Guardare ascoltare. Mescolare tutto ma non in modo confuso
Tutto, secondo l’amico, può andare bene, nell’uso della scrittura, se sta rinchiuso dentro la formula-domanda, esposta in tre sole frasi con esattezza e lucida semplicità, nel quarto volume dei Cahiers di Valéry: “Arrivo a Parigi. So che sono a Parigi. Ma che cosa me lo prova?”. Per gli autori francesi in genere non è che straveda, però questa frase è forte. Così aggiungeva: me non mi ha benedetto Petrarca, che neanche conoscevo, mi ha cambiato la pelle la guerra e anzi, prima, i cavalli. Ma, su questo, dirà forse dopo. Adesso insiste: siamo fuori all’aperto, c’è il sole, la nebbia, la pioggia, una neve là in fondo, un albero secco, no, un albero che trabocca di lucidissime foglie, nessuna nuvola in cielo, no, un cielo turbinoso vertiginoso, una grande strada, no, un viottolo e poi sentieri lisci, o polvere o asfalto o autostrada ecc. Nessuno che si muova in questi frammenti contorti, spezzoni di realtà ancora da consumare; o, al contrario, c’è un uomo donna, dieci venti cento mille uomini donne che affannano, no, sorridono conquistano ridono, no, piangono intimorite dal cielo. Giovani, vecchi, ragazze, tante bambine Caroline di due anni appena. Tutto questo si percepisce in fretta, fotogrammi bruciati dall’ansia di vedere; eppure con il piacere minuto, che è indugio degli occhi e della pelle, di riuscire a percepire, in un dettaglio ancor più sottile, particolari che ad altri possono sfuggire. Piace a lui questo vedere e vedere, scrutare ritoccare controllare e immaginare; fantasticare; quando, al principio di un lavoro di scrittura, siamo all’inizio di tutto e si ammucchiano non richiesti ma dovuti, incalzanti, i materiali incandescenti della realtà che è vita, e dei sentimenti che, sempre sviati, devono essere richiamati, con la scrittura, alla ragione; se è possibile e se è vero che essi sono in qualche modo sempre presenti. Intanto, intorno, si radunano si ammucchiano anche gli odori, da consumare intatti se è possibile. E molti, diversi profumi, che venti strani portano nell’aria; mentre gli odori più domestici e ravvicinati sono meno cauti e sorprendono meno quando erompono e permangono. Questo resoconto semplificato vuole solo ricordare che minutissimi elementi, frammenti, schegge, scaglie possono indurre chiunque a un avvio di scrittura; pescando con la mano nell’armadio del mondo, dentro a cui si muove il pulviscolo delle vite di un uomo o di una donna, di uomini e donne
sia chiaro, detta situazione potrebbe essere, altrettanto legittimamente, capovolta. Serrare gli occhi e le orecchie al fuori, precipitarsi dentro al cuore di uno o di una per percepire altri venti, sottostare ad altri alberi viottoli, perdersi in continui indugi. Quindi i due piatti di questa bilancia narrativa, come si vede, possono sistemarsi paralleli e non lasciarsi squilibrare, senza differenza alcuna; mentre il supporto che reggendoli a loro concede di pesare meraviglie è il pilone portante della scrittura, il buon cemento delle parole. Prime parole che, nel progetto o nel proposito di una scrittura, dovrebbero risultare sempre precise decise come le parole di una ricetta medica, che non concedono abbaglio. Non dovrebbero sbagliare, altrimenti al lettore paziente e all’impaziente scrittore potrebbero nuocere, risultare quasi un veleno. Allora nel bene e nel male si dispongono ad essere tutto: il principio e la fine di un lungo discorso o di un prolungato racconto; il cielo e la terra, si potrebbe dire l’inferno, da calpestare in punta di piedi; l’incubo vivo e il quotidiano riserbo in attesa; il canto aperto o le parole appena mormorate; esemplificando, la motrice che si tira dietro in buon ordine i vagoni a seguire e li svincola nel luogo di campagna e di nebbia dove deve portarli. Le vetture da sole non