Il miele e il veleno
Ne L’uomo parallelo Tonino Guerra ha scritto: “La mia è una linea penetrante, un segno che dà una sensazione di profondità. Potrei parlare tre ore su qualsiasi segno che lascio sulla carta o sui muri”.
Questa sua capacità di proliferare approfondendo; direi, la tensione di superare lo schema del testo parlando e di prolungare il racconto con precipitosi fantasiosi astutissimi dettagli (suggeriti dal cuore? piuttosto, dagli occhi della mente) sempre allarmante, coinvolgente, sorprendente; la definirei come inevitabile moto di una disposizione che è in bilico fra l’intenerimento supremo e la più sfacciata, la più armata malizia (spesso sotto i panni di una disarmata semplicità).
Guerra vuol definirsi, tende sempre a definirsi poeta contadino; poeta e contadino; con la libertà ma anche con tutto il sospetto quotidiano che questa disposizione consente (la vigilanza costante, l’attenzione continua della cultura di campagna, che non concilia mai il sonno). È come ci fossero sempre le cicale vicino all’orecchio durante il giorno, e i grilli implacabili durante la notte. Una cultura quasi spenta e di cui Guerra raccoglie (è un atto compiuto e ripetuto, non la presunzione di un proponimento) e trattiene sulle punte delle dita gli ultimi autentici fuochi prima del silenzio. Fuochi che sulle dita bruciano; anche solo a raccontarli.
Ma non ho alcun mandato, specie in questa sede, per stendere il consueto soggetto su un autore che non finisce di stupire proprio perla sua imprevedibilità (mentre a livello ufficiale sembra già osannato e incalcinato come una statua a cavallo). Nessun neo; e perfino angelicato, a leggere pagine e pagine del volume miscellaneo collegato alla mostra a lui dedicata nella Repubblica di San Marino, del 1985. Semmai mi propongo di dichiarare alcune considerazioni maturate nel corso della frequentazione, sulle pagine, di questo autore molto provocante. E assai poco rassicurante, a mio vedere.
Ma intanto, muovendo da un orizzonte più allargato, mi piace trascrivere un gruppetto di pagine, forse già conosciute e pubblicate altrove, che ho trovato riportate in una bella tesi di laurea discussa a Urbino nel 1970, da Enzo Carichini. È la parte di un diario, definito inedito, del dott. Gioacchino Strocchi, che scrive dell’incontro con Tonino Guerra mentre erano avviati in campo di concentramento, nel 1944; e poi in Germania.
5 agosto 1944 – …a mezzogiorno usciamo dal carcere di Forlì. Nel pomeriggio sopraggiunge un grosso contingente di rastrellati del Casentino e del Riminese. Familiarizziamo subito con alcuni del Riminese; uno di questi è Tonino Guerra. Non si dà gran pensiero per questa avventura. Canta a squarciagola e declama versi di Stecchetti (Olindo Guerrini)
…8 agosto – …Campo di concentramento di Fossoli… giungono da tutta l’Emilia altri contingenti di rastrellati; tutti malridotti e scalcinati come noi… Tonino continua a far chiasso per tutti e canta…canta spesso un motivo nostalgico che rimpiange la partenza di una rondine, la rondine più bella, che risuona nel mio spirito come una eco benefica.
12 agosto – …(Verona)… ci conducono alla stazione ferroviaria…, chiusi in un vagone bestiame, il caldo e il fetore danno una spossatezza indescrivibile…, con le sue battute spiritose Tonino tiene sollevato il morale di tutti. Restiamo in quel vagone fino alle ventitré del giorno successivo. Il caldo, il sonno, la sete sono tremendi…
15 agosto – …alle quindici un autobus ci trasporta a Leverkusen.
17 agosto – …alle diciotto scendiamo alla stazione di Troisdorf.
6 settembre – …molti amici di baracca si illudono che la guerra stia per finire a breve scadenza… gli amici romagnoli li vedo raramente, e soltanto di sera; alcuni, addetti ai lavori notturni, non riesco a vederli mai. Tonino, per risolvere il problema della fame, aveva in programma tre o quattro fidanzate tedesche; ma ora non sa decidersi a mettersi all’opera. La fame, la nudità, la durezza del lavoro, non hanno spento, però hanno attenuato moltissimo il suo spirito.
