La folgore e la rosa. Ferruccio Lamborghini

Ferruccio Lamborghini è nato a Renazzo di Cento; e basta guardare una fotografia della sua casa natale, tipico forte casone della nostra pianura, buttato sopra questa terra operosa in pieno sole e senza troppo soccorso di ombre o di rii, per capire la pasta dell’uomo. E per rivedere le strade emiliane, soprattutto fino a quarant’anni fa. Strade lunghe strette solitarie impolverate, che avanzano (avanzavano) a perdita d’occhio e spingono, direi costringono a correre – prima con lo sguardo poi con le gambe o le ruote; perché là in fondo ci deve essere, c’è sicuramente una curva stretta, una casa sul fosso e poi un’altra lunga dirittura d’arrivo che si inserisce in questa linea lunare.

Dunque, la velocità come sentimento del cuore e della mente, come tensione vitale, sembra essere la componente di fondo della psicologia emiliana. Non per niente i campioni motociclisti sono molto spesso della nostra regione, essendo la moto un mezzo velocissimo e ardito che richiede esasperato spirito d’avventura e innata rocambolesca persistente fame di competizione, voglia dura di gareggiare e di vincere. La competizione dell’ultimo metro, all’ultimo secondo. E ancora prima delle moto furono i cavalli ad accompagnare questo spirito attivo e competitivo. Cavalli e motori; poi alla fine i cavalli nei motori.

Per i cavalli basterebbe con una rapida riflessione domandarsi perché in Emilia, e in Romagna, terra conflittuale e fraterna, da sempre negli ippodromi si programmano corse di cavalli al trotto, non al galoppo. Il fatto è che, a testimoniare una realtà di interessi, di umori e di passioni oramai secolari, l’avvio delle prime gare con il calesse si può collocare nell’Ottocento, con l’abitudine da parte dei mediatori ricchi o dei fittavoli di peso, dopo le fiere del bestiame – con ottimi affari in tasca e alimentati nelle personali presunzioni da buone mangiate e altrettanto vigorose bevute – di sfidarsi reciprocamente in corsa sulla via del ritorno, frustando allegramente i puledri per i vialoni solitari avvolti dall’abbraccio dei grandi pioppi che distribuivano ombra e frescura ridente.

È dunque vero che in generale la voglia di velocità, di guardarla esplodere ma anche di strizzarla in mano e di liberarla e cavarla fuori da qualche motore – o in altri modi, comunque – è sempre stata un brivido caldo comune alla nostra gente. Per esempio, uno dei fratelli Maserati, ancor prima che il nome fosse esaltato dalle sue sfolgoranti monoposto, si provò – conquistandolo – in un record su bicicletta a motore. E nella Certosa di Bologna, entrando dalla parte antica, subito si ha di fronte il monumento funebre a Olindo Raggi (il bruno centauro dal cuore leonino) e di Amedeo Ruggeri, altro campione caduto in gara.

Così anche Lamborghini, con il suo berrettuccio a visiera, è fotografato su una Topolino 500 da lui trasformata per correre le Mille Miglia del 1948. Ma per aggiungere parola e parola all’argomento appena toccato, non si può inoltre dimenticare che dalle nostre parti, più che parlare del rombo di un motore, si esalta il suono, la musica, il suo interno e miracoloso respiro.

Questi cenni, che si ingegnano di radunare trucioli esemplificativi da varie parti, tendono a indicare senza alcuna regionalistica presunzione, anche solo per la realtà dei risultati, che la Lamborghini non poteva essere pensata voluta allestita che dentro a questa onnivora miracolosa paziente pianura. Con risultati eccezionali; subito fuori da ogni norma. Macchine pensate e volute velocissime ma così squillanti e morbide che il vento appena le accarezzasse. Nella loro linea rigorosa c’era l’annuncio che in mezzo al conflitto fra telaio e aria, l’aria è stata vinta e ha scelto di essere involata e sospinta, respirata e soffiata, da quel sogno dorato che trapassa la strada come una freccia.

Non c’è quasi niente, in questo campo, e si può dirlo senza enfasi, che possa eguagliare la 350 GTV del 1963 o la Miura P 400, se non l’altro miracolo automobilistico firmato Bugatti.