potrebbero andare altrove, neanche volendo. È la motrice della scrittura che dirige il tragitto, da stazione a stazione, con le prime parole, spesso camuffate dietro una apparente leggiadria o una durezza da sasso, o ancora tremolanti come foglie. Le parole dell’inizio, si è detto; molte altre seguiranno. E se lì, nelle prime righe, subito c’è un aggettivo, si colloca come una bomba a mano con la sicura disinnescata. Meglio allora comportarsi pazienti e sospettosi con arguzia, come il Pontormo, e cucinarsi uno cavolo e uno pesce d’uovo piuttosto che infiorettare con arzigogoli il cibo della prima mattina. Perciò lui si è educato a non avviare, se è possibile, alcuno scoppio in partenza; se no, come si potrebbe procedere e cosa si potrebbe aggiungere in seguito mantenendosi così alti, gridati? La buona testa dispone subito a cercare un poco di ordine sulla carta distesa davanti agli occhi, godendo per un momento dell’inquietudine, molto fascinosa per il viaggio di scrittura che va a cominciare. Alle volte si riesce ad anticipare anche il titolo dell’opera, collocandolo subito a salvaguardia dell’intero cammino ancora da intraprendere; anche se può capitare che, entrati nel vivo, di titoli se ne aggiungono altri cento, sino alla fine
naturalmente questi disegni, e questi intrecci esplicativi non sono neppure alla lontana, come dire?, degni di essere applicati, sia pure in qualche modo, agli incipit delle grandi opere, che richiedono altro rispetto e una diversa natura. Ma sugli scritterelli di un giovanotto, accesi di onesto furore e accompagnati non solo dalla voglia di continuare ma dalla necessità acuta di imparare, questo è possibile. Come è anche possibile, nel caso specifico, fissare con qualche dato i termini, i modi del suo inizio di scrittura; mica inseguendo un amore per mezza Europa, neanche partecipando a una spietata autopsia di se stesso ma, nel particolare ambito di una vita giovanile, rintanato senza affanno in una casa isolata, in una stanzetta non più grande di una mano, con quattro sacchi di grano appoggiati a un muro e lui seduto sul quinto, morbido morbido, vicino a una finestrella. Da lì ha preso l’avvio, si può dire, per quanto riguarda il privato atto di scrittura. Appoggiato al davanzale, sotto gli occhi i due tometti con gli scritti del frate Tomaso Campanella curati in una edizione quasi popolare dal D’Ancona, critico illustre e sodo, assolutamente affidabile. Che uomo frate scrittore! Dal fondo di una galera dell’inquisizione, fra topi muffe spifferi fame gemiti, con una scrittura potente indimenticabile inveisce al mondo e illumina un’acre speranza di fuoco, che arde quasi fosse un diavolo zeffirino sprofondato nel mirifico gorgo di trecento tristezze implacabili
il giovane nel leggerlo sbalordiva, si stravolgeva, si pigliava mal di stomaco e la nausea dietro questa esaltazione gridata; ed era spinto a specchiarsi precipitoso incatenato insolente ma pazzo di curiosità per il mondo che fuori avvampava. In quanto, oltre la finestra finestrella, su un’altura di scarso rilievo ma ben definita, distante non più di quattrocento metri o forse meno, una batteria tedesca con cannoni e Nebelwerfen e cinquanta cruchi messi intorno, pronta a dare battaglia e a ricevere battaglia, era disposta in un’attesa piena di sospetto. Questo lui aveva intorno: alcuni sacchi di grano, non ancora oro nero, Campanella con D’Ancona, finestrella che era quella di Marechiaro, piccerilla piccerilla quando splende per la luna nuova che in collina si percepisce come un sogno; tedeschi in braghette corte e a torso nudo che non scherzavano né ridevano né cantavano ma stavano ingrugniti in attesa dell’oro del Reno. Sopra la testa, un via vai di aerei violentissimi che andavano a vomitare bombe sull’inclita città di Bologna, cara carissima città disarmata abbandonata; molto