Una cronaca in nero

Era così piccola che poteva entrare dentro a un uovo. Lui correva con gli occhi sull’immagine, una fotografia grande quanto una cartolina postale; e vedeva quelle giovani facce, quelle giovani vite.

Lei era la seconda a destra, nella terza fila, in piedi su un panchetto più alto insieme a sei compagne. Le altre scolare, tutte bimbette intorno ai dodici anni, erano allineate nelle prime due file. Davanti sedeva anche l’insegnante, abbastanza giovane e poco arcigna, con una gonna lunga lunga che sfiorava l’erba del giardino. A sinistra, la cancellata di ferro. Dietro le spalle, la facciata severa con la scritta «Scuole Elementari Edmondo De Amicis». Poco lontano, vicino alla stazione, lo ricordava bene, ancora nel centro della città, la lunga ciminiera che forava le nubi e che si vedeva dalla finestra di casa.

Quanti anni fa? Ormai venti, da quando era lontano. E per lei nella fotografia? Più di settanta, forse ottanta. Quasi un secolo. Una bimbetta con il cappellino di paglia, i nastri leggeri ai polsi, le scarpine leggere che non si vedevano. E il sorriso comune a tutti i ragazzini che si fotografano, mezzo intenti, mezzo scimuniti, deliziosamente sbalorditi. E oggi? Lei era sempre stata così piccola che dicevano poteva entrare dentro a un uovo.

La ricordava così minuta, dagli ultimi incontri, più di vent’anni fa, con i pizzetti ancora intorno al collo.

Ma da quanto non ritornava a Bologna?

Dieci anni? Dodici? Dodici, certamente erano dodici. Per Baldovino, che in quell’anno doveva andare soldato e perse sonno speranza e vita dopo Modena, sull’asfalto, in mezzo alla nebbia, mentre correva verso Milano. Dentro a un uovo. Sì, lei poteva entrarci e stare acquattata, forse cantando. Il suo canto era come un bisbiglio.

L’ultimo pranzo di natale celebrato tutti insieme, erano ancora ventidue in famiglia, radunati nella casa di via Calzolerie, all’ultimo piano. Si era fermato a guardarla, mezzo incantato, mentre mangiava con quei dentini che tagliavano il cibo come una lama. Lo trituravano, inesorabilmente. Ma sembravano addestrati a spezzare il filo quando cuciva, zac!, un colpo più secco di una lama. Quell’ultima sera di festa, l’ultima così completa, la zia Maria aveva esclamato verso la conclusione della cena: «Ecco il regalo di Adalgisa» scoprendo un grande dolce bianco nero giallo, panna cioccolata crema, che sembrava debordare dal vassoio d’argento ma che in realtà restava precipitosamente compatto, lì in mezzo alla lunga tavolata. E lei era arrossita forte forte; timida e compiaciuta; chissà quanto lavoro nel silenzio della sua casa solitaria, proprio di fronte alla basilica priorale di S. Maria Maggiore in via Galliera. C’era salito una volta sola, e in fretta, un pomeriggio d’inverno, con la madre tanti anni fa e non la ricordava quasi più. Molte porte con i vetri, una saletta circolare all’ingresso abbastanza luminosa: il resto, mobili e aria scuri.

Il pranzo, quel pranzo di natale, non era pranzo ma cena, si preparava di sera, la vigilia: nel bel salone a volte alte e dorate, a capotavola lo zio Rigo. Oltre le vetrate, anche mangiando, si poteva vedere la parte alta di San Petronio e l’orologio del Comune. Che erano visibili, così compatti come stretti in una unica mano, dentro al loro colore contrastante e vibrante, dalla terrazza. In dodici anni; ma dodici? forse erano ormai quindici, certamente quindici; in quindici anni la bella serena forse austera, ma con quanta delizia, tavolata si era sparpagliata soffiata dal vento. Tutti scomparsi, uno dopo l’altro, in una successione precipitosa da caduta delle foglie. Staccate dall’albero, scendevano di volta in volta adagio per terra. Riceveva la notizia con biglietti brevi ma precisi, di una tristezza che era solo il carattere della scrittura a rivelare, nei suoi spostamenti in Germania, Spagna, Inghilterra. Adesso era caduta l’ultima foglia, zia Adalgisa piccina piccina picciò, superstite fra tanti e la più vecchia d’età, oramai; eccola lì nella fotografia. E una bambina con le ginocchia secche ma già con gli occhi che non lasciavano perdere niente. Vede tutto, dicevano in famiglia, perché è affamata di cose. Adesso gli occhi erano chiusi e qualcuno lo chiamava a Bologna, era un notaio, perché gli spettavano, scriveva, come unico erede rimasto, i beni della buona signora defunta.

Avrebbe preferito ricordare, per una piccola celebrazione privata nel tempietto della memoria, la parente simile a un uccellino, nella sera dell’ultimo pranzo di natale, di fronte allo spettacoloso involucro di panna cioccolata crema che sembrava in qualche modo illuminare la stanza, come una mongolfiera con il fuoco sotto pronta per l’ascensione. Il coltello con la punta dorata si immergeva quasi sibilando nella massa zuccherina, il rumore dei cucchiai sui piattini sbalzati con scene cinesi. Tutto era ancora preciso nella memoria. Prese il treno.

Anche questo era per lui un sentimento ripetuto. A chi arriva in treno, Bologna si preannuncia.

E un progressivo lentissimo arrossamento dell’aria, percepibile però solo da occhi addestrati; quasi che minutissime particelle di sabbia rossa si disperdessero intorno provenendo dai tetti di cotto; alzatesi dai coppi eccitati dal sole. E la città che vibra, esaltandosi. Vedeva ormai, alta a destra, San Luca, la basilica, con il suo ordinatissimo intreccio di linee che scendono nel vuoto, a immergersi nella speranza dell’attesa. I campi, a destra e a sinistra, tutti scavati e livellati; in un amalgama scomposto di casermoni, prati inzeppati di materiali ferrosi, roba ammonticchiata, sigle colorate illuminate anche di giorno. La solita periferia, resa più evidente e volgare dalla sciatteria. I soli oggetti lucenti erano le auto appostate e allineate intorno agli edifici.

San Luca, in questa prospettiva da sequenza cinematografica, se la ricordava dalla curva dello stadio durante le partite di calcio. Fra gli archi dei portici in salita si riusciva sempre a vedere la sagoma di qualcuno che cercava di seguire parte del gioco da lassù. Sporgendosi fra le colonne sembrava sul parapetto di una nave.

Era bello seguire le maglie rossoblu che correvano sul campo sotto il sole, quando il cielo era sereno. Sfrecciate di colore sul tappeto verdissimo del campo. Meno gli piaceva vedere giocare di sera, con le ombre che si insinuavano da ogni parte come una mano che cercasse qualcosa, tastando il terreno.

Per lui era più divertente, e in qualche modo anche eccitante, andare la sera all’Arcoveggio e guardare, appoggiato allo steccato, i cavalli che sbuffavano trottando prima della corsa. Durante i passaggi, si percepiva come un secco rumore musicale il tamburellare degli zoccoli sulla sabbia e il respiro forte uniforme dei cavalli che sudavano schiuma bianca lungo i finimenti tirati. Pensieri; pensieri e riflessioni.

Poi, entrati in mezzo alla città, in mezzo alla sua periferia, sembra che il viaggio non debba avere mai termine, anzi, che la stazione si allontani per un maligno o ironico proposito. Come se venisse sottratta, all’ultimo momento, la certezza dell’approdo, un definitivo faccia a faccia con la realtà. Dov’è dunque il cuore di Bologna che come si sente dire sembra sempre pronto a strizzarsi e a donarsi, stillante sangue e vernaccia? Cioè, partecipe con il sentimento e ironico nella pratica, proteso a godere i beni del mondo ma anche intento a partecipare ai drammi del mondo e della ragione? Bologna, città rigorosamente pragmatica; con un Galvani ma senza uno Spinoza? Astuta nel suo fiuto contadino ma poco adatta alle serenate da pierrot lunaire per l’amata alla finestra?

Il panorama gli appariva ormai così ristretto dalle nuove pietre che la città sembrava non avere respiro.

Era, come si deve appena sottolineare, soltanto una impressione, una prima impressione di un uomo di quarant’anni che ritornava dopo molto tempo.

Dalla stazione, piena di bianchi neri gialli in affrettata confusione come in qualsiasi altra stazione di una città non piccola d’Europa del nord, fissò una camera all’Albergo dei Commercianti, scelto su l’elenco telefonico tenendo l’occhio alle strade.

Via Pignattari, se la ricordava bene, era uno spazio smorzato sia da una imponente fiancata della chiesa di San Petronio sia dai muri infradiciati dalle nebbie del palazzo dei Notai, sulla piazza Maggiore. Una strada silenziosa, un poco misteriosa come una calle veneziana. Quand’era ragazzo la percorreva spesso, per sottrarsi a via d’Azeglio, e gli sembrava di camminare sull’acqua.

L’entrata dell’albergo, un alberghetto minuto, era sotto un brevissimo portico molto basso, in una mezza luce che il giorno ormai verso il declino tendeva ad annebbiare. Lui cominciava a percepire, muovendosi sulle pietre o sull’asfalto della città, imprevedibili ancorché minime sensazioni diversificate, forse capovolte rispetto a ciò che credeva di ritenere in mente.

Mentre si avvicinava a piedi, con la valigia in mano e camminando adagio, gli sembrava che occhi lo scrutassero dall’alto. Da qualche finestra, da qualche vetrata della chiesa? Era un fiato percepito sopra la testa. Ma dormì tranquillo, quella notte, immerso in un silenzio quieto e in un sonno che contraddiceva le prime impressioni, certamente non motivate dall’osservazione ma collegate al sussulto della memoria; che è un mare magno di contraddizioni. Sentiva che avrebbe dovuto rispondere a parecchie domande personali nei prossimi giorni, se voleva mettersi in riga col tempo, con la situazione; e non cadere in troppe contraddizioni o approssimazioni all’atto pratico. Una città è uguale a una persona; se la perdi di vista devi poi riconquistarla, o riconoscerla con pazienza, parte per parte, un tassello dopo l’altro: perché le pietre solo in apparenza sono mute, ferme. Invece si muovono, eccome.

Tanto il sonno fu goduto fino in fondo, senza essere turbato da sogni complicati o troppo veloci, così il risveglio fu brusco, per un attimo anche traumatico. Sembrava che le campane suonassero a distesa dentro la stanza. Le campane di Bologna. Come aveva potuto scordarsene anche per poco, quando avevano accompagnato tutte le domeniche, le feste più grandi e tutte le Pasque, le mattine pasquali della sua infanzia. Anche se non era passato un secolo, allora i campanili avevano campane non di coccio ma veri bronzi che suonavano colpi forti e sonori, e campanari che sdondolando le corde intrecciavano gare coi venti facendole muovere sbattere correre cantare: con una vivacità sobria infervorata, simile a una preghiera distribuita nell’aria o al gesto del seminatore di una volta, quando camminava sul campo.

Gli accadeva di avere i brividi, di sentirsi isolato dal mondo, senza sapersi dare una ragione, per un tempo breve. Quando slegavano le campane per Pasqua, la madre arrivava con due dita bagnate per accarezzargli gli occhi. E aggiungeva, nel suo modo amabile, più persuasivo di un ordine deciso: «Dì una preghierina, se vuoi». Poi il suono si smorzava all’improvviso e sembrava che la festa fosse davvero finita.

Sul tavolo grande, lì nel mezzo, c’era il bell’uovo tutto bordato di ricci bianchi di glassa, comprato come ogni anno da Majani, all’inizio di via Indipendenza, nella palazzina così leggera che sembrava il sospiro di un fiore. In famiglia parlavano spesso di matrimoni che avevano avuto festa grande nella sala e sulla terrazza di questa palazzina, che si poteva ritenere uno splendido belvedere appoggiato sulle spalle della napoleonica via Indipendenza.

Vedrò, rivedrò tutto, si era ripromesso mentre a piedi dalla stazione si avvicinava al centro; vedrò tutto, o rivedrò tutto, ma non in fretta, in un solo boccone. L’aveva infastidito soltanto parecchia volgarità che gli occhi avevano raccolta durante il cammino; per esempio, la riduzione del delizioso ricettacolo di Majani a negozio di soldi. Appassito e smemorato. Uscì in fretta dall’albergo ma non aveva deciso dove andare. Gli obiettivi non erano più di tre, in successione di realistica necessità; primo, dal notaio che l’aveva richiamato a Bologna; secondo, alla casa di zia Adalgisa che gli era toccata in sorte; terzo, alla Certosa sulla tomba dell’intera famiglia, ormai tutta raccolta. Insomma, necessità pratica e i sentimenti del cuore; vera condizione bolognese, ancora una volta.

Decise di invertire l’ordine degli impegni e di andare subito alla Certosa; per la visita che sentiva più urgente.

Quarantenne, di buona stazza in altezza e attestato sul forte, ma agile. Capigliatura folta, eleganza legata alla cultura, cioè lontana dalle scarpucce appuntite, dalle camicie attillate a righe smorzate, dall’orologio d’oro dorissimo al polso e dal riso a centoventi bianchissimi denti come registriamo negli spot della Volvo o della Peugeot o negli articoli sull’Espresso o su King dedicati agli uomini di successo, vale a dire i trionfatori nel gran massacro fra i leoni dentro la foresta.

È un uomo di buon lavoro, buona mente, buona speranza, celibe ancora; con un po’ di malizia addosso da non lasciarsi sopraffare dalle cose; e dagli avvenimenti. Poca paura, parecchie perplessità, qualche cautela; e la voglia di vivere ancora lontana dal livello di guardia.

L’atteggiamento giusto, intanto e in quel momento, per una visita alla Certosa. Il nome? Giuseppe Duclo, ingegnere del suono.

Non era il tipo da sfoderare, una volta arrivato in città, il libretto con gli indirizzi per cominciare il giro delle telefonate e attivare i contatti. Anche se qualche indirizzo l’aveva e conservava il ricordo di alcune persone non del tutto perse di vista. In ogni modo s’era detto, tracciandosi un rapido codice di comportamento, che fino a quando non ho capito bene e non mi sono riordinato dentro a queste cose e fra queste persone, cercherò di restare da solo; è meglio così. Bisogna osservare, indagare, scegliere quasi strisciando sopra a ogni problema con le mani; e rimettere in moto le piccole cose con cui ho da fare, perché quello che può spaventarmi sopra tutto è il silenzio che segue alla cessazione del respiro del mondo. Il silenzio intorno alla bocca di un vulcano prima che inizi il rombo minaccioso e la conseguente esplosione in un cielo prima grigio poi nero. Per fortuna Bologna è anche una città rumorosa, tanto che sembra impazzita dietro i suoni. Per questo un esperto come lui cominciava a sentirsi eccitato; oppure provocato. Il suono, infatti, liscia i nervi come un palmo di mano che strisci crema sopra un muscolo contratto. Forse era simile all’emozione che coinvolge il medico di fronte a un ammalato che deve guarire. Una prova, una gara, una partita. Ma la città voleva davvero essere guarita? Quel correre su e giù di tutti, giovani e vecchi, in certe ore del giorno: in altre ore, una folla densa ma senza troppa fretta, quasi in trasferimento da un posto all’altro ma senza volere perdere il benefìcio di un bagno di sole, o di un bagno d’ombra; con la sola compagnia sopra la testa del volo dei piccioni, che si presentano improvvisi e altrettanto rapidi dileguano perdendosi sui tetti. Alla Certosa non doveva camminare molto, entrando dalla parte del portico, verso lo Stadio.

Venendo dal centro le strade hanno più respiro, la città s’allarga e sembra assumere anche un po’ di verde che non sia risicato protendendosi verso colline lontane, che non si vedono se uno fissa lo sguardo soltanto davanti, ma si sentono. È un piccolo risucchio dell’aria, un brivido che si può riferire all’incastro e all’intreccio dei portici che poco distante, in via Saragozza, anzi al Meloncello, prima si stringono quasi contandosi poi si districano per lanciarsi nella salita del colle della Guardia in una inesorabile progressione. Ma queste erano impressioni legate o collegate a precipitosi ricordi di anni addietro, tutti da precisare. Intanto era davanti all’ingresso, di pietra chiara e dura, che dà la sensazione di una semplicità sostanziale ma anche di resistenza sicura al tempo. Passato il cancello sapeva cosa avrebbe trovato, quali nomi, quali segni; perché la tomba di famiglia era lì vicino; e perché tante volte aveva salito o disceso i sei successivi gradini e fatto i quattro passi per immergersi nel silenzio e appoggiarsi al cancelletto brunito.

Lui, per quel che faceva, poteva ben dirlo. L’ultimo vero silenzio, l’impressione ancora sconvolgente di completa sospensione dalle cose, o sulle cose, riposa ancora nelle certose: come un uccello sull’ultimo ramo di una foresta.

