuoto di un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto d’un progetto letterario in cui io possa credere”.
R.: Chi scrive deve ritenersi assolutamente libero, deve scrivere senza rendere conto a nessuno, e non per esercitare in proprio una libertà astratta, ma per utilizzarla in vista della partecipazione, dell’impegno diretto. Io penso a un rapporto tra letteratura e politica in termini assolutamente rovesciati rispetto al discorso di Calvino (e alla nostra generazione): la poesia, per me, è vincolata alla politica in modo assoluto, naturale, direi fisiologico. Ho sempre detto, e volentieri ridico, suscitando ilarità, che ogni volta che scrivo una poesia io parto non dalla presunzione, ma dalla convinzione che sto partecipando a rifare il mondo. Nella prima edizione di Dopo Campoformio,pubblicata da Feltrinelli, c’è un risvolto che faceva riferimento a un commento di un critico in cui si parlava della mia poesia come l’equivalente di “100 colonne di piombo versificato”. Scrissi che non la ritenevo una offesa, che si confaceva invece alle mie intenzioni, che ogni mia parola cercavo di scavarla come dentro un sasso. La scintilla da cui partivo era il conflitto tra individuo e società: scrivo perché sento che a un capo è l’individuo, all’altro è la realtà, la società.
D.: Come si è realizzato nella sua opera il confronto tra le potenzialità di un’operazione letteraria così intesa, e la consapevolezza dell’inefficacia, la coscienza autocritica dei limiti (dell’“imperfezione”) della parola poetica?
R.: Vivendo la poesia e cercando di superare la precarietà, la sensazione di impotenza (quando non di complicità), dell’atto poetico. Senza lamentarlo, rendendo inquieto il proprio scrivere: teso non a comunicare un’amarezza ma a esprimere la vibrazione di una ricerca. L’emarginazione può essere patita come un dolore, una sconfitta totale, il gioco perso con la propria vita. Personalmente questo non mi tocca. Parto dalla convinzione che un impegno reale può essere compiuto solo se non si accetta nulla dal Potere (che non propone nulla che noi non sappiamo già), e che tutto ciò che si fa, va fatto per superare le contraddizioni che sono lì, davanti a tutti. Anche nel sistema tecnologizzato e quasi invisibile, intangibile, della comunicazione odierna (dell’esplosione di internet, per intenderci), dobbiamo pensare che la comunicazione e la scrittura partono sempre da una matita e da un foglio, e da una matita che scrive su un pezzo di carta. Questo è l’atto fondamentale della comunicazione. E allora la comunicazione è data da chi parla voce a voce, giacché non si può pensare di far ammutolire proprio tutti, di abolire la vendita di una matita, di impedire la vendita della carta. Il tutto deve partire da una ovvia constatazione: che il mondo prospera, vive e si espande attraverso uno sfruttamento diabolico anche se mistificato di una parte dell’umanità.
D.: Sono passati quasi cinquant’anni dall’esperienza di “Officina”. Ha potuto aggiornare il suo giudizio su quella fase in cui si trovò a operare, tra la crisi di un mondo (non solo) culturale che stava perdendosi e l’incalzare della neoavanguardia?