amata. Guardando fuori, mentre questo accadeva con simultanea precipitazione, lui cercava di cancellare almeno i soldati coprendo lo spazio della piccola finestra con il palmo della mano; così come faceva il gran camerlengo della curia di Roma, nel resoconto di De Sade, per altra e più ossessiva occasione. Si sforzava di azzerare, di cancellare i cruchi, sovrastanti con la prepotenza del ferro e del prossimo fuoco; mentre, in alternativa, sfiorava con lo sguardo, attraverso le dita, ed era una prova di destrezza, tre alberi di fichi sulla sinistra, cinque pioppi in fila sulla destra. Il resto era piuttosto brullo e calvo. I pioppi, nervosi e slanciati, abbandonavano a terra ombre sottili che sfioravano i solchi e annodandosi creavano come un lungo nastro grigio. Spesso, nell’abitacolo che sembrava una celletta da galera, entrava uno di quei mosconi grassi indaffarati insofferenti che vivono in campagna, e il suo volo adirato, talvolta minaccioso, rompeva la solitudine. Intanto il giovane si chiedeva sempre più spesso, come un interrogativo generale, se era davvero così facile cancellare la vita in movimento, quindi anche i soldati, solo mettendo il palmo della mano davanti agli occhi
perciò i primi segni scritti furono punti interrogativi segnati con la rabbia un po’ vischiosa dei pensieri al bordo dei due tometti campanelliani; e sempre, in seguito, partendo da questa prima inquietudine continuò a scrivere di preferenza sui libri – i fogli bianchi dell’antiporta, i quasi bianchi degli indici ma anche sulle pagine intere delle prefazioni, delle presentazioni, delle note; e sui fogli dei giornali, sopra e sotto, con una scrittura larga e rilevata. Era come conquistarsi lo spazio, quasi combattendo, per la comunicazione; sopraffare l’avversario, il nemico, non sottostare alle sue regole; farlo tacere a pugni. Aveva cominciato a collocare le sue accidiose fantasie così come maturavano al seguito delle letture in corso, oppure mentre camminava da solo sui viottoli della riflessione; e a prender gusto a modificare secondo spinta ed estro la storia che stava leggendo, aggiungendo personaggi, precisando figure, dilatando i dialoghi; impegnandosi a modellare diversamente le donne, per le quali ha sempre mantenuto un’attenzione complice. Mentre il mondo pencolava e si ingolfavano si inclinavano i giorni della disdetta, in quel guscio di noce emiliano un suono o una voce, a interrompere la norma, rappresentavano una novità. Come l’entrata di un’ape, nella quiete faticosa di un pomeriggio d’agosto dell’anno 1943 in zona collinare intorno a Bologna
in queste condizioni è cominciato il suo scrivere. Radunando con la matita le cose che vedeva temeva sentiva; le cose che chiaramente lo sorprendevano; prima mettendole in fila poi in rapporto fra loro; cercando di cancellare per sé, solo per sé, la guerra che cominciava a manifestarsi in diretta, ed era rappresentata viva dai tedeschi imbigiti sull’altura accanto alla ferraglia paurosa. Proprio in quei giorni, avvinghiandosi al frate calabrese, al cupo riverbero del moscone e all’ilare gentilezza del volo dell’ape solitaria; cercando di cancellare anche per un momento, coprendosi con una mano, la violenza che incominciava a incombere in diretta, pensò una storia di silenzio e di attesa, con un uomo e una donna che si muovevano nel sole, sotto il sole, e aspettavano. Il tema dell’attesa, come il tema contrapposto e vincolato del partire per ritornare (uomo o donna, uomo e donna, in un periplo furibondo ma circoscritto, tanto si sa che, partendo, si finisce sempre per ritornare; e che colui o colei, appena tornato, vuole subito ripartire, o almeno, lo risogna con passione) è rimasto fisso nella stiva della sua barca insieme alle emozioni di una giovinezza dentro a una guerra dei mondi, dentro alle lunghe ore di questa guerra. Pietà l’è morta. La passione di un sogno o di un cuore unita all’emozione di una morte che può arrivare ad ogni momento accompagnando un contrastato destino