Tre gradini e si scende nell’abisso del tempo, ma con un sentimento quieto, quasi di piccola gioia, di sollievo dei sentimenti. Di fronte, in quel cortiletto d’ingresso, si propone in una trascrizione scenografica il monumento a Olindo Raggi e a Amedeo Ruggeri, due campioni di motociclismo, morti il primo in gara, ormai prossimo all’arrivo da vincitore, nel 1926; e il secondo nel 1932 a Monthlery nel tentativo, definito nell’epigrafe silenzioso, di abbassare il record mondiale. Un gruppo di centauri in tuta da gara, con casco e occhialoni calati sul collo, saluta con il braccio alzato ai lati.

Fu ripreso dalla sensazione eccitata che lo investiva da bambino quando arrivava sul posto e gli sembrava di entrare in una pista da gara, non in un cimitero. Da sempre l’avevano attirato le due parole: silenzioso tentativo. Non è forse vero che il rombo delle moto, soprattutto quelle da corsa, è cupo e violento come un tornado? Sconvolge perfino i capelli e non dà tregua? Significava forse che si era taciuto con la stampa, dato che si doveva provare e riprovare, accanendosi in una micidiale progressione di velocità? Perché poi in Francia?

Sono queste le innocue ma pungenti e insistenti domande che le lapidi possono insinuare dopo la lettura a un ragazzino; alle quali, per innocue ma pungenti pigrizie, siamo renitenti a dare una risposta: sicché ci trasciniamo il dubbio per tutta la vita. Infatti, sarebbe bastato cercare un vecchio giornale.

Come per l’altra tomba, a sinistra, appoggiata al portichetto d’entrata, per la contessa Maria d’Arco Frassineti in arte Fatima Miris, morta nel 1954. Si ricordava anche questo, quando l’aveva scoperta per la prima volta. La frase incisa l’aveva coinvolto in un fantasticare prolungato: «con la fantasia della sua arte trasformando la realtà donò la gioia». Quale poteva essere quest’arte? Quali giochi fantastici, imprevedibili, sapeva inventare questa contessa così brillante sorprendente, che si vestiva con il nome di Fatima Miris? Come un foulard che si muove nell’aria. La immaginava ricoperta di veli e con le babbucce dorate da Aladino muovere le mani per stupire. Chissà! La tomba bassa e il marmo nero picchiettato di bianco suscitavano il sentimento di una attesa, di un riposo goduto con struggente ironia. Non suggerivano tristezza.

Infatti il luogo sembra piuttosto predisposto per una rappresentazione che per una mortificazione severa dei sentimenti. Un luogo ristretto d’entrata in cui Duclo si muoveva, in questo momento, come sopra un palcoscenico. Avanzando, a sinistra sotto il portico, e guardando in alto ritrovò l’indicazione scolpita, come l’indirizzo di una strada: Claustro IX braccio di Mezzogiorno, che l’aveva spesso indotto a smuovere i pensieri. Ma doveva ritrovare Faenza.

Ecco, in una solitudine di straordinario riserbo, Giuseppe Faenza. Una lapide scritta fitta come le romane che si trovavano nel tempo dei tempi lungo le strade, nei luoghi raccolti per i profondi pensieri, e spesso bastava solo un albero o una fronda vicino a consolare il viaggio dei vivi con l’ombra costante e la voce mormorante dei defunti; proponendo esempi di continue virtù, amori di patria e coniugali. Anche Giuseppe Faenza, di cui ricordava a mente dall’adolescenza nascita e morte, perché ad ogni visita si precipitava sempre a leggerlo: 1794-1878, onesto operosissimo. Tornò a rileggere le righe: «Giuseppe Faenza, n. nel 1794 m. nel 1878, la nobile famiglia Mazzacorati che per oltre cinquant’anni l’ebbe maestro di casa, onesto operosissimo, fece porre onesta pietra segno dell’affetto scambievole». Era solo una pietra rimemorante o una tomba? Maestro di casa, Giuseppe Faenza. Vestito con livrea e polpe. Alamari e bande dorate. Carrozze, cavalli, cocchieri, le signore con l’ombrellino. Fantasie di un ragazzino. Le stesse che nei solai di legno della villa di San Marino in Bentivoglio, oggi sede del Museo della civiltà contadina, nei lunghi pomeriggi d’estate gli sopravvenivano quando frugava tra gli innumerevoli sacchi pieni di fogli e di vecchie scritture, conti di casa, inventari, ricevute; o trasceglieva dai mucchi di vecchie uniformi accatastate negli angoli e indossava giubbotti con alamari dorati, gualdrappe, tube, stivaloni; oppure stringeva in mano sciabole arrugginite. Fantasie di un ragazzino solo, dentro a un mondo di cose che ancora parlavano. Nel solaio le travi di legno crocchiavano lentamente, con insistenza, e più di una volta il rumore sembrava uguale all’altro, dei rami dei pioppi toccati dal primo leggero vento che s’alza verso sera. La pianura padana riposava intorno come un cagnone da pastore, con gli occhi aperti. Si lasciava accarezzare il pelo, proponeva intero il benefìcio della terra italica, secondo le voci degli antichi padri. Ricordi, sentimenti, impressioni definitivamente confluiti nel mare del tempo; di difficile decifrazione da parte degli altri.

Invece, a destra, la tomba di famiglia, non omnis moriar, con l’angelo di bronzo dalle ali aperte e dal viso reclinante. Non in volo ma pronto a un volo, oppure reduce da un volo e sul punto di planare e acquietarsi. Tutti ricordati e celebrati dalle frasi dorate, in inesorabile successione. Anche il padre, di fronte, solo. Tutto era ordinato, senza polvere, senza eccesso ma con lo scrupolo di una pulizia dettata e accompagnata da una memoria vigile. C’era qualcuno che badava alla tomba. Annotò di controllare questo particolare e indugiò senza emozione ma senza impazienza. Percepiva, dentro a silenzio suscitatore di emozioni che sembravano rimosse, una spinta che lo ricollegava ai propositi della gente della famiglia, lì disposta; e, insieme, alla città in cui era ritornato. Stava per andarsene quando gli venne in mente l’ultimo riferimento affettivo a quel luogo. «O adorato mio Steno», dieci metri avanti sotto il portico, la lapide in marmo rosso cupo contro il muro, con la scritta incisa che un tempo si leggeva bene e lui la ricordava per l’emozione forte che ogni volta provava ma che adesso, sbiadito il giallo delle lettere, si leggeva male: «O adorato mio Steno, anima e mente ricche di felici speranze… nella mano stesa per giuoco ti pose l’insidia ordigno micidiale già invano lanciato e l’ansia fervida di sapere ti spinse ad offrirlo a chi ebbe la tragica sorte di sprigionarne il fuoco…». A lungo, senza fare domande per custodire l’incertezza, si era chiesto cosa fosse mai l’ordigno micidiale che sprigionava il fuoco. Tanto che la prima volta, compitando adagio, aveva pensato, con timore, a un vulcano. La vampata. Ma poi, dove? Il 13 agosto 1923. In montagna, al mare, nei luoghi di guerra? Varie volte, leggendo in seguito i racconti di Rigoni Stern, gli era venuto in mente il nome, adorato Steno, nato il 15 settembre 1909. Di quattordici anni. Una età giovane per morire, almeno negli anni degli anni, per un fuoco di guerra.

Uscì, la visita era stata completata.

Appena fuori, guardando in alto, gli sembrò che mancasse il cielo. C’era un buco grigio, piatto, senza vita. Una sensazione di fastidio, quasi che il cielo tendesse a respingere gli sguardi. Sotto il portico, dall’inferriata collocata sopra il canale che scorreva verde d’acqua e di foglie, intravide, bloccate nell’aria in una fissità di straordinaria leggerezza ma di profonda emozione, le figure del monumento circolare ai caduti partigiani. Da lontano, apparivano soffiate fuori da un vulcano e in attesa di fare i conti una volta per tutte con il tempo, con lo spazio. Intorno a loro fiottava un’aria bianca che stentava a sollevarsi, trattenuta o intimidita dal rigore dilagante.

Alla fine del portico, dalla Certosa a via Andrea Costa, una volta si vedeva a destra il blocco regolare, di rosso mattone bolognese, dello stadio di calcio. Oggi, visto da fuori, quanto un tempo appariva organico e severo, sembrava arlecchinesco, ironicamente sciatto, fanfarone. Travature gialle e azzurre, un mostriciattolo da fiera paesana, da tiro al bersaglio. Uniformato a tanti analoghi stadioli; e come lui insisteva a dichiararlo in ogni occasione, rappresentativi della mentalità degli uomini avidi dei nostri tempi. Che di tutte le erbe fanno un fascio, bruciano il mucchio, disperdono le ceneri.

Decide di tornare in centro a piedi. Via Sant’Isaia, prima della porta, è la strada dei matti. L’ospedale Roncati. Se fai le bizze ti porto al Roncati (frase dei genitori di cento anni fa). Quello è da numero novanta, altra frase, dato che l’ingresso al Roncati era al numero 90 della strada, in un portone senza portico. A parte questo, è una strada di pochi umori. E come si spegnesse un poco per volta. Allora essendo venuto in taxi da questa parte, sceglie di ritornare per via Saragozza, anche se allunga il percorso. E Saragozza è altra storia, altra luce, altro rumore, altro spettacolo. Lì sta di casa Carlo Goldoni, da sempre ospite di Bologna e cittadino bolognese molto più del frastornante dottor Balanzone, maschera da bastonare per la vanesia improntitudine poco esemplare. Erano riservate impressioni che qua si annotano.

I portici, naturalmente; e poi la contrapposizione con la collina e il verde della parte opposta; la villa delle Rose, la villa Benni, che per anni è sembrata la villa di un principe difesa dai cani; il convento di San Francesco. Un movimento simile a uno scendere e risalire continuo.

Dentro le mura, la varietà delle piccole facciate in successione; autentico fondale per una commedia dell’arte recitata all’improvviso fra le risa del pubblico e degli attori. Nonostante questo ritornava a percepire il sentimento di oppressione e di insoddisfazione che era cominciato all’uscita dalla Certosa. Come se qualcosa gli venisse sottratta, via via, in minutissimi frammenti ma con insistente progressione. Un tarlo risvegliato nella memoria; un grillo parlante nei ricordi che suggerivano o suscitavano emozioni. Una progressiva e adesso fastidiosa perdita di identità con le cose che vedeva, che strusciava, con cui si imbatteva. Cambiate? Sostituite? O soltanto lui era cambiato?

Per esempio, via santa Caterina, un budello palpitante in un corpo palpitante. Non c’era più, larva saporosa e annebbiata, squinzosa e irritante, non c’era più nulla, neanche l’ombra, di ciò che un tempo c’era e avrebbe dovuto continuare a esserci: la gente. Certo si vedevano persone che andavano, venivano, entravano; campanelli dorati, alcuni con lo specchietto televisivo incorporato, auto di buona cilindrata parcheggiate davanti. L’ordinata omologazione che distribuisce uniformi benefici sottraendo umori varietà colori e l’inquietudine di una gioia davvero conquistata non tanto alla vita ma ad ogni giornata della vita. Dov’erano finite le voci? Il taroccare continuo, vorticoso, che contrassegna la presenza popolare?

Ecco, si mescola una pentola in cui cuoce un ammasso di emozioni, poi al momento del bollore si getta via ogni cosa. Anche Bologna, come ogni altra città di questo forsennato west d’occidente? Era questa l’amarezza, un senso di leggerissima nausea, che cominciava ad angustiarlo?

Andò a pranzare in una trattoria di via Clavature, scelta perché era stata avviata tanto tempo prima da un grande portiere della squadra di calcio del Bologna; e quando ritornò in strada, mentre stava osservando la grande insegna verde di un negozio di pentole piatti cristalleria, mal dipinta con un verde granoso per cancellare con rabbia una tipica insegna commerciale di tanti anni addietro, che dava estro e luce a quell’angolo di strada nel cuore della città, la considerazione sullo stillicidio feroce di tante piccole volgarità o arroganti omissioni a cui uno è sottoposto quando ritorna nel mondo della propria infanzia, tanto che tutti i ricordi ne sono poi contaminati, gli mise addosso in forma aggressiva la voglia di andare via, di ritornare dove aveva soltanto la casa e soltanto il lavoro; per non lasciarsi fuorviare da sentimenti collegati all’adolescenza che non trovavano il conforto di un riscontro diretto sul terreno e dentro le cose; e per non lasciarsi angustiare da questo duello di lancia e spada a cui sentiva che avrebbe dovuto sottostare, partecipare, se avesse consentito a prolungare la sua permanenza in città. Una volta austera, sapiente teatro a un’accorta ironia e oggi claudicante dentro al sortilegio del denaro che non produce civiltà ma violenza, percorsa da troppe persone senza storia, avendone perduta la memoria e il desiderio per la frenetica voglia di addentare il cibo nella foresta sottraendolo a un altro leone ucciso e in attesa di essere a propria volta uccisi. Pronte di mano e avide avare di cervello. Era così? O una farneticazione, improvvisa come una febbre, da curare con la persuasione della pazienza?

Passò all’albergo, saldò il conto e si fece portare in stazione dal bus n. 50, dove entrano appena tre oche e due mandriani. Partì mentre il giorno volgeva alla fine e lui si sentiva riaffondare nell’immagine della città che un tempo a quest’ora aveva i coppi rossi di brace; e si annunciava, a chi arrivava, come un bosco che bruciava.

Trovò posto sul treno, aprì un libretto appena acquistato, non alzò gli occhi dai fogli che poche volte, prima di Milano. Era la vita di Ibsen scritta da Savinio; con annotazioni di struggente violenza nella loro leggerezza; un soffio di fuoco che brucia le piume degli angeli. Quando dice, e lui che leggeva lo annotava e continuava ad annotarlo con gli occhi: i nostri dèi sono leggeri. Bologna, pensava, non aveva avuto per gran tempo una grazia veneziana invece dell’affanno comune a chi corre dietro ai soldi fin quasi a schiattare? Il fatto è, appuntava ancora, che è definitivamente una città di servizi: di gente che annusa e fa calcoli e ammassa nel presente, non di esploratori del futuro. Una città che ha perso il coraggio della speranza. Sì, è vero, altro che Goldoni; il Balanzone sopraffatto di vestiti neri con l’odore di naftalina in questi anni le si addice meglio. Presuntuoso e verboso nella sua traballante autorità. La città sembra che il proprio futuro l’abbia già scelto e lo stia già consumando. Quando sarà carica di soldi da non sapere dove collocarli, affonderà per il peso come un galeone spagnolo in un giorno di tempesta nel lontano Seicento. I posteri la riscopriranno coperta di sabbia e porteranno alla luce non straordinarie scritture ma orci inzeppati di marenghi ossidati; e nessuna tomba che abbia resistito al tempo.

Passano pochi giorni e Bologna è sulle prime pagine dei giornali italiani; forse non solo italiani. Uccidono gente, ammazzano persone sulla strada e non sono assassinii privati. C’è un cupo sentore di morte più generale dietro a queste scariche di mitra. E lui ritorna a Bologna.

Una telefonata del notaio ma anche la persistenza di una piccola rabbia che lo induceva a non volersi ritenere sconfitto, a ripigliare e a riannodare il filo dei propri pensieri, dei propri umori. Non è nella logica delle cose che tutto possa, anzi debba cambiare? I nostri giorni sollecitano a questi obblighi di rischiose, rissose revisioni. È vero che s’era data questa risposta in concomitanza con la rinnovata decisione di partire. Anche perché, mescolando le emozioni degli ultimi giorni, non percepisce più quel brivido incostante ma puntiglioso d’amarezza, di sottrazione di sé alle cose, che lo aveva spinto via, buttato con violenza alla stazione, nel corso della visita precedente; consumata dentro la memoria. Uno scontro di incalcolabile difficoltà.

Libero dal carico dei sentimenti diretti o più svariati e alterni, la città questa volta è diversa. Questo è possibile; alcune volte inevitabile. Egli tende, per il momento, neanche a guardarla. Si finge, o in realtà è, indifferente. Prende alloggio allo stesso albergo, si aspetta perfino le campane che questa volta non suonano, e alzatosi presto al mattino onora subito l’appuntamento con il notaio: in via Garibaldi, di fronte alla piazza di San Domenico. Dove, in grande spazio, s’alza la tomba del notaio Rolandino.

Questo invece che vive e annota è ancora giovane, abbastanza sbrigativo, contrariamente alla fama che tutti i notai sono cavillosi, perciò stesso noiosi. Molto tecnico. Gli spiega i dettagli: «Lei ha ereditato l’appartamento ubicato in via Galliera al n. 23, con annessi e connessi come da inventario che si allega. Nonché un libretto postale di risparmio che le consegno. Deve perciò firmare queste carte, pagare alcuni importi successori qua conglobati in una unica somma che può riscontrare; e adempiere all’ultima formalità con una visita di verifica all’appartamento in questione al fine di liberare, con una firma convalidata, questo studio da ogni residua responsabilità. Se ne ha l’intenzione, per questo ultimo atto possiamo procedere oggi, nel pomeriggio».

«Alle sedici in punto?».

«Sarò lì a quell’ora».

Voleva entrare nella chiesa di San Domenico, quando ritornò sulla strada, per vedere la lapide di Enzo re che ricordava da una visita fatta con la classe e un giovane professore che gli sembrava un fratello; ma decise di non cedere ad alcun richiamo delle pietre, almeno per il momento. O fino a che questa storia nei suoi obblighi pratici non fosse stata liquidata; mentre era appena all’inizio.

