Per te siamo usciti all’aperto (Testo su "Il primo Dio" di Emanuel Carnevali)

(Testo su Il primo Dio di Emanuel Carnevali)

 

«Per te siamo usciti all’aperto, noi vecchi sperduti nel buio. È per te che i rifiuti hanno conosciuto un tremito e un topo vivo ha potuto strascicarsi fuori delle immondizie».

W.C. William

 

1. Non la realtà nella poesia ma la poesia nella realtà. E, dio mio, alla larga gli annotatori borghesi che in ogni occasione, seduti davanti a una tazza di tè, cercano di rubricare e catalogare, dopo averlo definito, il demoniaco. Il demoniaco in arte.

2. Carnevali, come pochi altri, si affronta aggredendolo. Non lasciandosi commuovere. Opponendogli violenza a violenza. Non contrastandolo. Piuttosto: non lasciandosi sopraffarre. Spesse volte è grande e potente nella sua debolezza così poco armata; o può sembrare, ed è, ossessivo e iterativo fino alla noia angosciata. Dico che può sembrare troppo aggressivo, perché incalza quasi con monotonia e non dà pace; ma poi, parecchie volte, per troppo eccesso, crolla esausto e lascia libero il campo − su cui contende contro le voci ufficiali o le prevedibili dimenticanze degli addetti ai lavori. Tanto che dovrà riprendere il discorso, l’intero impegno, la lotta maldestra ma straordinaria, da capo. Dal principio. Questo, di essere continuamente rilanciato (ricacciato) ai bordi, nonostante tutto, è il suo destino. Di essere fermato, bloccato a metà. Direi che è la totalità del suo destino. America, tu eri un peso terribile sulle mie fragili spalle, pag. 80.

La situazione esistenziale di aleatoria drammaticità (nel senso, sì, di una totalità di coinvolgimento ma anche di una alternanza di situazioni variamente disposte); di impossibilità oltre che di incapacità nell’approdo a lidi più consistenti, tranquilli, solidi, rassicuranti è l’aspetto più straziante della biografia di un autore rimasto completamente giovane, fuori da ogni monumento, fuori da ogni fotografia (così poco lungimirante); rimasto vivo e integro soltanto dentro i disegni degli amici: 1) di Ezra Pound, 2) di Ethel Moorhead, 3) e quello − straordinario − di Primo Conti.

3. Ma non ho intenzione di stendere un saggio con annotazioni critiche rifinite (neanche mi compete) su testi così poco malleabili e catalogabili. L’impegno, purtroppo fino ad oggi non adempiuto, spetta ad altri. Per me, vorrei radunare solo alcune note in margine ai fogli della mia lettura, in margine alle pagine lette (spesse volte, rilette); partendo magari dal suo demonismo, maledettismo (una perseverante e ossessiva insoddisfazione del cuore). Infatti era piccolo minuto contratto. Un fascio di nervi più che un fascio di volontà. Un fascio di nervi, però, che via via si andava sfilacciando.

4. Un poeta non dovrebbe avere vissuto. Non dovrebbe essere mai nato, mai morto, mai passato per una strada. O vissuto così lontano lontano da poterlo avere e poterlo tenere sempre sotto gli occhi. Io che non ho (né potrei avere) alcuna competenza specifica mi sento ugualmente coinvolto in profondità come lettore interessato, nella storia (nelle carte) di questo eroe macilento e sperduto eppure attento al mondo fino al parossismo (un mondo riflesso dentro al proprio cuore); di questo autore italiano − nonostante la lingua usata quasi in esclusiva fosse l’inglese, anzi l’americano − in quanto l’italiano è la sua vera lingua anche se per lui è una lingua perduta; dato che dall’Italia e per conseguenza dall’italiano come comunicazione è stato prima «emarginato poi violentemente respinto». Si impossessò della nuova lingua e negli otto brevi anni che restò in America la trasformò in poesia e prova rivoluzionarie. Questa emarginazione è stata una violenza generale in una violenza particolare; una costrizione insistita progressiva terribile indotta nell’ambito di una perdita di identità; quindi è stata una vera lacerazione. Mai consumata fino in fondo, però; al contrario, difesa. Così si può parlare, come ha fatto giustamente Palmery, più che di una perdita traumatica di identità, di scrittore italiano in lingua anglo-americana. Dicevo: Una lacerazione difesa coi denti perché non degenerasse; con un coraggio nelle idee, nell’informazione decisive. Questa volontà di mantenere nonostante tutto, difendendola, una identità culturale e di registrarla, chiarendola e spiegandola, nei collegamenti fra le due parti, resta un fatto fuori della norma; a conferma della vitalità culturale di Carnevali e dell’importanza ancora in atto della sua operazione.

