Bomba o non bomba
I cattivi pensieri dei giovani non si avverano mai; piuttosto sono i cattivi pensieri dei vecchi che si avverano, spesso. In ogni modo, oggi sono vecchio vecchio ma anche buono e bianco come un uovo di struzzo e mangio lo zucchero sulla mano della gente come fanno i cavalli gli asini le capre o i daini.
Per questo posso ricordare, confessare un cattivo pensiero di quando ero giovane, molto giovane, ed ero una carogna; e che mi gratta dentro come un tarlo in una trave di legno. Anni 1943-1944, ultima grande terribile guerra.
Americani e inglesi birillavano allegramente Bologna dall'alto, con bombe che scendevano fischiando come un giovane in bicicletta per una strada di campagna.
Gli aerei si presentavano sempre allineati, e luccicavano nel cielo simili a un branco di colombacci pitturati in argento con lo spray; però ci confettavano con un vassoio di bignè alla crema da duecento chili. Mica era uno scherzo, allora.
Le case si sbriciolavano, le pietre volavano dentro la polvere schizzando; e un gran bordello diventava la vita intorno, una danza disperata fra urli richiami voci e qualche bestemmia. Ma pianti, soprattutto.
Ecco che, giovane giovane e scriteriato in mezzo al frastuono, mi auguravo che se quella era la fine del mondo almeno una bombuccia bombetta si depositasse con garbo sul tetto della mia scuola e la facesse, senza dolore per altri, senza sangue di altri, saltare in aria.
Bum, ciack, addio!
Sicché il giorno seguente, arrivando, trovassi travi fumanti, calcinacci, porte divelte, pietre smosse dal soffio furioso del fuoco. E sull'androne dell'ingresso mi sorprendesse il vuoto contro il bianco impolverato del cielo – simile all'occhio avido di Polifemo nel racconto di Ulisse – storia preclara che si leggeva e studiava in quelle giornate invereconde.
Invece le bombe cadevano cadevano, alla fine anche su casa mia, che si bucò svuotandosi e lasciando in piedi solo i muri esterni con le finestre squinternate senza vetri. Un grande dolore. Sul davanzale di una di queste finestre, chissà mai per quale giuoco dentro la violenza dei venti, il paio delle mie prime scarpe da sciatore, mai calzate, sporche di polvere, di fumo, quasi a dire prendici prendici siamo ancora qui.
Fra rabbie cupe e mie strane fantasie laceranti, la città di Bologna poco per volta quasi scompariva nel macello che non aveva fine; mentre il dannato palazzone scolastico si reggeva sempre in piedi come un serpente indiano al suono interminabile di un flauto.
Una bombetta soltanto, fra le tante, vi prego, voi ballerini americani di ritmi sincopati (così si pensava, da noi); cosa vi costa una bomba fra tanto lusso di ferro e di fuoco?
Senza fare male a nessuno, spaccando solo vecchie pietre piene di una muffa grigia, un tetto di coppi, un portico scrostato come la pancia di un cane con le zecche?
Per favore, sergente americano!
Niente. Niente di niente.
Mentre la città crollava, la scuola rintanata fra le sue ombre è rimasta intonsa come un libro e ricoperta, nei muri, di una polvere bianca e densa, tanto che sembrava spalmata di panna.
Anche a letto, per mesi, a occhi aperti, senza sognare, ascoltavo il rombo dei colombacci d'argento che bivaccavano in cielo e dicevo questa è la volta buona, adesso sento il botto confortatore, il sibilo degli dei. Senti come cadono, senti come fischiano. Senti...
Mi vergogno di tutto ciò; non mi vergognavo allora. Ma adesso: può uno studente, per quanto inebetito dalla violenza dei lupi, per quanto incarognito, sperare che bombardino la scuola per liberarsi da un incubo?
Basta là! Quelli erano tempi bui e anche un ragazzino poteva perdersi, naufrago involontario, in mezzo alla tempesta. Oh, adesso mi ricordo di un altro cattivo pensiero quando, ancora più indietro nel tempo, sgambettavo sulla prima bicicletta a quattro ruote e non desideravo altro che di mordere il naso del contadino Berto.
È la pura verità.
Berto, Berto. Piccolo, grasso come una botte mezzana di vino, abitava di fronte a noi e lo sentivo sempre gridare. Era il suo modo di parlare dalla vigna in declivio alla strada, o di chiamare per nome, una per una, verso sera, le vacche all'abbeverata.
Quando gli ero vicino e lo guardavo dal basso, quel naso a me sembrava che da solo facesse molta ombra; anzi, che se la tirasse dietro con una cordicella fuoriuscita dai buchi neri del naso, mentre erano i peli lunghi, incolti che lo cespugliavano.
Grosso, rosso come il cocomero spaccato, tutto a bitorzoli comele patate raccolte da tempo, irrorato dal vinello che Berto trincava ogni momento e lo rendeva allegro.
Berto non fumava il toscano, non pipava ma aspirava polvere di tabacco col naso mettendola sul dorso di una mano. Lo starnuto susseguente faceva ballare le foglie della siepe.
Che naso! Una volta, ero in piedi su un tavolo proprio davanti a lui, glielo ho toccato e stavo per morderlo, come volevo. Per l'emozione improvvisa ho cominciato a tremare; e Berto diceva: no, il bambino non sta male, ha solo una contorsione dei pensieri.
Ho poi capito, con l'esperienza degli anni, che cattivi e buoni pensieri si legano e si intrecciano, nella testa della gente, in un viluppo che è difficile da districare, se non c'è il cuore che comanda.
Informazioni aggiuntive
- Tipologia di testo: racconti
- Testata: Agenda Smemoranda
- Anno di pubblicazione: 1998