Franco Fortini. Poesia zona franca
In un itinerario che tenda a collegare i momenti importanti della riflessione di Franco Fortini, unirei il libro appena pubblicato dalla manifestolibri, che è il primo di due (Disobbedienze: Gli anni dei movimenti, scritti sul manifesto 1972-1985, pp. 248, £. 25.000), alla Verifica dei poteri del 1985 (ma seconda edizione, con prefazione del 1973) e ai Dieci inverni del 1957 (ma seconda edizione, con prefazione del 1973). Entrambe sono prefazioni lunghe, motivate, approfondite; indispensabili, credo, anche oggi per riaccendere stimoli riflessivi e chiarire in qualche modo trascorse situazioni dei dibattiti accaniti. Anche Disobbedienze sono scritte a partire dal 1972 (per arrivare al 1985) ma via via, in modo abbastanza incisivo, si percepisce come un cambiamento di marcia. Permane, è certo, l’insistenza sui problemi specifici; ma una sorta di ringhio amaro entra a sopraffare il fervore imperterrito di un tempo. Lo straordinario iracondo insopportabile a volte ma generoso fervore pieno di una rabbia sana lucida talvolta spietata, che rendeva le sue pagine strumenti necessari di riferimento dentro al terremotato panorama della nostra cultura e della nostra condizione sociale in continua fibrillazione. Lo indica anche Rossana Rossanda, nella prefazione, quando annota come Fortini, dopo una breve sospensione, riprenda a scrivere nel 1981 sul giornale ma che il tono dei “suoi interventi era diverso, andava perdendo la speranza che il 1968 avesse segnato un inizio invece che una fine”.
Infatti Fortini, qua presente, è spesso contratto, un po’ all’erta, talvolta alterato o rapidamente maldisposto. Sembra che tenda a intervenire quasi per l’obbligo di sbrigare degli impegni, per rifinire o correggere precedenti conclusioni, per congedarsi da argomenti in passato privilegiati o ritenuti determinanti sul momento. Confrontare, per esempio, l’articolo del 28 settembre 1975 Alla fine del Politecnico, con Che cosa è stato il Politecnico del 1953 e raccolto fra le pagine dei Dieci inverni. In questo ampio racconto-saggio, vibra ancora la tensione di partecipare, anche nelle revisioni, a un moto culturale teso a raccogliere e alimentare comunque una sfida globale in atto: anzi, la sfida; contro coloro che intendevano gestire il pensare e contro quelli che intendevano gestire o stavano gestendo il potere. Ponendosi, da allora, nella posizione specifica di oppositore metodico e dialettico. Proprio nel secondo articolo del ’75, Fortini ha reso pubblica una lettera di Vittorini, della fine del ’47, in cui sono radunate e catalogate le due anime, intersecantesi, della sua personalità: “A proposito, mi sembra di doverti avvertire anche su un altro pericolo che tu a volte corri. Quello di metterti in posizione di scelta. (Anche dialetticamente; nel ragionamento; e lo fai anche a un certo punto nel tuo ultimo articolo). La posizione di aut-aut… Non bisogna, Franco. Non dobbiamo nemmeno dirci ‘questo o quello’. Dobbiamo essere gli uomini del ‘questo e quello’”. Fortini, per me, è stato l’intellettuale che soffrendo, problematizzando, tagliando in quattro i capelli delle idee e dei problemi, ha proposto l’aut-aut, il questo o quello, senza settarismo ma con una decisione estrema; cercando di ascoltare capire, riformulare, ma con una intransigenza da sembrare spesso prepotenza. Questa implacabilità era impastata a sottilissime raffinate cautele riflessive e consegnata a pagine che, anziché a convincere, erano destinate proprio a scuotere irritare: a non lasciare quieti.
Il Fortini del 1981 si consegnava a un timbro più spigoloso e a conclusioni più secche, irritate; come a volere appannare una inquieta incertezza. Per un esempio, rimanderei all’articolo del luglio 1981, sempre su Disobbedienze, intitolato Che i giovani si separino, anche da chi li lusinga. Invito a una congiura in piena luce. Scrive: “Perché andare a dire quel che non ci viene chiesto?… Non dire nulla se non chiesto, se non preteso. Debbono essere i giovani a chiedere…”. È un Fortini che risulta diverso. Non è stato prevalente, in passato, proprio l’impegno di parlare e intervenire non richiesto, di sforzare le situazioni comunicando? Di approfittare delle occasioni per inserire micce, per alimentare i dibattiti? E come intendere senza ironia la frase: “Cerchiamo almeno in questo la pratica e il consiglio degli analisti e dei taoisti”? Nei Dieci inverni, miniera inesauribile di riflessioni e sommovimenti problematici, sento un Fortini furibondo (lucidamente ebbro nello squinternare con acida cautela il libro della storia in atto, con relative implicazioni); mentre in questo libro de “il manifesto” ricavo e ricevo, anche alla rilettura, un Fortini insofferente di fronte alla durezza perdurante dei problemi e alla ripetitività implacabile degli scontri (sempre gestiti da manipolatori inesausti); ma anche un Fortini in cui affiora con struggente evidenza la convinzione di aver raggiunto con la poesia e nella poesia un approdo sicuro: l’Itaca da sempre ricercata.