R.: Il Gruppo 63 tendeva a rinnovare tutto, agganciandosi alle grandi avanguardie del Novecento soprattutto straniere (era Arbasino, se ricordo bene, che diceva che i letterati italiani, sino alla conclusione della guerra, non erano mai andati oltre Chiasso, per stabilire un provincialismo culturale che per lui era da osteggiare, da canzonare: senza capire, non conoscendo le condizioni della vita culturale sotto il fascismo). Nella neoavanguardia non c’è alcun riferimento alla guerra. Ho provato, per divertirmi, a rileggere i loro romanzi, le loro poesie, i loro manifesti “gridati” come ai tempi del futurismo: niente, nemmeno una parola sulla guerra. Quelli di “Officina”,come me, erano usciti tutti da lì, l’avevano fatta, provenivano dal fascismo, avevano subìto dei lutti, delle perdite. All’interno della rivista le rovine della guerra erano evidenti, ci si muoveva tra i calcinacci. Il Gruppo 63 si muoveva invece in un albergo con le camere ben riscaldate, i lampadari accesi, la televisione. Non è un fatto solo generazionale. Mi sembra che persino in un personaggio come Romanò, che in “Officina” è intervenuto con pagine estremamente suggestive e acute (Romanò, non dimentichiamolo, di area cattolica), il collegamento con il sangue, il cuore della storia era evidente. Si era un po’ tutti imbrattati di sangue, in un certo senso. Sul piano letterario, cercavamo di verificare i nostri collegamenti, le nervature che avevamo con la tradizione, con il Novecento italiano. È stata un’operazione appena accennata, non certo portata a compimento. Direi che molte polemiche e qualche risultato letterario del Gruppo 63 sono stati positivi. Ciò che non accettavo era il loro “smanazzare”, quell’agitarsi violento sul tavolo della letteratura, con l’intento di buttar tutto per terra. In una frana ci sono le pietre che cadono, ma anche il polverone che può offuscare la visione della realtà.
D.: L’impegno “civile” della sua scrittura si è progressivamente calato in una struttura letteraria mossa, turbata da uno sperimentalismo linguistico e da un’elaborazione stilistica assai intensa e inquieta. In quali direzioni si è articolata la sua ricerca formale?
R.: Ho sempre cercato di tenere gli occhi ben aperti su ciò che si faceva, si proponeva, in ogni direzione. Registrazione di eventi non è certo un romanzo tradizionale. Tiene conto d’un bel numero di fermenti, di sollecitazioni, di lacerazioni interne. Anche in Dopo Campoformio e nelle Descrizioni in atto utilizzo un linguaggio stratificato, il discorso giornalistico insieme al parlato quotidiano, eccetera. Ma con la cautela che mi veniva dal rispetto riferito ai miei lettori, che quantificavo in otto, dieci unità. Li vedevo naso per naso, occhio per occhio: il mio lettore auspicabile non era il lettore universitario o raffinato. Era il lettore che aveva, in quel momento, un interesse per quei problemi che affrontavo: mi leggeva, ma non mi cercava, si imbatteva in me coinvolto dall’interesse per le questioni che trattavo. Questo non mi spingeva a realizzare qualcosa di semplice, di leggibile: nei Diecimila cavalli credo di essere quasi illeggibile. L’importante, per me, è sempre stato cercare di immettere nella mia pagina le tracce della situazione convulsa nella quale si viveva, di essere denso, di porre dei problemi.
D.: Mi sembra, per concludere, e nel tentativo di operare un bilancio della sua attività, di poter parlare di una coerenza esemplare, di una conformazione unitaria e “integrale” del suo impegno intellettuale: che si esplicita nell’intreccio (esemplificato nel caso delle Descrizioni in atto, del teatro) tra il messaggio politico, la ricerca linguistica e la vita (clandestina, autogestita, “libera”) che ha destinato a quelle poesie, alla sua scrittura.
R.: A dire il vero, non mi interessa tirare una somma, parlare di risultati personali. Non mi interessano. Piuttosto, se vogliamo concludere, per definire ciò che intendo per “letteratura politica”, vorrei riprendere un’affermazione di Fortini, il quale diceva provocatoriamente che una poesia può essere politica, anche se parla di una rosa: se la si utilizza non per consegnarla a una ragazza ma per essere deposta sulla tomba di un guerriero caduto.
Bologna, 16 giugno 1996-16 febbraio 2003
* Roberto Roversi. Un’idea di letteratura, Edizioni dal Sud, Modugno 2003, pp. 211-219.
