La Piazza Maggiore
L’unica vera piazza di Bologna
Dunque: è la più bella piazza del mondo, come qua in giro si sente dire? O sono esagerazioni del campanile? È almeno una piazza molto bella? O è solo una piazza antica di una città italiana, con chiesa e palazzi al posto giusto, vecchi al modo giusto, con la determinata armonia che corrispondeva – al momento in cui fu costruita – a un sostanziale rigoroso garbo della ragione storica, al decoro del gusto? Cercherò di riscontrarlo come per un viaggio privato, con un po’ di pazienza; fuori dalla retorica della storia e dalla suggestione diretta e sempre ammaliante delle antiche pietre.
Tanto più che mi sembra sia stato detto bene che la piazza Maggiore è l’unica vera piazza di Bologna. Altre non ce ne sono, in questo ruolo autentico, determinante, coinvolgente, talvolta sconvolgente, di “piazza vera”. Non la piazza S. Stefano, non la piazza Malpighi, o la piazza Aldrovandi – così cara a Umberto Saba, che la ricorda con forza duratura:
Piazza Aldrovandi e la sera d’ottobre
hanno sposato le bellezze loro;
ed è felice l’occhio che le scopre.
L’allegra ragazzaglia urge e schiamazza
che i bersaglieri colle trombe d’oro
formano il cerchio in mezzo alla piazza […].
Ma intanto, proprio per ordinare termini, riferimenti e prospettive come per un discorso fra persone di garbo: cos’è, effettivamente, nella realtà urbanistica e sociale, una piazza? Cos’era un tempo, cos’è oggi? Quali differenze vanno riscontrate (se ci sono), quali contrasti; quali somiglianze (se ci sono), quali ripetute oppure irripetibili identità?
Così, subito, ho annotato alcune domande o alcune incertezze che si presentano, nell’arco dei problemi e dei riferimenti, a dare qualche risalto all’argomento. Di queste, la prima intendevo che fosse proprio rivolta a farsi rispondere intorno alla reale bellezza della piazza; la piazza Maggiore di Bologna.
Ci si può agganciare fin dal principio ad alcune verifiche. Per esempio, all’autorità e alla curiosità erudita di antichi viaggiatori – anche senza andare troppo indietro nel tempo – che cito senza adattarmi a una successione cronologica, proprio per offrire una documentazione come pescata in un mazzo. Forse così sarà possibile precisare impressioni o disattenzioni abbastanza simili e interessanti sulla nostra piazza, anche per i bolognesi che si interessano non superficialmente della loro città.
Un gesuita, o ex-gesuita del Settecento, osservatore senza indulgenze, viaggiatore instancabile, non facile a lasciarsi frastornare dalle pietre o a sorprendersi per piccole novità: Gabriel-François Coyer, venuto in Italia fra il 1763 e il 1764 e rimasto fra noi abbastanza per potere vedere e godere non solo le bellezze ritenute eccelse ma anche molti dettagli. A Bologna esclama: “Le piazze sono ben poca cosa. Ma ci si arresta davanti a una fontana; dove un Nettuno di bronzo sembra comandare alle acque. Egli ha veramente la maestà di un dio”.
Pochi anni prima, nel 1750, un altro francese, Charles Nicolas Cochin, incisore, aveva scritto: “La piazza Maggiore. Vi si vede una fontana pubblica, opera di Giovanni da Bologna […]”.
Il padre domenicano Giovan Battista Labat, nel 1706: “Ciò che contribuisce infinitamente alla bellezza della chiesa di S. Petronio è che essa è situata tra due grandi piazze: la principale è davanti alla facciata, è più lunga che larga, ma vastissima in tutti i lati: la parte di mezzo d’essa è occupata da una fontana di marmo recante una statua colossale di bronzo […]”.
In Italia negli anni 1739 e 1740, in una delle sue lettere di viaggio Charles De Brosses annota: “In qualunque modo sia, si va per una lunga strada, di là alla piazza principale, ornata dalla più bella fontana in marmo e bronzo che io abbia mai veduto. È un Nettuno colossale […]”.
Venuto in Italia nella prima metà del 1740, il padre di Goethe, Giovanni Gaspare, scrive in una lettera questo appunto: “In mezzo della gran piazza è una statua di bronzo che raffigura Nettuno”. L’inglese E. Veryard, in una relazione dettagliata pubblicata poi nel 1701, fa questo solo riferimento: “Durante il nostro soggiorno in questa città vedemmo un saltimbanco sulla gran Piazza […]”. Infine Goethe, nel suo Viaggio in Italia, parla di quadri e quadri qui a Bologna e infine precisa: “Sono salito sopra la torre a consolarmi all’aria aperta. Veduta splendida”. Della piazza non un cenno, né un’occhiata.
Bologna, bella in un rigore pensieroso
A questo punto si potrebbe cominciare a sottoscrivere una convinzione che trova i primi appigli in impressioni lontane nel tempo: cioè, che la piazza Maggiore non è una delle sette meraviglie, ma ha pregi e difetti che sono poi pregi e difetti tipici, in generale, di Bologna.
Città, a parere di attenti visitatori (cultori delle bellezze dei luoghi), che non può essere scissa dall’insieme delle sue pietre e delle sue ombre; che non può essere scomposta dall’insieme gagliardo e di fascino duro ma preciso che stabilisce la sua caratteristica. Come pochissime città – in Italia forse nessuna, in questo modo – la sua particolare attrazione consiste in una logica lineare sapienza di armonizzazione; nella sua corposa e rigorosa unità.
Non è troppo bella per pochi ma pregiatissimi pezzi da antologia (o da atlante). Ma è bella in un rigore pensieroso e non facile spesso da decifrare, da definire. Bellezza che si percepisce senza affanno; come in una immersione quieta. I suoi portici? Anche i suoi portici. I suoi palazzi e i suoi giardini? Anche questi. Le sale dei palazzi, con soffitti spesso eccezionali, le scalinate, gli alberi di questi giardini? Anche queste e anche questi. Le chiese? Le chiese. Gli scorci da strada a strada, da cantone a cantone, da vicolo e incrocio a vicolo e incrocio? Anche tutto questo, certo.
