Su quegli anni lunghi lunghi

Qua noi leggiamo non una prosa – un racconto in prosa, un romanzo – ma un poema. E il poema a diario o epistolare sembra non finire mai e procedere più per grida che per sussulti; tanto che nella sua densità iterativa, al primo incontro un poco angustia e un poco appare (potrebbe apparire) perfino tedioso. Perché la vicenda è monocorde, tutta sfilata senza alternativa su un ribadimento di diluvio universale appena consumato DENTRO AL CUORE DI UN UOMO. Consumato e, naturalmente, patito.

Ripeto: se badiamo al primo incontro o scontro di lettura. Anche scontro, dato che registra come in atto una conflittualità dei sentimenti (di alcuni sentimenti); i quali di continuo si ritorcono per modificare via via, sia pure di poco, l’asse della comunicazione.

Il procedimento produce senz’altro un senso di oppressione affatto liberatoria; ma nello stesso tempo trascina in basso, con un approfondimento della tensione degli affetti sempre sorprendente, coinvolgente.

Non si può tacere d’altra parte (è una constatazione non marginale) che nei suoi pregi, questa è un’opera «diversa» nella storia ancora così recente e attiva di D’Elia.

Una probabile definizione esatta – e la verifica all’interno del testo a mio parere lo conferma – è data dallo stesso autore quando enuncia: non si tratta di un libro confuso, ma di un libro che può confondere.

«Confondere» sia per l’esplicita complessità iniziale (da parte del lettore) ad agganciarlo secondo una corretta prospettiva; sia perché non propone in immediata evidenza, come ho detto, nessun legame diretto con le altre opere di D’Elia fino ad oggi pubblicate.

Per esempio: mi ricordo così a mente, e spero di non sbagliare la citazione, che nel suo primo libro di versi (pubblicato da Savelli nel 1980) aveva scritto: «Ciò che abbiamo trovato / è perso per sempre… Ciò che siamo per sempre / pare trovato». Stabiliva subito una generale precarietà in atto con la suggestione di un preciso riferimento generazionale, che tutto il libro proponeva in una dialettica molto alta e drammatica dentro a una solarità contratta; una solarità, anzi, abbastanza fredda anche se non dichiarata esplicitamente; perché segnata dallo sforzo non tanto di volerne uscire fuori quanto di capire. Di capirla. Di farsene una ragione, anche a costo di dissanguarsi. La voglia drammatica di capire il mondo nella sua complessità quotidianamente contraddetta e dinamica, terribilmente esemplare, mi risultava più alta e più forte della voglia di viverlo. Il risultato era sorprendente, perché non era una poesia di testa – con la trama di tutte le possibili riflessioni – ma di nervi scoperti, cioè di tensioni e di emozioni in mezzo a questo duro cercare.

Emozioni. Infatti, dopotutto, il termine a più costante e ampia utilizzazione, lì dentro, era VITA; un percorso integrale da scoprire («Il presente è scoperto / per essere inteso dal figlio, / da un figlio che torna»).

Era il tempo in cui D’Elia, con una convinzione drammatica e intensa, scriveva: «Per questa mia generazione la poesia è venuta dopo la coscienza politica (che è stata per molti anche una esperienza umana insostituibile). Ma a differenza dei nostri padri, anche il nemico per noi è venuto prima della poesia». Eccoci allora, senza tirare il respiro, dentro al testo presente, a rimorchio di questa splendida, nel senso della sua lucidità senza fronzoli, affermazione. Vera e propria attestazione di intenti. Perché infatti questo libro è dedicato, almeno a mio parere, all’incontro/scontro con quel nemico. Che è un killer addetto a sopprimere tutte le utopie e a ridar credito, con selvaggia prepotenza, al dramma della vita consumata tutta intera in solitudine; e in un parziale silenzio che induce alla riflessione. Questo 1977 rappresenta il momento in cui il diabolico sciacallaggio su quegli anni lunghi lunghi è già messo in opera; e tutto viene cancellato e calpestato; perciò l’autore si dispone a registrare la situazione ma non a sottoscriverla, anche se gli manca sul momento ogni ipotesi alternativa e ogni peso argomentativo, fuori da questo sentimento della vita che improvvisamente si è addensato, agglomerato e preme e così sembra che costringa, induca a fare i conti solo con la realtà (e la verità) della morte. La morte, tuttavia, non come conclusione ma come presenza attiva.