L’angosciato cruccio di Fortini, il bivio fra poesia e ideologia in una mescolanza quasi assatanata che l’aveva sempre ferito, e impensierito, veniva finalmente superato, rassicurandolo dopo tante faticose rimozioni. Su questo e soltanto per questo, vorrei rifarmi alle sue righe su “Officina” (rivistina certamente da discutere fino in fondo ma non da irridere o scancellare come vorrebbe), stese con rapido disprezzo in un articolo del 4 luglio ’75; in cui ancora una volta – o per l’ultima volta – si propone come il maestro che bacchetta, come l’anticipatore di consigli saggissimi. Ma intanto: per intendere bene la complessità di un personaggio vitale per quarant’anni della nostra cultura, e per disporla nella luce e nell’ombra, è utile non dimenticare che Fortini ha partecipato (con bruciante utilità) a tante riviste, però si è sempre aggregato, non ne ha mai avviata e condotta una, prolungandola nel tempo. È stato con altri; e molto spesso nel corso del lavoro, dopo un primo avvio, la sua acribia, il suo aut-aut, il suo questo o quello, la irriverente impazienza delle sue attenzioni erano una spinta alla scomposizione, alla disgregazione. Il fatto è che il suo “pensare” è stato di gran lunga prevalente sul suo “agire”; come di uno che sa le cose ma non fa le cose.
Ma dicevo di “Officina”. Ecco, se a Fortini non importava, perché ha voluto starci e rimanere dentro fino all’ultimo, se era così povera cosa? Vero è che in quel microcosmo appartato ha trovato la stanza segreta dei suoi segreti pensieri. Una camera in un motel della poesia, in cui poteva rifugiarsi lasciando per poco gli alti consessi e gli antri delle spericolate riflessioni. In “Officina” era vincolato soltanto alla sua poesia, libero da ogni altra timidezza. Mi consento due riferimenti. Una risposta in versi a Pasolini, nel fascicolo n. 8 del gennaio 1957: “Mi provo a un non mio discorso, vedi, / credendo che anche a me la rima e il verso / fingano forza ad essere diverso / dai miei vizi”. E un allegato a un gruppo di Versi pubblicati in un fascicolo precedente, il n. 3 del settembre 1955: “Scrivo versi anche perché penso che la poesia in versi abbia, oggi, e più oggi di ieri, sue buone ragioni di esigere. Quei versi mi paiono spesso mediocri o così sono considerati. Me ne dispiace. Mi piacerebbe esser persuaso di aver scritto una bellissima poesia e sentirmelo dire da coloro che amo e stimo. Mi sono gradite le lodi, sgradite le censure, amaro il disprezzo. A diciott’anni avevo scritto un epigramma molto vanitoso che diceva: ‘Datemi quelle lodi che vi costano / amici, così poco. / Sono quelle / che bastano ad un giorno; sono quelle / che voi potete, ed io non voglio, darmi’. Da allora – continuava Fortini – son passati vent’anni, ho cominciato a scriver versi, non molti, a gettarne via una buona parte e a stamparne – di rado. Non quelle lodi sono venute che mi sarebbero state gradite. Amici benevoli scuotono il capo davanti al mio volto, quando somiglia all’antichissima maschera del cattivo poeta; e, affettuosi, consigliano maggior impegno nel lavoro critico dove, dicono, dò buoni frutti. Quindi i miei versi, stampati o scritti, sono un argomento, per me, sommamente patetico. So bene che partecipano di tutti i vizi che da critico leggo nella maggior parte della poesia dei nostri giorni”. Queste righe, appena ricevute per la stampa, mi fecero intendere la parte contrastata contestata, ancora vulnerabile ma superba, di Fortini; e da questo versante ho continuato a leggerlo, a intenderlo negli anni. Lui stava lì, insofferente per le questioni generali, come in un piccolo rifugio in un giorno di pioggia, dove poteva con libertà scrollarsi i cattivi pensieri. Non era contestato, non frainteso, ma accolto e partecipato per la lucida evidenza dei suoi testi. Ecco come leggo le poche righe su “Officina”, scritte con pessimo umore, come volesse liberarsi dal ricordo di un cedimento, o di una concessione, che in seguito lo imbarazzava. Ma è questo Fortini, che continuerà a lottare con sé, in una adirata solitudine, a presentarsi sulla retta d’arrivo avendo superato, meglio: accantonato i nodi segreti e contrastanti del proprio lavoro, e non più indifeso ma sicuro dentro a un dolore rinserrato nel più profondo del cuore. L’esaltazione calma e la rassicurazione convinta riservate alla poesia nell’ultima parte della vita, prosciuga a mio parere il fuoco una volta intenso dei suoi interventi critici, riducendoli alle volte a essere soltanto acrimoniosi. Con la perdita “dell’assunzione permanente di responsabilità” (che vuol dire, necessità bisogno stimolo prolungato di partecipazione e di comprensione); con la perdita dalla “sua ostinazione a separare”, “a condividere le preoccupazioni” (cito dalla premessa 1973 ai Dieci inverni); avendo ricompattato i contrasti che lo avevano così a lungo ferito.