Perciò Bologna – e propongo queste annotazioni tenendo sempre fisso il riferimento alla piazza – non è tanto suscitatrice di ammirazione (o di quegli innamoramenti turistici che colpiscono i visitatori itineranti, obbligati alle forti e rapide emozioni) quanto dispensatrice maliziosa, talvolta scontrosa, di un’affezione prolungata; di una attenzione, di una attrazione che procedono con una cautela che spesso si trasforma in amore. Amore, non passione; perché la città detiene risentimenti, piccoli sospetti, resistenze non facili da affrontare. Ma un amore che si confronta e si propaga, spesso, per durare.
Bologna, che nella sua storia documenta progressioni e sovrapposizioni violente e contrastanti; anarchica e guelfa, liberale e conservatrice, giacobina e papalina; come luogo e raccolta di antichissime pietre e di antichi edifici, esibisce – meglio, elargisce – un fascino lento che toglie ogni margine alla retorica, e alimenta costantemente i rapporti diretti soprattutto con coloro che la vivono (che la abitano); ma anche con coloro che non si stancano di incontrarla.
Da Bologna non si può soltanto passare; a Bologna bisogna indugiare, bisogna stare; per trovare un diretto collegamento con la città oltre che con le sue pietre. Scrive Ezio Raimondi: “Muoversi su questa strada, attenta alla complessità antropologica degli spazi, significa al tempo stesso allontanarsi definitivamente da una considerazione solo estetica del paesaggio, per fare di quest’ultimo qualcosa di vivente: non l’oggetto di una contemplazione distanziante, ma il risultato fattuale di una prassi complessa”.
Non si può dire meglio. Per un paesaggio con alberi, terra e orizzonti intorno; ma credo bene anche per una piazza, con pietre intorno, spazi che incombono e il cielo che sembra tenuto sospeso da un filo che non si vede. La situazione, o disposizione, è identica. I problemi che ineriscono non sfuggono a una comune tipicità; a una comune conclusione.
A Bologna il forestiero è assimilato con premura, senza prevaricarlo ma senza badare a spese e anche senza preavviso. In altre parole, chi resta è preso, servito, conquistato, magari assimilato. La città ha la capacità di assorbire senza addormentare ma anche senza alcuna indulgenza. E non delude mai. Almeno, mai fino in fondo. Perché è subito pronta, riconoscibile.
Infatti Bologna sembra costruita, nel corso dei secoli, sempre dalle stesse persone, quasi dalle stesse mani; come se le generazioni si passassero la voce, la cazzuola, il mattone; nonché i grafici in scala. Voglio dire, con una costante aderenza all’idea non teorica ma reale, concreta, dell’uso a cui ogni costruzione era destinata. Quella “grazia costumata” di cui parla Roberto Longhi a proposito di Vitale; o “la popolare cordialità come fondamento di grazia e di cultura” a cui faceva riferimento Francesco Arcangeli. Quindi con il progetto rivolto più a realizzare in funzione di che a creare.
A pochi chilometri Ferrara, Modena, Ravenna si proponevano in qualche modo, anche se ugualmente straordinarie, diverse. Già diverse. Qua da noi la scienza dei sentimenti, quindi la scienza dell’uomo che è rispetto quotidiano per le sue esigenze vitali (si potrebbe scrivere: energie vitali), sembra avere presieduto nel corso dei secoli al formarsi (al realizzarsi) della nostra città. Piuttosto che affidarsi al fantasioso ma anche tempestoso disegno dell’arte, che tende non a comporre ma a travalicare i segni e i limiti del tempo. Di corrispondente “buona pittura di stampo locale” parla ancora Roberto Longhi riferendosi al Trecento, ricordando inoltre quella falange di miniatori “che vengono vivacemente illustrando i più astrusi testi giuridici come se avessero fra mano i più affascinanti romanzi cavallereschi o le più divertenti novelle popolari. Città centrale, di passaggio, suggestionata e suggestiva, in cui entrano e passano i venti secchi e acuti”.
Una città non lirica ma riflessiva e ironica, con un sottofondo di irridente o scontrosa amarezza. Un moto di sottile, nascosta ma quotidiana amarezza. L’insonnia della fantasia che non esplode (o sembra non esplodere) mai, ma non si lascia neanche mai esaurire.
L’immagine della città aperta, grossa e grassa; ridanciana e proliferante in ogni senso – che appartiene da tempo alla frettolosa arrogante genericità dei referti giornalistici – si ricompone in uno stato (che è norma) di attenzione scrupolosa, di amabile cautela, di operosa resistenza all’ovvio volgare.
È ancora l’occhio della città?
Con questo, possiamo tornare a riferirci più precisamente alla piazza proponendoci ancora una volta, e a ragion veduta, la domanda: è l’occhio della città, oltre che il cuore della città? Non solo il luogo delle sue assemblee antiche, dove legiferare e scontrarsi o incontrarsi; del suo programmare e dubitare; ma anche il contenitore allestito per il suo popolaresco fantasticare?
Certo, in questo vano aperto sotto il cielo, grandi avvenimenti si sono avvicendati e grandi drammi sono precipitati o hanno ricevuto un epilogo. Ma mi chiedo se ancora oggi questa piazza Maggiore può essere usata come il più giusto contenitore per esaudire o esaurire obblighi civili; come un pronto riferimento di partecipazione pubblica – anche se non più come riferimento di una abitudine sentimentale o culturale. In quanto anche dalle conclusioni statistiche di una ricerca molto interessante, abbiamo ricevuto la conferma che la piazza non sembra essere più, generalmente, il centro riconoscibile e riconosciuto, il riferimento immediato e coinvolgente nell’eventualità di grandi avvenimenti, o di precipitose crisi della società. Luogo deputato in cui ancora una volta confluire per informarsi, ascoltare, discutere, inveire, proclamare.
Ormai contornata e un poco oppressa dalla città che si accalca ed è tanto cresciuta, fino a tendersi con qualche dolore; rimasta uno spazio aperto sempre più polveroso sotto un cielo sempre più ottuso e sempre meno da rimirare; ci possiamo domandare se continua a mantenere nonostante questi rovinosi eccessi la sua prevalenza di prestigio su ogni altro spazio deputato, a Bologna, ad esaudire l’impegno della socialità, della coralità. O se invece non è perduta (meglio: declassata) per sempre; ridotta a contenitore di ombre storiche o del divagare domenicale di qualche famigliola all’inseguimento di un attimo di sole. In merito, eventuali conclusioni dovrebbero subire verifiche e magari registrazioni; dato che nell’ambito della ricerca sopraindicata, del 1979, rivolta a una campionatura di cittadini bolognesi, è scritto che nella “memorizzazione e visualizzazione del centro cittadino, l’immagine complessiva che emerge sembra articolarsi attorno ad una molteplicità di punti di riferimento (circa 40 complessivamente) a conferma, anche in questo caso, di una notevole variabilità intersoggettiva”.