Doveva decidersi a prendere in mano la situazione e a visitare, atto non solo necessario ma urgente, l’appartamento: di fronte a due chiese. Com’era scritto nell’appunto che aveva in mano, il santuario di Santa Maria della Pioggia all’inizio di via Riva di Reno e la basilica priorale di Santa Maria Maggiore.

Sta passando di fronte a questa e si ferma a guardare: il portone è aperto e non è sempre facile trovare spalancati i portoni delle chiese in questi anni disastrati. Un luogo un po’ tetro, dove un’anima s’accascia piuttosto che esaltarsi, con quattro donne sedute di traverso a parlottare in mezzo a sei candele accese da poco.

Di fronte, fatti pochi passi, è il n. 23. Ha la chiave per entrare ma si ferma anche questa volta a osservare. Prende contatto con cautela, o con attenzione, con le cose a cui dovrà essere direttamente collegato. Voglio sapere dove metto i piedi, pensa. Due negozi, uno a sinistra e uno a destra della porta d’ingresso del palazzo, filatelia e dischi; due piani sopra e un sottotetto con le finestre rimpicciolite come nella casa dei nani. Il colore della facciata è un rosso spento slavato dal tempo, della tradizione bolognese. O forse no, l’hanno appena ripulito e la prima pioggia si è bevuta l’umore scintillante, lasciando solo lacrime spente.

Quando entra in casa si ferma, dopo un’occhiata. È tutto come allora, sotto il segno di zia Adalgisa. «Adesso vado in cucina e sul tavolo trovo il dolce bianco giallo nero; o nel forno, che sta cuocendo. Comincio a sentire l’odore». Ma in cucina non c’era niente, il frigorifero era spento. Non si sentiva pero l’odore di chiuso, quel piccolo tanfo che un poco soffoca delle case non abitate. In ogni modo spalancò le quattro finestre che si aprivano su via Galliera e s’affacciò per qualche minuto. Non passava nessuno. Che ore erano?

Cominciò a riscontrare gli oggetti, partendo dall’ingresso e tenendo in mano i fogli ricevuti dal notaio, ma si accorse della complessità noiosa dell’impegno. D’altra parte, da un’occhiata ai muri o sui mobili o dentro i cassetti non sembrava che mancasse qualcosa; tanto che appoggiò i fogli su un tavolo e desistendo dal lavoro si distese su un divano.

Dalla strada percepiva parecchi suoni; rapidi, abbastanza uniformi, non fastidiosi; tanto che si appisolò. Fu svegliato dalla suonata del notaio. Al quale confermò la regolarità dell’inventario e la presenza di tutti gli oggetti. Vide che il notaio si rasserenava, pensando al rapido adempimento di quelle che, come disse, a questo punto sono solo poche formalità da sbrigare con due firme. Stese le quali, con un cenno, si allontanò. Sentì il suono secco del notaio che scendeva le scale. Sono le nuove tomaie che producono questi suoni innaturali, pensò. E ripeté anche una frase collegata a una sua vecchia conclusione: «non facciamo nulla, perché siamo sciocchi, per produrre cose e oggetti che non facciano a pugni con i suoni. Tutto è ormai così trasandato e sgradevole che si finirà per perdere anche l’orecchio per la musica. Il suono di un passo, un tempo, era un avvertimento o una speranza. Comunque era più eloquente di un lungo discorso e l’orecchio poteva percepirlo come un lungo poema. Oggi non sentiamo neanche il passo del postino, che ci annuncia una lettera da lontano. Suoni che tramontano e nessuno ricorderà più. Come non si ricorda più il silenzio».

Cosa si deve fare, per agire correttamente, quando si vuole o si deve locare un appartamento? Nient’altro, sembra, che rivolgersi a chi è specializzato in merito e può dare nello stesso tempo garanzia di professionalità.

Queste sono le formule argomentative di Duclo, abituato a una concretezza concettuale senza sbavature. Il suono essenziale, diceva, non cerca l’emozione viscerale ma la precisione auditiva; un fischio segnala l’arrivo del treno o il dissenso a teatro oppure il richiamo del giardino alla finestra, sovrastata di pampini, di un innamorato.

Insomma, cerca tre cose soltanto, non quattro. Un grande fischio, invece, segnala la fine del lavoro o del turno in una fabbrica, almeno lo segnava; oppure un allarme aereo nel corso di una guerra, che ancora non c’è. Segnala due cose soltanto, non tre. Un’agenzia immobiliare era quello che cercava. In corte Galluzzi, ricordava, doveva esserci una vecchia ditta che aveva una bacheca d’offerte vicino al portoncino d’ingresso: ma quando arrivò vide che la zona era trafficata da gru, camion, muratori sui ponteggi per una completa ristrutturazione, dopo secoli. E l’amabile figura in marmo di Galvani, all’aperto in mezzo alla piazza, chino sulla rana con le zampette spalancate sopra la tavoletta inclinata, sembrava ascoltare voci e risa da un altro mondo, da un altro tempo. Tutto con una buona dose di irrealtà, nonostante la durezza dei nostri giorni. Mentre indugiava cercando di indirizzarsi verso un’altra ditta, in piazza dell’Archiginnasio non passava nessuno; un taxi giallo era fermo in attesa vicino alle vetrine della libreria Cappelli. Un’aria d’altri tempi divagava sui luoghi, nonostante qualche rumore di muratura che non cadeva a terra ma sembrava risucchiato nel cielo grigio, dove non albergava neanche una nuvola. Ricordò una illustrazione, in una antologia scolastica, con il vecchio poeta Carducci che al braccio di un giovane accompagnatore adagio adagio attraversava la piazza per entrare sotto i portici nella libreria Zanichelli, attaccata all’Archiginnasio. Un intreccio di storia non recente ma ancora legata in qualche modo alla città, se lui che non l’abitava più se ne ricordava.

Nell’androne disadorno come una prigione che da corte Galluzzi porta in San Petronio, un topo grande come un cane passeggiava radendo i muri, con una indifferenza che lo rendeva quasi gioioso.

Ritornò verso piazza Maggiore, girò fra una gazzarra abbastanza levantina di venditori ambulanti che sotto i portici di via Rizzoli avevano alzato palchetti, allestiti panconi, distesi tappetucci in terra su cui rovesciare la merce, in mezzo al fragore incessante del traffico; alla fine, verso mezzogiorno, riuscì a sottoscrivere l’impegno per l’affittanza con una agenzia immobiliare di via Artieri.

Dirigendosi verso casa, mentre passava per via Oberdan poi per via Montegrappa, si interrogava ancora in merito a un problema, anzi al problema rimasto irrisolto, nonostante che fosse prevalente in lui la decisione di affittare l’appartamento, non di venderlo. Se lo vendo strappo tutte, proprio tutte le radici con la famiglia e questa terra. Non mi resta niente. Sarò uno sradicato, uno straniero in patria. L’affitto risolve le beghe e chiude questo problema. Ma se qualcuno fa una proposta, insiste e mi alletta?

Con che cosa? Solo con il denaro. Non conviene in alcun caso, questa soluzione. La escludo a priori.

Questa frase così curiale e categorica, richiamata da chissà quali fondi della memoria, lo rassicurò. Arrivò a casa contento. Non gli capitava da tempo.

Bice non fu la prima telefonata ma la terza. Le prime due le fece l’agenzia, due offerte di acquisto, anche interessanti, ma scartate. Avere già deciso, rifletté subito dopo, da un grosso conforto.

La terza fu di Bice, che contro gli accordi scavalcò l’agenzia e telefonò direttamente. Verso le due del pomeriggio; un giorno di gran sole. Senza preamboli disse: «Ho bisogno del suo appartamento. Le faccio questa telefonata perché sono una donna fuori di casa. Ho un buon lavoro, sono persona corretta, il mio nome è anche conosciuto, posso pagare secondo la sua richiesta. Quando posso venire?».

«A vedere?».

«Naturalmente. Quando?».

«Domani mattina?».

«Adesso, fra mezz’ora!».

La voce aveva una aggressività inquieta, eccitante. Pensò che doveva avere i capelli rossi; una massa di fuoco in testa, una festa di sole.

«L’aspetto», rispose.

Non erano passati dieci minuti che si presentò.

Bella come l’aveva immaginata ma aveva capelli scuri, il fuoco non c’era. Gli occhi sembravano un po’ quelli della medusa. Si aprivano come caverne celesti; promettevano profondità di emozioni, pensieri che feriscono, e in qualche modo molta decisione nel perseguire le cose.

«Posso vedere in giro, con discrezione?» chiese appena entrata. E senza aspettare risposta proseguì, ma senza invadenza.

«È una casa con mobili antichi – disse piano, quasi confidandosi – e questi mobili parlano, raccontano storie. Il legno si muove senza tempo, non smette mai di crescere, anche se tagliato e ferito. Le finestre sempre chiuse?» domandò all’improvviso, fermandosi a guardarlo in faccia, quasi lo sfidasse.

«Sono appena arrivato. Non ho toccato nulla».

«Ah, è così!» esclamò e parve liberarsi da un pensiero cattivo. Restò un momento indecisa poi in fretta disse: «Devo andare, ma questo spazio ha un forte interesse per me. Lo può riservare fino alla mia risposta di domani? Diciamo a quest’ora, ancora qui?». E senza attendere si avviò alla porta, dileguando. A Duclo non riuscì neppure di accompagnarla all’uscio.

Si scosse e telefonò all’agenzia, chiedendo notizie in merito. «La signora, dissero, è di eccellente estrazione, separata, molto ricca, molto eccentrica, molto impulsiva. E molto bella, come avrà visto. Possiede alcune case, fra l’altro, ma ha per abitudine di vivere in affitto. Dice sempre, e ha detto anche a noi, per esorcizzare amore e morte, che non entrano mai insieme in una casa sconosciuta».

Il giorno seguente non fu affatto puntuale. Duclo aspettò con imprevedibile impazienza per l’intero pomeriggio. Due volte telefonò l’agenzia ma rimandò al giorno seguente ogni risposta. Restò alla finestra, a osservare il movimento della strada, come certamente faceva giorno dopo giorno Adalgisa, nel corso degli anni. Un traffico sregolato, abbastanza arcigno, perché di macchine, motorette e persone frettolose; sembrava che tutti scappassero in fretta da qualcosa, per precipitarsi verso altri luoghi, altri destini. Sulla destra, dall’altra parte della strada, in uno slargo dove cominciava via Riva di Reno, la facciata del palazzo Tanari come impietrita in un sonno profondo, mentre all’interno tralicci, camion, operai si affastellavano in un lavoro di demolizione e di ristrutturazione da rendere quello spazio a cielo aperto simile allo squarcio nel corpo di una balena sventrata. Ma dalla finestra vedeva altre gru girare e sovrastare, trascinando carrelli traballanti.

Erano circa le sei di sera quando arrivò la telefonata che aspettava. «Non mi voglio scusare, disse, perché lei è in vacanza e io sono carica di impegni. Però, non è giusto; devo farmi perdonare. Le offrirò un thé, dato che sono abbastanza vicina. Ci incontriamo davanti a San Pietro?».

«Arrivo».

Era diversa dal giorno precedente. Più libera nel vestito, appena un po’ più dimessa. Qualcosa di semplice, che la ringiovaniva ancora. I capelli raccolti. Gli occhi erano uguali, un fondo di mare appena placato. E difficile, a Bologna, nelle tre strade del centro, trovare un posto per sedere e indugiare a parlare bevendo qualcosa; non necessariamente liquori. Scoprirono un tavolino e due sedie, fra un via vai di braccia e gambe; e tuttavia a Duclo parve di essere isolato dal mondo. Era trascinato da un impercettibile sentimento d’attesa che gli stava crescendo dentro, cominciando ad affannarlo. Parlarono poco e si guardarono poco ma erano sulla stessa lunghezza d’onda. Ciascuno attendeva qualcosa dall’altro. Lei aveva una voce con inflessioni cupe, da film espressionista degli anni venti. Lui neanche rispondeva per lasciarla parlare e ascoltarla, le poche volte che lei ebbe voglia di avviare il discorso.

Era fissata sui mobili. «Sono la parte più bella della sua casa» disse «e non perché siano mobili davvero belli, se ne vedono in giro molti che hanno tanto più fascino; ma perché li ho sentiti come mobili che parlano. Li ho sentiti cantare. Viverci in mezzo è stare dentro a un’opera. Lei non lo sente?».

«Non li ho toccati e neanche veduti. Sono soltanto mobili vecchi, un po’ troppo scuri».

«Ha altre proposte d’affitto?».

«Sì».

«Cosa ha deciso?».

«Le chiedo cosa ha deciso lei».

«Voglio quell’appartamento, almeno per un po’».

Vide che cominciava ad agitarsi, a guardarsi intorno come fosse stata sorpresa da un sentimento improvviso d’ansia. Le chiese se non stava bene, si limitò a sorseggiare dalla tazza di thé, che sosteneva con le mani ravvicinate.

Duclo aggiunse: «Non vorrei affittarlo ad altri».

Lo guardò e intanto sembrava cercare le parole: «Trovare una casa non è una cosa facile. È fare un vero viaggio nel mare. O vivere un’avventura nella foresta. In una casa si trovano anche i leoni e si sfugge, se si è capaci, a una quantità di frecce. Per questo preferisco vivere in affitto, e cambiare almeno una volta l’anno. Sembra di poter dire: parto per un viaggio in Africa, non so quando ritornerò. Non aspettatemi presto, non telefonatemi. Dove vado c’è soltanto l’essenziale».

«Ma siamo a Bologna».

«Non siamo neanche in Italia» rispose alzandosi. «Se non è impaziente le chiedo di darmi tempo fino a domani. Ancora fino a domani. Sono decisa ma non mi chieda di spiegare la ragione di questo ultimo ritardo. Solo ventiquattro ore. Alle diciannove di domani, qui». Si allontanò adagio. Lui la guardò e voleva allungare una mano per trattenerla.

Il giorno seguente l’aspettò a lungo ma non si vide. Telefonò all’agenzia senza avere altre notizie. Girò su e giù per il portico in attesa sempre più spasmodica, fino a convincersi che non l’avrebbe rivista se non l’avesse cercata, dentro alla città.

Ancora un giorno, era venerdì e Duclo andò direttamente all’agenzia per cercare di avere almeno alcune informazioni. Dissero che non era di Bologna ma della provincia, separata da un marito industriale di cui non conoscevano il nome, mentre lei si chiamava Berenice Calori ma si firmava Bice. Una bellezza ansiosa. Non sapevano altro. Stava andandosene, quando aggiunsero che in mattinata dalla questura aveva telefonato un giovane commissario di polizia alla ricerca d’un appartamento.

Così due giorni dopo sottoscrisse un contratto d’affitto triennale, a equo canone, con Alfio Pluda, anni ventotto, trasferito da Arezzo. Gli avevano detto: «È però un terrone giovane e furbissimo, nato per inquisire. E legge Giordano Bruno».

Magro, tutto nervi. Uno che non beve vino. Gli piacque perché guardava fisso negli occhi, non lasciava la preda. Su di lui, all’agenzia, aggiunsero anche quanto segue, con notizie attinte in questura: sì, è un meridionale lucidissimo, forse troppo, e questo alle volte gli nuoce. Perché nelle cose di mala bisogna affondarci le mani piuttosto che tagliare il capello in quattro e accarezzare i fatti soltanto con il pollice per farli suonare. Inoltre fuori dalla norma, lo ripetono, legge Giordano Bruno.

«Un merito o una colpa? O soltanto una estrosità da annotare nel curriculum?». «Lo ripetiamo, è giovane e questo ancora lo frega; anche se, lo dice lui, è aiutato da Bruno. Con la sua malizia impetuosa e spesso impietosa». Dunque, non lasciava la preda, come i suoi occhi che trivellavano l’aria, inquieti.

«Un contratto triennale, non è poco. Le lascio inoltre tutti i mobili, i quadri, gli oggetti di casa; non smobilito niente».

«Un allenamento per me; come vivere per strada, fra sconosciuti».

«Farà amicizia presto. Quella, vede?, è zia Adalgisa, abitava qui, nel ritratto è molto più giovane. L’altra, sopra la credenza, è Assuntina, zia Assuntina, veniva dalla montagna di Gaggio».

«Gaggio?».

«Sì, nella nostra montagna».

«Quelle di casa mia sono piene di strapiombi».

«Anche qua. Calanchi, paesaggi lunari. Può andare verso Pistoia, se ne ha nostalgia».

«Dico strapiombi veri, non quelli con gallerie vicine, autostrade vicine, tavole calde, grill, motel, pizzeria. Qua da voi i pericoli hanno una scappatoia. Ci si può salvare, in qualche modo. Da noi è vero il contrario. Anche le scappatoie portano nei precipizi». Alla fine del giorno si accordarono anche su altre cose. Fra l’altro Duclo voleva restare ancora, per cercare di rivedere, di rintracciare Bice; e Pluda gli offerse di trasferirsi da lui: «Adesso son padrone di casa, dopo oltre due anni, e la posso ospitare. Riempirò la ghiacciaia. Vedrà, non la tratterò male».