Un lavoro*
Quando nell’aprile del 1955 esce a Bologna il primo fascicolo della rivista “Officina”, Nehru è il premier indiano, Nasser è il primo ministro egiziano, Molotov è (ancora) ministro degli Esteri sovietico, Einaudi è il presidente di codesta repubblica. La nuova Giulietta dell’Alfa Romeo, al prezzo ridotto di lire 1.345.000 (circa 700 euro), cerca di raggiungere quel pubblico che “senza poter ambire alle grosse cilindrate non si accontenta più delle utilitarie” – segno quindi che si sta cercando di allargare l’area dei consumi voluttuari,così si diceva, sulla base dei primi sintomi di una promozione sociale in atto. Salk, in America, annuncia i risultati raggiunti nella lotta contro la poliomielite. Muore Einstein. Moglie figlia genero del generale Graziani, maresciallo dell’impero, da poco morto, litigano per l’eredità cospicua. Il Funeralino di De Sica inaugura il Festival di Cannes. Si preparano le elezioni in Sicilia per eleggere i deputati al Parlamento regionale (dal giugno 1951 così composto: 30 seggi DC; 30 seggi al blocco del popolo: PCI, PSI e altri gruppi; 11 seggi al MSI; 8 ai monarchici). Intanto si preparano in Italia le elezioni presidenziali e “Il Corriere della Sera” annuncia “Un siluro di Scelba alle candidature di Gronchi e Zoli”. Il 25 aprile “L’Unità” titola in prima pagina: “Celebrato solennemente in tutta Italia l’anniversario della Liberazione nazionale. Migliaia di partigiani sfilano a Genova”, però è raccolta e divulgata la notizia che a Prato i celerini hanno assaltato bastonato disperso il corteo dei partigiani a causa dei fazzoletti rossi al collo e delle bandiere al vento. A questo punto si può annotare il seguente: dai giornali e dai rotocalchi che ormai imperversavano, si ha conferma di un sentimento che è ancora in atto, vale a dire che la celebrazione del 25 aprile è legata ad avvenimenti ancor molto vicini, a cui tutti in quel tempo sono ancora legati e coinvolti; e che questo 25 aprile del ’55, per esempio, è una fune che lega in presa diretta uomini e cose alla Resistenza e li lega avendone ancora e ancora esprimendone con una violenza solo in parte placata lacerazioni, contrasti e ogni genere di utilissime provocazioni. La Resistenza è un atto e un fatto compiuto da poco, concluso da poco o addirittura non concluso, comunque è tutto dentro alle cose ai fatti alle persone come un momento irripetibile, soprattutto liberatorio, che non possiamo semplicemente classificare. Ma è da questo periodo, dall’incastro di questi anni contraddetti, che si comincia a sfaldare il grumo commemorativo che rendeva la data una scadenza non tranquilla ma certamente un momento rassicurante di “accensione” sentimentale relativa ai fatti politici accaduti. La aggregazione sociale (almeno di base) che trovò o scoprì il coagulo nella Resistenza era ancora un elemento di stimolo e di promozione; ma è da qui, intorno a questo periodo, che la data comincerà a slittare e a diventare una “celebrazione” di cose definitivamente accadute, quindi col suo rituale, col suo livellamento a una sobria oppure stanca retorica e con la contemporanea perdita o discarica di passione e di stimolo travolgente dei sentimenti – sia pure conquistando un consenso, in contemporanea, più generalizzato, più allargato ma più sbiadito. Cominciava a configurarsi una celebrazione legata alla memoria dei fatti accaduti, tenuti come esemplari e da cui si poteva dipanare una mitologia che finirà per allinearsi, di conseguenza e in ordine, agli altri monumenti nazionali, dai Mille a Caprera. Dentro a questo stacco, che risulta nella sostanza quale un mutamento di istituzioni culturali (è un momento che, per il particolare, sono accese le polemiche, i consensi e le diatribe sul neorealismo in letteratura, sul Metello pratoliniano eccetera) e che produce un sommovimento non del tutto esplicito le cui conseguenze e devastazioni si potranno valutare in pieno negli anni seguenti, si colloca la presenza di “Officina” prima, con poche altre annotazioni. Nella terza pagina de “Il Corriere della Sera” è riportata con rilievo una notizia da Londra: “Fra 25 anni l’uomo sarà nello spazio al di là dell’atmosfera terrestre […] Tale è il parere di Igor Sikorsky, celebre progettista americano di elicotteri […]” e così abbiamo la prima esplicita indicazione del gap fra conoscenza ufficiale e conoscenza reale delle possibilità e delle scadenze scientifiche. Dall’altra parte, in un ambito più ristretto e locale, notizie e inchieste coeve ci raccontano come nelle fabbriche tessili capitava di vedere il padrone (personaggio non mitico o astratto ma ufficiale, carne e ossa ancora frequentabile in quel modo) scendere nei capannoni e discutere in piedi, con gli operai e i tecnici, la scelta dei colori. A