E, a conferma delle impressioni degli antichi viaggiatori “la prevalenza di attenzione viene assunta da quegli elementi ad aspetti che più direttamente si riferiscono alla ‘forma’ della complessiva struttura urbana: vie, piazze ma, soprattutto, strutture ed edifici a carattere monumentale (le due torri, S. Petronio, Fontana del Nettuno)”. Per concludere che “nonostante la notevole diversità con cui viene soggettivamente rappresentato il centro di Bologna rispetto a queste caratteristiche, nei suoi confronti viene concordemente espresso un atteggiamento decisamente positivo: gli aggettivi che lo qualificano sono piacevole ed accogliente; tuttavia, quando da una valutazione complessiva della zona in cui la piazza è inserita, o meglio, delle zone del centro si passa a quella delle opportunità che esso offre nel facilitare o meno gli aspetti di relazione tra la gente, la tendenza a qualificarlo come luogo per tutti risulta fortemente contrastata da quella opposta (‘il centro è soltanto per pochi’)”.
Si parla del centro come di uno spazio più aperto, vero cuore della città; non esplicitamente della piazza Maggiore, che dovrebbe essere lo spazio immediatamente più riconoscibile e definibile se ancora fosse legato non solo alla memoria storica ma tuttora alla vita e al lavoro diretto degli abitanti della città.
Comunque, prima di concludere la presente argomentazione – basata su sussidi abbastanza perentori e dedotti sul campo – cercherò di ricapitolare in breve i dati più importanti di questa memoria storica (vale a dire la vita attiva, il progressivo formarsi come radunata e sovrapposizione di pietre, gli anni nel loro svolgersi e gli eventi memorabili di essi, della piazza); perché altri fascicoli di questa storia di Bologna hanno definito in modo esauriente tutti i dettagli. E mi affido alle indagini e alle conclusioni degli esperti, che hanno perlustrato la vita della città nel corso dei secoli, per dedurne un manipoletto di notizie che ritengo non si debbano, neppure in questa occasione, tralasciare.
Le origini
Forse delineatasi come spazio aperto per accampamento militare romano, se non proprio nel perimetro attualmente così ben definito, si può almeno dire che nell’ultima parte del Duecento e sicuramente nel Trecento la piazza era già assestata all’incirca nei limiti attuali.
La città, questa città, allora si componeva e si scomponeva attraverso rapide demolizioni e pronte riedificazioni; ma il luogo era ormai un punto di riferimento e di aggregazione canonico. Leggiamo per esempio nei Fioretti: “Addivenne nel principio della Religione che santo Francesco mandò frate Bernardo a Bologna, acciocché ivi, secondo la grazia che Iddio gli aveva data, facesse frutto a Dio: e frate Bernardo facendosi il segno della croce, per la santa ubbidienza, si partì, e pervenne a Bologna. E vedendolo i fanciulli in abito disusato e vile, sì gli faceano molti ischerni e molte ingiurie, come si fa a un pazzo: e frate Bernardo pazientemente e allegramente sosteneva ogni cosa per l’amore di Cristo. Anzi, acciocché meglio e’ fusse istraziato, si puose studiosamente nella piazza della città; onde, sedendo ivi, gli si raunavano d’intorno molti fanciulli e uomini; e chi gli tirava il cappuccio di dietro, e chi dinnanzi, chi gli gittava polvere, e chi pietre, chi lo sospingeva di qua, e chi di là. E perocché la pazienza è opera di perfezione e pruova di virtù, un savio dottore di legge […]”. La piazza è ormai pullulante di studenti, professori dello Studio (come il savio Nicolò di Guglielmo dei Pepoli, dottore in legge e lettore dello Studio, che a seguito di questo incontro regalò il luogo per il primo convento francescano in città), piccoli trafficanti, contadini del contado, plebaglia inquieta, ragazzi.
La piazza, infatti, si era da poco allargata, avendo assorbito (lo confermano gli studiosi attraverso i documenti) la Platea Maior – cioè, le case e le casette collocate lungo una linea all’incirca identificabile con l’inizio di via D’Azeglio.
Questa rilevante mobilità urbanistica condiziona, qualifica e direi quantifica la vita sociale del tempo. La costruzione degli edifici più importanti, o soltanto più ampi, intorno a quest’area, chiedeva naturalmente il sacrificio degli edifici preesistenti e, spesso, il sacrificio di intere sfilze di abitazioni, soprattutto popolari, lungo un asse sempre ben precisato. Quindi si trattava, per lo più, di casette che l’occhio perdeva senza troppa nostalgia; come è accaduto anche in tempi ravvicinati, negli sventramenti a partire dalla fine dell’Ottocento per arrivare agli anni Venti di questo secolo; non solo, proseguiti poi al seguito di presunzioni imperialistiche fino alla seconda guerra mondiale.
In antico, la durata dei lavori costringeva (o aiutava) a visualizzare lentamente, pazientemente, il mutare del paesaggio urbano. La città cresceva e si modificava, ma ci si adattava adagio ad assorbire e a giudicare le nuove realtà. D’altra parte, secondo cronache e scrittori, la scomposizione e ricomposizione degli spazi che, nell’insieme, formeranno infine l’attuale dispositivo della “grande” piazza, avvenne in una progressione di tempo non poi troppo breve. Basta riferirsi, per esempio, ad alcune indicazioni precise del Vianelli: “Non si conosce con esattezza quando si sia formata la piazza Maggiore attuale; è certo però che nell’ultimo ventennio del secolo XIII essa già esisteva, e che dal Duecento al Quattrocento, mediante demolizioni e ricostruzioni degli edifici circostanti, assume il perimetro attuale […]. I vecchi autori dividono la ‘Piazza Maggiore nuova’, così formatasi, in varie parti contraddistinte da diverse denominazioni […] lo Zanti individua la Piazza Maggiore vera e propria (davanti alla scalinata di S. Petronio); la Piazza Pularola, ‘qual hora si dice Porta Nova’ (il che fa pensare che egli alluda all’inizio dell’attuale via Quattro Novembre, già Porta Nova); la Piazza Reale (antistante al palazzo del Comune e comprendente anche l’attuale piazza del Nettuno), detta così per aver alloggiato, nel palazzo stesso, ‘Papi, Imperatori, Regi, Duchi, Principi e altri gran personaggi’; e la Piazza Montanara, cioè ‘quella parte di piazza che volta verso la strada di S. Mamolo. Così detta perché in questa parte ne vengono li montanari a vendere le cose che portano per il vito humano, come maroni, frutti e altre cose simili’”.
