Lettera su “I diecimila cavalli”
CARI AMICI
lo so che il mio libro è un mattone; è un cavallo da tiro
e non un cavallino agile agile o l’ippogrifo
che vola dentro la fantasia d’Ariosto.
Il cavallone tira adagio, tira lento,
va per la sua strada. Magari proprio in questo faticare è la tenerezza e l’utilità di questo cavallone.
Nel portare a buon termine le sue fatiche, voglio dire;
nel completare un lavoro;
nel dare affidamento di durata.
Un amico che si era comperato il libro mi ha detto:
i tuoi cavalli trottano adagio, perché sono pesanti;
hanno ferri grossi due dita.
È molto vero, lo riconosco. Non ho saputo far bene.
Ma per me non dovevano essere cavalli diversi,
non trottatori,
ma assegnati a un impegno che è duro. Così come è la nostra storia.
Il nostro attuale destino non è fortunato
eppure vedo che nessuno si lamenta in modo ignobile.
Io amo i miei contemporanei.
Ogni giorno vedo che spalanchiamo di nuovo le finestre
e imprendiamo a vivere.
Quindi se vivere è un esercizio faticoso, è anche una invenzione continua, un continuo fare e disfare delle idee,
con molto coraggio in queste idee e nel volerle sempre rinnovare pulire sciacquare ferire mortificare perché possano alla fine trionfare.
Ad ogni modo bisogna riconoscere che in questa fatica ci è tuttavia negato, proprio perché non possiamo volerlo, di essere felici.
La felicità, quella che conosciamo o sentiamo nominare
da sempre, è la felicità di questo o di un altro, è una sola felicità: alterna, inquieta, incerta;
mentre quella che cerchiamo e vogliamo
è la giustizia che rende giusto vivere
(che lo rende straordinariamente giusto)
perché lo lega al fiato e al respiro degli altri.
E solo così ci sentiamo nuovi.
Chiedo scusa dello sfogo che rimanda come una zaffata di fumo ad alcune pagine di questo mio libro.
Ma se, almeno per le generali, è vero quanto ho sopraindicato, allora io penso e ripenso non da ora
che si debba solo discutere sulle idee (o sui problemi)
e che l’uomo inteso come piccolo personaggio, come piccolo
autore, come piccolo untore, come piccolo arciere
– questo uomo/ombra, questo uomo/sole, questo uomo/specchio –
debba scomparire, nascondersi, rifugiarsi e semmai solo vergognarsi.
La sua comunicazione è scritta e sta lì, distesa.
Che cosa si dovrebbe aggiungere?
Un foglio bianco, una matita, una mano che scrive
poi il foglio passa a due occhi che leggono.
Ecco, in questo atto tutto è rimandato e anche tutto è consumato.
Bisogna ricominciare da capo.
Un foglio bianco, una matita, una mano che scrive poi il
foglio passa di mano eccetera.
Può essere una lettera, un attestato, un libro di mille preghiere o la dichiarazione di una guerra.
Il mio foglio bianco ha una nota da mandare a mente
e poi è da stracciare.
Io, come io, non saprei rispondere dire ripetere o scrivere
se non le parole gridate dalle scolte modenesi, sui bastioni di un castello, nelle notti coperte di nebbia della pianura padana, dentro alla quale anch’io vivo. La voce lunga diceva:
all’erta sto.
Vi ringrazio, vi ringrazio in ogni modo, per la vostra pazienza.
Inviata a Empoli, per il premio “Pozzale” nel novembre 1976.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: lettere
- Anno di pubblicazione: 1976