conferma diretta non di un socialismo in atto ma della perfidia mistificatoria di un paternalismo di ascendenza ottocentesca che permaneva per ignoranza delle cose e per inedia circa le necessità e le urgenze dello sviluppo e della ristrutturazione industriali. Però è vero (l’annotazione serve a stabilire i ruoli e le precise collocazioni) che nel ’55 la Fiat imposta la catena di montaggio delle 600 (la nuova auto popolare ma con la pretesa minima di una promozione in ordine alla prestazione e al comfort) come anticipazione di un miracolo economico (se vogliamo: del piccolo e breve miracolo neocapitalistico durato poche estati) che si sta preparando. Al contrario delle fabbriche sopracitate, che sono alla corda per arretratezza e per svogliatezza, la Fiat in movimento sta dando l’avvio, sollecitandolo con ogni mezzo, a quel flusso migratorio dal Sud verso il Nord (biblico, quale da un millennio non si registrava da noi) che trasformerà intere plaghe italiane, che rovescerà e ingorgherà le infrastrutture dei centri industriali del Nord, che cambierà la faccia cianotica del paese; e in un momento così stravolgente e caotico coglierà frantumato ma soprattutto sostanzialmente impreparato o comunque frastornato, il sindacato; al fondo assestato su una esplicita anche se tormentata acquiescenza al fenomeno in atto – che non veniva né gestito né tantomeno controllato. Questa corsa alla “frontiera” da un Sud contadino verso un Nord industriale (nei vari modi sopradescritti con approssimazione) non è neppure al margine controllata dalla sinistra; l’operazione avviene allo sbando, sfuggendo in ogni rivolo; nel segno di una gestione diretta, e di diretta violenza, del padronato vallettiano. Quando “Officina” col suo gruppetto comincia a muoversi intorno ad alcuni problemi sono trascorsi dieci anni dal 1945; “Il Politecnico” è chiuso da tempo, con varia dispersione dei suoi redattori-collaboratori; Vittorini, straordinario provocatore culturale, non è impegnato a una sostituzione ma “accudisce” abbastanza isolato e autonomo a I Gettoni, una collana di letteratura per Einaudi. Sembra che voglia stare un poco defilato, fuori da una mischia diretta come è quella che si svolge sulle pagine scoperte di una pubblicazione periodica. E Vittorini resta lontano anche da “Officina”; auditore certo dei problemi ma auditore mediato senza una responsabilità diretta, soprattutto senza una volontà di partecipazione. Aspettava,più generalmente; intanto gli bastava, magari con insoddisfazione, ciò che faceva in pratica. Eppure mentre “Officina” si va compiendo, con Leonetti incontravamo più Vittorini di Pasolini; né abbiamo neanche una volta incontrato Vittorini e Pasolini insieme. Questa “assenza” coglie due momenti culturali di allora che attraverso di loro, e potendolo fare, in “Officina” non si sono intersecati. Con più autorità di noi, e con una decisione nel trascegliere e proporre, Vittorini avrebbe potuto aggiungere altro peso alla tensione traslucida di Pasolini e anche al nostro lavoro meno eclatante; e lo dico nel senso di contribuire a ideologizzare un lavoro che a ogni fascicolo si svolgeva in qualche modo progredendo. Così da controllare e correggere anche, nel modo generale, il saggio sul Pascoli, che era con sorpresa lucido, anche nuovo ma che conteneva più Longhi e più Contini di quanto non ci fossero (non dico Marx) né Gramsci e neanche Gobetti. Tuttavia partendo da lì Pasolini tentava la sua operazione (la sua rivoluzione) che a me sembra non quella di stravolgere la letteratura nell’ideologia per sostituire questa a quella e poi sopprimere ma di ricaricare e ricuperare entro termini nuovi, non mistificati, la letteratura per compierla intera col mezzo dello stile; relegando o annegando la forma nell’utopia selvaggia dell’astrazione. Non continuo, e accenno appena ai vuoti politici,cioè alle svolte non dichiarate di “Officina” che è striata da questi dubbi vistosi. Alcune domande “tempestive” restavano private sia per la ingenuità dei proponenti sia per l’impaccio conseguente. Domande quali: chi parlerà, per chiarirlo una volta per tutte, del nostro vecchio fascismo dentro a cui siamo stati vissuti formati? Oggi che una forma diversa di questo fascismo si ripropone, modificata? Comunque era un fatto che la durezza inquieta di “Officina” (nonostante i suoi limiti non allora ma adesso abbastanza identificabili e il suo sforzo di acutezza molto specifico) si opponeva a distanza – per esempio – all’ottimismo de “Il Politecnico”, che nonostante tutto (cioè nonostante il gruppo eccellente che lo componeva e i suoi eccessi eccitanti di invenzioni estrapolazioni recuperi) era fragile proprio nella misura in cui voleva essere troppo pubblico, troppo aperto, troppo nuovo, troppo libero.