Entrambe non si possono immaginare se non in corsa sulla strada; in un rapporto diretto con la polvere, l’asfalto, l’ombra irridente degli alberi, le sferrate violente del sole, il soffio delle foglie stravolte; perché le une e le altre sono progettate e costruite per lasciarsi lambire dall’aria quasi fossero avvolte da veli, e la strada sotto le ruote scorre liscia come una pelle tirata. Anche questo è molto emiliano. La bellezza che non si sottrae al bisogno continuo prolungato di toccare, di vedere la realtà in modo corposo, per sincerarsi, per controllare, per immergersi.

Eppure la Bugatti, quasi perfetta, direi che sembra piuttosto il risultato di un’arte meccanica e costruttiva dell’Ottocento; ha l’eleganza di un pensiero trionfante in una società che progredisce ed esulta; la Lamborghini sullo stesso piano per l’eccezionalità dei risultati, ha una inquietudine impetuosa e sembra, anzi è già nel Duemila. Lo scatto felino è uguale, uguali la felicità inventiva, la genialità delle intuizioni anche minute ma l’impeto che si scatena è immediatamente più sconvolgente, già attrezzato per un futuro tranquillo. Partecipe dell’epopea degli sgomenti. La Bugatti correndo sembra produrre suoni che volano, la Lamborghini esprime una violenza ordinata, ma inesauribile che riassume la totalità della velocità su terra dentro a una forma che sembra stretta nel pugno di un dio. E non è un caso, almeno a mio parere, che i risultati più alti ed emozionanti delle macchine realizzate dalla Lamborghini si possano, direi si debbano riferire alla 350 GTV e alla Miura P 400 già indicate; che hanno raggiunto quell’eccezionale equilibrio fra peso e potenza, fra scatto inesorabile e solidità di struttura; velocissime e resistenti, ma senza un’ombra di grasso. Infatti tutti gli altri modelli superano la tonnellata e mezzo, persino la Diablo del 1990 che arriva a 1576 kg; mentre la 350 GTV e la Miura P 400, fulmini di guerra con una scia di zolfo, restano sui 1196 e 1445 kg. La leggerezza, ripeto, nella sua lucida completezza, unita alla velocità pura, senza inframmittenze. Il frontale della 350, vedendolo di profilo, sembra il muso di uno squalo, in attesa, che abbia all’improvviso aperto grandi occhi misteriosi; dà il senso di una quiete impassibile ma anche di una violenza trattenuta che basta un colpo di pedale a liberare.

La Miura, più che da collezione privata è da museo d’arte (e credo sia già stata accolta). Avendola lì davanti sembra nata tutta intera da un unico clic vitale, dallo scoppio di un vulcano; e strisciandola con un dito vibra quasi dorso di un leone addormentato. Mi accade di guardarla in qualche fotografia, come ogni tanto si guarda quella di un quadro, e viene anche il richiamo visivo e il confronto con la Dino della Ferrari. Ma è appena un cenno. La Dino è più premente, morde la terra. La Miura è lì pronta ad alzarsi per muoversi sopra gli alberi e riconoscere il mondo. Sembra guardarsi intorno, curiosare, non avere sospetti, non avere rimpianti. Dimostra una pazienza, direi una compiacenza infinita. Nata non dal freddo rigore standardizzato del computer ma come l’invenzione felice di un autentico artista del nostro tempo, che traccia i segni sul foglio provando e riprovando, nel silenzio di una stanza immersa nel liscio orizzonte della nostra regione; che sollecita con duro e spietato realismo gli inventori e gli artisti geniali. Sia quelli che guardano il cielo sia quelli che tengono gli occhi fissi alla terra, con la voglia di confrontarsi. Con la Miura, per i vialoni emiliani non più polverosi, nel silenzio dell’estate si poteva in ogni istante sognare di volare su uno dei cavalli fantastici dell’Ariosto, che non avevano paura né della velocità né dello spazio né del tempo.

La Miura non è solo la vittoria di un motore ma di un sogno reale, corrispondente alla intrepida volontà di un uomo – che ha saputo unire il furore all’incandescente bellezza della rosa, quando è compatta e prima del gelo.

 

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: prefazioni / postfazioni
  • Testata: La fucina del toro. Lamborghini, uomini macchine saperi, di Fabio Foresti
  • Editore: Cappelli
  • Anno di pubblicazione: 1993
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