Per scrupolo, si può annotare che l’opera prima di Fortini, Foglio di via, fu pubblicata in una collana einaudiana che accolse altre quattro opere: Ossi di seppia e Le occasioni di Montale, il Canzoniere di Saba, Lavorare stanca di Pavese. Una partenza, sul piano dell’autorevolezza, sfolgorante; poi travolta od offuscata dall’impegno della partecipazione al dibattito culturale politico. E si può in ultimo annotare che, comunque, i volumi di poesia pubblicati da Fortini superano in numero i volumi saggistici. A esempio, negli anni della sua alterna collaborazione a questo giornale [“il manifesto”, N.d.R.], pubblica tre ampie raccolte antologiche: da Einaudi Una volta per sempre (poesie 1938-1973); da Mondadori Questo muro (poesie 1962-1972) e Poesie scelte (1938-1973). Nello spazio di due anni (1973-1974). Eppure, dal ’46 in avanti, a tanto impegno di scrittura poetica, il Fortini pubblico (contestato e amato, seguito o rifiutato) sembra essere, ed è, soprattutto l’ideologo impaziente, il “guastafeste magnifico”, l’uomo di cultura di tutti i gelidi inverni, delle situazioni problematiche al limite; il chimico da laboratorio su materiale esplosivo. Riferendomi a questi estremi contrapposti, a questo continuo stridore di freni nell’opera e nella personalità di Fortini, fin dagli anni Cinquanta a me pareva di poterlo avvicinare e confrontare con Pasolini. Due personalità di alto rilievo ma così contrastanti, direi inconciliabili; alle volte quasi nemiche (se si vuole, leggere – per esempio – le sottilissime pagine dolci-amare dedicate a Pasolini in questo volume, alle pagine 102 e 241); con il peso esistenziale e culturale di una “diversità” autentica da vivere in proprio ma anche da giustificare e verificare in pubblico, confrontandosi sui problemi. Conosciamo nei dettagli il dramma di Pasolini legato alla sua “diversità”; poco o niente abbiamo valutato il peso oscuro del rapporto di Fortini con la poesia, che lo costringeva all’obbligo di continue giustificazioni, precisazioni; quasi si trattasse di un tradimento, di un cedimento nei riguardi degli “amici” con cui divideva sul campo il lavoro della riflessione e della polemica. Sforzando, si potrebbe dedurre che, una volta pubblicati, egli tendesse a coprire l’orma dei libri poetici con una mano; per sottrarli agli sguardi, che lui temeva, degli amici-censori (ma chi erano? chi li ricorda? dove sono?); mentre, nello stesso tempo, si aspettava un qualche cenno di consenso, di assenso, dalla critica e dai lettori di poesia. In altre parole, per molto tempo della vita, trascorso e sopportato con una amarezza nascosta che talvolta intristiva e incattiviva, Fortini ha indossato l’abito della poesia mentre tanti, del pubblico vagante, lo vedevano nudo (o fingevano di vederlo) con un carbone acceso in mano per la scrittura d’assalto. Solo nell’ultimo arco della vita – magari a partire, come tempo, da questi scritti su “il manifesto” – Fortini raggiunge una piena completa convinzione operativa, la liberazione di sé nella poesia. Non frastornato da una superbia nascosta, non più necessaria. L’ultima parte della sua esistenza si assesta intorno al nucleo vitale della parola poetica; la scrittura si contrae e si innalza; il linguaggio è come cavato fuori da una cenere calda che lo ricopriva – per nasconderlo a un qualche nemico. E così veniva riportato con un lancinante volo, per esempio, alla sottile “dolcissima ebbrezza”, all’affascinante sperduta leggerezza (senza indulgenza) dei primi testi; come a vice veris, del ’46, che avevo sempre ritenuta a mente: “Mai una primavera come questa / È venuta sul mondo. Certo è un giorno / Da molto tempo a me promesso questo / Dove tutto il mio sguardo si fa eguale / Ai miei confini, riposando; e quanta / Calma giustizia nel pensiero è in fiore / Quanta limpida luce orna il colore / Delle ombre del mondo…”.
