La tenerezza vitale di Pasolini

Sulla sua faccia, sicura e furente, dissolvenza.

(P.P.P., San Paolo, pag. 72)

 

Ripeto in breve e con convinzione quanto ho scritto in occasioni recenti, appuntando alcuni problemi nei quali Pasolini non solo era coinvolto ma che agitava con la foga di un protagonista.

1. La tenerezza vitale di Pasolini è stata continuamente aggredita dall’arroganza di un tempo che non la tollerava. È infatti incontestabile che Pasolini fu escluso dal suo tempo, anzi fu tenuto escluso e di continuo ribattuto con durezza e con risentimento ogni volta che proponeva un contatto o un’offerta di collaborazione, mettendo sul tappeto la propria rabbia di conoscenza. D’altra parte è vero che Pasolini subì il dolore di questa esclusione come un’offesa che lo sopravanzava ed era fatta alla ragione e alla purezza (intesa come giovinezza) della vita.

«Il fondo del mio carattere (è Pasolini che parla) non è il malessere, bensì la gaiezza, la vitalità, e questo io paleso non solo nell’opera letteraria ma nella vita stessa. Intendo per vitalità quell’amor di vita che coincide con la lietezza. E gaia, vitale, affettuosa è nell’intimo la mia natura: son le continue angosce oggettive che ho dovuto affrontare che hanno esasperato gli aspetti del mio malessere». Un contrasto, una esclusione: una tensione emotiva nevrotizzante, dialettica, che si esercitò fino dai primi atti ufficiali di questo autore. A partire dalla vicenda friulana che lo vide conseguentemente: a) emarginato nella sua terra; b) contrassegnato fra la sua gente; c) espulso dal partito nel quale militava. Vicenda che si può definire atroce soprattutto per i bassi risvolti di una polemica rissosa e paesana (fra cellula e sacrestia) che l’avevano suscitata e alimentata e che lo costrinsero alla fuga verso Roma. Una fuga lungamente senza ritorno. Dirà nel 1965: «Son tredici anni che non capito in Friuli, se non per fughe di un giorno. Non ne so più niente».

Questo episodio è il momento nodale nella bibliografia di Pasolini e si aggancia alla morte del fratello partigiano. Pubblicamente vilipeso come corruttore dei giovani, Pasolini sottostava all’improvviso al saldarsi di una duplice condanna. Una era la definitiva esclusione da parte cattolica, che lo considerava un transfuga irrecuperabile e lo contrastava come un doppio avversario; la seconda, quella d’essere considerato un inquinato da parte comunista. La sua omosessualità, in quella Italia dai codici tradizionali, spaventava e indignava. E il moto di riflusso continuò fino all’impatto con il primo romanzo di Pasolini: Ragazzi di vita; contro il quale buona parte della critica marxista si esercitò in un rifiuto violento, moralistico, poco argomentato. E poco convincente. D’altra parte a me è sempre parso che il marxismo di Pasolini era una sua invenzione. Voglio dire: per fortuna. O si può dire meglio: era una sua personale rivelazione. La componente mitica (o mistica) della straordinaria intuizione o, se si vuole, dell’ansiosa invenzione marxista di Pasolini, è stata poi una connotazione caratterizzante depositata ne Le ceneri di Gramsci e incanalata nelle opere seguenti. Ma già ne Le ceneri il marxismo è ricerca di una innocenza perdutasi in generale e che va ritrovata a ogni costo per riappropriarsene con una fame privata, tutta intima e straziata. Quindi è ricerca di verità sociale più che di giustizia sociale – e nella verità è compreso anche il capire.

2. Dunque: bisogno continuo di innocenza. Ma non tanto di una innocenza della memoria (per le cose e i fatti già accaduti), quanto di una innocenza delle cose; e delle cose che stanno accadendo o stanno per accadere. Riportarsi e paragonarsi all’ordine della natura. Tale ricerca si traduceva in una sperimentazione vitale continua, ossessiva (la sua insaziabilità nel fare, nel cercare, nello scrivere, nel parlare, nel non rifiutare qualsiasi pubblico contatto. Dirà: «Questo dare accade mio malgrado, per le vie che non sono tipiche dell’estroversione, e inconsciamente. Alcune forme esibizionistiche ci sono evidentemente in me, ma in quel profondo che non implica responsabilità; fanno parte dei miei traumi, della mia psicologia patologica e io non le domino»).

Quindi il marxismo di Pasolini (qualche volta? spesso? sempre?) è anche invenzione di questa innocenza; la sua continua ricerca e il suo continuo rimando. Conseguente è anche il suo bisogno affannoso di definirsi, per la necessità mediata di darsi un appiglio. «Sono, come dire, gramsciano. È una definizione possibile? Comunque la mia indipendenza non è né voluta né amata; è coatta e dolorosa. Vorrei poter scegliere», scriveva in una dichiarazione del ’55. Altrove, e in quegli anni, si definiva ideologo e poi marxiano. Ideologo, quindi disposto più a definirsi per discutere che a discutere per definirsi. Ma è dalle pagine tutte conclusive de Le ceneri di Gramsci che si ricava una descrizione sotterranea della rivoluzione di una attualità, a mio parere, sconcertante.

3. Ho detto: tenerezza vitale. Ho detto: ricerca di innocenza (una ricerca continua, ansiosa, per trovare una possibile felicità nell’ordine di questa innocenza senza strazio e senza ferite). Adesso aggiungo: una memoria ferocemente assolata, sempre in piena luce, per gli anni giovani in quel posto del Friuli e per gli anni della prima maturità; una dolcezza per questa memoria, che si era ormai trasformata nella disperazione. Non in una disperante disperazione. (Lo so anch’io che l’indicazione, così, è soltanto sommaria).