Sempre il Vianelli riferisce che altri (specificatamente il Banchieri) distinguono la Piazza Grande (cioè la Piazza Maggiore attuale), la Piazza Nova (ora piazza del Nettuno) così denominata “perché fu spianata un’isola al tempo che l’Eminentissimo Cesi eresse in tale occasione la gran Fontana”, e la Piazza Pollarola “poiché i giorni di mercato ivi sin’hoggidì si vendono i pollami, e tal sito intendesi dalle Pescherie sin alle Orifizerie” (cioè verso l’angolo nord-est dell’attuale piazza).
Sembra quindi indiscutibile, sulla base della documentazione, che la piazza Maggiore, oltre esistere (cioè aprirsi come un contenitore) nel centro della città, ne rappresentava sul serio il punto vitale di raccordo. A livello alto, nel senso della sua ricettività ufficiale; a livello popolare, come il luogo di incontro o stanziale per trafficare.
Rivolgimenti dell’ultimo secolo
Questo uso così ravvicinato e continuo fra piazza e cittadini, in una mescolanza attiva ma anche ibrida, durò fino a tutto il secolo XIX come vedremo; ma si può intanto precisare che in “Piazza” e intorno alla “Piazza” grande continuò fino al primo decennio del secondo dopoguerra (quindi intorno al 1955) il raduno settimanale (al venerdì) di contadini, mediatori, commercianti in genere e operatori agrari, per trattare con rapporto diretto i loro affari di verifica e di compra-vendita; prevalentemente, al riparo di sole o pioggia, sotto i portici. Tanto che nei vicoli intorno alla piazza si aprivano ancora vecchie osterie, bettole, trattorie che servivano come fortino di difesa delle usanze gastronomiche emiliane e delle secolari abitudini residue della nostra città/campagna.
Un mondo di gente, abitudini, odori, sapori e voci che si muoveva intorno alla piazza; e che oggi è scomparso. Così la “Piazza” è diventata un’altra; consegnandosi, rassegnandosi o adeguandosi a una diversa funzione: più genericamente e lucidamente illustrativa; meno percorsa dall’attivismo costante di un tempo. È ormai una levigata piazza degli anni Duemila. Pronta ad accogliere i meticolosi ma indaffarati turisti giapponesi. Come un cane di razza ripulito, tosato, profumato ma poi nella consuetudine della giornata solo sopportato e talvolta vilipeso. È ormai una cosa antica da conservare. Un cimelio. Con i problemi relativi ai vecchi cimeli, di cui non si riesce a riconoscere l’uso e che non si sa bene come trattare, come riempire; perfino come conservare. Intanto dopo le otto di sera, questo grande spazio diventa un buco fatto per il transito delle ombre. Perché, anche per la vita di questi anni, è una scatola chiusa.
A conferma vale riprendere un’affermazione di Gianfranco Secchiaroli, deducendola dall’inchiesta del 1979 già ricordata: “Più che una vera e propria prospettiva di integrazione nell’ambiente del centro, l’orientamento degli atteggiamenti sembra dunque indicare un rapporto di ‘lontananza-ammirazione’, che esprime forse una sostanziale estraneità ad esso”.
Quindi si può dire, come un dato anche statisticamente confermato, che il rapporto fra piazza Maggiore e i cittadini bolognesi, da naturale abitudine di vita e da naturale promozione culturale e sociale, si è trasformato in una relazione di transito normalizzato, solo in poche occasioni interferito da drammatiche vicende che anni recenti hanno di prepotenza inserito nelle giornate della nostra vita.
In una lucida nota pubblicata in rivista nel 1988 con il titolo Letteratura e paesaggio, Ezio Raimondi scrive: “Il paesaggio, allora, per usare le categorie concettuali del Wölfflin, non è più una semplice esperienza ottica, bensì il prodotto di una decisione esistenziale che in quanto tale dà luogo a una nuova forma letteraria”. E così, anche l’uomo d’oggi entra nella piazza come se dovesse attraversare per necessità un campo di grano, separando sì le spighe nel procedere ma non vedendo che assai poco davanti al proprio naso e sentendole ricomporsi in fitta siepe alle proprie spalle, come se niente fosse successo, neanche il passaggio in quel momento di un corpo umano. E questo perché il luogo (questo luogo della piazza grande) è oggi solo finalizzato a un passaggio rapido non a una sosta duratura; non a ricevere e trattenere ma a distribuire e rimandare; così che in ultima analisi non c’è scopo neanche a guardare e a guardarsi intorno per ammirare, con la sostanza della pazienza, qualche cosa, qualche dettaglio; tanto che il nostro passare da un luogo a un altro, da uno spazio a un altro è ormai così rapido che l’occhio corre subito al fondo, al fondo dello spazio, quindi al fondo della piazza; perché è là che desideriamo prontamente arrivare, perché è là che ci sentiamo richiamati; perché la nostra impazienza è sempre altrove. Oppure può capitare che l’uomo d’oggi stia nella piazza (questa o un’altra) cercando di essere in qualche modo protagonista; ma non di una vicenda della realtà che coinvolge anche gli altri, piuttosto di uno spettacolo in cui tende a far risaltare solo la parte esteriore di sé; un’ombra colorata, senza dramma.
Tuttavia può anche capitare in altre poche occasioni – come ho detto – che le pietre antiche sembrino risentirsi dal loro sonno – scosse dalle vicende attuali – e riprendano quasi a pulsare come materia che vuole essere di nuovo ricomposta per partecipare al dramma dell’uomo.
