Annotulazioni
1) Dice Keats (nelle Lettere): essere per conoscere. Essere, cioè esistere; cioè ricomporsi, riconoscersi. Stabilirsi, nel senso di definirsi. Una operazione non neo-genetica, perché non si ricompone il corpo, raccogliendo gli sparsi avanzi o le giovani membra, ma si ravvicinano le ombre vaganti del nostro desiderio e della nostra vita, a cui si cerca di riaffidare qualche nuovo umore. Conoscere è già disporsi da sé, proponendo alle cose del mondo un privato luogo d’accesso che accolga le prime o le ultime lacrime della terra – l’eco di perdute battaglie e di imminenti tempeste. Essere è un disperato, continuo, precipitoso muoversi e tentare per resistere alle fiamme dell’inferno. Questa è la lotta prima, che dispone da una parte i bruciati ma superstiti e dall’altra i bruciati e inceneriti – polvere residua, polvere vagante. Può essere così. Il punto cruciale è il saldo che collega l’essere (l’atto già compiuto del riconoscersi e in qualche modo definirsi) con le prospettive tutte ancora aperte, tutte da affrontare, del conoscere. La conoscenza è, nelle sue premesse, un momento di vittoria sopra le precipitose oscurità del mondo, poi è attesa continua, speranza che non si allenta, fatica riconosciuta e necessaria; inevitabile. Accade spesso, molto spesso, che alla fine possa diventare anche tragedia (scontro di potere e volere). Una tragedia. Ma allora diventa tragedia dell’attesa, della speranza, della volontà. Il fuoco che brucia, in questo caso, non produce polvere ma grida; le quali risvegliano chi dorme e perfino i morti di un giorno (non ancora abituati al prolungato silenzio), e sollevano spesso la polvere vagante e residua degli inceneriti nel corso della lotta sopradescritta. In definitiva, per chi sta o sceglie di stare dentro al cuore delle parole, si può solo sforzarsi di non lasciarsi bruciare tutto intero come un tronco sull’orlo vertiginoso dei monti.
2) Ritenendolo un eccentrico signore in calzamaglia, ostinato a ricalcare noiosamente solo i passi lenti è grevi della memoria; nonché sopravvissuto, per qualche volgare malizia, alla guerra dei mondi; le avanguardie ultime – vespette salvatesi da una fine senza gloria perché rintanate fra i peli folti dei grandi tori che s’erano scatenati nei primi 30 anni del secolo – ripeto, le “avanguardie” di questo dopoguerra, hanno insultato, irriso, tentato di percuotere, impoverire, spappolare il linguaggio; hanno partecipato a involgarirlo fino a renderlo, non diverso o altro da sé, ma una tremolante ameba che non dà ombra e vive di risentiti sgomenti: modesta carcassa che ansima, assetata e senza colore, al bordo di una trazzera – è li reclusa (o distesa) guarda il cielo, immerso nella sua grande violenza azzurra, e le ampie iirose volute delle nuvole itineranti, con una nostalgia da bestia che ha finito il destino. Tanto, che fa arricciare la pelle. Ho detto la lingua; potrei dire il singolo minuto segno (o segnale) della parola. La parola. La parola, questo scatto sublime ed essenziale, che superbamente incontaminata si ricompone e si rialza dopo ogni tempesta, ogni naufragio. La parola, per i versicolorati insetti itineranti nel campo della scrittura, non dovrebbe contare più (sul momento); infatti sembra non contare (sul momento). Peggio ancora: guardandole lì sul tappeto, una parola vale l’altra; essendo ognuna, in apparenza, trasandata e impudica. Perché (dovrebbe essere così, secondo le indicazioni) oggi conta non dire, non segnare, non sottoscrivere, non proseguire, non affermare; e ha gloria colui che dilacera, spappola, nega. Lo straordinario, minuzioso, naturalmente faticoso ma eccitante assemblaggio dell’esercizio verbale è accantonato come un motore in rapida obsolescenza, o affumicato e sgocciolante dopo una prova. Tale situazione – schematicamente e a “interno” uso e consumo circoscritta – sottintende una irrefrenabile indifferenza (o insofferenza) per gli oggetti, per i soggetti del reale. Vale a dire, per tutti i soggetti e gli oggetti che non siano custoditi nello stipo della propria camera – e della propria animuccia. Così che questa indifferenza rappresenta e determina una indifferenza voluta (ripeto: spesso astiosa) non per sé ma per il mondo. Destinato, secondo alcuni calcoli e previsioni, a rapida ineliminabile catastrofe; per conseguenza, il segno che lo circonda e lo esprime non può che essere deglutito con le sue ultime boccate. Ma se il mondo, nonostante le sue ferocissime, velocissime contraddizioni fosse invece destinato a durare contro gli eventi, contro le quotidiane profezie? E con ironia, durezza – e in mezzo al proprio dolore – facesse conto e proponimento di durare? Ecco che la parola riprenderebbe vigore e la costanza che determina, vincendo la sua secchezza; riprenderebbe i suoi colori (come dice anche una canzone). La parola avvicinata all’altra parola e all’altra ancora, non con la malignità di elidersi ma di coesistere con fermezza per raccontare e magari addentrarsi a significare le cose più alte col vento della fantasia, potrebbe perfino tornare ad essere eloquente – attingere le nubi e da lassù riguardare – non per un solo momento – il mondo. Potrebbe perfino perorare, secondo l’antica tradizione; spinta dall’ebrezza promossa dalla e la riconquistata libertà di fare e dire. Non importa se eloquenza o perorazione (o canto che si alzi disperato) avessero fiato breve, la durata di un mattino. Potrebbero ricominciare a dire e a fare il giorno seguente. Importerebbe, in ogni caso, di non perdere le tracce, dentro al mondo forestevole disteso per terra; al fine di potere continuare a comunicare; continuare, continuare…
Numerozero, n. 1, luglio 1986.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: saggi critici
- Testata: Numerozero
- Anno di pubblicazione: n. 1, luglio 1986