Duclo andò a ritirare le valige in albergo. Quando ritornò Pluda era uscito, perché di servizio.

Il giorno seguente trascorse la mattinata girando a vuoto per il centro. Si accontentava di guardare in faccia le persone; più esattamente, le donne. Avanti e indietro, per via Indipendenza, Ugo Bassi, parte di San Felice fino a Riva Reno; poi, a passo sempre più concitato, Zamboni fino al Teatro Comunale, parte di San Vitale, di nuovo sotto le torri. Voleva riposarsi ed entrò in San Bartolomeo, la chiesa dell’adolescenza. Il parroco di allora, con i suoi pizzicotti alle guance da togliere il respiro; le ciambelline ammucchiate sul vassoio nel mezzo della chiesa, nei giorni della dottrina prima della Cresima. Anche Strada Maggiore era piena di tralicci, gru nel cielo, opere di ristrutturazione dei vecchi edifici. Cantieri uno dopo l’altro, dialetti diversi, gridi diversi.

Lo domandò a Pluda, in seguito: «Cantiere non vuol dire anche mafia, se la mafia non è più un male soltanto di Sicilia ma dell’Italia intera?».

«Ogni volta che si muove una pietra girano i soldi e cantano i morti. La mafia oggi è dappertutto. Anche a Bologna, fino al collo» rispose.

La frase a Duclo risultò ambigua; ma gli mancò la voglia di approfondirla con un’altra domanda.

Questo breve dialogo ebbe luogo giorni dopo. Adesso Duclo esce dalla chiesa e si aggira un po’ spaesato, o soltanto irritato, per via Rizzoli. Bologna non è New York o Città del Messico, rifletteva fra sé. Bologna è soltanto un paesone petulante; riesce impossibile pensare che non si può ritrovare una persona che si muove qua intorno, senza nascondersi. Formulata questa deduzione irritata, intravide il profilo di Bice nel bus 25 che andava abbastanza veloce verso Strada Maggiore. Provò a rincorrerlo, senza risultato.

Alla sera, a casa, propose questa domanda a Pluda: «Come si fa per rintracciare una persona che sembra perduta?».

Rispose in fretta: «È più facile trovare un morto che un vivo. Pochi se ne trovano fra quelli che se la filano, se non sono omicidi. In città bisogna avere la pazienza di cercare. Le vere indagini si fanno a piedi. Qua non scoprono mai niente d’importante, perché sgommano continuamente a sirene spiegate, urlando a tutta voce: stiamo arrivando. Manca l’abitudine al ragionamento e alla pazienza, come dicevo. Per esempio, io non potrei far niente, se lei chiedesse il mio aiuto, perché la persona in questione non ha ammazzato qualcuno. Non si stanchi di cercare. Anch’io, stamattina, ho per le mani un caso che richiede pazienza». Non aggiunse altro e accese la televisione.

Se Bice andava in autobus per Strada Maggiore si poteva dedurre che abitasse in questa parte della città. Ma la prima fermata è vicino alla chiesa dei Servi, la seconda quasi alla Porta; da lì la strada confluisce nei viali prolungandosi come un canale grigio fino oltre il paese di San Lazzaro, impreziositosi come un cocchiere che abbia vinto al lotto.

È logico proporsi un metodo, si disse Duclo. Batterò la strada fra le due fermate, con costanza. Mentre mi domando cos’è intervenuto a rendermi così irrequieto, insistente. Mi sembra d’essermi infilato in un film di Antonioni.

Trascorsero due giorni e non accadde nulla. Si stancò, anche, con quell’andare avanti e indietro, simulando indifferenza per non allarmare i negozianti più sospettosi. Non vide, se non per alcuni minuti, Pluda, che era travolto, gli disse, dagli impegni.

«Bologna è proprio come Boston. Austera nebbiosa amara ricca e infelice. Magari non lo sa, così rende tutto complicato».

«Lei è stato a Boston?».

«No, ma sto a Bologna e comincio a vedere le cose. Non ancora a capirle fino in fondo. È come Boston ma diversa d’Arezzo».

Era sabato, verso le nove del mattino, quando squillò il telefono e Duclo sentì la voce di Beatrice.

«Se lei ha tempo, propongo di vederci nella piazzetta di San Giovanni in Monte. Ho saputo che ha affittato i locali. Va bene a mezzogiorno?» e troncò la conversazione.

A cosa si sottraeva, da chi fuggiva. La sua, Duclo credeva di capire, era una inquietudine esclusivamente interiore, uno dei tarli particolari che si annidano addosso e macinano dolorosa impazienza, lento rancore. Come trovarsi vicino a un porto a cui si vuole approdare e sentirsi trascinati ancora una volta al largo, senza potersi avvinghiare a nulla che ci trattenga. Qualcosa del genere. Una malattia dei sentimenti?

Quando Duclo arrivò, lei stava passeggiando sull’acciottolato.

«Lo desideravo, quell’appartamento» disse. Sembrava che parlasse di una cosa estranea ad entrambi, o che non li coinvolgeva direttamente.

«Lei è scomparsa» disse Duclo.

«Non scomparsa, impedita. È diverso, credo».

«Non lo sapevo. Riconosco che è diverso».

«Volevo ma non potevo».

«È quasi impossibile crederlo. Sembra così decisa e autonoma».

«Non sono né decisa né autonoma, come ogni donna».

«L’appartamento è un problema chiuso, purtroppo».

Camminavano per via Santo Stefano, verso la porta. Ogni tanto, passando davanti agli ampi portoni dei palazzi, si intravedevano gli androni interni, impreziositi da vecchie sculture e armoniche invenzioni scenografiche che avevano resistito al tempo; e in fondo un trompe-l’oeil di struggente tenerezza coloristica o giardini con alberi dal tronco poderoso.

Erano arrivati al Baraccano, dove la città è tutta storia non ancora consumata, forse perché è una storia non troppo antica; con i colori di un tempo, in qualche modo con i silenzi d’allora.

La donna camminava e taceva; Duclo aspettava che ricominciasse a parlare. Aspettava qualcosa dalle sue parole. Invece lei non disse più nulla.

Ritornarono verso il centro, passando davanti alle Sette Chiese ed era come rientrare in un mondo di compiaciuto grigiore e di ufficiale ossequio dopo una immersione nella realtà di pietre non ancora surgelate. Duclo, per un momento, fu ripreso dall’incubo del cielo paurosamente smemorato. Forse si poteva entrarci dentro con la testa, come tuffandosi dentro a una piscina di acqua calda.

Davanti alla farmacia medievale delle due torri, Bice si fermò guardandolo: «Passeggiare in questi giorni è bello. Sembra di guardare un’onda che poco per volta si smorza a riva. Intenerisce il suo regolare perdere di forza e di sostanza». Non aggiunse altro, lo lasciò indeciso.

Una indecisione abbastanza mortificata e insolita, lo ripeteva, che si sforzò di indagare nelle ore seguenti.

Era sempre stato, e si sentiva ora, preparato ai colpi della vita, alle relazioni con le altre persone, uomini e donne, nel lavoro e nella vita privata. Come mai, in questa occasione, la resistenza, una vera renitenza della testa, a cercare di approfondire, quindi di migliorare e precisare, un rapporto che gli era gradito in un modo insolito?

Addentò soltanto una mela scelta fra la frutta che Pluda aveva ammassata nel frigo «perché un ospite deve essere gratificato». Passò il pomeriggio a esaminare un cassetto pieno di fotografie. Molto lentamente, con ritorni avanti e indietro, perché i ricordi più particolari affioravano ogni tanto dal mare degli anni. Frammenti di frasi ascoltate gli ritornavano alla mente, visi riprendevano un nome, situazioni alcune volte era riuscito perfino a datarle. O così gli pareva. Per esempio, il passaggio davanti alla villa di Borgo Panigale, che apparteneva a una bisnonna, di uno zio Ernesto in coppia con Sandri, su Maserati, in una Mille Miglia, anzi nella IV Mille Miglia, del 1930. Tutte indicazioni trascritte. Sul radiatore dell’auto, il numero 49. O la festa per la cresima, sulla terrazza dell’appartamento di via Calzolerie. Le due torri si toccavano con le dita. Lui vestito di bianco, la gente seduta, i dolci sui piatti bianchi, i dolcetti minuti con un soffio di zucchero a velo; gli pareva di risentirne il sapore, si scioglievano in bocca senza masticarli. Una leggerezza diabolica. Era un’arma segreta della zia Adalgisa? In fondo alla terrazza si scorgeva vicinissima la cupola della chiesa della Vita verde di ruggine nel sole, e una signora con il cappellino chiaro e la veletta sulla fronte suonava un’arpa. Non si ricordava l’arpa, non ricordava quel suono; la signora chi era? Ricordava soltanto che lui era vestito di bianco.

Sentì Pluda aprire la porta e guardando alla finestra si accorse che era buio.

Mangiarono in cucina. «È più rapido, disse il commissario, si allunga la mano e si prende la roba dal frigo. Potessimo farlo con i mariuoli».

«Ma nel meridione non siete ancora legati alla ritualità della tavola?».

«Stupidaggini di chi non ci conosce. Noi non siamo più legati a niente, figuriamoci al cibo. Una pera è una pera, un peperone è un peperone; ma può essere anche viceversa. Una pera essere un peperone. Si buttano giù le cose in fretta; le ingozziamo. Siamo le anatre della disperazione. Oggi ho mangiato due panini in piedi, strizzato fra venti giorni, con un pane di venti giorni e prosciutto di due giorni, voglio dire tagliato a fette dal maiale vivo. Non c’è più niente di autentico in giro; questa vita fa schifo».

«Un pessimismo duro, non l’avrei mai detto».

«Invece sono ottimista fino al collo, potrei cantare “Marechiaro” per tre giorni di seguito e mangiare prosciutto fresco di giornata per un secolo. Perché così li vedete voi i terroni, chitarra amore e lunghe dormite».

«Non dicevo…».

«Lasci perdere, scherzo. Anzi, mi scuso, perché sono approssimativo e agitato. Il fatto è che mi hanno rovesciato addosso un vero rebus e mi sembra di essere impigliato in una rete». «Omicidio?».

«Sempre omicidi, per noi. Ma ci sono quelli brutti e volgari, quelli semplici che parlano con il morto, quelli che temi di non riuscire mai a risolvere e, ultimi, quelli che nevrotizzano, complicano la vita; ti sconvolgono. Perché si muovono dentro a un’aria di mistero appiccicoso e di mille difficoltà, dovrei dire probabilità, che fanno temere il peggio. D’altra parte, sopra l’insieme dei dati che si possono raccogliere, ci sta la convinzione che solo se sei davvero, ma davvero, intelligente e filosofo; se riesci a competere con il diavolo sciogliendo via via ogni difficoltà come fossero nodi di una gomena, il caso alla fine si allenterà trasformandosi in una inesorabile concatenazione di fatti. Di fatti districati».

«Può parlarne?».

«È ancora presto. Muovo i primi passi. Certo è un caso anomalo. Il morto, l’ucciso, è un vecchio prete».

«Donne?».

«Povero vecchio! Era quello che si dice un sant’uomo. Senza macchia e senza paura. No, niente donne e, quel che ingarbuglia, niente d’altro. Niente di niente».

«Allora?».

«Siamo dentro a un brodo di dadi, con diversi sapori. Non si riesce però a individuare il sapore determinante. Quello che mi può indirizzare».

«Cosa direbbe Giordano Bruno?». Un colpo di testa dalle conseguenze imprevedibili. Avrebbe potuto offendersi di brutto. I meridionali o sono autoironici fino all’esasperazione, fino a un dolore da pelle strappata, per la inquietudine della ragione, o sono cazzosi anche per le parole più innocue, per le più oneste allusioni. Infatti Pluda lo guardò per un attimo incerto, poi gli sorrise, ammiccando. Era salvo.

Rispose: «Direbbe, ecco qua quel pezzo d’asino, il quale volesse Dio che fusse un asino intiero, che potrebbe servire a qualche cosa. Bona sera, messer Buon in faccia».

Trascorsero mezz’ora in silenzio, guardando la televisione. Intanto Duclo rimuginava che non avrebbe toccato più certi tasti, né fatte certe allusioni. Questo era un uomo giovane che avrebbe voluto conservare amico.

Lo incontrò per caso, a metà mattina, il giorno seguente, mentre attraversava piazza Maggiore.

«Guardi, gli disse Pluda accennando in giro, scavi, palizzate, ponteggi. Cosa scavano, cosa vogliono? Che città strana! Sembra un cavallo dopo un gran premio, tutto sudato, mentre gli buttano sulla groppa una coperta ricamata. Si intende di cavalli?». Non aspettò la risposta, perché aggiunse: «Sta ancora cercando?».

«Giro, mi muovo. Non so se questo sia cercare».

«È una condizione che conosco bene. Faccia una pausa e venga con me. Entrerà con un piede dentro al mio lavoro».

«Il prete?».

«La storia è cominciata qua vicino, nell’oratorio dei Padri Filippini».

La chiesa della Madonna di Galliera affascina e intimorisce. Sembra, o può sembrare, l’entrata di una caverna, nonostante gli sbalzi delle statue e delle pietre. E come reclinata sul tempo, con un orecchio ad ascoltarne il respiro. Non si compiace di niente, non promette niente ma è pronta all’abbraccio totale. Si ha l’impressione di potere entrare ma di non uscirne più: però senza spavento o costrizione. Piuttosto, convinti che il tempo è solo illusione, un rapido tramonto.

«Per questo, quando ci metto piede, dice Pluda, mi sento oppresso; quasi compresso. Mi succede sempre nelle chiese dove c’è poca luce». «E molte candele» aggiunge Duclo mentre si guarda intorno. È la prima volta che entra in questa chiesa.

«Già, le candele» ripete Pluda; ma sono arrivati nella stanza del vecchio prete.

Pochi oggetti e pochi mobili, ma tutto sembra lievitare, occupando e un poco anche soffocando lo spazio. Il letto di ferro, uno scrittoio nel mezzo con un lume di ferro e un paralume di vetro verde, la sedia girevole; il cestino per la carta di latta sbalzata, un mobiletto basso con quattro cassetti e, nel fondo, un armadietto vetrato con due mucchi di fogli, alcuni vecchi giornali e pochi libri. I mobili di colore scuro sono ben lucidati. Dice Pluda: «Disteso sopra il letto, sembrava dormire. Vestito, riposava da troppo tempo. Da qui il primo sospetto. Chi è entrato assicura che non manca niente, ogni cosa in ordine, neanche una carta per terra».

«Come è stato ucciso?».

«I vecchi muoiono con niente. Un colpo, neanche forte. In cento casi non sarebbe risultato mortale». Sospirò, con sorpresa di Duclo. Era una meraviglia la sua, perché si accorgeva che anche un poliziotto può avere bisogno di qualcuno vicino per liberarsi da un groppo, per scaricarsi da un momento di inquietudine, per depositare a terra i pesi del lavoro di un giorno.

Pluda continuò: «Questo è il campo, qua dentro dobbiamo scontrarci con la cosa accaduta. E la terza volta che vengo ma ho la stessa impressione, quella di essere risucchiato all’ingresso e sprofondato in un impegno tanto sottile, non dico complicato, piuttosto raffinato, sia pure riferito a un episodio criminoso, che invece di agitarmi troppo dovrei sedermi a questo tavolo e procedere a ragionare come se disputassi una partita a scacchi. Dov’è il capo del filo? Dov’è un’impronta? Non c’è filo, non c’è impronta. C’era un breviario, anzi c’è, eccolo lì, d’uso comune non una rarità, per la preghiera. Interfogliato con qualche immagine di santo e alcune poesie. Credo almeno che siano poesie anche se enigmatiche. Ma la poesia è sempre difficile. La buona poesia, voglio dire».

Prese il breviario rilegato in cuoio nero consunto e lo allungò a Duclo. Il primo foglietto era ripiegato in quattro, poche parole scritte con una matita rossa che non era fra le altre, nere e con la punta fatta, raccolte in un bicchierino di vetro insieme a due piccole gomme verdi, sullo scrittoio: «II cavallo sull’acqua». Un altro foglietto ripiegato a metà era stato strappato da un quadernetto a quadretti. A inchiostro, recava questa frase: «Là dove i libri hanno il sonno eterno». Il terzo, un cartoncino rifilato con le forbici su cui erano allineate queste righe, in calligrafia minuta, ancora a penna.

Là dove i libri gemono

nel vento della polvere

là dove la polvere del vento

fa gemere i libri

caduti come foglie.

Li travolge

buttandoli nel fiume

il lume

della canonica – della memoria della mannaia

Là dove il lume

della canonica li brucia.

«Le suggerisce qualcosa?» chiese Pluda che aveva aspettato, con attenzione, che Duclo leggesse.

«È complicato, non credo che mi muoverei partendo da questo» rispose, rimettendo il breviario sullo scrittoio. Pluda si oscurò.

«Già!» commentò, quasi a convincere se stesso.

«Sembrerebbe, aggiunse Duclo, un rebus per esercitare la memoria. I preti che predicano cercano questi aiuti». Si sforzava di precisare, di definire almeno un’impressione, per non deludere troppo l’altro, che vedeva preoccupato.