Ancora sul tempo antico
Ma al tempo in cui le pietre (in quello spazio ancora aperto e che solo allora cominciava a prendere forma) non erano ancora sporcate dal passare turbinoso del tempo, la vita della città si svolgeva più accentrata, più concentrata nella successione dei dettagli o nella ripetizione di grandi avvenimenti: “Le donne gentili danzavano in piazza / e co’ i re vinti i consoli tornavano”. Dunque un luogo anche di festa aperta, oltre che di aperti commerci, o di violenza; in cui godere, con più diretta partecipazione e con più verità di occasioni, i momenti della storia e della vita. La città allora completava la sua vita quotidiana, si può dire, in un delirio all’aperto.
Oggi non è più possibile rapportarsi alla realtà con la stessa immediatezza di un tempo; sperando di trovare una identificazione problematica, un corretto aggancio con riferimenti sociali in atto o legati a una cultura.
Scrive Gina Fasoli: “L’amore per una città è un sentimento su cui vale la pena di riflettere un poco: che vuol dire amare una città, la città in cui si vive o si è vissuti? È un sentimento non facile da decifrare nelle sue componenti […]”. Infatti, un sentimento non facile da decifrare. Dicono gli storici, e lo scrivono, che fu a causa dello “Studio” che la città cominciò a delinearsi, direi a “comporsi” – con più precisione – come importante centro civico; poi a prendere corpo con uno sviluppo urbanistico che sostituiva ampie costruzioni a piccole costruzioni (spesso palazzi a casette).
Riferimento culturale a livello europeo, all’inizio quasi esclusivamente per il merito dei maestri di diritto, che posero le basi (le fondamenta reali) di una fama che durò inalterata per secoli; la città di Bologna cominciò ad assorbire in forme sempre più massicce i vantaggi (direi “le provocazioni” sociali), quindi le spinte d’urto in avanti, di una immigrazione sempre più numerosa e in certo modo qualificata (in prevalenza, culturalmente qualificata), trattandosi spesso di docenti e studenti di ogni parte d’Europa. Tanto che la città, per rispondere alla richiesta dei nuovi abitanti e degli ospiti, si estese rapidamente esorbitando presto dalla strettoia delle prime mura – un perimetro ampio quanto un grosso anello.
L’espansione urbanistica dei primi secoli
Ma già nel corso del 1100 la consistenza urbanistica indusse a riesaminare le modalità di gestione di questo tessuto sociale così, come dire?, dinamico; tanto da arrivare alla scelta della formula del “Comune” come sistema di governo cittadino. Non tanto un governo di popolo ma un governo vincolato alla partecipazione reale del popolo.
Di questa prima espansione, comunque, della città si trova una prima documentazione urbanistica verso il 1080, quando viene costruita la nuova cerchia delle mura, che raccoglie all’interno un’area cittadina molto allargata. Un secolo e mezzo dopo, intorno al 1230 si può documentare un secondo e più sostanzioso allargamento della città e quindi delle sue mura di difesa. “In sostanza – è stato scritto – nel giro di meno di un secolo l’area urbana sestuplica la propria consistenza e s’assicura un suburbio rigidamente delimitato e di superficie addirittura tripla […]. L’ampliamento della superficie urbana fino alla seconda cerchia di mura – che verrà detta poi dei terresotti o anche, ma impropriamente, del ‘Mille’ – e la successiva chiusura dei borghi nella terza e ultima cerchia, entro la quale Bologna si manterrà senza ulteriori incrementi per oltre sei secoli, fin quasi alla fine dell’Ottocento, creano le condizioni per una revisione della struttura interna dell’abitato, in relazione anche al nuovo e diverso modo di gestione politica della città”.
Intorno a quegli anni, e comunque in un margine di tempo molto ristretto, dopo avere adempiuto all’obbligo, anzi alla necessità, di seguire e in sostanza controllare (si potrebbe già dire, anticipando: quasi in una funzione di servizio) la crescita demografica e urbanistica della città; adeguando a questa crescita il perimetro murario di difesa; la città definisce la individuazione del proprio centro effettivo – del proprio occhio pubblico – costruendo su terreni di volta in volta ma celermente acquistati i nuovi palazzi in cui collocare o adeguare i nuovi centri istituzionali, le nuove sedi della attività direzionale: politica, amministrativa, economica. Per alcuni dettagli (al fine di documentare sia pure in succinto quanto detto) è appena il caso di richiamarsi ai documenti di acquisto, fin dall’inizio del 1200, del terreno per la costruzione del Palazzo Comunale. Che, a stabilire e a confermare un rapporto sempre diretto con lo spazio aperto sottostante, e quindi con il popolo adunato, sarà subito fornito di un viadotto scoperto, sorta di prolungata balconata, molto stretta, che gira per la facciata. Così che da lì, in ogni occasione e momento, i reggitori del potere comunale potevano informare quasi faccia a faccia il popolo sui decreti appena promulgati, sulla disposizione e gli obblighi stabiliti; su notizie di pace e guerra appena giunte per corriere.
È dunque importante tornare a ricordare che lo spazio così aperto, e mantenuto aperto, nel cuore della città – che veniva subito non solo delineandosi ma precisandosi nelle sue funzioni – assumeva fin dall’inizio una prevalente funzione pubblica e civile; era cioè un luogo di raccolta, di radunata popolare nelle più svariate occasioni e per una diretta informazione fra il potere politico-amministrativo e i cittadini.
Si stabiliva così come luogo privilegiato (appunto, la piazza) per la più diretta, pronta socializzazione, in ogni senso.
Le costruzioni che seguirono negli anni, a meglio delimitare – pur rispettandone lo spazio già individuato e precisato nelle sue funzioni essenziali – la piazza pubblica, altro non faranno che servire non tanto a fini estetici ma funzionali, dentro al rigore delle scelte, la piazza “nova”; apprestata per una funzione pubblica e sociale; e organizzata senza alcun utilizzo di preesistenti strutture architettoniche o abitative. Appunto, meramente “nova”.
Insisto su questo punto, vincolante per capire la funzione del grande spazio centrale – riservato, definito e preservato nel tempo – all’interno dell’organizzazione politica e sociale di Bologna.