perché il giorno che i soldati, non più in braghette ma con tute mimetiche e scarponi, cominciarono a sparare con quanto fuoco avevano in corpo sotto i capelli biondi, lui si accorse, imparando dentro alla realtà infuriata perché diretta, che si può andare via come e quando vuoi sui cavalli della fantasia e cancellare le cose scegliendo la propria porziuncola di mondo; ma capita quasi sempre qualcuno che ti distoglie dall’impresa e ti spara vicino all’orecchio o ti impallina la schiena lasciandoti stecchito se sfuggi, comunque ti riconduce sul fango della terra, duro d’inverno come il marmo, d’estate appiccicoso come la marmellata di mirtilli. Imparando dalla lezione di quei giorni le cose da scegliere e da scrivere per sé secondo la propria misura; mentre stringeva fra le mani, al lume di quella finestra, i due tometti del frate. Così che, di seguito, non si è più lasciato fregare dalle speranze barocche e ha cercato come sapeva e poteva, fra continui errori e nessun volo, di legare i cavalli della fantasia ai cerchi di ferro della realtà più dura e immediata; della realtà più cruda; fissati nel muro. E fra le pagine sempre predilette delle canzoni strimpellate annotò i primi diretti pensieri, che è stato facile ritrovare: “Mi manca la voglia di restare seduto mentre tutti sono in piedi e corrono. Di restare seduto, no. E di godere di questo mio restare. No. Ma poi restare dove, come? I muri fra cui mi trovo, con l’intonaco azzurrino, non sembrano neanche sfiorati dal tempo anche se la casa è vecchia. Non hanno crepe né traccia di umidità negli angoli. E in una stanza piccola piccola dove entrano mosconi e api gli angoli sono tutto. Ma basterebbe una bomba, una sola bomba a sbriciolare casa e tempo. A far saltare il tempio dei giovanili pensieri. Anche i soldati là fuori hanno un cuore per una casa ma adesso non hanno casa, hanno tende di tela dove gli angoli non ci sono, dove non entrano le api. Vorrei cancellare tutto ma non posso. Non posso o non sono ancora capace? Sono così ignorante da non avere una risposta al dolore. Il beneficio di una notte senza uccelli nell’ultimo silenzio del mondo. Domani si incrinerà senza ombre, appena spareranno i cannoni. I cruchi si sono già addobbati”
è facile riscontrare la semplice modestia delle suddette annotazioni; un arzigogolare che non è neanche migliorato nel corso degli anni; ma tutto era sinceramente sentito come un preavviso di grande sventura, che avrebbe coinvolto lui, i tedeschi, la casa, le api, gli alberi di fichi e i pioppi, che poi alla fine della guerra erano tronconi schiantati e sbriciolati. Ma non sentiva alcuna consolazione, né meraviglia, nell’uso della sua prima scrittura; piuttosto si sentiva come un piccolo ladro di paese che cammina adagio e tremante, dopo aver sottratto il portafoglio a un uomo che passava. Comunque, andò un poco avanti sulla falsariga di quel primo avvio concettoso; e può essere ricordato che avendo dimenticato su un tavolo un foglietto scritto, letto poi dal padre o dalla madre anche solo sbirciando, gli fu detto: “Tutti quegli alberi! Dove li vedi tanti alberi se quassù ci sono soltanto calanchi? Tre alberi di fichi e cinque pioppi e tu descrivi una intera foresta. Perché scrivi tante bugie?”
la frase lo colpì. Scrivi, dissero, non racconti. Il racconto può concedere, con libertà, di andare a spasso e svicolare dove si vuole; mentre la scrittura è un cemento che imprigiona ogni verità; rafforza ogni attesa; solidifica ogni parola, ogni pagina, non le lascia più andare. Le condanna ad essere vive per sempre o le uccide per sempre. È un killer spietato. Le parole restano ferme, infilzate come la farfalla azzurra ad ali aperte nell’album di un entomologo scrupoloso. Questo peregrinare di frasi stese sul bordo di libri o su brandelli di carta, si svolgeva ancora nel silenzio molto teso di un’attesa, di un evento che si percepiva precipitante; che sembrava scorrere sulla schiena. Un’impressione mai più dimenticata e ancora presente, perché attuale