«Sa come definirei questo caso che ho fra le mani?» sbottò Pluda. «Ecco, il volo delle farfalle. Tutto bianco intorno e le farfalle lì ferme alla parete. Ma se appena alzi gli occhi, o un dito, o un piede, volano qua e là in grande confusione e lasciano la scena vuota. Direi nuda. Anche se uno sbadiglio può tornare a scuoterle. D’altra parte che confusione possono fare le farfalle? Eppure c’è confusione. Ecco perché bisogna tenere la bocca chiusa e camminare sulle punte. Entrare e uscire, entrare e uscire senza fare rumore; senza impazienza. Per afferrare il filo con i denti».

Si girò come cercasse qualcosa, ebbe uno scatto, come un brivido in tutto il corpo che si scaricasse sul terreno.

Disse: «Possiamo andare, è meglio. Ero venuto per cominciare a frugare nelle carte ma lo farò domani».

Uscendo, non trovarono la città più lieta. Poco distante, durante una rapina, erano state uccise due persone. C’era movimento di polizia e parecchio nervosismo in giro. Alla sera, piuttosto tardi, Pluda rientrò in casa con la premura di dare una notizia. «Non lo so ancora bene, disse, ma ho intravisto un piccolo lume. O devo dire forse. Ho districato i piedi, sento di potermi muovere».

«Ha guardato le carte?» domandò Duclo.

«No, non ancora. Ma sono tornato nella stanza e ho ricominciato daccapo. Lì dentro c’è un silenzio che prima fa paura poi, questa è la mia impressione sulla pelle, si intiepidisce e si scioglie come aria. A questo punto entra in testa, cioè entra nei pensieri, una buona speranza. Questo voglio fare, ricominciare dall’inizio, riguardare ogni dettaglio come se non l’avessi ancora fatto. Poi tornare a farlo, sempre più minutamente, fino a farmi scoppiare la testa. ’A capu chi nun pensa è de cucuzza, aggiunse a voce bassa, come per tenere riservato questo commento. Pagina per pagina mi sono risfogliato il messale. Sempre il messale. Ho trovato che a contrassegnare alcune pagine c’erano piccole striscioline di carta lucida su cui a matita era segnato, una matita copiativa, sempre lo stesso cognome: Trionfi. Nell’ultima striscia, invece, due segni: VT e AG. Sento che, anziché salire in alto, scendo in un antro, ma ho chiara l’idea che devo partire da qui».

«In che modo?».

«Cominciando a incastrare i dati. Devo dare un appiglio logico al cognome, trovarne la collocazione, controllarlo, chiarire i due segni. Mi muoverei sempre e soltanto nell’ambito della chiesa».

«Un ago nella sabbia».

«Proprio. Indagare è mestiere da orafo o da indiano, non è mestiere facile».

Mangiò svogliato e in silenzio. Ogni tanto lo guardava, seduto all’altra parte del tavolo e gli sorrideva con imbarazzo, quasi a scusarsi della sua attuale condizione di poliziotto affondato momentaneamente in uno stagno. Duclo lo sentì per buona parte della notte camminare, sedere, stropicciare carte, affacciarsi alla finestra. Non lo vide per alcuni giorni; non rientrava neanche alla notte.

Martedì mattina la città era seduta sotto un grande drappo nero. Episodi tristi e oltretutto volgari di violenza l’avevano lacerata, mortificandola. Camminando si masticava un miele amaro. Per le strade, in simili occasioni, si ha più precisa e palpabile la vicinanza della gente. Le facce appaiono individuate, non sono ombre scorrenti, maschere con gli occhi. E Duclo ebbe ancora accentuata l’impressione del marasma intervenuto a modificare in questi anni il corpo della stessa città. Le facce straniere erano più numerose, si potrebbe dire più incalzanti, di quanto gli fosse parso nei primi giorni; l’aria si sentiva carica di elettricità prodotta da centrali umane. Pochi si fermavano a parlare; la maggior parte della gente tirava via come fosse inseguita da qualcosa. Le persone non erano liete.

Nel pomeriggio verso le quindici, in casa squillò il telefono tre volte. Quando arrivò, la linea era già sbloccata. Pensò a Bice. Aspettò per un’ora poi uscì per andare alla sua ricerca, in centro. Non la trovò e sentì una piccola vergogna, pensando che stava sprecando, comunque, il suo tempo. In ogni caso. Cercando, ma anche restando in una città che ogni giorno si scopriva sempre più ferita, difficile e anonima.

Rientrando, trovò Pluda in accappatoio seduto davanti alla televisione accesa ma senza voce, e al buio. Le ombre si agitavano contro il muro.

Quando lo vide, Pluda spense il video. Disse: «Ha tempo?». Duclo gli sedette accanto, nel comodo anche se arcaico divano di zia Adalgisa.

«Devo andare per chiese. Non una, ma cento» gli disse.

«Ha trovato un indizio?».

«Niente di preciso. Ho però la sensazione che tutto si muova al lume della candela, all’ombra delle lapidi. L’ho già detto ed è una impressione trasformata in convinzione. Qualcosa di nascosto, di antico si muove sotto a tutto. Lo scioglimento di questo fatto è lì sopra o sotto, da qualche parte. Se lo individuiamo può parlare, ci parla».

«Le chiese sono tante, candele e lapidi vanno moltiplicate per cento. Come pensa di fare, solo?».

«Come dice il Nolano, mi forzarrò di far presto e bene, meglio un poco tardi che un poco male».

Ancora il giorno seguente. Se Pluda, rifletteva fra sé Duclo, cerca lapidi per un prete morto, io continuo a camminare per una persona viva e continuo a cercarla.

Fu fortunato, almeno questa volta. La incontrò mentre usciva da un negozio di via Ugo Bassi. Aveva cambiato il colore dei capelli? Un poco schiariti, forse accorciati, sembrava più snella. Non apparì sorpresa e sorrise.

«Riusciamo sempre a incontrarci» disse.

«Sono io che la cerco» ribatté Duclo.

«Mi cerca? Oh, già!». Lo prese sottobraccio: «Allora, andiamo».

«È difficile ormai cercare gente, una persona, anche a Bologna» disse Duclo, che si sentiva rinfrancato; anzi, soddisfatto. Come fosse arrivato alla conclusione di un grosso impegno.

«Non è difficile. Diventa difficile se uno si nasconde, oppure si defila. Se si immerge nel mare della periferia, un mare mosso, che sconvolge le cose. Lì sì, che le cose cambiano. Ma qua, al centro! Trecento metri che girano intorno. Sono un giardino o una prigione. Non ci siamo sempre trovati?».

«Per caso».

«Forse, ma è meglio. Così non si fanno cattivi pensieri». Lo pregò di attendere, mentre entrava in un altro negozio. Duclo osservava il movimento della gente, implacabile, un franare di passi interferito dal passaggio delle auto azzurre o gialle e ogni tanto dal sibilo di qualche ambulanza. Non fu un’attesa breve. Quando uscì aveva alcuni pacchetti che non gli volle passare.

«Se lei avesse ancora una casa, verrei per dieci minuti. O se io avessi una casa la inviterei per dieci minuti, a prendere un caffè. Ma nessuno di noi ha più la casa. Una casa libera, voglio dire. E così che le compagnie si sciolgono, e le persone continuano a cercarsi».

«Lei non ha una casa?».

«Ne ho cinque, ma perché mai volevo la sua?».

«Forse perché i muri troppo conosciuti finiscono per opprimere».

«Non opprimono, parlano troppo, e troppo forte».

«Come me?» azzardò Duclo.

«Mi sembra molto discreto, e per questo gradevole». Camminavano e voltò la testa a guardarlo, come volesse aggiungere qualcosa. Si limitò a dire che sarebbe ritornata presto in quel negozio. Si lasciarono davanti a San Petronio, ai piedi del sagrato. Tornato a casa, Duclo trovò un foglio contro una delle porte a vetri dell’ingresso, con poche parole di Pluda: «La inviterei a cena, se ha voglia. Non farò il cuoco, per fortuna. Un pranzo vero, scelga lei il campo, dopotutto io sono un foresto. Spero dica di sì. Pl.». Firmava sempre anche i messaggi più brevi e diretti, a conferma di una proposta o di un desiderio precisi.

C’era tempo fino a sera, e che cosa si può fare a Bologna, o in una città come Bologna, da uno che una volta tanto non ha un lavoro a cui dedicarsi? A parte il cinema, naturalmente. Sfogliò il giornale e si sorprese per il numero incredibile di spettacoli in corso. Di ogni genere. Una piccola alluvione. Segno di vitalità o del caos in atto nella nostra società? Si ride, si mangia, si beve, si danza, si ascolta, si declama, si critica, ci si emoziona, ci turbiamo ma all’aria aperta, in una continua verbosa associazione; tanto che nessuno sembra avere la voglia di restare con se stesso, o anche solo di difendersi, pensava Duclo, mentre scorreva le colonne degli spettacoli, tutti serali, molti impelagati nelle sabbie mobili della verbosità attuale, che tracima come un lago a cui hanno levato le sponde. Rinunciò a tutto, buttandosi sul letto. Avrebbe pensato poi a come occupare quel pomeriggio.

Lo trascorse invece a esaminare cassetti e pacchetti rinvenuti dentro e sopra alcuni armadi; anche se questa rivisitazione del passato familiare cominciava a infastidirlo, sentendo esaurito il suo obbligo di confronto e di verifica. Ciò che poteva spremere dalla memoria e dai sentimenti era stato ricavato, non solo come obbligo per questa occasione ma come necessità di una vita, che ha bisogno anche di queste verifiche per aiutarsi a vincere i momenti dell’incertezza e dell’angoscia. Ma ora non più. Tutto era stato fatto, riteneva con scrupolo. Era tanto convinto e deciso, che cominciò a stracciare carte, fotografie, documenti. Zia Adalgisa conservava tutto, pensava Duclo. Le case si inzeppano e restano ancorate alle vecchie memorie, come una barca dimenticata al bordo di un molo. Non si fa un passo avanti, perché dobbiamo sempre sforzarci a identificare nomi o visi di persone trapassate. Perché? Le avremo pure dimenticate per qualche ragione. Intanto stracciava, stracciava.

Quando Pluda entrò, era indaffarato nel lavoro, travolto dai frammenti di fogli. «Ha fatto pulizia?» gli chiese, ma aggiunse: «Anche oggi hanno ammazzato uno, a sangue freddo e senza una ragione. È difficile capire la vita di questi giorni. Escono dalle crepe bestie feroci che non si riescono a individuare, perché sono imprevedibili, sfuggenti; o sfrontate in un modo nuovo. Non danno una ragione, una che una, anche soltanto apparente, alle loro azioni. Ammazzano e via. Ma viene a cena con me?».

Un tavolo appartato in una trattoria cordiale. Duclo mangiava e Pluda parlava. Aveva cominciato a parlare mangiando poi, con la forchetta in mano, s’era dimenticato di tutto. Aveva bisogno di riordinare le idee, quasi risucchiasse le cose con il fiato; fuori da ogni convenzione gerarchica: «Devo cominciare a tracciare dei buoni segni con le unghie».

«Graffiare il legno fa male» commentò Duclo.

«Ma non gratto il legno, almeno per il momento. Ricorda le listelle di carta che segnavano le pagine del breviario? Sono arrivato a una conclusione, che non mi fa procedere ma che mi ha suggerito il giusto metodo, almeno mi pare, il giusto metodo mentale. Ausculto. Metto l’orecchio sulla cosa, sul fatto, l’ascolto palpitare, smuoversi. Conto i battiti, non lascio sfuggire niente. Annoto, trascrivo, calcolo con l’orecchio appoggiato, come gli indiani. Ascolto i galoppi lontani».

«E le conclusioni? Arrivano?».

«Le listelle recano a matita due segni: VT AG, che ho potuto completare dopo infiniti montaggi e qualche visita diretta così: Vitalis et Agricolae in Arena. Una chiesa in San Vitale. Lì ho anche la conferma del cognome Trionfi. Una famiglia nobile, benefica con la chiesa. La chiesa ha una cripta romanica, molto suggestiva ma rappezzata e manomessa nel corso dei secoli e solo da poco ufficialmente sistemata.

Il punto interessante è che nei primi dell’Ottocento fu collegata al giardino di un nobile, che la usò all’estate per far prendere aria fresca alla moglie che teneva aperto un salotto di poeti. Questa data mi suona come una campana».

«Un vecchio prete, un breviario, alcune annotazioni, una cripta, il giardino. Sì, può essere».

«No, questa volta, è. Poi, cosa dice di questo?». Levò dalla tasca un foglio ripiegato. In chiara grafia dell’epoca, quasi una trascrizione d’archivio, riga sotto riga, Duclo leggeva: fiorini di Roma, zecchini di Bentivoglio, ducati di papa Eugenio IV, Niccolò V, Sisto IV, Innocenzo VIII, Alessandro VI, Giulio II. Una lunga filza di papi che si chiudeva poi con indicazioni più generiche di bavaresi d’argento, pezze di Spagna, doppie di Savoja. Duclo alzò gli occhi, Pluda aveva cominciato a mangiare, tagliando contro voglia pezzetti di carne ormai fredda. Sembrava una giovane belva che dovesse comunque sfamarsi.

«L’elenco di un tesoro numismatico o un semplice prontuario di monete. Qualcosa da ricordare?».

«Semplicemente un tesoro, un tesoro infinito. Tutte le nuove e via via rarissime emissioni in fiorini dei papi nel corso dei secoli. E un foglio che ho trovato fra gli altri, una quarantina, in una cartella verde con la soprascritta C. Tutta roba che per la scrittura sembra del Settecento, forse del Seicento, non lo so ancora ma sentirò. A matita il prete, non può essere che lui, ha annotato “dono ricevuto” con un punto esclamativo; come se intendesse una grazia ricevuta. I fogli sono numerati, ne mancherebbero tre».

Si guardava intorno, il locale era pieno di gente che bisbigliava, non parlava a voce alta; ciascuno circoscrivendo in breve spazio autonomo, da non condividere con altri intorno, il proprio tempo in quella serata.

Pluda sembrava meno teso e ordinò anche un amaro, che non bevve. Disse: «Tutto questo, se ha un senso, e deve averlo se dobbiamo scoprire un colpevole, non può avere avuto inizio e conclusione che a Bologna. E per una storia molto vecchia. Neanche a Roma, o a Napoli. A Bologna sì. Mentre lavoro imparo a conoscere questa città e le mie impressioni sono fresche, di prima mano; sono vere. Cioè, sono dirette; non credo di sbagliare. Un vecchio poliziotto, ad Arezzo, quando ha saputo del mio trasferimento mi ha detto: non lasciarti fregare dai portici, sono pieni di ombre e di mariuoli. Non tanto di ladri, intendeva, ma di storie qualche volta violente, comunque sempre oscure. Aveva ragione, con la sua esperienza. Bologna è troppo vecchia per essere nuova e non ha più spazio da regalarsi. Allora glielo rubano. Per dare fiato ai forzieri continuano a sottrarre terra alla terra, invece di entrare dentro al suo corpo immobile per renderlo vivo e guizzante, per ricostruirle le ossa, alzando palizzate che la portino verso il cielo, non a rubare pelle alla pianura. Una città che cresce soltanto allargandosi e non alzandosi, cioè gonfiandosi di culo e di fianchi e non sollevando con fierezza la testa, non ha futuro e resta in mano a mercanti troppo vili o troppo avidi. Per me. Resterà con la sua ciambella di grasso nel mezzo della pianura, a sognare gli eventi che altri più lontano ricercano, e a catalogarli con le sue schiere di impiegati insofferenti e senza fantasia. Cioè, a servirli. A illudersi molto, in questo servizio di rimessa. E a patire sconfitte generali, che saranno inevitabili. Dovremmo prepararci a essere saggi nell’austerità non a essere grassi sopra la montagna di oro. Invece gli attuali reggitori cortesi siedono e si muovono soltanto sulla coda dei pavoni. Si fussi dotto, come dice il mio Bruno, non sarreste mariolo».

Quando uscirono, nel vicolo sotto le due torri, Pluda allargò le braccia: «zo zo zo, questa non è aria di mare. O me misero, verba nihil prosunt. A che punto sarò domani? E dopodomani?».

Duclo azzardò: «Non si interroga troppo sul tempo? Dice pazienza e si consuma nella fretta. È come…».

Pluda lo interruppe: «La verità è che noi non siamo liberi: non dico fino in fondo, ma neanche un poco. I capi vogliono tutto e subito por accontentare Roma, quella caverna di serpi. Così incalzano, premono, alludono, telefonano, offendono. Ah, il telefono! Se lasciassero muovere i piedi con un po’ di criterio, la mela finirebbe a caderti in mano, perché tu scuoteresti l’albero giusto. In ogni modo continuo a camminare a piedi e me ne frego».

La mattina seguente Duclo restò alcune ore vicino al negozio aspettando che Bice arrivasse, poi fu sopraffatto da una manifestazione sindacale molto affollata e rumorosa, sicché per via Falegnami ritornò in via Galliera. Apriva la porta di casa mentre il telefono squillava. Era Pluda.