E “nova”, nel senso effettivo sopraindicato, la “piazza” resterà per secoli, non sottraendosi ad ospitare il suo popolo né nei giorni della sventura nera né nei momenti esaltanti di una ventura di guerra o comunque di lotta. Fino a non molti decenni fa, quando – come ho già ricordato – mutazioni epocali hanno sconvolto non solo l’immagine della piazza come zoccolo della città, ma la sua funzione per un rapporto continuato e diretto, anche se magari contrastato, con la gente.
S. Petronio e S. Pietro
Consideriamo, per esempio, la diversa utilizzazione culturale, religiosa e quindi sociale delle due chiese piantate, in poche centinaia di metri una dall’altra, nel cuore della città: S. Petronio e S. Pietro. Le dividono 400 metri ma sono distanti chilometri. La prima, che prorompe a cielo aperto e sembra morsicata dal tempo, così smozzicata, è invadente o imponente ma senza opprimere. Lì pronta ad aprire porte e finestre per accogliere gente, è un prolungamento naturale della piazza, un suo imbuto mistico; un cuore disposto ad ascoltare le voci del popolo, a sopportare le pene di chiunque abbia il sentimento di cercarlo. Adagiata dentro alla sua pelliccia di marmo schiarito come un orso che non vuole rintanarsi, S. Petronio pulsa calore perfino sulla drammatica solitudine dei giovani che si rifugiano contro il suo portone.
La seconda, S. Pietro, è così severa che incute rispetto; slitta contro il cielo sottraendosi, pare, ad ogni confronto con le case intorno, con la gente; anzi, dall’alto sembra premere come un incubo che ammonisce più che intenerirsi; come una nube che non intende muoversi semmai portare qualche nerbata di pioggia. Si stabilisce nella sua esclusiva funzione di sentinella di Dio; alto luogo dedicato non tanto alla cura ma alla salvezza dell’anima. Mentre S. Petronio, che appartiene alla città, si stabilisce come sentinella degli uomini, disposta ad allargare le porte e le braccia e a riceverli, dolorando.
In questa esplicita contrapposizione è ancora una volta verificabile, se non sbaglio, la diversa disposizione della società bolognese, in continua alternanza fra terrestre e celeste, fra corpo e anima, fra necessità di vita e divinità sperata, fra riso (risentito e talvolta aspro) e inquietudine profonda, ferita da qualche prolungato affanno della speranza. Convalidando così la costante drammaticità di questa città straordinaria a malconosciuta.
La festa della porchetta
Mi pare utile, sempre per chiarire anche visivamente la situazione urbanistica del centro cittadino negli anni antichi ai quali ho fatto riferimento, indicare lo studio utilissimo anche se non recente di uno storico che delinea, con supporti grafici, i successivi adattamenti urbanistici della piazza. Da questi grafici deduciamo lo spazio ancora disponibile intorno e poi, via via, le modalità di assunzione di questo spazio, l’abbattimento delle precedenti costruzioni, l’edificazione delle nuove costruzioni pubbliche o civili; molte delle quali arriveranno fino a noi.
Mi riferisco al Palatium Vetus (Palazzo del Podestà), primo fra tutti, che si proporrà come protagonista unico per circa mezzo secolo in questo spazio ormai configurante il centro della città. Poi il Palatium Novus (Palazzo di Re Enzo), che completerà e organizzerà le sedi del potere effettivo cittadino, in un periodo in cui l’aristocrazia comincia ad essere se non direttamente insidiata, condizionata dall’insorgente potere popolare; quindi in un certo senso limitata. Potere che era coordinato ed espresso dalle varie “società” dei mestieri e delle arti, molte delle quali avevano la sede nelle case o nei palazzi prospicienti la piazza.
È dunque – ripetiamolo – il 1200 il secolo che dal principio alla fine vede delinearsi nella sua consistenza di grande luogo pubblico la piazza; questa piazza. Anche come contenitore dei rapidi scontri o delle violente battaglie delle fazioni cittadine, che bagnavano le pietre di sangue. Su tutte, la guerra che vide impegnati in una successione incredibile di spietatezza i Lambertazzi e i Geremei; insieme alle rispettive parti. Data storica da ricordare, intorno a questo evento, il 2 giugno del 1274; quando i Lambertazzi sconfitti dopo mesi di guerra per i vicoli della città dall’altra potente famiglia, sfilarono in più di 12000 per la piazza prima di uscire oltre le mura abbandonando Bologna, che restò così mezza deserta; minacciando un ritorno prossimo e una prossima vendetta.
Molti storici sostengono che per celebrare e testimoniare l’importanza dell’avvenimento, si cominciò da quel giorno a dar corso alla Festa della porchetta, vera festa popolare di Bologna, allestita sempre in piazza e diventata nei secoli il momento più sconvolgente di spettacoli, di eccezionali azioni teatrali, di giuochi e di conseguenti violenze o entusiasmi.
Altri cultori di memorie patrie, invece, ricollegano l’avvio a un avvenimento altrettanto e forse ancora più importante, cioè alla sconfitta di Enzo re alla Fossalta e al suo successivo trasferimento nella prigione bolognese, nell’anno 1249.
Come che sia, basterà annotare che la festa, ripetuta nei secoli fin quasi all’Ottocento, assunse aspetti via via sempre più grandiosi, che sconvolgevano l’assetto della piazza e che sono documentati con maestria minuta e affascinante nelle tavole a colori delle Insignia degli Anziani custodite all’Archivio di Stato.
Giostre e patiboli
A stabilire la centralità della “piazza” per la vita sociale e amministrativa di Bologna, si deve aggiungere che in questo luogo si erigevano i palchi per le esecuzioni capitali o per bruciare le donne condannate come streghe dai cupi pregiudizi dei tribunali. Oppure che, all’opposto, vi si disputavano le giostre o i tornei dei cavalieri, a partire dal 1147 e sino agli ultimi anni del Settecento. In queste occasioni si costruivano in piazza palchi contrapposti; collocati davanti a S. Petronio, anzi sulla scalinata della chiesa, e riservati alle donne; sotto il Palazzo del Podestà, e riservati agli uomini.
All’inizio, questi scontri erano così spietati da procurare ferite gravi o da lasciare per terra i morti; avanzando nei secoli, soprattutto dal Rinascimento, l’apparato guerresco adeguandosi alla cultura, ai costumi, ai sentimenti del tempo si ammorbidì; trasformando la ritualità violenta dell’azione in una sorta di cerimoniale amoroso, in cui la donna era diventata il personaggio centrale; e la protezione della donna, l’omaggio a una donna era l’obiettivo del cavaliere, la ragione del suo giostrare in piazza.