5. Diffidare dei poeti maledetti. Non guardarsi da loro. Ma diffidare delle biografie inventate dilatate incrementate sulle biografie reali; col gusto sadico dell’aneddoto, del particolare curioso. Infatti certa storiografia letteraria sembra disposta e interessata solo alla tragedia nella corsa della vita. O, come si potrebbe dire in altre parole, all’incidente mortale; alla violenza improvvisa che uccide o può uccidere. Allo spettacolo della morte. Della morte dell’altro. Per ciò tanti critici, amanti della corrida, sono tifosi anche di pugilato; tifosi anche di corse di formula uno. Gli scontri in gara, le lamiere che volano in aria col fuoco le fiamme e il fumo; forse anche la morte del pilota non esplicitano la violenza straziata di una vita d’artista che esplode, si frantuma, si insegue, si condanna, si consuma? Lo spettacolo, tale e quale, potremmo trasportarlo nella nostra vita, che è anch’essa una vicenda di corse, di egoismo, di vittorie, di rapide sconfitte non prevenute; una vicenda piena, intercalata da pericoli improvvisi, difficili da raccontare. Se c’è lo scontro violento, dunque, con quelle fiamme quel fumo quel fuoco, allora tutto bene, sarà possibile che si dedichi un poco di attenzione allo spettacolo privato di una vita che si consuma in una rapida fiammata, dentro i giorni. Poi si passa altrove, comunque; ad altri spettacoli nuovi, immediati. Ma questo in generale. C’è il fatto che Carnevali qua da noi non ha goduto né gode neppure di questa curiosità maligna; e che i suoi critici si contano sulle dita di una mano.

6. Diffidare, ripeto, dei poeti maledetti. Perché, da parte dello spettatore disarmato, c’è il rischio di una immedesimazione come nei film di John Ford; e il poeta che è lì davanti, autentica statua di sale, protagonista indotto e non uomo a cuore scoperto, sembra o può sembrare nient’altro che un soldato del Settimo Cavalleria con la bandiera al vento, la tromba che suona e con la freccia indiana conficcata nel petto. Per carità! Questo è il rischio principale e ben definito, per entrare in argomento, all’interno di una cultura, di una letteratura (la regione delle lettere) quale è la nostra del Novecento. Intendo letteratura italiana, è ovvio, con i relativi luoghi confinanti dedicati ad altre arti e mestieri. Gli esemplari da museo, fino a pochi decenni fa, erano due professori d’università e un esteta con i cani − d’altronde abile, acuto e abbastanza coraggioso.

7. Insomma, non c’è molto e non c’era molto da stare allegri in riferimento a un futuro prossimo venturo, in quanto ogni atto e ogni fatto ci legavano piuttosto al passato. Il nuovo − sempre, nel corso degli anni − era troppo nuovo per essere credibile, encomiabile, giudicabile.