quella situazione di vita e di mente legata alla giovinezza durò un mese. Durante il quale, come una frana di sassi in montagna che slavinano sempre più in fretta sempre più ammucchiati, dalle poche paginette di scrittura in prosa riflessiva passò alla versificazione, senza quasi tirare il fiato, con una fretta convulsa; tanto che arrivò a sistemare un gruppo di poesie che pubblicò in poche copie numerate. La numerazione stava a confermare le titubanze dell’autore a stabilire un cautissimo controllo sulla destinazione di quel risultato ottenuto quasi per sorpresa. La dedica naturalmente fu per il frate che l’aveva sorretto e aiutato: “A Th. C. vir qui omnia legerat / omnia meminerat / prevalidi ingenii / sed indomabilis”. Come dire: “a Tommaso Campanella, un uomo un frate che aveva letto tutto, che ricordava tutto, grandissimo ingegno, per di più indomabile”. E in seguito anche tutte le altre opere hanno avuto la stessa dedica d’amore turbato: “a Th.”. Poche copie con una copertina di un celeste un po’ incupito, come se il cielo fosse senza un domani; e che tanto lo turbarono deludendolo da indurlo a bruciarle, tranne alcune, sul prato davanti alla casa. Verso sera, ora buona per i roghi, vicino al monticello dove sostavano i cruchi; alcuni dei quali si avvicinarono e dopo aver guardato cominciarono a battere le mani: “bravo molto bravo ragazzo italiano che brucia cattivo libro. Bene è che tutti cattivi libri vanno bruciati”. Loro lo dicevano pensando in male, io ascoltavo concludendo in bene, invece, come se il fuoco riducendo la pagina in cenere ripulisse per un momento il mondo dal dolore di un segno distorto; impreciso, claudicante. Cancellando ogni traccia di questa sconfitta della scrittura. La scrittura offesa, la scrittura pugnalata, la scrittura sporca di sangue o quella spettatrice di un delitto, la scrittura stesa in terra senza più un respiro, o volante fragile e sperduta nel cielo
tuttavia questa scrittura sempre inseguita, ogni volta che è raggiunta e riconosciuta, così pare, diventa il gorgo vorticoso della vita dentro a cui si annaspa in delirante ricerca. Ma l’autore dove si è confinato dopo il bruciamento vespertino dell’esile libretto trascinante una storia privata? Intanto cominciavano a cadere le bombe, non più dal cielo ma da terra a terra, saltavano le case disperse, gli alberi, i solchi e gli uccelli tacevano scomparivano. Riusciva sempre più difficile mortificante procedere un poco, ponendosi domande. Questa era aggressiva prepotente lancinante: “che poesie scrivo con le frontiere assediate?”. Non è una domanda da poco, soprattutto in tempi tremendi. Ma, ecco, sembra attuale anche ai nostri giorni, nel profondo delle vene non troppo diversi. Bombe e bombe, ieri oggi. Così può avere peso anche una seconda e concomitante domanda: “Forse l’olio bollente di una parola / mentre i nemici scalano le mura / vale un gruppo d’arcieri con l’occhio di falco?”. C’è una terza domanda che si riversa sull’oggi pur restando collegata alla situazione d’inferno di quegli anni solo per la memoria. Si potrebbe formularla in questo modo, non empirico: il topo che con dente paziente ha rosicchiato le pagine 112, 113, 114, come fosse niente o come fosse formaggio, del libro di Kropotkin, è diventato più sapiente nella lotta operaia? Sarà investito di idee di liberazione topesca e porterà confusione di lotta nella società dei topi? E per noi irriducibili, è valso perdere un libro per conquistare un topo?