È un poeta non ancora contaminato dalla lacerazione di un destino; è prima di aver gettato il saio. Un poeta (e lo ritroverò dopo anni) che, lontano dal passo di lupo del dubbio, si lascia quasi soffocare dalla vitalità vibrante del reale. Questo spirito poetico era stato impigliato dal fiato di tanti, di troppi giorni ingrigiti – in generale; tanto più, dunque, risulta mirabile l’accanita difesa compiuta, dentro di sé, per non invelenire irrimediabilmente una scrittura invece impietosa che, come certi corsi d’acqua, ha dovuto spesso interrarsi per proseguire il corso e poi risalire. Questa poesia si alimenta nel tumulto di una quotidianità tutta, di volta in volta, da pensare, riaffrontare, riconoscere, incalzare: cresce per doppia fatica, per accanimento di difesa o di attacco. Ma è quando si fa giusta attesa “la vergogna di vecchiezza” che il pubblico fustigatore, il sapiente senza livrea, arriva a disporre – dopo la lunga macerazione e per intero – della propria parola poetica. Il Fortini presente in questo “manifesto” cede a rabbia e disinteresse; si mostra non aggressivo ma infastidito. Non vuol rifare il mondo, neanche ferirlo; il mondo non gli piace più, non lo attira più. La sua delusione è forte. Non si sente neanche un partecipe sconfitto ma soltanto un escluso. Si è accorto, per inizio di una umiltà prima inconcepibile, che la semplice verità può stare in una semplice poesia. Mentre, neanche molto tempo addietro, aveva scritto: “Credo alla verità di alcune mie poche poesie perché ogni lor verso porta il segno della contraddizione… posso dire che la poesia è sufficiente a se stessa ma non a me e che più di tutto mi importa la semplice verità”.
Nell’articolo qua a pagina 140 e avanti, dal titolo In piazza tra operai e studenti rileggo: “Cammino ai margini. Li guardo dal portone di casa. Uno della mia età, tra di loro, o è uno storico, o è un questurino, o è uno spettro”. E perché non potrebbe essere ancora una volta un uomo, semplicemente, magari un uomo vecchio, che vuol continuare a camminare con loro, fra loro, per loro, senza immedesimarsi in una parte rappresentativa, senza prevalere (senza voler prevalere)? Ripeto solo quel che ho detto altrove senza volere tanto rispondere: amavo il primo Fortini, temevo l’ultimo Fortini. L’ultimo Fortini (lo si intende anche in questa raccolta, pagina dopo pagina) è il Fortini ferocemente addolorato per il mondo che non è cambiato e, dunque, a leggerlo dava e dà ancora forte tormento. Invece il Fortini delle annate buone, come il primo Fortini (e poi l’ultimo) non ancora sgomento o non più sgomentato né contratto, era ed è alto e violento – nella sua poesia che spingeva avanti, che aiutava a procedere con l’astio di un furore squillante. A questo Fortini ritorno, con questo Fortini mi arresto e lì permango. (Naturalmente, ciascun lettore avrà le sue impressioni, le sue deduzioni e, se non più giovane, le sue memorie). Con Fortini, molti l’hanno provato, era difficile essere amici, quasi impossibile. Ma era anche difficile, quasi impossibile, non leggerlo; non custodirlo come riferimento di giuste o utili deduzioni, di nuove acquisizioni; come custode di necessarie memorie. Oggi non c’è e si sente un vuoto. Mi tornano in mente i nove versi della poesia A Vittorio Sereni: “Come ci siamo allontanati. / Che cosa tetra e bella. / Una volta mi dicesti che ero un destino. / Ma siamo due destini. / Uno condanna l’altro. / Uno giustifica l’altro. / Ma chi sarà a condannare / o a giustificare / noi due?”. Nessuna condanna, nessuna giustificazione; apprezzamento sul campo.
La talpa libri, inserto de “il manifesto”, 15 gennaio 1998.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: saggi critici
- Testata: La talpa libri, inserto de “il manifesto”
- Anno di pubblicazione: 15 gennaio 1998