“Officina” distribuisce l’ultimo numero (nero anonimo ma non vile) nel maggio-giugno del 1959. Quando Adenauer, che comanda nella RTF, è a Washington da Eisenhower, presidente Usa, per confermare gli stretti rapporti fra le due nazioni, le due economie (perciò della Nato). Kruscev attacca in pubblici discorsi sia l’uno che l’altro, proprio per ribattere in pubblico e nella sostanza il peso di questa preponderante alleanza. A Roma, presso Segni al Viminale, Fassio, Costa e Lauro, i tre padroni del mare, si accordano contro le rivendicazioni dei marittimi. A Ravenna, nelle elezioni provinciali, l’alleanza anticomunista formata da democristiani, repubblicani, socialdemocratici e fascisti fallisce il suo obiettivo. In Sicilia i cristiano-sociali di Milazzo respingono l’antimarxismo come base di governo. Fellini dirige La dolce vita. Umberto Agnelli non ancora secondo padrone della Fiat e per intanto giovane principe ereditario sposa a Genova la figlia del re dei moto-scooters, Piaggio. I fatti in Ungheria dell’ottobre ’56, hanno sventrato e rinnovato uomini idee propositi nel campo comunista. Passeranno appena due anni e nell’aprile del 1961 Gagarin rientrerà dallo spazio dopo aver fatto in 90 minuti il giro della terra. Eppure il numero del 7 giugno 1959 del settimanale “L’Espresso” ha un editoriale in cui si legge: “In Italia è in corso da alcuni mesi una vera restaurazione. Un giorno dopo l’altro si liquida l’Italia del ’45 uscita distrutta dalla guerra ma capace d’un momento di meditazione e di quel coraggio proprio di chi attraversa momenti di alacrità spirituale. C’è stata la restaurazione politica. La restaurazione toponomastica è in corso in tutta Italia. La restaurazione continuerà e avrà molteplici aspetti”. Io aggiungo: restaurazione che diventerà strisciante, terribilmente ambigua e ubiqua quando la DC inventerà di alimentarsi (per prosperare ancora e durerà dieci anni) col sangue coi nervi con la polpa del PSI.
A completare il piccolo quadro dei fatti e degli oggetti memorabili, nonché delle idee e delle opere, occorre qualche altro dato, in questo caso bibliografico, per seguire l’arco di attività di “Officina” dal primo al fascicolo dodicesimo: Pasolini pubblica Ragazzi di vita nell’aprile del ’55, Le ceneri di Gramsci nel ’57, Una vita violenta nell’aprile del ’59. Fumo, fuoco e dispetto di Leonetti appare nei Gettoni einaudiani nel ’55. Poi: Dieci inverni di Fortini, da Feltrinelli nel ’57; Socialismo e verità di Roberto Guiducci, da Einaudi nel ’56; Diario in pubblico di Vittorini, da Bompiani nel 1957. E insieme a “Officina”, dentro al suo arco di tempo, le seguenti riviste più specifiche nell’intervento politico: “Opinione”, “Ragionamento”, “Classe e Stato”.