18 dicembre – …prima di raggiungere il campo, mi imbatto in Gino R… È diretto alla fabbrica. In pochissimo tempo tutti gli amici che lavorano nelle varie officine, sono informati del mio ritorno. Il primo a farsi vedere è Tonino. Per venire subito dice di aver rimandato l’appuntamento con una ragazza tedesca. Ora è a posto! Non fa niente. Questa sera deve portare un pacchetto di frutta e dolciumi, regalo natalizio di una ragazza tedesca. Passa la giornata dipingendo in una baracca alla periferia della fabbrica e i tedeschi fanno a gara a comperare la sua produzione artistica…
26 dicembre – …Oggi siamo senza pane…
31 dicembre – …Dopo il bombardamento siamo relegati nel campo. Vita durissima: si mangia una volta al giorno, alla sera, quando ce n’è; manca l’acqua e la luce… le baracche sono molto fredde. È incominciato a nevicare…
8 gennaio 1945 – …Nevica quasi tutti i giorni; ma non fa molto freddo… Tonino, dietro mio incitamento, s’è messo a lavorare di gran lena: scrive poesie di ispirazione paesana e familiare. Peccato che le scriva nel dialetto del suo paese, così aperto!… mi legge le sue poesie la sera dopo cena (lo stomaco non è mai gravato da troppo cibo e permette al cervello di lavorare benissimo in qualsiasi ora). Gli amici romagnoli approvano incondizionatamente, ma dicono che nessuna parola di Tonino batte la favola che ho scritto io precedentemente per muovere l’amico a scrivere. Ha per titolo La vecchia dei tre capelli: una cosa da poco, ma agli amici è piaciuta moltissimo. In tutte le poesie di Tonino trovo qualche cosa da criticare; egli non se la prende: sa che lo prendo sul serio e, dopo le nostre discussioni, a volte anche molto vivaci, corregge, modifica, rifà da capo. Il suo stile è impressionistico. I concetti si susseguono legati da un filo tenuissimo e si presentano al lettore con balzi improvvisi e rapidi.
10 febbraio – …Un gruppo di italiani lascia il campo e partono anche Tonino, Erio e Alvaro.
Io e Tonino da qualche settimana scrivevamo con grande fervore in dialetto romagnolo; la sera leggevamo ciò che avevamo scritto e facevamo le critiche del caso con grande semplicità e sincerità. C’illudevamo in questo modo di vivere nella nostra pianura soleggiata, dominata da colli a noi così familiari. Così terminava una delle ultime poesie di Tonino:
che, ’d nota, la rumagna la va in fôm
la dvȇnta zil, e’ zil dal noti beli,
e San Marȇn l’è una campana ad steli
che, in sem a e’ car, la speca tra ch’i et lom.
Ed ecco la traduzione di questi versi:
di notte, la Romagna va in fumo
diventa cielo, cielo di notti belle
e San Marino è una cappa di stelle
che insieme al carro, spicca tra gli altri lumi.
Questi ultimi mesi, sebbene tormentati dalla fame, dagli allarmi, dai bombardamenti e dal minacciare continuo del fronte non lontano, sono stati i meno brutti della mia deportazione. Ora tutto è finito!
10 febbraio – …Tonino, Erio ed Alvaro sono passati da Troisdorf fuggitivi dalle retrovie del fronte. Non è stato loro permesso di entrare nel campo, perché ora sono in forza presso un’altra organizzazione. Io non ero nel campo e non ho potuto vederli.
2 marzo – Il fronte si sente vicinissimo. Nel lager di Siesburg si sta malissimo: lo apprendo dal biglietto che trascrivo per intero inviatomi da Tonino:
Carissimo dottore,
come ha saputo, ieri siamo passati a Troisdorf. È stato un vero peccato non esserci potuti salutare.
I nostri venti giorni di lavoro nelle retrovie sono stati tremendi! Ieri sera, dopo quaranta chilometri di marcia, siamo giunti a Siesburg ove ci hanno alloggiati nel più brutto lager che io abbia mai visto.
Leverkusen era una reggia! Si dorme in terra, fra gli sputi. Avremmo tante cose da dire, ma siccome il latore della presente ha fretta, sono costretto a terminare.
Mi pare si definisca bene fin da allora la particolare vitalità di Guerra, che si traduce nella sua scrittura; alimentata in prevalenza da una curiosità insaziabile, che dal generale tende a rovesciarsi, direi a precipitare nel particolare.
Ho sotto gli occhi la trascrizione delle sue lezioni di sceneggiatura tenute nella Repubblica di San Marino alcuni anni fa (lezioni che continuano ancora). Alcune affermazioni molto motivate all’internodi discorsi specifici riescono a suggerire altri tasselli per ribadire questa impressione. Dice: “Io preferisco una visione inventata, a qualche cosa d’altro, perché se io sono un artista, devo dare il mio timbro a questa cosa qui… La realtà va ricreata, va ridata. Io non posso fare com’è, perché com’è la dà la televisione, è molto importante dare uno stile a una cosa. Se non c’è lo stile non c’è niente”.