In questo senso, il punto iniziale di comprensione potrebbe essere la frase: «sto morendo qui voglio andarmene a morire altrove». L’affermazione, io credo, attiene a una lacerazione della esistenza (o dell’esistente) valutata e sopportata nella sua drammaticità; ma non come atto o fatto totali; in quanto poi – senza ironia, anzi come una confessione legittima – D’Elia avverte che «la scrittura è il referto della mente»; quindi non le è sottratto neanche l’impegno a un giuoco «alto» nella disposizione di cose persone e occasioni per essere dette e significate. O anche: «tutto è rabbiosamente letteratura lì dentro – con spasimo – e con speranza».

Spasimo, leggo, e conseguente speranza sono – come dire? – consegnati alla presenza virtuale della morte.

E nell’opera in oggetto, una morte magnifica; cioè una presenza, un approdo vitale. Non una completa negazione. E neppure un pretesto metaforico; ma una verità riflessiva che diventa realtà costruttiva dentro a questo lungo respiro slabbrato pieno di inquiete domande e incertezze.

Ho detto, e ripeto, che le persone qui ci sono (ci stanno) come indicazioni succinte, senza amore; e che le cose accadono anche in una ripetitività spesso lugubre, spesso deprimente ma proprio e solo per essere raccontate.

Perché ciò che in verità trattiene (o meglio, riesce a inalveare) questo ansimante generoso impietoso profluvio di emozioni, di dolore, di preoccupazione, è la tensione di una letterarietà molto colta, significativa (significante) che ha paura realmente e impietosamente (vedi sopra) di comporsi in struttura narrativa ferma, quindi in una organizzazione culturale. E tende a sfuggire debordando ai lati, nella impossibilità di aggregarsi e di comporsi.

Al fine, comunque, di stabilire – nonostante tutto – una conclusione o un approdo. Tuttavia non è crisi o delusione della comunicazione (quella che ci è sottoposta e presentata); o più esattamente della comunicazione in poesia; ma solo una delusione lancinante dei sentimenti e delle annesse speranze – che affioca ogni tensione e scompagina le varie suggestioni e infrastrutture della nostra vita. Così si vorrebbe cessare di scrivere, perché è morta non la vita ma la paura che ci preparava e aiutava a scrivere, sottomettendoci drammaticamente alla vita. Dato che il referente non era un altro, uno fuori da sé; ma l’altra parte di sé; una ombra turbata e furente, oppure strisciante, talvolta invece solo timida, immacolata.

Il proprio doppio che la paura morta, o se vogliamo, la morte della paura ha ricomposto, sovrapposto; di modo che alla conclusione – come un riscatto incandescente o un lacerto insanguinato – su tutti e su tutto risalta una sola figura, una sola mente, un solo cuore. Quindi si ricostruisce il circolo entro cui innescare una nuova comunicazione in versi. A mio parere il presagio c’è già nel gruppetto di alcuni versi che compongono la plaquette senese Interludio, quando D’Elia con una malinconia così lucida e piana su cui la paura della morte (o della vita) scivola via leggera quasi trasumanando (il trasumanar pasoliniano) afferma: «Inizio a comprenderti, / leggera-uccelletta! – / nelle fulminanti tue / corse che imbandisci / tra gerani». Con ciò, in un modo struggente e razionale, sembra che si sottoscriva la ricomposizione del mondo degli affetti, alimentato da aneliti di curiosità e di speranza per tutte le cose.

Gli stessi aneliti espressi vittoriosamente dal filosofo sul bordo di un vulcano; non temendone i fuochi.

 

[1986]

 

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: prefazioni / postfazioni
  • Testata: 1977, di Gianni D’Elia
  • Editore: Sigismundus
  • Anno di pubblicazione: 2001
Letto 2843 volte
Altro in questa categoria: « Prefazione Se fosse tutto qua »