«Le piacciono le lapidi antiche, non una ma a carrettate, ben disposte, tutte insieme? Viene ancora con me?».

Si incontrarono all’ingresso dell’Archiginnasio, sotto i portici del Pavaglione. Entrando nel cortile, Pluda disse: «Allungo la serie delle mie supposizioni. Ho questa traccia che, per intuito, mi porta qui ma potrebbe dirottarmi anche, forse con più utilità, alla Certosa. Staremo a vedere. Ecco, l’ho trascritto da uno dei foglietti nella cartellina del prete. Dice: lapis silet a v». «La pietra tace?».

«Sì, la pietra non parla. Ma perché non può o perché non vuole?».

«Comunque, dice, ci si può affidare tranquillamente alle pietre».

«Può essere. Ma perché ci affidiamo alle pietre? E a quale pietra? A tutte o a una sola? A questa o a quella? È una affermazione o più in specifico una indicazione?».

«E a v?».

«Da qui comincio a indagare, cioè a interrogarmi. Una frase che finisce con questa contrazione? Oppure una specie di anagramma? V potrebbe indicare cinque, ma non capisco ancora quale riferimento poter assegnare ad a».

Sotto il loggiato Pluda alzava gli occhi alle lapidi. «Sembra una serra piena di azalee, c’è da impazzire» mugugnava, ma oltre a essere irritato era anche ammirato. «Sono un poliziotto, un piedi piatti, non un epigrafista. Mi pagano per scoprire un assassino, non per fare corsi all’università. È una vita, questa?».

«Ci sono più lapidi, qua dentro, che erba in un prato, disse Duclo. In questo modo non si può venire a capo di niente. Credo che ci sia qualche libro, qualche raccolta a stampa, che potrebbe aiutarci. Gli eruditi, proseguì sorridendo, hanno la stessa pazienza dei poliziotti; ma hanno più tempo davanti. Qualche volta sono anche più precisi». Era nero, il libro c’era. Pluda riuscì a farsi prestare il volume e Duclo sentì che vegliava a sfogliare, a trascrivere, a camminare, certamente per riflettere.

Al mattino si incontrarono.

«Allora?» chiese Duclo.

«È interessante, vado avanti, devo andare avanti. Ho chiesto di restare a casa per tutto il tempo necessario. Voglio terminare oggi, leggendo riga per riga. Intanto so che una parte del loggiato è stata bombardata nel 1944, con gravi danni. Lapis silet perché le bombe l’hanno ferita a morte? Tace non perché vuole tacere ma perché è costretta; è messa in condizione di tacere? Queste domande me le sono già fatte e le ripeto come un esaltato. Ecco, sono diventato anche un lettore di lapidi».

Squillò il telefono e Pluda dopo avere risposto allungò il microfono a Duclo. Era Bice. «Lei è un amico incostante. Speravo di incontrarla, vicino al negozio».

«Ieri mattina».

Lo interruppe: «Oggi. Questo era il nostro accordo. Ma non è nulla. Sono qui e ho qualche minuto libero».

«Qualche minuto?».

«Il solito caffè. Ma lo so io quante cose si possono dire in un minuto».

Restarono invece insieme a lungo; e per la prima volta lei gli parlò di sé, della propria vita. Infatti fino ad ora, pensava Duclo e glielo disse, i loro discorsi erano stati come colpi di vento, sollevavano poche parole. Sassi buttati nell’acqua, subito giù a fondo. O circoli sempre più evanescenti che si allargavano fino a scomparire, risucchiati dalla superficie piatta, quasi indifferente. Non una domanda che riguardasse lui. Nessuna curiosità oppure un modo per cautelarsi, per non scoprirsi troppo almeno fino ad oggi? Certamente tutto cambiava; aveva bisogno di rovesciare sul tappeto molte cose; confessioni con fatica trattenute. Proprio come Pluda, pensava Duclo, tutti e due sono mossi, così mi sembra, da spinte uguali di liberazione, o di sottrazione. E davvero sorprendente. Per essere nella parte, mi devo non dico rassegnare ma adattare ad essere un buon ascoltatore e, alla fine, elargitore di qualche utile impressione. Neanche Pluda ha chiesto notizie della mia vita, chi sono io in realtà. E questa donna bella e strana; soprattutto così vagante: qualche volta mi cerca, non tende neanche la mano, no, una volta mi ha preso sottobraccio, ma sembrava che camminasse con un’ombra; poi si allontana, sembra indifferente. Quando riappare, da quali sentimenti è spinta, in realtà? Per un’ora fu un monologo in piena regola, con poche novità sostanziali. Il marito, i due figli, la casa, meglio, le case; la vita in una città come questa, abbastanza schematica a certi livelli e poco movimentata: con i soliti egoismi e i cinismi che bruciano e si inceneriscono nel chiuso delle camarille.

Il termine camarille sorprese Duclo. Lo spinse a interromperla: «Camarilla ha qualcosa di compatto, di avido e di violento; ma tutto dentro all’ovatta, ai muri. Un gruppo di persone importanti che per realizzare progetti e proposte, o guadagni, non indietreggiano davanti a niente».

«Forse è esatto. Un egoismo perfido, di tale acutezza nel perseguire e spietatezza nel colpire, che finisce per sorprendere, alle volte, perfino alcune delle persone coinvolte. E tutto, sempre, coperto da sorrisi radiosi».

«Per questo voleva una casa in affitto?».

«La casa in affitto, per me, deve segnare dei limiti, offrire angoli di fuga. Aiuta a considerare le cose, dovrebbe aiutare, con un occhio non indisponente, non turbato. Obbliga, o dovrebbe farlo, a osservare alcune regole, in ogni senso. Mio marito ha case dappertutto, si diverte a comperarle. Tanto, dice, non costano niente».

«Ma è vero?».

«A lui sembra niente. Anche sottotetti, abbaini. Oltre che appartamenti o case intere. E un’ossessione.

Non era cattivo, un tempo, da giovane. Aveva qualche bella speranza. Ma si è seduto come un budda e aspetta gli eventi. Gli eventi corrono a lui che li aspetta con la pazienza di un budda e si prosternano».

«Vuole dire che i soldi chiamano i soldi».

Non sono io a dirlo. Tanto più una città è un borgo, e questa lo è, tanto più gli affari si muovono su strade risapute, sempre quelle. Telefonano ogni momento, da ogni parte. Sembra che sia diventato l’uomo del banco dei pegni».

«E lei?».

«Cosa dovrei fare? Inseguire i suoi beni in via del Borgo, al Pratello, alla Barca, in via San Donato e così via? Potrei fare tante altre cose di questo genere, ma poi? Mi sembra di essere sempre fra quattro muri, con altrettante finestre aperte sullo stesso panorama. Non voglio, non vorrei neanche fuggire, solo aprire qualche piccola ferita sulla pelle sciagurata di queste interminabili giornate. Posso dirlo? Venire a letto con lei non servirebbe a niente, mentre parlare con lei, questo sì, è qualcosa di più, qualcosa che non è facile fare, e mi fa sentire di non parlare all’aria. Lei non solo mi ascolta ma credo che mi possa capire. Dico di più, credo che mi voglia capire. Questo per me è splendido. Lei ha gli occhi per farlo. Vedere, ascoltare. Capire».

«Gli occhi?».

«Gli occhi, gli occhi. Lo capisco dagli occhi. Non hanno nebbia, voglio dire che non si distraggono. Perché sono interessati ad ascoltare, dovrei dire a vedere, le mie parole. Incontrarsi così, nel corso di una giornata, per la strada, senza altri progetti che scambiarsi parole, è come essere cospiratori dentro a una città prigione, dentro a una vita che sembra il consuntivo semestrale di una fabbrica di pile. È tanto vero, che spesso ho pensato a lei, come a un uomo libero che può dare un po’ di libertà. Sono sincera, vede? Non come a un uomo da volere ma come un uomo da invidiare».

«Così, quando verrà meno la voglia, o la necessità, di confidarsi un poco, disse Duclo, cadrà subito la voglia di vedersi, il bisogno di incontrarsi».

«Non nego nulla. Però questo non è il mio sentimento, in questo momento. Non abbiamo niente da nascondere, e questo ci permette di muoverci come vogliamo. Mi riapproprio del mio equilibrio reale, in questo modo. Anche se lo perdo, se tendo a perderlo, subito dopo».

«Per un uomo non è poi il massimo, essere relegato nel ruolo del confessore» disse ancora Duclo, non riuscendo a nascondere un sentimento di amarezza, quasi di risentimento.

«Confessore? Ho detto confessore? Ho detto invece ascoltatore; molto di più, molto di più. Non ci sono secondi fini in questo e non deve elargire niente di niente. Deve essere solo generoso e sottile. Lei è certamente così».

Il cielo di Bologna, in quel momento, si era riempito di splendide nuvole gonfie di spuma bianca, rallegrate ai bordi con un rosa tenerissimo, così leggero che sembrava soffiato su un vetro. Le nuvole si scuotevano scivolando sopra i tetti quasi strisciassero sopra acqua di mare, e si potevano vedere cherubini bizzosi seminascosti che, con le ali reclinate, bagnavano i piedi scalzi in quel lucido delirio del cielo.

«È bella, sospirò Bice. Questa città alle volte si spoglia di tutto e diventa come un corpo giovane che si bagna in un fiume. E una cosa nuova. Sembra, altre volte, uscire tutta intera dalla terra».

Quando lei se ne andò, la contraddizione dei sentimenti, per Duclo, era quasi completa. Stentava ad orizzontarsi, anche se non si sentiva insoddisfatto del tutto. Un rapporto di questo genere, così complicato e nello stesso tempo così semplificato, non l’aveva mai intrattenuto. E oggi che era in atto, valeva forse impegnarsi a mantenerlo vivo, a prolungarlo il più a lungo possibile, in quanto non sapeva ancora come avrebbe potuto concludersi, nonostante gli avvertimenti di Bice; e quando. Vittorie, sconfitte? I sentimenti sono come lame che tagliano, uccidono oppure esaltano senza fare rumore. Aspetterò, continuerò ad aspettare nel silenzio, programmò Duclo, che il silenzio sia interrotto. Sia lei a romperlo e a chiamare. Non per dire qualcosa ma per chiedere qualcosa, che le sole parole non possono dare.

Di nuovo la città era caduta in uno stato di irritata apatia; sembrava coperta da una nebbia invisibile, che la costringesse di continuo per districarsi a gesti nervosi. Un costante risuonare di clacson, passaggi di motorini con le marmitte accorciate, come i fucili a lupara. Una mescolanza di contraddizioni sempre in atto, e di costrizioni. Erano per strada e Pluda chiese, un po’ frastornato, a Duclo: «Lei, che è uno specialista, che rapporto ha con questo casino di suoni che non si ferma mai? Oppure il rumore, cioè il suono, lo considera come materia viva soltanto nel chiuso del laboratorio?».

«Ogni suono è buono, rispose Duclo, sorpreso e anche lusingato per questo primo riferimento alla sua vita privata. Tutti i suoni vanno via e bisogna ordinarli. L’orecchio li raccoglie come una madre, li dispone, cataloga, li avvicina, li allontana. A ciascuno assegna un luogo. Così che ogni rumore si scioglie in dieci suoni; ciascuno, davvero, con una sua grazia segreta; un fascino che è difficile descrivere. Perfino quello del motorino. È un’orchestra completa che si prepara a un concerto e intanto accorda gli strumenti».

«Ben detto, commentò convinto Pluda, una vera lezione in quattro parole».

Camminavano per via Carbonesi. Pluda voleva acquistare nel negozio di Majani la cioccolata di scorza amara da mandare, per un collega che andava in permesso, ai due nipotini di Nola.

«Ecco, Bologna per me è sempre stata università tanto vecchia da fare soggezione e cioccolata di scorza amara, un sapore dell’altro mondo. Sembrano lacrime di angeli cadute dentro al cacao bollente. Così si rapprende la lava dell’Etna quando si inquieta e si mette a inseguire i passi di Empedocle».

Uno strano negozio, questo di Majani, oggi lontano dal palazzetto fiorito di via Indipendenza. Un mezzo negozio, qualcosa di provvisorio allestito dopo un terremoto. Ma nonostante l’approssimazione, a chi ha orecchio buono arriva l’eco, il fruscio dei giorni concitati della rivoluzione francese; l’addio del generale Bonaparte al popolo cisalpino; i giacobini a Bologna e le prime cioccolate bollenti nelle tazze istoriate, con il manico gentile; leggere a stringersi in mano come il corpo della danzatrice Cerrito.

Dopo, ritornarono insieme all’Archiginnasio. Nel cortile Pluda disse, mentre si guardava intorno: «Le confesso che la sua presenza mi aiuta. Se non l’avessi vicino, forse divagherei; mi lascerei trascinare. È la mia ombra, o io sono la sua. Lei parla poco ma vede molto; sarebbe uno straordinario investigatore, se potesse abbandonare il mondo dei sogni. Mi scusi, dei suoni».

Era fermo lì nel mezzo e non si decideva a muoversi. Aveva cavato dalla tasca un foglio e sembrava riflettere. Alla fine disse: «Mi è venuto in mente che ci sono troppi cavalli in giro, sullo scrittoio del prete. Legga qua» e gli allungò il foglio. «Voglio capire la ragione, perché una ragione deve esserci. Devo interrogare in chiesa».

Intanto Duclo leggeva il testo, composto di brevi righe allineate, con una grafia chiara anche se appena incerta, tracciata da una mano non più sicura per l’età:

Cavalli nel cielo galoppanti

e in terra tumultuanti.

Circolare gara

inebria

più di un solido vento

estivo

e reca giovevole compenso

a chi ha sentimento

di previsione.

Tale non è illusione.

Commentò: «Enigmi versificati, un testo da sibilla».

«Ancora un testo con cavalli dentro, rispose Pluda. Cavalli, cavalli. Cosa hanno a che fare tanti cavalli con un vecchio prete. Non le sembra una buona domanda, a questo punto?». Si avviò. «Le mostro un’altra cosa. Quel lapis silet, quella pietra che tace. L’ho scritto in testa, loggiato e arcata quinta. Eccola lì, è una lapide fra le più brevi. Bartolomeo, compitò quasi graffiasse il marmo, Ambrosino, ecco, legga, tutta la frase intera, reliquia lapis silet dum monumenta loquuntur. Ho letto pagina per pagina tutto il libro, ma sono partito con troppa furia e non me ne sono accorto, perché la frase era bella e aperta quasi al principio. Non avevo il metodo, o l’occhio abituato. Ho dovuto ricominciare per essere colpito. Tace il resto la pietra, mentre parlano le opere. Prima, si ricorda?, ci chiedevamo perché la pietra tace, adesso la mia domanda è perché parlano le opere. Quali opere? Forse la pietra nasconde la conclusione delle opere?».

«È una supposizione. Potrebbe essere un appunto innocuo, un semplice rimando; oppure, come avevamo detto, una pillola per la memoria».

«Una pillola per la memoria. Ma perché, con una montagna di frasi da cavare fuori qua dentro, l’appunto rimanda a una delle lapidi colpite dal bombardamento del 1944, che fece guasti dannati in questo luogo miracoloso?».

«È bello che lei dica miracoloso. È giusto. Qua il rumore dei secoli e degli uomini trapassati è come il frusciare di rami in un bosco sacro. Intermittente ma inesauribile. Un fruscio continuo».

«Può dirlo. Ma in particolare il percorso è questo, per il momento. Una frase scritta rimanda a pietre che tacciono. Troviamo queste pietre in silenzio e sappiamo che sono state colpite dalle bombe durante la guerra e restaurate. Posso dedurre che queste pietre tutelassero qualcosa? Documenti o altro, da secoli?».

«È un percorso possibile. Ma le prove concrete, i supporti reali?».

«Queste mancano e cercheremo di trovarle».

«Noi?».

«Insieme. Non è un buon sodalizio? Non può sottrarsi. Anche lei, lo riconosca, è dentro a questo enigma fino al collo. Se ne può cavare fuori soltanto alla fine. Sbaglio?».

Così Pluda, come avesse confermato un patto, cercò la compagnia di Duclo ogni volta che si muoveva per questa indagine. Intanto i cavalli erano il primo suo scrupolo. Perché i cavalli?

L’incertezza non durò a lungo. La risposta l’ebbe dagli stessi padri Filippini. L’avesse fatto subito, si rimproverava! I cavalli? Semplicemente, gli risposero, perché il vecchio padre era un appassionato di cavalli, da sempre. Cavalli da corsa, quindi corse di cavalli. E a Bologna nient’altro che corse al trotto. Un vero appassionato, che non si disperdeva mai in scommesse ma con una conoscenza profonda dei cavalli, passato e presente. Andare all’Arcoveggio era l’unico svago. Anche questo un modo di pensare e ringraziare il Signore. Non c’è animale più intelligente del cavallo, diceva. Lo celebrava anche in poesia. Negli ultimi tempi, qualche volta, veniva a prenderlo e a riportarlo a casa un giovane, che lui chiamava Masi.