Certo, quasi a contraddirmi immediatamente, da un’altra parte dice, con riferimento al dialetto: “Non voglio niente. Io conosco bene questa lingua, mi esprimo bene in questa lingua e sono aiutato da tutti quelli che parlano questa lingua. In più, godo il sapore di sentire una parola in dialetto; sento dentro questa parola tutto il passato che si è accumulato in quel suono, in quel rumore… Tutto quello che hanno fatto i nostri vecchi è una cadenza dentro questo suono e questo linguaggio”. Direi: una cadenza dentro al suono del linguaggio, in realtà. Un’aggiunta di squisitissimo umore nella vibrazione di quel suono “che inventa”. Ame sembra, ripeto, che si proponga non lo sgomento di un commiato ma l’inquietudine precipitosa per avvenimenti ancora tutti da accadere. Guerra non è partecipe né spettatore di un mondo che muore. Guerra sostituisce il mondo che non c’è più nella sua terra, con un altro mondo più vero e autentico nella sua fantasia. Non il mondo che c’è stato e non c’è più, ma il mondo che non c’è ancora più e che dovrebbe invece esserci ancora, che ancora dovrebbe venire. Un evento; non una partecipazione a un commiato. Un mondo che si può prevedere e illustrare con la fantasia.
Le api di Tonino Guerra non sono api di campagna ma api d’oro; non fanno un miele (il miele) da conservare in un vasetto sopra lo scaffale, ma un fiume di miele come un’acqua che corre verso il mare; il Po che si volge dolcissimo e profondo verso un mare delle meraviglie. Non c’è, non la sento, non raccolgo la nostalgia reale di cose perdute(nonostante le garanzie dell’autore); sento invece la fame vera di cose lida venire, ancora da venire. La sua poesia non è un commiato ma una proliferazione d’affetti del desiderio; una continua e poco tranquilla, nonostante le apparenze, aspettazione. Mi commuovo poco, leggendo Guerra, perché ho paura, dietro la pagina, di bruciarmi le mani che reggono il libro o gli occhi che leggono. Come se, alla fine, potesse o volesse sortire dalle righe a stampa, ergersi e chiedermi se voglio vendergli l’anima. Allora mi dico: altro che miele, qua è in giuoco l’inferno, oltre che dell’autore, anche del lettore. Un po’ di inferno, almeno. Potrebbe essere il Tonino Guerra descritto con parole assai fini e gentili da una riga di Francesco Fuschini: “C’è Tonino e Tonino: quello dei libri e quello con i baffi e gli occhi che guardano in blu”. Aggiungerei il rosso a quel blu tutto di cielo, e il quadro davvero corrisponde.
Per fortuna queste tavole, che compongono l’opera che in una veste editoriale di squisito rigore qua si presenta, tendono a confermare, almeno a confermarmi, quello che speravo e credevo e che ho appena annotato. Cioè, che Tonino Guerra sia un poco meno buono e gentile dell’oleografia ufficiale; e che gli si scarichino addosso, travasandosi nella scrittura, una buona dose di umori neri, che rendono sotto sotto, da percepire in controluce, vibrante e sconnessa, tutta in movimento e un poco sulfurea, la sua pagina.
Sono disegni di quarant’anni fa, e fatti per un libro che potrebbe sembrare lontano le mille miglia dalle corde e dagli interessi di Tonino Guerra, che si firmava ancora Antonio: Venti secoli di bora sul Carso e sul golfo; una narrazione storica di Fabio Cusin per le Edizioni Gabbiano di Trieste. Cosa c’entra, meglio, cosa c’entrava Guerra con la bella lucida e dolente città per lui così lontana? Alla domanda allora non avrei saputo rispondere con prontezza; oggi forse mi riesce. C’entra, risponderei, come con la Russia o con la Val Marecchia. Vale a dire, perché è un posto del mondo, dove si può fare il nido, durante un viaggio (un transito) e lì inventare un milione di storie; e dove si può disfarlo dopo il riposo goduto. Un incontro e una sosta nella vita. Durante questa pausa, o questo incontro che è prolungato e goduto fino alla completa consumazione, Guerra si diverte, si impegna a capire; e dopo avere capito o partecipato, si impegna a distruggere e a reinventare. Rimette in moto la fantasia tutta intera e sminuzza, ritaglia, ricompone, cancella quasi partecipasse a un banchetto della storia o della vita. Basta guardare la celere scomposizione di ogni dettaglio, che non riesce a mantenersi integro in nessun caso. Queste tavole, almeno al mio occhio, hanno il breve segno dilacerante di chi vuoi graffiare; mail graffio poi non cade, non si annida dentro l’idea della cosa narrata, ma proprio dentro alle singole persone protagoniste. Sicché la storiaci viene presentata visivamente come fatta di mezze pietre che volano; sbrecciata, incalcinata e che sta per cadere a terra. Frantumandosi ancora. Qua le pietre sono una impietosa disperazione dietro all’ironia del sorriso. Come una spada nascosta sotto il cuscino di un sovrano. Ho idea, già da me espressa, che Guerra stia per passare, come da una riva all’altra di un fiume, dal miele al veleno. Guardando bene queste tavole così accentrate e comunicanti, mi sembra che si stia preparando a questo, con cauta malizia, già da quarant’anni. Per lui non è mai tardi, vivace e ossessivo sulle cose com’è.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: prefazioni / postfazioni
- Testata: L’impiccagione dei pesci grossi, di Tonino Guerra
- Editore: Il Girasole
- Anno di pubblicazione: 1991