I poeti volano coi piedi per terra
Forse non c’è modo rigorosamente tranquillo, o diverso, per leggere Scandurra; non solo per questo libro, dico, o per un altro suo libro isolato (fra i belli e coinvolgenti che ha già pubblicato); ma per tutte le pagine e pagine messe insieme e in fila che ha scritto negli anni (e tengo presente che si parla di un autore ancora giovane non di un vecchio). O forse un modo c’è congeniale, azzardo qua in principio prima ancora di entrare nel merito; ed è quello, così almeno a me pare, di accettare fin da subito un incontro-scontro e di considerarsi ritti in piedi in una sorta di campo dove una battaglia è avviata e ha preso corso sicché intorno e sopra e sotto esplodono colpi e si accendono vampe e si odono voci che sorgono e sono voci severe, per nulla tranquille. Qua insomma, come dicevo, di un qualche combattimento; ma di uno sconto aspro quotidiano da cui ogni facile pietà è bandita e accompagna con inesorabile necessità tutta intera la vita. Infatti la sua parola è come uscisse una per una da un antro oscuro e si protendesse, senza fronzoli e generiche incertezze, a colpire oppure a dilacerare con una lucida paziente insistenza, la torva o fittizia scenografia di un mondo che si contorce. Anche il lettore, quindi, deve attendersi di ricevere, e riceve, il dono (l’invito, una amichevole sorprendete aggressione) di questa (o di una) pazienza generosa, e disporsi ad accettare l’invito e a collocarsi all’interno di questa organizzata struttura politica, dove soffia il vento di scontri violenti, e impietosi come ho già detto; lasciandosi con convinzione travolgere da una densità alterna e composita che lo accompagnerà, questo è subito vero, fino all’ultimo respiro della lettura. E davvero, in questo incontro-scontro, che si erge come un tormento sempre ripetitivo e sempre deflagrante, la parola diventa vittima dell’angoscia dell’intelligenza, e nello stesso momento diventa assassina di ogni turpe desiderio di conservazione e sembra mettersi in viaggio per cercare (e semmai trovare) le proprie avventure. Anche il gesto correlato che l’accompagna è un killer ma è anche carico di brividi vitali che non si spengono. Elargisce forza, ripeto, ma anche, e talvolta è un’aggiunta preziosa, una sottile e vibrante ebbrezza sapienziale, che assembla le pagine per allestirle, stringendole fitte, un propulsore di continue sollecitazioni, di continue emozioni, di continue provocazioni. Tante recenti opere di poesia, mi riferisco a oggi in Italia, spesso di accurato o accorto livello conclusivo, cercano tentano insistono su percorsi assolutamente diversi, su percorsi solipsistici; preferendo per cautelarsi, o per difendersi (talvolta anche per rabbiosa e straziata convinzione della lacerazione, che sembrerebbe inesorabile, del mondo), confrontarsi con lo specchio alle volte rilucente e alle volte insanguinato come da spine nel cuore; là, dove attestati e in attesa si depositano i carichi dei buoni sentimenti; che spesso irrompono, cercando o quasi esigendo, un po’ d’ordine e un po’ di franca lucidità. I testi di Scandurra, al contrario, tentano, come sono disposti, di tramortire l’avversario autoreferenziale con una insistenza spietata variamente disposta; avendo il proposito di infrangere con la parola scritta (che lì ferma rimane) il muro altrimenti soltanto graffiato dalla vita. È fondamentale, nella creazione (direi, nella vocazione) di questi testi non direttamente riferibili ad alcuna linea poetica in atto e ad alcun maestro laureato, anche l’impegno del lavoro pratico quotidiano dell’autore. Dico lavoro e intendo un impegno di dedizione totale. Infatti, come già Scotellaro al suo tempo ormai leggendario eppure vicinissimo per l’epica esemplarità esistenziale e artistica, si è fatto politico; si è dedicato a fare l’amministratore della cosa pubblica, di un Comune, impostando e intanto anche promuovendo in molte occasioni progetti e iniziative sociali necessarie e quindi urgenti. E sempre sul terreno del progettare e del fare e del continuare a fare, ha avviato con raffinato rigore e grande pregio una attività editoriale; chiamando a raccolta autori che condividono la certezza che il poeta, che gli artisti, gli intellettuali insomma e tutte le persone motivate, non devono soltanto volare. Si percepisce bene, nei suoi versi, questo sentimento vibrante di conoscenza della fatica, del fiato grosso che consegue, l’amarezza e talvolta la squillante incertezza dell’attesa di fronte agli atti appena avviati e poi l’intima esaltazione nel riconoscere il giusto progredire delle azioni, con il conseguente obbligo di non dirottare verso porti di facile o di estraneo approdo. Un obbligo quindi poesie totale, sostenuta da un forte impeto morale; un obbligo per il poeta coinvolto sempre a dover sopportare e a soppesare le contraddizioni, le continue verifiche, i prolungati riesami che tratteggiano il corso di questi anni, il corso della nostra vita. Preso, coinvolto, umanamente sconvolto da questo vitale ma anche aspro insistito moto conoscitivo che è alla base della sua poesia, il lettore, addentrandosi nel testo (nei testi), s’accorge di essere accompagnato da una voce che riesce a suggerire il modo per sostenere lo scontro o l’incontro con le diverse facce del mondo. Il quale cammina e nel suo moto travolge impietoso infuriato e drammatico. E “tutto questo” è annunciato affermato incalzato con una successione vigorosa in ogni testo, comunque disposto.
Ecco, ho il ricordo, per esempio, da una sua raccolta del 1998, intitolata “Criteri di fuga” la poesia “Ci prende all’improvviso”, che qua trascrivo per intero, perché utile a confermare e confrontare le mie parole:
“Ci prende all’improvviso,
sapiente, scaltra, risoluta,
ci trafigge nel costato.
Cerca complicità imperdonabili
come giocare col filo di luce
che taglia la ringhiera o soffocare
con perizia il gatto o aprire
lo sportellino della gabbia.
Scava con testarda compiacenza
smentendo ogni esattezza
per appropriarsi di filtri e di refusi.
Ci stringe ancora oltre
mentre gli angeli maturano riscosse
per il tempo passato ad espiare”.
È una poetica di ampio rigore che non consente cambio di rotta; così l’ho letta.
In queste pagine, per esempio, un altro testo in successione:
“Senza ruoli di guardia
cani vomitano sulle balaustre;
per tanti editti
promulgati a voce aperta
si scongiurano cedimenti,
si aggiustano le apprensioni
per la riuscita del programma.
Buttando l’osso oltre il muro
si costringe al salto”.
E in fondo all’ultima pagina:
“La fronte alta resta il punto più esposto”.
È la conferma di una poetica che è forte nel suo dire.
E nel suo fare.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: prefazioni / postfazioni
- Testata: Il bersaglio e il silenzio, di Angelo Scandurra
- Editore: Passigli
- Anno di pubblicazione: 2003