Masi? Una manciata di dati, raccolti con poco sforzo. Tanto che Pluda decise di sfruttare la buona fortuna e di cercare subito questo giovane. Un vecchio prete con un ragazzo non passano inosservati, se la loro presenza non è casuale. Tanto più che, come era stato riferito, il vecchio prete non andava alle corse di domenica, perché in qualche modo impegnato nel proprio magistero, ma almeno una volta durante le riunioni feriali. Diceva, avevano riferito, che gli piaceva di più, perché in queste giornate si incontrano solo veri appassionati o grandi giocatori. Quelli da ammirare, questi da convertire.

All’ippodromo diedero una risposta subito alla prima domanda. Masi? Il prete? Ma sì, lui è un artiere della scuderia Belpasso, un giovanotto in gamba, di buon carattere, poco iroso. Noto anche per questa domanda che infilava in ogni discorso possibile: ma perché i cavalli devono correre? Io so, diceva, che non ne hanno voglia. Li conosco bene, i cavalli. Spesso dormo con loro. Quelli se ne fregano. A parte ciò, su Masi, niente da dire. Oggi nelle scuderie non si trovava, era il suo giorno di riposo. Domani, nel pomeriggio.

Il giorno seguente c’era uno sciopero delle ferrovie. Passando in taxi sul ponte. Duclo vide la stazione deserta, senza treni, e sembrava che fosse stata abbandonata da tempo. Pensò che niente dà il senso del disastro di una vita, o di una società, più di una stazione vuota. È come entrasse ruggine, invece di sangue, nelle vene. E anche il luogo dove si percepisce concretamente il passaggio dal rumore al silenzio, dal moto che agita l’aria all’assenza di moto che fa afflosciare ogni vento. Se scompaiono i treni scompare tutto, il rumore cade per terra come un passero fulminato dalla corrente. Il silenzio che ne consegue, è il vero silenzio che abbiamo dimenticato. E che ci fa ormai paura, invece di confortarci.

All’ippodromo trovarono molto movimento. Anche due cavalli che sgambavano in pista. Si allenano nel pomeriggio? domandò Pluda. Gli indicarono Masi. Era alto, con una certa forza nel corpo che però non risultava prorompente. Stava vicino a un cavallo nerissimo, con una striglia in mano e sembrava appoggiarsi al fianco dell’animale mentre parlava con un ometto di mezza età, intento ad ascoltarlo.

Diceva: «Fa’ quello che vuoi, ma non venire a piangere. Oggi ha la luna storta, ha dormito male. Se domani corre lo batte anche un tacchino. Per me non fa mezza pista e salta. Non giocarlo».

«E chi devo giocare?» domandava l’uomo preoccupato.

«Non giocare, dammi retta. Se non c’è lui in pista la corsa diventa un casino. Possono vincere tutti, anche io». Riprese a strigliare il cavallo tenendolo per la coda.

Pluda lasciò passare mezzo minuto poi si avvicinò. Disse molto rapidamente, quasi per incalzarlo: «Polizia, una domanda, conosceva don Grigioni?».

Anche Duclo si accorse che il giovane aveva rabbrividito. Un attimo. Come si fosse teso per prepararsi alla fuga. Arrestò la spatola sulla groppa del cavallo, che sembrava addormentato. Guardò fisso in viso Pluda mentre rispondeva: «Don Grigioni lo conosco benissimo. L’unico prete in Italia che veniva alle corse di mercoledì. Almeno dicevano. Certo, l’unico prete così vecchio. So che è morto, purtroppo».

«Ucciso, purtroppo» corresse Pluda.

«Sì, ucciso, poveretto. Conosceva i cavalli meglio di tanti borghesi rompiscatole».

«Giocava?».

«Scherza? Era un prete».

«Lei entrava nella sua stanza?».

«Quando lo incontravo per portarlo alle corse? Entravo e aspettavo. Non era mai pronto».

«E l’ultimo incontro?».

«Mercoledì scorso, dopopranzo. C’erano buone corse sui duemila metri. L’ho pure riaccompagnato. Dalle corse quel giorno non era stato deluso».

Pluda salutò con la testa e si allontanò. Duclo lo seguì, mentre il giovane restava fermo e li osservava. Sembrava uno in attesa di vedere come le cose si svolgevano, o si sarebbero svolte.

La mattina, per posta, a Duclo arrivò un biglietto di Bice. La sua calligrafia, che scopriva adesso, piccolissima, quasi invisibile e certo indifferente a farsi leggere per intero senza difficoltà. Erano tre righe: «Sono a Parigi e mi manca il buon ascoltatore. Ma chi parla con me?».

Duclo ebbe la sensazione netta, e secca, che quelle righe segnavano non tanto un commiato, ma una conclusione. Non finiva un rapporto, sia pure così indiretto e in qualche modo sfuggente; in quanto, proprio come rapporto, aveva avuto solo leggerissime scintille d’oscillazione e senza progressione; ma si esauriva la utilità reale e umana di incontrarsi davvero, perché veniva a mancare ogni speranza di approfondimento. Quelle erano tre righe di catalogazione, una scheda affettuosa d’archivio. Si incontrassero ancora, e forse non era improbabile, i ruoli erano già definiti senza contestazione. Potevano benissimo passeggiare sottobraccio, ma come due astronauti sulla luna. Provò fastidio, una piccola nausea, come gli capitava quando non riusciva a concludere qualche esperimento; o qualche tentativo personale, nella direzione della vita. In un modo o nell’altro. Ma addio a che cosa? Forse al modesto orgoglio ferito dell’uomo che cerca e non trova, oppure a una speranza indefinibile, non chiara ancora, ma che serviva a riempire le giornate?

Uscì per strada, con la voglia di partire. Vagò per le stradine del mercato e per le altre viuzze medievali, rabberciate dai passati restauri da farle sembrare fondali di operetta dimenticati in un cortile sotto la pioggia. Che cosa resisteva ancora, di duro e davvero storico, di straordinariamente antico, sotto quelle labbruzze ridipinte? Non aveva più in testa Bice, adesso, ma una svagatezza un poco irosa, frammentata, non molto propizia per decidere.

Pensava, ormai il mio tempo qua è concluso, ma non sento una grande spinta a rimettermi in viaggio; quasi mi fossi improvvisamente scaricato di buoni umori. Posso concedermi però, forse, alcuni giorni ancora; e potrei anche decidere di vendere l’appartamento. Sarebbe come dare un taglio netto a tutte le memorie, alle vecchie storie di famiglia, alle previsioni anche solo prossime del futuro. Qua, è certo, se parto non ritorno più.

Aveva appena finito di pranzare, in casa, quando rientrò Pluda che si lamentò d’avere appena masticato un maledetto panino. Prosciutto stagionato in tre giorni, pane surgelato, un cafarnao di vermi vaganti che si rincorrono su questo giardino di delizie. Ma che si mangia a fare, ormai? Non è meglio morire di fame piuttosto che avvelenati? Passò subito all’altro, seduto, addirittura abbandonato sul divano, quasi avesse il bisogno di distendere completamente le ossa.

«Non ci sono altri dati se non questi, che non dico aiutino ancora molto, ma formano uno schema. Almeno uno schema. Il prete, insomma, con le sue poesie ci rimanda ai cavalli, che rimandano all’ippodromo e questo ci mette di fronte a Masi. Il quale, sempre attraverso i cavalli, ci riporta al prete. Il prete con le sue annotazioni ci porta difilato di fronte alle lapidi e all’Archiginnasio. Volendo precisare tutto, più che alle lapidi a una lapide lesionata da un bombardamento e restaurata in seguito, come tutta la parte dell’edificio. Diciamo che la casa, così disegnata, c’è. Ci sarebbe. Manca la porta d’ingresso, la chiave per entrare. Cioè, una ragione, la causa. Il motivo specifico. Il più plausibile sarebbe che il Masi ha ucciso il prete per derubarlo. Ma non mancava niente, neanche una lira».

«Potrebbe essersi impaurito, dopo».

«Giusto. Ma sento che sotto c’è, ci deve essere una occasione diversa. È questo che mi dà i brividi, come se entrassi in una vecchia cantina, una cantina antica. Questo caso mi piace, mi piace un sacco. Siamo, ecco cosa penso, fuori dal mondo. Sento che è come respirare con dei morti vivi, che giocano a scacchi. Prima o dopo il bandolo lo afferro, ma non con i denti: con due dita, come si fa con una farfalla che è ferma a parlare con un fiore. Devo aspettare e individuare quel momento. Allora il caso è mio. E io, come dice Bruno, trionfo».

«Quindi è convinto che al centro della storia ci sta Masi».

«L’unico per il momento, a mio parere. Il vero grillo parlante».

«Andrà ancora da lui?».

«E la prego, venga con me. Non all’ippodromo; perché, se è lui, è lì che ci aspetta. No, andiamo a casa. Devo andare a visitarlo quando ci posso scherzare come un gatto. Quindi anche lui deve essere ben disposto. Bisogna andarci non quando viene la voglia o lo suggerisce in fretta l’occasione. Non bisogna dire: è così e andiamo. No, voglio andarci quando sono io che penso che l’orario sia buono per lui; perché lo trovo in casa senza sospetto, indifferente, trasandato. Quando non mi aspetta. Alle sei del mattino, mentre dorme ancora. Ma poi, perché svegliarlo? Lo trovo rintronato dal sonno, può magari tentare di squagliarsi per una finestra e così resta secco precipitando. Alle otto di sera, questa è un’ora buona. O a mezzanotte, prima del sonno riparatore. Quando soffia l’ultima sigaretta. O, se proprio volessi, per la strada, nel momento che infila il piede in un negozio. Faremo così; stasera sul tardi, per l’ultima sigaretta».

«Sembra una esecuzione» commentò Duclo, che era rimasto in piedi accanto alla finestra. Pluda non rispose. Stava addormentandosi: ma poi si riscosse, aprì di nuovo gli occhi e disse: «Se non ha altro da fare, le preparo un piatto del mio paese, stasera, prima della spedizione. Semplice semplice, è la fine del mondo».

Mentre Pluda dormiva, quietamente, davvero abbandonato nel mare dei sogni, Duclo decise di preparare la valigia. Per essere pronto a partire in due minuti, se miviene voglia; e questa voglia cresce. Forse aspetto soltanto di vedere come va a finire. Se ha ragione Pluda la storia si può concludere stasera, con me unico spettatore, per il momento. Come lo ero nella rappresentazione di Bice, terminata in mezzo ai fischi. Speriamo che questa finisca meglio e abbia un epilogo più concreto; che compensi l’attesa. Accantonata la valigia, doveva passare altro tempo. Si affacciò alla finestra. Cosa c’era ancora da vedere? Via Galliera, via Galliera. Guardava le pietre, valutava il valore del vecchio e del nuovo. Del nuovo? Dove? La strada sembrava segnata dal tempo, levigata dal tempo, come uno spruzzo di talco bianco su capelli ingrigiti. In questa calma apparente e in questa solitudine, mentre sentiva nell’altra stanza il respiro di Pluda che sognava immobile e disarticolato come una marionetta, con un braccio appoggiato a terra e l’altro sollevato oltre la testa a stringere la spalliera; in questo silenzio lasciava libero corso a riflessioni spontanee, grumi di pensieri che si scioglievano per approdare forse in un mare. Bologna, in quell’ora, consentiva questo abbandono. Noi, Duclo rifletteva, disprezziamo il nuovo nello stesso momento che lo facciamo, lo scegliamo, lo inventiamo, e intanto per sicurezza e per vincere ogni dubbio ci rivolgiamo al passato. Un passato che non può offrire altro che la sicurezza di pietre ribattute, consacrate e sconsacrate, infangate da mille eventi; ma non può offrirci, tantomeno garantirci, la sicurezza della vita. Altrimenti questa Italia maledetta e perduta sarebbe il fiore di un giardino o il passo pieno di agilità di uno scorridore degli altipiani. Dal passato, infatti, non possiamo ricevere che modeste parole di conforto fredde, costanti; ripetute da un disco che si è incantato. Parole che si smarriscono presto e vanno costantemente ricomposte, riordinate, ripulite. La guerra del Golfo ha distrutto metà delle meraviglie dell’Irak antico, compreso Babilonia. E chi ne parla? Chi si è rammaricato sul serio, con costanza? Vale più la piuma di un gabbiano ferito o i tesori preservati nei millenni da una nazione incarognita? Tutto, almeno, dovrebbe essere valutato e rispettato sullo stesso piano. Il nostro amore per il passato è solo una falsificazione lacerante dei nostri sentimenti. Ci lecchiamo il cuore con la lingua impiastricciata di una jena.

«Non ho saputo molto» disse Pluda alla sera, mentre si avviavano in autobus, con regolare biglietto come aveva fatto notare, «ma pare che Masi abiti dalla parte di via delle Biscie, scalo san Donato. È tutta ferrovia, là. Ci sarà da scegliere, perché hanno fatto un gruppo di strade che sembrano pecore sorvegliate dal cane, e il cane sarebbe via dell’Industria. Disegnano le città come poeti chiusi nei loro meravigliosi gabinetti».

Anche lì occorse poco tempo. Al secondo bar dissero che Gino, appunto Gino Masi, abitava nella seconda traversa, in via Battirame. Non fumava l’ultima sigaretta ma era a letto e dormiva. Sentirono nell’altra stanza una voce inquieta di donna che lui, dopo aver fatto entrare in cucina i due visitatori, cercò di rabbonire. Quando ritornò, la donna piangeva e tossiva.

«È mia madre, disse, se rompe il sonno va giù di testa. Gnolerà un bel po’ prima di chiudere gli occhi. Ma non è cattiva, non ho che lei. Allora?», chiese rivolgendosi a Pluda ma restando in piedi vicino al tavolo.

«La pregherei di sedersi, come fra buoni amici» rispose Pluda; e il giovane sedette. Non sembrava sorpreso né turbato.

«Cosa vuole?» domandò ancora.

«Piccoli dati che richiedono molta esattezza. Strizzi la memoria, così non perdiamo tempo», e Pluda cavò dalla tasca un blocchetto di carta con una matita, accingendosi platealmente a prendere delle note.

«Domande in regolare successione, con risposte non divaganti, per favore. La prima è questa: a che ora esatta riportò don Grigioni all’oratorio, il giorno di mercoledì?».

«Non ricordo» rispose, troppo in fretta per essere credibile.

«Sono un terrone paziente, ribatté Pluda imperturbabile, e lei se ne accorgerà. Ripeto la domanda con le stesse parole: a che ora…».

Non lo lasciò finire: «Non mi ricordo».

Pluda rimise in tasca blocchetto di carta e matita, guardò Duclo e rivolgendosi a Masi disse: «Non ci offre neanche un caffè?».

La richiesta sorprese il giovane, che d’stinto rispose: «A quest’ora?» ma poi, alzandosi: «Certamente, mi scusi». Cominciò a trafficare, contento di dovere voltare le spalle al commissario.

Intanto Pluda, dopo avere ammiccato a Duclo, disse: «Non perdiamo tempo, continuiamo a parlare, mentre lavora. Non vogliamo fare l’alba».

La caffettiera era sul fuoco. Il giovane, voltandosi, disse: «Don Grigioni non vedeva mai l’ultima corsa, perché è la più infame, lui sosteneva. Erano forse le cinque e mezzo, cinque e tre quarti».

«L’ha accompagnato fino alla stanza?».

«Ma sono uscito subito. Dovevo ritornare alle scuderie per il pastone ai cavalli».

«Per quanto tempo si è fermato?».

«Cinque minuti, non di più».

«Era sempre così?».

«Qualche volta, se avevo tempo, mi fermavo a discutere sui cavalli, sulle corse. Lui sosteneva che spesso erano truccate, lo capiva».

«È vero?».

«Non aveva torto».

L’acqua era salita, un buon odore girava e il giovane spense il fuoco. Alcune tazzine erano sul lavandino. Versò il caffè e tornò a sedere. Guardava Pluda con una faccia mascherata, che tendeva impercettibilmente a coprire un qualche imbarazzo.

Si sentì la voce della madre che chiamava. Masi guardò Pluda che fece un cenno d’assenso. Sentirono che parlava a voce bassa abbastanza concitato, forse con il viso chinato sulla madre. Poi: «Sta buona, cristo, per un momento. Ti lascio la porta aperta, ecco».

Quando ritornò Pluda gli chiese subito: «Il prete giocava?».

Fu meravigliato. «Don Grigioni? L’ho già detto, diceva che il gioco rovinava la vita a tutti, rovinava tutto. Che c’erano tanti esempi, anche in passato».

Pluda strinse gli occhi: «Quali esempi?».

«Non so, non li ricordo. Ne faceva, ogni tanto».

«Ci pensi bene».

«Mah, non so. Spesso nominava il conte Lucchini». Ma subito parve turbato, pentito.

«Il conte Lucchini? Ottimo caffè» disse in fretta Pluda alzandosi, «può chiamarci un taxi? Intanto noi scendiamo».

Poi, fino in via Galliera, non disse una parola ma nella testa sembrava avere un motore in movimento.

Scomparve ancora per due giorni; ogni tanto gli capitava, per servizio. Rincasò verso l’una, mentre Duclo terminava di mangiare seduto in cucina.

«Posso anch’io?» chiese, togliendo dal frigo un barattolo di salsiccia sott’olio e dalla credenza un pacchetto di crackers. Duclo lo guardava, non voleva fare domande. Era incuriosito ma aspettava che parlasse. Se voleva parlare, naturalmente.