Tuttavia, essendo sempre presente un clima di accesa competizione all’interno di queste azioni bellico-rituali-scenografiche, la violenza di fondo un tempo in atto sul campo veniva riacciuffata dal popolo, che la gestiva come una occasione straordinaria per zuffe private, risse, tafferugli, grida, inseguimenti dentro e fuori la piazza. In ogni modo l’evolversi dei tempi, con segnali che inevitabilmente vengono recepiti anche dalla “piazza”, consente di trasferire la truce violenza – una volta esplicita nei giochi popolari o nei giochi abbastanza perversi proposti o quasi imposti dai nobili al popolo – in atteggiamenti e in azioni meno truculenti o in forme meno assatanate di spettacolo. Così vediamo che si dà sempre più spazio – non solo nella normalità ma anche nelle occasioni di avvenimenti o celebrazioni molto importanti – ai giochi di destrezza o di fantasia o all’acrobazia; in modo che nuovi protagonisti si intrufolano nella piazza a riempirla di rinnovata vitalità.
Non era raro, d’altra parte, che giostre o tornei fossero organizzati di proposito durante la visita o il passaggio in città di personaggi molto illustri o regali; allora, se erano donne, venivano indicate o scelte come regine di quel torneo. Come accadde nel 1655 a Cristina di Svezia, quando sostò a Bologna in un suo viaggio verso Roma. Altre volte, invece, per i potenti della terra venivano messi in opera marchingegni che per pochi giorni oppure per qualche mese riuscivano a sconvolgere il volto stesso della piazza. Un’occasione ancora memorabile fu, fra il 1530 e il 1531, la permanenza di Carlo d’Asburgo, venuto qua per essere cinto dal papa con la corona imperiale e per un convegno politico che durò parecchie settimane. I bolognesi allestirono un ponte di legno che da Palazzo d’Accursio arrivava sul sagrato di S. Petronio, al fine di consentire all’imperatore, al papa e a tutti i dignitari di muoversi senza alcuna molestia da parte del “populazzo”.
A stabilire magari alcune convergenti ma non certo strabilianti identità o somiglianze storiche, si può anche annotare che per l’occasione a Bologna si impegnarono in un grosso sforzo di pulizia cittadina, di riordino o riadattamento viario, di sistemazione dell’acciottolato, delle facciate delle case; un tentativo di ricontrollo e abbellimento per rendere gradevole non solo il volto esterno della città ma per migliorare i suoi servizi essenziali. Così come capita in questo anno 1990 per il campionato mondiale di calcio, in tante città italiane. Anche allora, inoltre, furono poi coinvolti molti grandi artisti per inventare continue sorprese spettacolari in quei mesi di sfarzo, di movimento, di feste, di convegni.
Bandi sul degrado
Era vero infatti che, fuori dal palcoscenico delle parate ufficiali, la situazione dell’igiene pubblica e lo stato di degrado in generale delle costruzioni private erano ormai non più sopportabili, tanto da costringere a interventi diretti delle autorità. Potrei ricordare, fra i tanti possibili, il bando in data 5 maggio 1588 del vicelegato di Bologna, che esemplifica anche situazioni precedenti, con l’ordine “che non si debba orinare, ne fare altre sporcizie, ne indecentie presso le mura, ne sopra le Scale della Chiesa di S. Petronio”. E ancora: “Volendo […] provedere al dishonesto abuso, qual con poco honore e rispetto del Signore Iddio da alcuni mal creati, e dishonesti huomini è posto in costume, in Orinare, e anco scaricare il ventre dinanti la facciata della Chiesa di S. Petronio verso la Piazza […]. Vietando similmente, che non si possi giocar suso li murelli di detta Chiesa, così dinanti detta facciata, come dalli lati, ne meno attacarli Agnelli, Capretti, o altri animali per scorticarli […]”.
Altri bandi, sempre di questo secolo, sono affissi contro l’uso ormai continuativo di “lavar herbaggi, bugate et altre immonditie alla Fonte di piazza”. La “piazza”, dunque, confermatasi nel bene e nel male il vero “umbilicum urbis”, il cuore della città; sanguigno palpitante sporco vitale. Perché è vero che, trapassate le occasioni ufficiali, le grandi feste o le giornate di gloria – quando gli apparati o gli orpelli confondono e mescolano la miseria popolare allo splendore e all’albagia dei nobili – piazza Maggiore torna a riaffermare la specificità della propria realtà quotidiana: quella di bazar, di mercato levantino, di luogo di piccoli affari, di sbocchi truffaldini, di grida, di voci, di popolo in continuo movimento; e di mariuoli. Si alzano e si aprono ogni giorno botteghe e botteghini, tavole, trabacche (piccoli padiglioni aperti, riparati da una semplice tenda) e bagaglie (cianfrusaglie radunate); che utilizzano quasi per intero lo spazio disponibile e coprono, meglio: nascondono la piazza agli occhi di chi volesse osservarla e un poco anche goderla intellettualmente.
Perciò alla fine del Cinquecento vengono emanati bandi non più soltanto intimidatori ma rigorosi e precisi per cercare di dare un ordine all’intreccio quasi indistricabile di questa vita commerciale. Per esempio, con il bando in data 15 settembre 1594: mercato solo il sabato; ciascun venditore collocato dentro a uno spazio indicato, corrispondente al genere della merce: i pignatari a fianco di S. Petronio (e anche oggi, lì, troviamo via de’ Pignattari); i merciai lungo l’odierna via Ugo Bassi; i rigattieri in fondo alla piazza del Nettuno; i venditori di vasellame in piazza Galvani (allora delle Scuole); chi vendeva mobili, contro il Palazzo del Podestà, di fronte alla via Orefici. Le ortolane, numerose, alla mattina potevano sostare in piazza del Nettuno, alla sera anche di fronte al Palazzo Pubblico. Ha scritto Giancarlo Roversi: “Il mercato in piazza, con le sue mille suggestioni folcloriche e pittoriche e la sua immensa carica di umanità, ha connotato il cuore della città anche durante i primi settant’anni dell’Ottocento col suo contrappunto di colori, di odori, di suoni e di sussulti vitali”.