la buona onesta domanda si propone perché, muovendo da allora e fino ai giorni nostri, non avendo fatto personali progressi né ottenuto di fatto e per giusta ragione nessun personale benefizio, potrebbe essere venuto il tempo di ritenere utile spezzare la matita sul ginocchio come una spada e dedicarsi anche solo alle rose selvatiche, disperse nei solitari giardini. Perché adesso, riguardandoli, ci sarebbe da dedurre che gli inizi, di tutto ma anche quelli della scrittura, sono belli e per niente faticosi. Sono liberi. Dopo, cominciano le storie. Cominciano dopo, le storie. Anche se c’è con la guerra un maledetto inferno; contando, per salvarci, almeno sulla speranza, che è voglia profonda e viva di sperare. Lui, ad ogni modo, non sapeva rispondere all’interrogativo degli arcieri con gli occhi di falco, pur continuando a interrogarsi e, scrivendo, a dare la testa nel muro; fino al giorno presente. Proseguì ancora un poco a vergare parole scrivendo con la matita rettangolare da capomastro, seduto ancora sul sacco di grano; oppure fuori, appiattato contro gli alberi o fra i muri e le travi di qualche relitto di guerra. A vergare con una furia costante, come unica strada per respirare; prendendo ore alla notte, che è sovrana allora come oggi di un silenzio sempre più solitario e sperduto. La notte è molto amica per vergare. Non si alzano voci e si può credere che i cannoni della morte e della vita, per una volta almeno, non siano puntati. Solo di notte, ricavando stimoli da quella consuetudine, secondo lui si possono trascrivere segni su un foglio aperto e indifferente; magari, anche soltanto per nascondersi, riepilogando in un baleno i dettami del giorno appena concluso. La notte, straziante pazzerella, promette sempre qualcosa, quando essa è fonda e preannuncia d’essere in attesa di partire. Prepara anche l’uomo allo stesso viaggio, lo dispone allo stesso ritorno; dispone tutti i ricordi sul tavolo, cavandoli di volta in volta da un cassetto chissà dove alloggiato e li costringe a camminare, distogliendoli dai lamenti. Il giorno è lungo o il momento dei grandi orrori, o dei grandi errori, per ciascuno di noi. È il momento vertiginoso la cui spada sostituisce la penna per la scrittura, e il sangue delle ferite sostituisce il nero dell’inchiostro
ma bisogna ripetere ancora che le condizioni ambientali della formazione giovanile determinano gli anni a venire dell’uomo; ne determinano soprattutto la psicologia, vale a dire il rapporto con il mondo. Si diventa uomini come ci si forma da ragazzi, subissandosi dentro la vita. Le successive modificazioni sono importanti ma non ledono il panno tessuto in bene o in male in quelle giornate indimenticabili
un giorno, per quanto si riferisce alla sua vicenda di vita, i cannoni dei cruchi cominciarono a sparare; e un giorno tutti i cannoni dei tedeschi si zittirono, per sempre. Nel fango, nella nebbia residua, nella luce che incominciava a incombere sfolgorando la gente gridava la guerra è finita la guerra è finita la guerra è finita. Come si può scrivere una sola riga senza avere udito quelle grida? Intanto è verità che, al contrario, un’altra guerra cominciava. Sempre, ormai lo sappiamo, quando finisce una guerra comincia un’altra vera guerra, con un numero altrettanto spaventoso di morti e dispersi. Ed è sempre la meglio gioventù che lascia la vita. Anche questo è stato imparato in quei giorni lontani, tutti stretti in pugno; a non scherzare su niente, a guardare la realtà giorno per giorno sugli occhi, naso contro naso. Rimettendoci spesso le penne. Il fatto è che ti cambia per intero la vita se senti vicino all’orecchio cannoni sparare sparare sparare con grande sconcerto di pietre e non sei su un campo di battaglia lontano ma sul campo vicino casa, dentro la tua casa. La guerra rompeva i vetri delle case, riempiva di nuvole il cielo, di polvere il cielo, di sassi che cadevano dal cielo; riempiva le ali degli uccelli di sangue; la guerra non aveva non ha pietà per i bambini che piangevano piangevano poi morivano. La guerra era la guerra, signora del mondo: con i generali un poco brilli sulle carte e whisky nei bicchieri a stabilire le ore dell’assalto; e i soldati piedisporchi di fame di rabbia di fango a morire di rabbia nel fango. La guerra è soltanto la fine del mondo, non c’è altro da dire