Sedendosi disse: «Sono avanti, sono avanti. Il prete, vorrei dire, ha parlato. Le sue carte. Ma come può entrarci Masi con il conte Lucchini?».

Duclo sorrise e lo guardò, con una leggera perplessità.

«Cosa c’è?» chiese Pluda, con sospetto.

«Niente, ma non so niente di questo conte. Dove sta? Cosa fa?».

Pluda parve sollevato: «Mangio qualcosa e le dico tutto. Riassumo, è chiaro. Ho radunato un monte di cose».

Più che mangiare, divorò. Si capiva che aveva fretta di finire per parlare. Non toccò la frutta, neanche il vino, nero.

«Facciamo il caffè» disse alzandosi.

«Mentre io l’interrogo» scherzò Duclo, che si lasciava coinvolgere in questa situazione reale, molto seria.

Aveva notato altre volte che muovendosi in casa, o anche solo trafficando in cucina, Pluda non faceva rumore. I suoi gesti, tutti i suoi gesti, erano come consumati nell’aria. Toccava i piatti o i bicchieri con una leggerezza che sembravano sognati e non davano un suono. Quando mangiava, nell’appoggiare le posate, era la stessa sensazione di fluidità.

Un fantasma pieno di sentimento come gli era venuto in testa di definirlo, in un momento di riflessione.

Il caffè era davvero buono. «E più buono sarebbe, commentò Pluda, se fosse buona l’acqua e non questa ciofeca piena di cloro. È l’acqua che fa buono il caffè. Come è l’aria che fa buono il salame. Ma non glielo dicevo che mi sentivo risucchiato dal tempo? Bene, è un salto indietro di duecento anni, se il conto torna. Duecento anni. Sembra un romanzo. Anzi, è un romanzo. Il conte Lucchini? Sì, devo spiegarle i fatti, raccontarle qualcosa. È una storia che posso raccontare così. Lucchini non era un conte ma un veronese di ingegno, giocatore e ladro patentato, di grande abilità anche tecnica, ghigliottinato qua a Bologna, in piazza Otto Agosto, nel febbraio del 1791. Falsificatore di monete, baro al gioco delle carte, ladro infinite volte ma il suo capolavoro che gli costò la testa fu il furto di ori e gioielli al Monte di Pietà. Un capolavoro di destrezza: scoperto per la delazione dell’amante, una Berenice Seracci, che in questo modo patteggiò salvezza e libertà. Come ai nostri giorni. I furfanti dalla bocca larga hanno ponti d’oro. Il bottino, dissero, fu ricuperato e la città che, prima, era rimasta senza fiato e piena di paura, perché il furto di un tesoro così grande non era mai capitato, riprese fiducia, esultò applaudendo i magistrati. Questo ho letto. E mi sono messo in testa che bisogna giocare una partita a quattro: che è necessario come dice Bruno, martellare a misura, quando son più che uno a battere un ferro. Il prete, Masi, Lucchini, Berenice. Può essere il quartetto giusto per capire e azzeccare le cose».

«Una domanda, disse Duclo, e il collegamento con le lapidi?».

«È un punto su cui devo indagare ancora e riflettere. Nelle prossime ventiquattro ore. Dopo di che o il caso è risolto oppure sono andato troppo avanti per una strada sbagliata e mi ritrovo in Sardegna senza il tempo di mettere Bruno in valigia».

Il giorno dopo, mercoledì, era passata l’una quando Duclo, in casa, sentì due sonate decise e al citofono la voce di Pluda: «Ho un taxi e vado a incastrare Masi. Vuol perdersi lo spettacolo?».

Mentre andavano Duclo, seguendo i pensieri, disse: «Non sembra un assassino».

«Non è un assassino. È un giovanotto sciagurato. Forse, soltanto disgraziato. Fra poco lo sapremo».

Arrivarono alle scuderie in un momento di confusione. Molti cavalli erano fuori dai box e passeggiavano o andavano a passeggiare portati alla cavezza dai garzoni; i sulky erano appoggiati in terra o con le stanghe alzate contro i muri. Parecchi garzoni stavano ripulendo o lustrando i finimenti. Masi era accosciato vicino a un sulky e stava pompando aria in una ruota. Quando, alzando gli occhi, si accorse di Pluda, il suo corpo ebbe ancora un guizzo come se l’istinto l’avesse spinto a balzare in piedi e a scappare. Lo percepì molto bene anche Duclo. Invece restò così, con la pompa in mano. «Dove possiamo parlare di cose importanti in un posto senza occhi e senza orecchi?» chiese Pluda.

«Non c’è niente in giro, se non un box vuoto, perché molti cavalli sono fuori».

«Va bene anche il box, e ringraziamo il cavallo che ci ospita» scherzò Pluda.

Il locale era ordinato, con paglia pulita e distesa rimessa da poco; nessun odore sgradevole, anche soltanto d’animale; come se il vento passasse di continuo a spazzolare i muri.

«E allora?» disse Pluda con decisione.

«Cosa?» ribatté Masi, ma in modo troppo precipitoso; sembrava volesse aggredire per difendersi.

«Semplice, disse Pluda, o lei parla o l’arresto su due piedi. Su, dica come è andata».

«Perché, cosa ho fatto?» incalzò con voce ansiosa il giovine.

«Qualcosa in compagnia del conte Lucchini». Pluda buttò sul tappeto questa frase, non sapendo ancora il peso che poteva avere ma contando sulla brusca decisione della sua voce.

La reazione di Masi fu imprevedibile, in quel momento e in quel modo.

«Al diavolo anche il conte Lucchini. Lui soprattutto. Un accidente anche a me. Io so che non poteva durare. Gli ho messo una mano sulla bocca, solo una mano perché non gridasse. Non volevo altro, che non urlasse».

«Non risulta soffocato ma colpito alla testa» lo interruppe Pluda con tranquillità, come se conversassero.

«Non lo so, forse sul momento l’ho colpito con l’altra mano. Ho avuto paura».

«Paura di un vecchio?».

«Che altri sentissero».

«Cosa cercava? Cosa voleva?».

«Niente. Quasi niente. Solo dare un’occhiata, soltanto un’occhiata ai fogli della sua cartellina».

«Quella contrassegnata con la lettera C?».

«Non lo so, ma quella che…». Qualcuno lo chiamò. Masi guardò Pluda che gli fece un cenno con la mano. Uscì.

Duclo restò sorpreso: «Non crede che potrebbe andarsene?».

«Non lontano, lui l’ha capito. Ha perso la corsa». Ma a Pluda interessava altro. Mormorò: «I fogli della cartellina verde. Molto bene».

Poco dopo ritornò Masi.

«Dunque?» incalzò Pluda. Masi sembrava smarrito, frastornato.

«La cartellina che…» gli suggerì Pluda.

«Gli scritti erano lì dentro. Mi sarebbe bastato leggerli. Non capivo, ma don Grigioni era geloso di quei fogli».

«Non può ricordare con ordine, così ci intendiamo subito?».

«Lo so che devo spiegare tutto. Ma nella prima corsa corre un cavallo della scuderia; è l’unico che scende in pista oggi. Non posso prepararlo e aspettare la corsa? Lo rimetto nel box poi avrò tutto il tempo».

«Come si chiama?».

«Lega per l’Ambiente».

«Può vincere?».

«Perde se si apre una crepa nella pista».

Pluda uscì dal box seguito da Duclo. C’era un sole che calava sulla mano con la morbidezza che si gode soltanto negli ippodromi e in certe settimane dell’anno. E c’era il solito cielo aperto ma come illividito, in attesa sembrava di qualcosa. Si appoggiarono alla ringhiera lungo il bordo della pista e Duclo risentì un tuffo al cuore, ascoltando il trotto dei cavalli sulla pista.

Quando portava i calzoni corti, per venire alle corse, di domenica, con il padre e lo zio Rigo, si impomatava i capelli per tenerli lucidi e tesi. Ma non c’era più la voce dell’altoparlante, per la partenza. Lo starter che gridava: pronti? Uno, due, tre. I cavalli giravano intorno lentamente, fra i nastri tirati attraverso la pista. Al tre erano lanciati e i nastri scattavano con un sibilo, liberando la pista. Adesso allineati si muovevano dietro l’autostart che con le sue griglie spalancate sembrava imprigionare in una morsa gli animali scatenati.

Vinse «Lega per l’Ambiente», in fotografia; e quando rientrò nelle scuderie ansimava ancora con le narici palpitanti.

«Una buona corsa, con un buon tempo» commentò Duclo.

«Così sia per noi» aggiunse Pluda, muovendosi.

Non attesero molto. Masi arrivò con la giacca e la borsa.

«Sono pronto» disse.

«Dove vuole andare? Non deve raccontarci prima tutto?» ribatté con durezza Pluda.

«Qui?».

«E dove?».

«Fra poco riportano Canaria d’Oro. Se vuole, andiamo alla latteria, durante le corse non c’è mai nessuno». Nessuna obiezione da Pluda che si avviò.

La latteria, quasi di fronte all’ippodromo, era una stanzuccia con un bancone in tondo e sul lato destro due piccoli tavoli di ferro con una lastra di pietra marmorizzata. Un cartello scritto a mano avvertiva: oggi ceci e uova. Una donna anziana, con una vestaglia bianca, era seduta dietro il bancone. Sorrise quando entrarono.

«Caffè?» chiese Pluda guardando Duclo.

«Non fa il caffè, ma solo latte macchiato, disse Masi. Il caffè ce l’ha in una bottiglia. Oppure succhi di frutta». Sedettero e ordinarono tre pesche.

Il giovane sembrava rinfrancato, ormai quasi indifferente al suo destino. Un amico fra amici, sembrava.

«Con il prete qua venivate?».

«Prima delle corse, appena arrivati. Sedeva e parlava con l’Irma, era stata una sua parrocchiana, tanti anni fa. No, non gli volevo fare del male» riprese con foga improvvisa spezzando un’idea. «Per carità, non lo volevo neanche toccare» soggiunse, come fosse stato riafferrato all’improvviso dal ricordo dell’episodio e dovesse raccontarlo in diretta ma solo da spettatore. «I pochi fogli mi bastava leggerli, roba di due minuti. Glielo ho chiesto, per favore, poi l’ho anche pregato. Non aveva alcun danno, cosa gli costava? Invece quell’uomo così paziente, così buono come mi è sempre sembrato, si è messo a inveire. Non gridava, no, sul momento. Con la voce che era diventata perfino roca come quella dei gatti mi voleva azzannare. Era diventato rosso, ansimava. Non ti darò niente, le carte le guardo soltanto io. Non posso e non voglio».

«Ma lei cosa voleva sapere?» chiese Pluda che sorseggiava dalla lattina di frutta e ascoltava con tranquillità.

«Era per il conte Lucchini, proprio per lui. Don Grigioni l’aveva menzionato alcune volte, quando voleva ammonire contro il vizio del gioco. Poi un giorno, più di un mese fa, dopo le corse mi chiese di portarlo subito all’oratorio, perché aveva ricevuto in dono roba molto interessante che si riferiva alla storia di questo conte. Mi ricordo bene cosa aggiunse: sono carte con dettagli affascinanti».

«Che rapporti può avere lei con un conte vecchio di duecento anni?».

«Mi chiamo Masi e quella storia è una malattia che si è tramandata come una maledizione, adesso lo capisco, nella nostra famiglia. L’avrò sentita raccontare mille volte, fin da bambino».

«La dica anche a me, anzi, la racconti anche a noi» disse Pluda.

«Posso dirla così. La donna del conte aveva avuto, prima, una figlia che sposò poi unartigiano col mio cognome. Io vengo giù da loro. Da quel tempo si è tramandato in famiglia che del furto al Monte di Pietà il pacchetto con i diamanti, tanti da fare accapponare la pelle, non sia stato mai rintracciato e che tutti abbiano taciuto perché il tesoro apparteneva a un cardinale e sembrava davvero troppo anche per uno come lui. Il conte l’aveva nascosto molto bene ma poi era convinto che avessero confiscato tutto durante le perquisizioni; quindi anche quella roba».

«Negli appunti del prete ci sono alcune frasi che rimandano all’Archiginnasio. Cosa c’entra l’Archiginnasio?».

«Io non so niente di questo archinnasio», sembrava stupito.

«Forse questo fagotto era stato nascosto dietro a una lapide all’Archiginnasio».

«Se è per questo, dicevano che il conte aveva una grande fantasia. Il fagotto poteva essere nascosto anche sulla torre. O dietro una lapide, è possibile».

«Che altro dicevano in casa?».

«Che il fagotto era lì che aspettava e che il più furbo di testa un giorno l’avrebbe agguantato diventando ricco sfondato».

«Parlavano anche di monete?».

«Delle monete? Sì, la figlia della Berenice aveva saputo che ce ne erano tante e tutte buone».

«Allora non poteva essere un pacchetto o un piccolo fagotto» commentò d’impeto Duclo.

«Sono sicuro che c’era tutto, nella cartellina del prete» sospirò il giovane. Sembrava che si riferisse a un sogno o a una vicenda che non gli apparteneva o non lo interessava più. Strappata via per sempre dalla pelle.

«Quelle carte che notizie precise dovevano darle?» chiese di nuovo Pluda.

C’era silenzio intorno. La donna al bancone sembrava assopita, ma nell’aria, ogni tanto, arrivavano o transitavano voci dall’ippodromo, specialmente dell’altoparlante. In quel momento indicava le quote del totalizzatore.

«Don Grigioni aveva detto, perché diceva molte cose dentro ai suoi discorsi, d’averle avute in dono dalla contessa Caprara che conosceva la sua voglia per la roba antica. Queste, diceva anche, contenevano tanti appunti dell’avvocato Magnani che aveva difeso il conte fino all’ultimo. Io non sapevo di lapidi, non ci credo. Volevo sapere dov’era in quel tempo la casa di Berenice in via Otto Colonne. In casa nostra non c’era più sicurezza giusta del luogo di questa casa».

«Il conte, commentò Pluda, risulta astuto, concreto, molto logico. In casa, stia sicuro, se questo è vero, è troppo facile. In casa perfino i questurini, come ho letto, trovarono la botola, figuriamoci».

«Dicevano che era stata Berenice a raccontare tutta la storia prima di morire. Il fagotto no, quello non l’hanno mai trovato anche se l’hanno sempre cercato. E sono sicuro che ero io che l’avevo quasi trovato» rispose con foga Masi.

«Davvero?» disse Pluda.

«I diamanti c’erano, ci sono. E io mi sono perduto» commentò il giovane fregandosi gli occhi, ripreso dall’amarezza.

«Dopo cosa ha fatto?», domandò Pluda.

«Sono andato via senza toccare niente. Magari in quei fogli c’erano le risposte e mi sistemavo».

«I tesori nascosti dai pirati oggi li trovano le grandi compagnie non i giovani artieri senza quattrini» disse Pluda quasi con rabbia, tanto che Duclo lo guardò.

Intanto Masi aggiungeva: «Non capisco ancora la resistenza di don Grigioni. Eravamo amici, dopotutto».

«L’amicizia spesso non si divide, disse Pluda, e poi c’è una avidità culturale che è perfida come l’avidità dei soldi. Perfino nel nostro ufficio gira questo metodo per sottrarsi o difendersi le carte». Masi aveva cominciato a tremare, afflosciato.

«Andiamo» ordinò Pluda alzandosi; con un tono che aveva l’autorità della legge. Duclo ne fu colpito.

Masi, seguendolo come un cane, chiese: «Mi daranno l’ergastolo?».

Senza voltarsi Pluda scosse la testa.

Sulla porta della questura, dopo avere consegnato Masi, Pluda disse a Duclo: «Abbiamo scoperto il movente, l’autore dell’omicidio ma non il tesoro. Per l’omicidio si è stati rimandati ai cavalli, ma per il tesoro se c’è, e potrebbe magari esserci ancora un fagotto sporcato dagli anni, siamo continuamente rimandati alle pietre, alle lapidi. Ma vede? non è più compito mio e devo abbassare le mani. A meno di non fare come quel conte Lucchini, cioè muoversi a notte fonda e scalpellare pietre all’Archiginnasio fino a farsi sanguinare le dita. Ma che poliziotto sarei? Non crede? Che poliziotto sarei?».

Duclo partì la notte seguente, lasciando un biglietto sul tavolo di cucina con un saluto e due parole di rallegramento. Lesse poi sui giornali che Masi era stato condannato a dieci anni.

Un anno dopo Pluda fu trasferito a Roma. Liberò l’appartamento, Duclo per un attimo, ebbe l’idea di cercare Bice per avvertirla. Ma perché mai? La storia era chiusa, forse lei l’aveva già dimenticata. Decise invece di venderlo, a porte chiuse. Addio memorie, vecchi mobili, con le carte rimaste e la zia Adalgisa e tutto.

Bologna era così lontana, ormai.

 

 

 

 

Informazioni aggiuntive

  • Tipologia di testo: racconti
  • Testata: La scoperta di Bologna
  • Editore: L’inchiostroblu
  • Anno di pubblicazione: 1991
Letto 5739 volte Ultima modifica il Martedì, 12 Marzo 2013 17:39