Uso due aggettivi per indicare quella dolcezza, perché essa era sfaccettata, varia, ilare ma anche incenerita per l’ombra sfuggente di se stessa; perché cercava sempre e inventava, scopriva, ascoltava, contemplava; era complicata oppure libera e senza una nube; in contrasto continuo fra una grande liberazione e una nuova oppressione. Uso invece un solo aggettivo iterativo per la disperazione perché era allo stato puro (quanto di più terrificante può capitare a un uomo). Tale disperazione non consente neppure il suicidio – perché il suicidio, in questo modo, è una liberazione ed è la scelta di questa liberazione – lascia soltanto l’attesa della propria morte o di essere magari un ucciso in un modo ignobile: dalla vita, dalle cose, dal peso di un male che preme.

Questa attesa è stato il momento che ha reso terribile ed esemplare l’ultimo periodo della vita di Pasolini; carico del peso di un insegnamento pubblico e di sollecitazioni generali di cui il tempo gli darà senz’altro atto. Oggi l’insieme delle cose compiute e il respiro dell’uomo sono troppo vicini per consentire un giudizio libero, non vincolato. La faziosità e magari una scriteriata eccitazione sono il connotato della cronaca. Anche quando la cronaca si finge attenta e scuote perfino le campane per un improvvisato giubileo. Non è questo che si deve a Pasolini. Si deve invece ristabilire questa semplice verità: che nella cultura lo stato d’assedio è permanente. E considerare, in generale, l’uso e l’abuso che il nostro tempo fa dei personaggi illustri, mescolandoli e scolandoli in ogni modo, così che la manipolazione alle volte neppure affiora mentre i soggetti in questione sono scorporati e ridotti in briciole. (Come non invidio Pasolini non invidio neppure Fenoglio, per esempio, in quanto la buona vita di entrambi è diventata o sta diventando il surgelato per le sarabande dei gabinetti universitari di filologia contemporanea. Io voglio soltanto cercare di capire e via via discutere).

4. L’uso e l’abuso, secondo la norma, inserisce di prepotenza l’intellettuale al centro di calcolate pressioni o di piccoli ma precisi ricatti. Il così detto Potere ha bisogno dell’intellettuale solo e in quanto ottiene, alla fine, la facoltà di strumentalizzarlo; o una delega; oppure, se questa delega non c’è ancora, una promessa di poterla presto ottenere. La strumentalizzazione dell’intellettuale (l’uso esplicito della sua collaborazione e del suo servizio) si svolge attraverso operazioni e atti codificati, quindi nell’apparente ambito di una libera scelta; egli potrà e dovrà inserirsi nei canali della comunicazione gestendoli con una libertà apparente o magari con un disaccordo apparente nei riguardi dei codici ufficiali; importa solo che la gestione dell’operazione resti in mano di chi può o potrà provvedere a restringerla o a interromperla. Credo che Pasolini abbia ottenuto una di queste concessioni di larvata autonomia, o di indipendenza a doppia faccia, all’atto della sua collaborazione al Corriere. Credo anche che questa concessione, corso degli anni ’50 e ’60 gli sarebbe stata negata. È la fase del regista che apre una feritoia all’opera del saggista e del poeta.

Ad ogni modo anche l’uso di questa collaborazione fu manovrato con la tecnologia organica al sistema. Ci si limitava a far corrispondere, a ogni intervento di Pasolini, un altro del tutto contrario, oppure che lo correggesse, oppure uno limitante, oppure uno strafottente – da parte di baroni, notabili o personaggi credibili.

Pasolini pativa il peso di questa situazione contraddittoria (normalmente contraddittoria), secondo la quale da una parte era accettato e magari anche genericamente o tatticamente adulato; mentre dall’altra era tenuto in una situazione di emarginazione che lo legava ai giorni del Friuli. E così era: presente a tutto, in fondo egli gestiva niente, nel senso delle cose del potere. Le piccole concessioni gli erano ribattute attraverso le aggressioni continue delle denunce, dei processi, delle censure.

5. Poi è accaduta la fine. Non starò a esprimere orrore né a ribadire che tali uccisioni in ogni modo sono sempre per mandato, come è accaduto per altri instancabili persecutori dell’odio ufficiale. I modi della rappresentazione possono essere mille. Ma una volta che è stato ammazzato la società ha cominciato a esorcizzarlo cercando di inglobare anche questo anticorpo. E ha allestito i ceppi ufficiali, le corone delle lacrime, gli interminabili bla-bla da Trapani a Domodossola per mezzo di tavole rotonde, dibattiti, retrospettive, letture, temi in classe, compiti della mamma. E ha preso a coprirlo acriticamente con una misticanza di lodi (spesso) e di parole (sempre) tali da assatanare un santo. È dunque urgente prendere atto delle necessità di ridurre il discorso e i riferimenti a un giusto disegno per rileggere Pasolini con una mediazione critica non più ripulsiva o agiografica ma controllata metodologicamente dall’intelligenza della ragione. Perché si possano cogliere dentro alla sua opera i nessi sottili e certe conclusioni che appaiono esplosive.

Pasolini non è stato un intellettuale che si è appropriato della cultura ma un uomo che ha vissuto i problemi della cultura del suo tempo partecipandoli fino a morirne. Questo definisce anche la sua instancabile ferocia nell’aggressione del reale; la sua fame di realtà e di verità vera; il suo bisogno di cercarla in ogni momento. Anche il suo eccesso vitale. E la sua insaziabilità di linguaggi.

 

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: saggi critici
  • Testata: Per conoscere Pasolini, di AA.VV.
  • Editore: Bulzoni e Teatro Tenda Editori
  • Anno di pubblicazione: 1978
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