Una nota

I due autori dicono: poema dialogico. Infatti, uno parla, l’altro ascolta in un silenzio contratto; uno chiede l’altro risponde. Poema a due voci, o a due mani che scavano la caverna delle parole, con energia ammirevole.

Scrive Robert Walser, in uno dei suoi sottili e squisiti ritratti di scrittori (esattamente, in Altre osservazioni su Kleist): «In effetti ogni elogio è per lo più tremendamente inaffidabile». Cerco dunque di dare significazione diretta al consenso e al mio modo di avere letto e, se possibile, inteso. Così leggo, vedo (sì, anche vedo) ascolto questo testo gridato e sussurrato ma sempre come trascinato da alte onde di mare; a volte, anche accompagnato o inseguito dal suono insistente di un organo che cerca di esplorare il cielo non rassegnandosi a rendere soltanto commozione; lo leggo e lo intendo come un tormento consolatorio; a volte; e spesso invece lo sento sulla pelle dell’anima tormentato, stridulo, acuto per l’intensità della tensione speculativa; come un progredire, un avanzare di giovani corpi (in un deserto di nebbia) che cominciano a confrontarsi con la vita intesa come un grumo compatto di speculazioni lancinanti, che tendono con implacabile avidità a ricercare una strada in un paesaggio, ripeto, oltre che senza movimento, tutto bianco bianco, da paradiso terrestre folgorato da incubi e da nubi; insomma da un sogno profondamente, accanitamente condiviso.

Dico sogno, ma sogno non è. Le voci si alzano sempre con un empito ansimante; e lacerando la coltre sembra che per sussistere debbano avvoltolarsi nell’ombra notturna; perché il viaggio, questo viaggio, ma infine ogni viaggio, è sempre suono di zoccoli nella polvere, è sempre un pericolo, e può essere terribile in assenza di parole; ma, dentro e contro ogni costrizione, è pur sempre, come ho detto, necessario; e nel fondo del panorama esistenziale anche esaltante.

Viaggio, viaggiare. Un Dante e un Virgilio del nostro tempo. Non dentro all’inferno dei morti ma nell’assordante inferno della vita, sempre percosso da un franare di sassi. Domande che circondano il lettore, lo allagano. Come in una stanza senza vetri. Un ansimare di parole che risuona con una musica da organo, forte e scandita.

È a questo punto che, come lettore teneramente impaurito ma anche motivato da questo imperversare nella mente, mi rimando a un classico testo esemplare per vicinanza di suoni, seppure del tutto diverso per direzione e intenti. O forse qualche ragione in più al fondo c’è, ma ancora mi interrogo. Mi riferisco a Hopkins, non solo a Ilnaufragio del Deutschland, soprattutto a La fine dell’Euridice. Per esempio, là dove è detto: «Guarda, al piede al riccio sulla fronte, come è composto! Stringato dal dovere, intonato dalla bellezza, la pelle bruna come per brina cielo antelucano, per i raggi del sole e i turbini del vento. Oh, il suo agile dito, il suo pugno nodoso!…». Questo temere le cose (le vicende) già accadute e questo celebrare la sorte che può rinnovare la vita, dopo aver cercato di addentarla con denti che davano fuoco, sembra anche rovesciato nella scansione poematica.

 

Dunque, un Dante e un Virgilio del nostro tempo? Intrappolati nella densità di un mondo che non dà respiro? Un convulso risuonare e tormentarsi fra le alte pareti di un inferno cittadino? La sapienza del chiedere, la lucida ossessione del tendere l’arco delle parole per l’impegno di rispondere o almeno di collegarsi a quella ossessione, e intanto, aperta, la tragica ferita di continuo indotta dal sapere poco e dal volere molto, placando l’affanno dell’incertezza sulle spalle del compagno di questo viaggio nell’inferno poi nel purgatorio delle parole. Compagno o maestro? Un domandare che richiede risposte che sono invece altre domande (collegando un filo sottile a un filo sottile) e intanto il paesaggio, almeno a me, pare che si sciolga da quella bianca opacità a cui mi sono riferito per travolgersi fra o dentro un paesaggio martoriato (forse aggredito) da una guerra ancora in atto o appena conclusa. Ho, per un lungo momento, anche questa impressione (le impressioni si avviluppano, in questo testo molteplice e avvincente). Poi, quasi modificandosi nel quadro, il paesaggio è anche popolato e decorato, come un piccolo codice prezioso, da animali, quasi un museo di lacerti che danno una luce acutamente torbida al panorama, adesso aperto, sconfinato, non più contratto o ritratto, di nuovo senza muri, quasi fosse soltanto sognato, neanche sperato.

Talvolta, in mezzo a queste variazioni visualizzate, c’è l’esplosione di un singhiozzo, come uno sparo; talvolta invece una tenerezza (non dolcezza) che intendo tesa a spianare la strada verso una verità, una possibile verità, nelle risposte vicendevolmente rilanciate. La verità della vita? «Dove il sole muore noi emigriamo».

«Può esserne insensibile un poeta?».

«La fame ritrova la sete…».

«Ubriacando di parole anche il vino…».

Domande a riscontro (due voci, sempre) sui malanni (sul male) del mondo, del nostro mondo, quello che vediamo con le palpebre e tocchiamo con il dito. «Preparati a leggere i segni / dell’abitatore dei ruderi». «Nell’attesa io rinasco». «Sedeva sulla riva di una pozza quel nudo gabbiano». «Questo piccolo corvo di stagno». «Quel che so è che mi cerco / e non mi trovo». «Mia anima intollerabile, prua / in perenne moto errante». «Quel che serve è l’antico coraggio / del pellegrino, l’olfatto del cane /e la pazienza di questo cammino…». «Non ho formula né bordone che ci salvi, / ma cadendo, vi sia una spalla nel rialzarsi…».

Sembravano al lettore note a margine, nel progredire del testo abbastanza compatto; in effetti, verso le pagine finali (una decina) c’è in condensato un voluto speculato e forse inevitabile rallentamento nel ritmo che direi (positivamente) «forsennato» del testo; una immersione, un lavacro nell’acqua, quasi che non si fosse placati ma, nel gran turbinio, si cercasse ancora di navigare remando verso una luce (scorporando una rabbiosa inquietudine) dei sentimenti.

Mi consegnano, in questo duplice aspetto scolpito o graffiato, i due autori, il resoconto coinvolgente delle loro formidabili impuntature e dei loro iniziali (concisi) trionfi. Continuate a dire le vostre domande, a pronunciare in poesia le vostre risposte. Il poema non è ancora finito. Non può finire. Non deve finire. Sono qua e vi ascolto.

Devo ascoltarvi. Voglio ascoltarvi.

 

 

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: prefazioni / postfazioni
  • Testata: Corrispondenze ai margini dell’Occidente, di Loris Ferri e Stefano Sanchini
  • Editore: Effigie edizioni
  • Anno di pubblicazione: 2011
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