Opere notevoli, uomini eccellenti e severamente impegnati; riviste gestite autonomamente con un rigore il più responsabile. Una stagione culturale di buon lavoro, di un lavoro (non un impegno soltanto, dico cose fatte) su cui non ci si può perdere a fare giuochi ironici. Così come è capitato in fretta e per incidente voglio credere (il bla bla delle vecchiette) da parte di qualche protagonista. Quello ad ogni modo è già il passato; in quanto al futuro prossimo, mi pare proprio che a nessuno di noi conceda e possa concedere ancora un attimo di tregua.
* “Officina”, Pendragon, Bologna 2004, pp. I-VII.
Dentro la storia. La scrittura tenace e paziente di Roversi
di Fabio Moliterni
Non c’è pace nella storia, e nella poesia
che è dentro la storia.
Roberto Roversi, Dall’Arcadia a Parini
“Aveva qualcosa del camoscio, un animale che ispira tanta simpatia, ma che si lascia avvicinare poco”. Fu il musicologo Massimo Mila a parlare di Primo Levi come di un umorista, in occasione della sua morte, ribaltando attese, luoghi comuni e stereotipi ereditati dalla critica. Nel suo articolo (non un semplice necrologio)1, Mila avanzava l’ipotesi che fossero proprio la mercurialità delle radici ebraiche, il wit della sua intelligenza pratica a costituire il ponte tra l’inferno e l’assurdo di Auschwitz e la ragione illuministica, l’etica trasfuse nella scrittura di Levi. Non solo il reduce schivo e il pacato testimone della Shoah, dunque, ma anche lo scrittore esperto di invenzioni linguistiche, l’osservatore acuto della natura, una voce che se mai giocava (un gioco serio e a tratti lacerante) con gli incubi a occhi aperti trascritti dal vivo fino all’ultima riga dei suoi libri. Un esempio geniale di lettura a contropelo, un modello per affrontare controcorrente le scritture inafferrabili, apparentemente monolitiche e unidimensionali di altri autori del Novecento letterario.
Partendo da Levi, è facile pensare alle formule sbrigative e liquidatorie, claustrofobiche e monocordi, offerte da buona parte delle istituzioni letterarie alla figura e all’opera di Roversi. Sono immagini sostanzialmente gravitanti intorno ai campi semantici del monachesimo (della auto-reclusione sdegnata e coerente) o dell’opposizione moralistica risentita e solitaria. (Il moralismo è in effetti topos tra i più osteggiati dall’autore). Quando, se si volesse recuperare un ragionamento fortiniano, la consapevolezza rigorosa della propria funzione intellettuale non ha impedito a Roversi di prendere le distanze da ogni sterile discorso sulla collocazione del letterato (e del letterario); e nello stesso tempo lo ha spinto a interrogarsi sui “doveri ancora illuminati” che rimangono in sorte a ogni attività di scrittura: “Ognuno scelga il suo posto, la realtà farà la sua giustizia, la grotta del monaco non sarà, alla fine, più protetta né più pericolosa di quanto sia la barricata del combattente, non sappiamo quali parole moriranno e quali vivranno, non resta che tenersi alla breve zona certa di doveri ancora illuminati”2.
Prendiamo il dato della natura (della ricchezza) formale della sua opera. Come dimostrano le lasse dell’interminabile L’Italia sepolta sotto la neve, la scrittura di Roversi assume con l’andare del tempo i caratteri di un palinsesto polimorfo e sconfinato. Le paratie che ne testimoniano fasi e momenti storici di gestazione, ne segnalano acquisti e sperimentazioni stilistiche, si sovrappongono in un gioco mobile e sorprendente di rimandi che di per sé scoraggiano letture univoche, pacificate. E compongono il segreto di una lingua piana, concreta e insieme energica e visionaria: uno stile variato, controllato e libero, magmatico e lucido, trasparente. Si pensi al severo esercizio classicistico che il poeta matura lungo un accidentato apprendistato letterario ed esistenziale, sotto le bombe che martoriano Bologna o nella breve esperienza di partigiano e poi di reduce, e che accompagna come un sottofondo segreto l’evolversi della sua lirica, fino al poema ancora in corso.
