Uno scrittore dipinto da uno scrittore. Pietro Jahier
Barba Piero lo chiamavano i suoi alpini della prima e terrificante guerra mondiale. “Agente ottimo ma impromovibile” lo definivano i suoi capi nella Ferrovia e gli agenti della polizia durante il ventennio fascista. “Con che silenziosa ostilità”, confidava, “ho portato i miei ven-t’anni di miseria e di soprusi”. Infine, ancora: “Confino e prigione spirituale! La persecuzione Fascista mi ha privato dello scrivere, ma non mi ha impedito di pensare!”. E durante la seconda guerra mondiale, relegato (in effetti, confinato da Firenze) a Bologna, affermava con convinta durezza: “Ho solo il problema di conservarmi”.
Che uomo era, dunque, Piero Jahier? che scrittore, che poeta era, dunque, Piero Jahier? Ciascuno ha il suo giudizio, oggi; io seguo, direi insegno, il mio. Sia giusto o meno, e per le generali intanto, lo avvicino e lo raffronto, per segni continui e particolari, a Rebora e a Mandel’stam. A uno, per la costante tensione, che incrudeliva e poi finiva a sovrastare, per perdersi, dico meglio: immergersi negli altri come atto inevitabile necessario urgente di conoscenza di sé e del mondo, di cui tuttavia era, il prossimo, in ogni momento protagonista inesorabile. Ricercare e avvicinarsi agli altri era come ferirsi di volta in volta per riconoscere il proprio sangue, assaporare quasi amaramente la propria vita già trascorsa, trasferirsi in una disposizione di quotidiana attesa. Era insomma una forma dura di donazione. All’altro, per questo impedimento esistenziale di trovare riposo, di rasserenare il cuore e soprattutto i pensieri; per questa continua, prolungata ambivalenza esistenziale fra la ricerca di un approdo dell’anima e la pulsione acuminata dell’esistenza quotidiana che non dava tregua: “Se l’anima indietreggia, indietreggia anche la poesia”. E invece, trascriviamolo una seconda volta: “Quattro anni di esilio a Bologna con la famiglia spezzata in due… Confino e prigionia spirituale!”. Nato a Genova nell’aprile del 1884, morto nella cara e amata Firenze nel novembre del 1966. Di famiglia valdese, il padre era pastore nella chiesa, due anni di studi religiosi; poi l’entrata, dopo la morte tragica del padre, nell’amministrazione ferroviaria; avendo già presto imparato che “volere è una forza ed amare una potenza”. Ed è questo l’elemento primario, di fondo, della sua personalità, della sua umanità. Con me e con gli alpini ne è una costante verifica, e rende quest’opera, alta e insigne, oltre il suo valore, un unicum fra le opere ‒ e sono tante e un manipolo anche notevoli(ssime) ‒ scritte da artisti soldati in quella prima guerra infernale. “Criticano sempre / perché mi accompagno con gli inferiori. / Ma non mi accompagno con gli inferiori; / mi accompagno coi miei uguali. / Tu credi di essere più istruito perché hai fatto le scuole; / e che il soldato popolo ti sia inferiore. / Credi che la saviezza dipenda dall’alfabeto. / E la nobiltà dal sartore. / Ma io tutte queste cose non le credo. /Tu, cos’è stata fin qui la tua vita? / Sei nato, ài empito pelle, vuotato pelle, fregato pelle. / Eppoi tuo zio Capo Divisione ti ha impiegato. / E da allora ài empito più pelle, vuotato più pelle, fregato meglio pelle. / E se mi parli, non mi sai parlar altro che di questo empir pelle e vuotar pelle e fregar pelle che ti è stata la vita. / E allora io mi accompagno col mio trombettiere contadino, invece. / Che à un’anima tanto ricca che trabocca in poesia, / quando mi racconta il combattimento contro la miseria ch’è stata la sua vita. / Viaggi e battaglie di un contadino italiano contro la miseria”. E poi, altrove: “Ma tu, ricordati di FARE IL BENE CON DISPERAZIONE. / Se fosse con soddisfazione, chi non farebbe bene? / E bene perché fatto con disperazione; perché abbandonato ‒ a ogni costo ‒ a qualunque opinione. / E del resto, apri tranquillo il suo solco, e lascia cadere il tuo seme. / Tanto il vento e il sole sono di Dio”. Si intende dunque, subito, il suo orecchio e il suo cuore per la voce di Claudel, ma intanto già il Rebora dei Frammenti gli era vicino, senza troppa letteratura e con le ferite reali della vita: “Con la falce nell’erba / frusciava il mio baleno”. E di Rebora così scriveva Giuseppe Raimondi, che nei primi anni gli era amico: “Il suo viso, affilato e avanzante, con qualcosa di ferreo e di fiero, perfino di guerriero, nelle ombre profonde, nelle parti oscure, di quel viso”. Anche Jahier, come Rebora (a mio giudizio), sotto le vesti di guerriero (soldato in divisa) ha una intima voracità d’amore, una costante ebbrezza di dedizione, tale da bruciare la carta su cui scrive (rovesciandole sopra il fuoco interno). Certo, Rebora, via via, come uno che cammina a piedi nudi entrando nel mare, si inabissa in dio, cercando di perderlo e ritrovarlo in una ricerca inesausta; Jahier “continua ad affrontare la vita, non per sé ma in mezzo agli uomini, con la stessa foga di quando va alla montagna”, però sa anche, per non perdersi, che una delle prime difese “sarà di non lasciarsi rubare la poesia dalle nuove abitudini della terra”. Non perdersi, non disperdersi dunque, ma restare partecipe della vita. Nel 1912, insieme a Prezzolini, Jahier ottiene un mutuo trentennale per la costruzione in cooperativa di una piccola casa, che lui chiamerà, sempre amandola, la “casa rossa”, lì a Firenze; dov’è inoltre amministratore (meglio, gerente) de La Voce. Accanto, molti nomi che faranno la storia della cultura e della letteratura italiana del Ventesimo secolo. Poi il fascismo; il lungo travagliato silenzio, il lungo faticato drammatico silenzio (quasi un rabbioso disamore per la scrittura, che non può avere spazio di vita). “Anni che ora contano doppi… è la caduta inesorabile di ogni illusione” dirà alla fine, sentendoli addosso come un peso non scaricato. E ancora: “È certo che la mia presenza in vita è un rimprovero a tanti letterati italiani i quali non mi perdoneranno mai di essere stato sotto il Fascismo quello che in fondo avrebbero voluto essere stati loro”. Negli anni ha fatto lavori di traduzione. A un amico (Romeo Forni), che visitava negli ultimi tempi l’uomo dai capelli di lana bianca, raccontava che “la domenica prima c’erano ottantamila sportivi allo Stadio, che si trova a un centinaio di metri in linea d’aria dalla casa rossa. Lo stesso giorno, l’invecchiato e illuso Richicchi, mazziniano, inaugurava sul viale dei Mille la lapide a tre partigiani caduti, davanti a uno sparuto manipolo di curiosi”.
(Già in EnnErre, n. 18, I, 2003).
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: saggi critici
- Testata: Dentro la storia, di Giovanni Greco e Davide Monda
- Editore: Liguori Editore
- Anno di pubblicazione: 2003