Dino Campana, per fare un esempio. Campana è morto in manicomio e chi si è visto si è visto. Mica era tanto osannato. Gli applausi andavano ad altri. Soffici gli smarrì perfino il manoscritto dei Canti. Così Campana Dino, morto in quel luogo e in quel modo, ci è stato seme presentato con un sospiro ammirato ma con un volgere d’occhi che alludeva al suo essere matto. Più che il fulgore dilacerato e stravolgente delle sue poesie valeva l’atto, ripetuto, di strappare la dedica a Guglielmo II del libretto appena stampato a Marradi. Era dunque, dell’iconografia ufficiale, una specie di bel tenebroso popolare, agitato dal fremito di cose incontrollate e violente. Campana morì fuori dalle regole, strambo fino al parossismo; immemore del bel canto diffuso; quindi era un individuo autore di opere da cui diffidare un poco, con malizia.

8. Emanuel Carnevali ha sorte uguale per il sentimento comune, tranne la pazzia che consuma; ha rischio uguale anche se il male è diverso (più subdolo e opprimente). Che il raccogliere cicche per le vie di New York contrassegni la sua biografia (un momento della sua biografia) con un dato patetico e degradato che l’establishment recepisce con un piccolo brivido di cinismo; quindi che anche da noi il lettore dell’Adelphiana, che ha una maschera precisa, senta un freddo nelle ossa per quelle calamità per fortuna ormai così lontana, è un dato di fatto. Anzi, sono due dati di fatto. Il brivido esiste, permane; condiziona anche il giudizio, invitando alla indulgenza. Ma tutta la vita di Carnevali è distorta, è sempre stata distorta. Anche da lui stesso. Anche da quel suo partire per l’America con una disposizione d’animo ben diversa da quella del ragazzino deamicisiano di Dagli Appennini alle Ande. Allora, De Amicis è stato già bruciato nel rogo avviato dallo sviluppo capitalistico, duro e sgretolato ma implacabile, di casa nostra; e gli emigranti sono romani leoni in gabbia. La mitografia dei buoni sentimenti e delle lunghe distanze è sconvolta.

9. La madre è morta quasi perfidamente ma incolpevole. Era una donna senza storia e senza memoria; forse un’ombra con un poco di luce intorno, che il figlio raccontando le largisce. Il padre infame («mi odiava troppo per picchiarmi») lo detestava tanto, sentendolo come il peso di una cosa, da spingerlo a partire, giovane disarmato, pur di toglierselo dai piedi. Il padre sarà commemorato così dal figlio: da allora mio padre è morto. Non so come sia morto, epperò è morto. Dio maledica l’anima sua. Non era degno di restare in questo mondo e se una delle lettere che gli scrissi ha accelerato la sua morte, ne sono più che felice. Ma il padre è solo uno degli emblemi negativi contro cui sciogliere i cani. Oltre la madre come ho detto, qualche volta, c’è anche il fratello, qualche volta. C’è perfino la zia, fissata in uno smarrimento continuamente irrorato di lacrime, di qualche tenero sorriso, di piccole commiserazioni autopunitive. Un personaggio non tragico ma «fortemente» patetico, con una durezza di presa che la lingua narrativa riprende con una struggente selvatichezza.

10. Lui, cioè Carnevali, che era come fuori dal mondo; che era stato cacciato dal mondo in una situazione di esasperata e ossessiva marginalità (fra la strada, le squallide camere ammobiliate che durano una notte, gli sciacquoni delle traiettorie e le elargizioni di amici poeti − più noti, in definitiva un poco più felici, comunque più ricchi); lui, cioè Carnevali, tendeva, in questo mondo disossato e odiosamato, a rientrarci; anzi, a rimpossessarsene; con un atto non intenerito o incerto nella tenerezza, ma totale; in quanto era un mondo non da tollerare ma da strapazzare con furia e infine non tanto da rifare ma da ricomporre col beneplacito, che è uno sforzo diretto e irridente, della poesia. Il suo ritornare nel mondo, prendendo in qualche modo possesso nella e con la fantasia, era senz’altro un atto inevitabile, un atto da compiere durante il suo soggiorno in America; per necessità, per volontà ma senza fatica; senza fare fatica. Senza lo sforzo crudo della pelle. Solo col cuore.