Era una tensione al vigore antisentimentale, tragico e risoluto, che, tra Michelangelo e l’amato Campanella, epica greca e lirici tedeschi (il “finissimo” Hans Carossa), si saldava con le ricerche di “Officina” intorno alla linea antinovecentesca della tradizione poetica italiana, dal secondo Ottocento ai vociani. La durezza dell’originario classicismo si intrecciava alla natura letteraria di quello sperimentalismo civile e tendenzialmente prosastico, narrativo (i poemetti di Dopo Campoformio). Il pessimismo morale coltivato nelle letture e nelle prove giovanili si trasfondeva nelle campate dei versi lunghi ispirati a una inquietudine di stampo tragico-romantico non aliena da punte religiose (calviniste, luterane e tormentate), sempre più sospinta sulle onde travolgenti del presente, cronaca o storia.
La densità figurale, la tenuta letteraria della parola poetica, insomma, erano soltanto celate dietro il ribollente magma di una scrittura che si faceva via via registrazione, trascrizione e montaggio di materiali linguistici spuri, nell’accavallarsi di piani temporali e di strati discorsivi che spaziavano dalla denuncia più “impoetica” alla dimensione sapienziale, gnomica e didascalica, allegorica e straniante, anche sferzante (le Descrizioni in atto fino alle prove sparse degli anni Settanta e Ottanta, e oltre).
L’ironia, appunto. Amatore e collezionista erudito di stampe, bibliofilo e antiquario di mestiere, Roversi è tra l’altro cultore di una linea eterodossa che attraversa in clandestinità le storie letterarie: dall’inquieto Rinascimento in controcanto di Pietro Aretino all’antagonismo di Diderot e dei philosophes, gli “eretici” Tommaso Campanella e Giordano Bruno, la “tagliente ombrosità” di Parini e le liriche tonanti di Agrippa d’Aubigné (magari accanto ai lazzi dei Gliommeri, omaggio al napoletano Sannazaro). Siamo di fronte a una galleria di “condottieri” e di avventurieri delle lettere che culmina con la passione per la biografia e gli scritti di battaglia di Paul-Louis Courier. È un tratto, quello del pamphlétaire, che con acume Roversi trovava assente nei testi corsari di Pasolini: “Gli mancava un elemento determinante, l’ironia. La particolare stravolgente malizia che riesce a fare diventare foglia anche l’affusto di un cannone. O viceversa, naturalmente. E che ha benedetto tante pagine di Gadda”3. È seguendo questa strada che si può avvicinare con maggiore precisione il fondo oppositivo, strenuo ed eroico della sua scrittura (tra poesia saggistica e pubblicistica, teatro e narrativa), la natura scattante del suo linguaggio.
Caleidoscopica e antilirica (non antiletteraria), impetuosa e paziente, colta ed estranea per principio a ogni facile ripiegamento sentimentale, la scrittura di Roversi si dispone ad accogliere lo spettro ampio dei nostri giorni “maledetti” e “stupendi”, la totalità di un tempo oggettivo e “informe”: “la forma in tanto esiste in quanto si pone entro un altro da sé, un informe”4. Mentre solo all’ombra della negatività, dentro la storia può nascere la poesia.
Note
1 Massimo Mila, in “La Stampa”, 14 aprile 1987; poi in Scritti civili, Einaudi, Torino 1995, pp. 348-350.
2 Franco Fortini, Intellettuali, ruolo e funzione, in Questioni di frontiera. Scritti di politica e di letteratura 1965-1977, Einaudi, Torino 19772, p. 73.
3 Roberto Roversi, Rilettura degli “Scritti corsari” otto anni dopo, in “Galleria”, 1983, nn. 1-4, pp. 177-178.
4 Franco Fortini, Poesia e antagonismo, in Questioni di frontiera cit., p. 149.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: poesie pubblicate in volume
- Editore: Luca Sossella Editore
- Anno di pubblicazione: 2008