se uno ne salta fuori, è bollato sulla spalla come un vitello della Valtellina o del Texas. I muri vibrano, sembrano cantare; gli animali si rintanano maledicendo gli uomini. Se hai una matita e un pezzo di carta in mano e sei appoggiato a un tronco o a un muro sbrecciato, cosa scrive un ragazzo in tempo di guerra in bilico fra essere e diventare? Ha scritto di guerra, su carta grossa trovata per terra. Cosa ha scritto, chiedendo aiuto al suo unico Virgilio che era il frate dal fiato grosso e dalla mano potente? Stringendo fra i denti la tonaca di Tommaso Campanella come avrebbe fatto un cane impaurito, questo è stato l’avvio: “Geme la sera nella gran ruina / dell’infinita terra disperata / solo morte è indomita regina / su la misera stirpe condannata”. Niente di immortale come si vede; nulla di nulla come si legge; intanto, non si cerca applauso quando si vede al bordo delle cavedagne buttati nella polvere tanti cadaveri, sempre cadaveri, corpi di uomini di donne senza vita, bambini, vecchie con il fazzoletto nero in testa; e la penna è ancora leggera, leggera
la guerra, dunque, come sostanza e odissea dell’esperienza giovanile; trasferita e ripensata sempre come vincolo dell’immaginazione riflessa e dell’esperienza diretta della nostra vita. La guerra, nonostante i cauti spasimi morali di tutti, resta costante implacabile; è sopra e sotto, dura ci aspetta e ci vuole sempre straziati ma remissivi; perché pace è parola leggera che si mastica in bocca e poi vola. Così la buona scrittura (si intende, la scrittura che vuole partecipare) deve scavare nel fango, aspettare lì il nemico. È dentro alla guerra dei mondi. Per questo occorre muoversi con cautela; con la malizia della ragione. Per esempio, scegliendo la scrittura notturna, se la casa non è tua e vivi in periferia non si può fare troppo rumore tempestando i tasti della Lexikon di seconda mano. Anzi, non si può fare rumore; di gran lunga più funzionali la matita e la gomma, che si muovono senza fischiare nell’aria lasciando tracce da aurora boreale, mentre la carta quasi sempre si adatta con semplicità e si dispone a partecipare. La gomma cancella e fa piazza pulita dei cattivi umori, delle deboli parole e non lascia segni. Così lo spazio torna libero, ed è uno spazio da riconquistare
perché, se l’intenzione è buona, la parola viene, la parola tiene. Basta cercarla, con la pazienza di cercare. Dunque, stare sulle cose. La domanda di scrittura oggi, per lui, non è affatto diversa da quella di tanti anni fa. Scrivere non sotto ma fra le bombe: “non una tomba ma una / finestra sul mondo / un luogo parlante. / Non occorre venire / quanto sentire, percepire / intendere, condividere / non dimenticare. E poi ricordare, ancora / inseguire il ricordo delle cose perdute / o future”. Una penna buona utile attenta per vergare il saluto e il commiato dai soldati morti in battaglia; poi per seguire i sopravvissuti che imparano giorno per giorno a confrontarsi con l’impegno di vivere; con la vita tutta intera che si propone
la scrittura, non più un obbligo, diventa un dovere per sé, un dovere per riconoscersi nei giorni e negli atti; un dovere non docile, impervio. Che si può perseguire scrivendo in piedi, fra un respiro e l’altro, per lo più; ma anche seduti, in viaggio o sotto una gronda o seduti su un tronco; in autobus, che è luogo amenissimo e provocante. La scrittura non si dilunga in attesa ma resta costante tramite di partecipazione e di riconoscimento; un faticoso inevitabile approccio di vita. Alla vita
comunque, e qui si può concludere questo frammento di parole, è sempre vero che a vent’anni ci si dimena districandosi, bombe o non bombe, in una foresta spessa di liane e buche; e che i giovani sono lasciati soli, a farsi massacrare a farsi intimorire a farsi intruppare, con schioppi o altro in mano; gestiti dai vecchi scampati alla selezione di una precedente violenza, non più sapienti degli altri ma più astuti, più violenti, più aridi, più digrignanti degli altri. I vecchi troppo spesso fingono di sapere molto e sanno poco; ma è anche vero che detengono non molto ma tutto, lamentandosi di detenere niente e non intendendo spartire neanche una briciola di questo niente di potere o di palanche con chicchessia, in attesa
queste sono le cose che a lui interessa affrontare con la matita numero 3, magari di notte se non c’è altro respiro, incalzando sé nella vita e ascoltando allora, per un momento, il silenzio del mondo. Un mondo che si stravolge correndo verso il mitico futuro. Quel silenzio del mondo notturno non placa né addormenta, no non placa, non addormenta. Invita invece a tenere occhi orecchie all’erta, per ascoltare voci, per vedere cose. Tutte le voci, tutte le cose.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: saggi critici
- Testata: Come si scrive un romanzo, di Maria Teresa Serafini
- Editore: Bompiani
- Anno di pubblicazione: 1996