Fine del mercato in piazza
La chiusura di questo secolare centro cittadino di vendita al minuto e di incontro popolare avvenne nel 1877, quando la Giunta comunale ordinò il trasferimento del mercato (uno sconcio che deturpa il centro della città, dandogli un’impronta provinciale) in piazza VIII Agosto, consentendo ai venditori di alimentari il passaggio in piazza S. Francesco.
Leggiamo una pagina di Alfredo Testoni che si può trascrivere per elencare le reazioni della città in occasione di quel trasloco molto contestato: “Allorché il municipio decretò che dalla nostra piazza Maggiore se ne andassero i venditori di commestibili, gli erbivendoli e i merciai che sotto botteghe ambulanti fatte di stuoie gridavano a squarciagola la loro merce, le proteste salirono tanto in alto che per poco non successe la rivoluzione […]. Pareva un controsenso, una profanazione; tanto era inveterata quella usanza, che da noi “l’andare in piazza” anche adesso significa semplicemente “andare a spendere al mercato”.
Così dunque appariva, prima che si disperdesse, piazza Maggiore; piena di gente, di traffici, di voci dell’autentico popolo bolognese e anche di suoni. E per i suoni non possiamo dimenticare, sia pure in questa contratta enumerazione di dati importanti, la storia parallela della musica nella piazza di Bologna.
La musica in piazza
Fin dal 1200 ogni bando dalla ringhiera del Palazzo della Signoria veniva preannunciato da squilli di tromba dei banditori. Ma è alla metà del Quattrocento che si comincia ad accompagnare le uscite pubbliche dei magistrati con la musica, avendo il Comune costituito appositamente un gruppo; che circa un secolo dopo raggiungerà un organico di 19 elementi. Questi, quasi ogni sera e fuori dagli impegni di cerimonie ufficiali, proporranno veri concerti riservati alla cittadinanza, dalla ringhiera del Palazzo e con il pubblico in piazza; sempre più graditi per l’alta qualità d’esecuzione. E per esemplificare l’interrelazione intervenuta in seguito, sul terreno mobile e vitale della piazza, tra vita popolare, vita spettacolare, vita di traffici, vita politica e vita musicale, è forse sufficiente richiamarsi al dramma in musica – allestito per la Festa della Porchetta e andato in scena il 24 agosto 1627 – di Camillo Cortellini “decano dei musici della Signoria, sonatore di trombone in quest’ultimo complesso e in quello di S. Petronio”. Una tavola delle Insignia illustra lo spettacolo rendendolo vivo.
Con il fascino del colore e del disegno si vede che avevano alzato anche uno “schermo gigante” con un bel panorama di verde e di cose, sopra una marea di gente. Ma può interessare la cronaca finale di questa festa; una delle tante, nei secoli, che in ogni caso hanno stabilito la specificità dello spirito e della cultura popolare bolognese; portata a una teatralità realistica, sanguigna, infervorata, quasi da toccarsi con mano e poco rassegnata a lasciarsi indottrinare dallo sperimentalismo astratto, sofisticato, esangue e a concedersi alla rarefazione dei sentimenti: “L’essito di questa festa non lo registro sovra il presente foglio, perché il giudizio di quello va lasciato all’universale. So che la plebe più bassa sodisfatta, si per le prede fatte con gran sollazzo de’ riguardanti, degli animali in larghissima copia dispensati, tanto di terra e d’aria, quanto d’acqua; si per l’abondantissima quantità de’ vini, che pioveva da molte bande della montagna, ha per molti giorni continuato un mormorio d’affettuosi applausi. So bene che provocando questo negozio moltitudine di forestieri notabile, e reputazione ed utile considerabile ha recato alla nostra città. So che la nostra piazza e palazzi che la circondano non si sono mai fatti più bel teatro di quello che si fecero quel giorno, si per quantità, come anco per la qualità di persone”.
Conclusione
Gli applausi affettuosi, che stabiliscono il vero sentimento del consenso cittadino, sempre nei secoli; come ritrovarsi a una partecipazione diretta e comprensiva delle scelte di fondo della comunità. Poi la reputazione e l’utile, ricercato e constatato come compenso o conseguenza delle operazioni proposte, delle scelte realizzate.
Sembra, nella chiarezza di questa indicazione, che nulla sia cambiato – o cambiato di poco – come connotazioni di fondo degli umori cittadini. Una volta, si può ancora ripeterlo, protagonisti reali della vita di questa piazza major, piazza Maggiore, che vede ergersi in una severità che non è senza una carica di serenità controllata la chiesa, focolare di fede e di civismo, proprietà del Comune, cioè del popolo di Bologna.
Ed è accaduto con emozione, proprio mentre sottoscrivevo le ultime righe, che nel cielo non ancora troppo estivo esplodesse all’improvviso il suono delle campane. Una carica inesauribile di suoni che si rovesciava per navigare l’aria, mare misterioso e senza troppi confini. Segnalavano che in quel momento si avviavano le celebrazioni per i seicento anni della chiesa che dureranno in vario modo fino all’autunno. Insieme, per questa scadenza secolare, si trovavano il cardinale e il sindaco della città. Non ospite ma antico padrone di casa. Appunto. Per concludere, vorrei prendere le oneste parole da un opuscolo del 1609, compilato da Camillo de’ Conti di Panico, che celebrava in versi “Le bellezze della Piazza di Bologna”: “Onde s’ho fatto errore, chiedo perdono. / E mi dedico, e dono / Perpetuo Servitore, / A’ chi vive signore / Di quest’Alma CITTÀ famosa tanto, / Che ’1 Mondo poche n’ha di simil vanto”.
Bibliografia
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Secchiaroli G., “Andiamo in centro?”. “E lo psicologo: Ma cos’è il centro?”, “Bologna incontri”, a. X, n. 9, settembre 1979.
Sorbelli A., Bologna negli scrittori stranieri, Edizione anastatica integrale a cura di G. Roversi, Bologna 1973.
Vianelli A., Le piazze di Bologna, Roma 1984.
Walter Tega (a cura di), Storia illustrata di Bologna. Bologna contemporanea: gli anni della democrazia, 22/V, AIEP Editore, 1990.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: saggi critici
- Testata: Storia illustrata di Bologna, a cura di Walter Tega
- Editore: AIEP Editore
- Anno di pubblicazione: 22/V, 1990