Ha una giovane moglie contro cui si avventa, oppure con lei si distende a perdere il tempo per dodici ore filate, facendo amore e amore; ma, dice, il suo amore si reggeva soltanto su di me. Si definisce un pescatore alla deriva; eppure è continuamente eccitato, fino ad essere travolto, dall’idea di lavorare di scrivere e di emergere con la poesia; di poter diventare famoso. La poesia, dunque, come salvezza. Come salvezza totale. Punta tutto su questa comunicazione straordinaria diretta e ambigua, per emergere dai flutti della vita quotidiana che né lo redime né lo acquieta; e a cui affida il compito essenziale, quasi tremendo, di salvarlo. Meglio: di liberarlo. Ma finisce invece, per il giuoco della vittoria capovolta, a precipitare nel grigiore delle ore senza luce, senza fiato; per sentirsi coinvolto nella tremenda Paura delle Paure e della Miseria di tutte le Miserie. Perché chi diavolo ascolta i poeti se non altri poeti?

11. La poesia, la letteratura, l’arte di Carnevali sono senza dubbio, a mio parere, una poesia ecc. di ricerca dell’ordine dei sentimenti. Sono l’ordine straordinario del suo disordine. Perché aveva sempre bisogno di lodi; perché riconosceva che la sua bontà era realmente un potere; e quindi che su questo potere poteva organizzare una prima ricerca, una prima ricognizione di se stesso; e perché poteva affermare nei momenti più tesi della delusione quotidiana, che nella sua vita non c’era stato nulla di veramente trionfale. E invece di un trionfo aveva sempre bisogno (anche solo aspettandolo) per riabilitarsi non agli occhi degli altri ma ai propri; per soddisfare nell’unico modo congeniale il suo bisogno di vita. Scriveva a Papini: «Ho il diritto di vivere, di credere che sono vivente. Ma non sono un vigliacco. Sono felice... Perché, per ora, per una o due ore sono certo che vivo».

E un poeta inesauribile negli stimoli che produce. E brucia a secco. Non permette sgarri né li tollera. Chiede una partecipazione completa, e che possa continuare nel tempo. Io, per me, vicino gli collocherei Corazzini, per quella esilità da gigante; per quel sentimento straziante di vita che fugge e per la generosa speranza dentro a un dolore sempre più precipitoso. E ci collocherei Campana, perché era un poeta che moriva viaggiando per mare o camminando solitario per la montagna e perché subito dopo che era approdato dimenticava il viaggio e si rimetteva a sperare (sognare, ma in modo furibondo). Tutte le città di Campana sono viste o sembrano viste da un porto, da una nave. Anche una città di pianura come Bologna sembra gonfia di onde e brilla col suo fuoco di calce viva dentro ad acque profonde. Ad ogni pagina a me sembra così. Io vidi dal ponte della nave i colli di Spagna svanire, nel verde dentro il crepuscolo.

12. Carnevali, piantato come un giovane albero in un terreno neutro, né qua né là, né città né campagna, né New York né Firenze, patisce fino in fondo il peso di una ambiguità mascherata, atroce e fragile, a cui non poteva sottrarsi ormai più e che lo prosciugava di volta in volta lasciandolo senza fiato. E senza pace. Qualche volta anche senza vita. Come ha scritto Robert McAlmon, né l’infanzia a Firenze, né i suoi giorni di New York e di Chicago erano stati giorni felici. Ha cercato cercato cercato; ha poco trovato, ha provato, ha tentato dibattendosi (proteso) in uno sforzo di ricerca, e di attesa, certamente fra i più intensi (e fra i più brevi) del nostro secolo. Poi è ritornato (vinto? Vincitore? Rassegnato? O già esausto?) in questo paese che ha nome Italia e che gli ha offerto l’ospitalità del suo ospedale. Era ritornato in Italia che, diceva, non merita i miei ringraziamenti.

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: saggi critici
  • Testata: Acrobat Mime Parfait
  • Editore: Acrobat
  • Anno di pubblicazione: n. 1, 1981
Letto 2113 volte Ultima modifica il Giovedì, 15 Marzo 2018 09:10
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